ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
Le misure cautelari per i soggetti tossicodipendenti

Raffaella Tucci, 2011

SOMMARIO: 4. Le misure cautelari per i soggetti tossicodipendenti - 4.1. Archeologia delle misure cautelari per i soggetti tossicodipendenti: la custodia cautelare in comunità - 4.2. L'art. 89 del T.U. del 1990: "Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti e alcool dipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici" - 4.3. Le modifiche alla disciplina delle misure cautelari introdotte nel 2006 - 4.4. Il peso della detenzione cautelare nell'aumento della carcerazione: il problema del 5º comma dell'art. 73 T.U.

4. Le misure cautelari per i soggetti tossicodipendenti

All'inizio degli anni ottanta si assiste ad un vertiginoso aumento degli ingressi in carcere di soggetti tossicodipendenti. Essi, nel giro di quattro anni, si quadruplicano, passando da 1.704 unità equivalenti al 5,8% del totale dei detenuti presenti nei penitenziari italiani nell'anno 1981 a 6.101 unità pari al 18,2% del totale (1). Sotto la pressione di questa progressione numerica il legislatore, che, come ricordato, si era preoccupato, tra l'altro senza successo, di creare reparti carcerari appositi per i tossicodipendenti, decide di adottare i primi provvedimenti di tipo de-carcerizzante. Gradatamente, si fa largo l'idea che, per far fronte all'inflazione detentiva di tossicodipendenti e allo stesso tempo garantire il loro diritto alla cura, la strada migliore è quella di predisporre un percorso preferenziale che porti questi soggetti a scontare la pena in un luogo, la comunità terapeutica, alternativo al carcere, del tutto impreparato per assistere un ingente numero di detenuti con problemi di dipendenza da sostanze stupefacenti. Muovendo dalla constatazione che sul totale dei detenuti tossicodipendenti, un'ampia frangia era costituita dai soggetti ancora in attesa di giudizio, ancor prima che venissero previste misure alternative atte a favorire percorsi extra-carcerari di recupero dei tossicodipendenti autori di reato, si cercarono di sfruttare le modifiche della disciplina delle misure cautelari, per attuare un primo processo di decarcerizzazione.

4.1. Archeologia delle misure cautelari per i soggetti tossicodipendenti: la custodia cautelare in comunità

La giurisprudenza sfruttò la riforma della custodia cautelare operata dalla legge n. 532/'82 "Disposizioni in materia di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale e dei provvedimenti di sequestro - Misure alternative alla carcerazione preventiva", per consentire agli imputati tossicodipendenti di evitare la custodia cautelare in carcere. I tossicodipendenti non erano espressamente menzionati da queste norme che non concernevano in maniera specifica la loro esecuzione penale. Questa legge (art. 4), aggiungendo un terzo comma all'art. 254 del codice di procedura penale del 1930, previde che, quando procedeva per un reato per cui il mandato di cattura era facoltativo, "nell'emettere il mandato di cattura", valutati il "pericolo di fuga dell'imputato" e il "pericolo per l'acquisizione delle prove", entrambi "desunti da elementi specifici", "nonché la pericolosità dell'imputato, desunta dalla personalità dell'imputato e dalle circostanze del fatto, in rapporto alle esigenze di tutela della collettività", il giudice potesse "disporre che l'imputato, in luogo di essere custodito in carcere", rimanesse "in stato di arresto nella propria abitazione o in luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura o di assistenza". Modificando l'allora art. 277 c.p.p. fu inoltre previsto (art. 10) che analoga misura potesse essere disposta "in sostituzione" della custodia preventiva in carcere già in corso. Fu la giurisprudenza che fece rientrare i tossicodipendenti nella categoria delle persone in "condizioni di salute particolarmente gravi", alle quali questo nuovo istituto era riservato, utilizzandolo per evitare l'esperienza carceraria ai tossicodipendenti per i quali era stata disposta la custodia cautelare e instradarli verso una comunità dove svolgere un programma terapeutico (2). La facoltà di "sostituire lo stato di custodia preventiva con l'arresto nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura o di assistenza" fu sfruttata dai giudici per sottrarsi all'alternativa inquietante in cui fino a quel momento erano costretti: concedere la libertà provvisoria all'imputato, col rischio che egli, in totale libertà ed assenza di strutture sanitarie idonee, potesse ricadere nel reato, oppure trattenerlo in carcere, compromettendo le speranze di recupero individuale e rischiando di veder il soggetto trasformarsi in delinquente professionista (3).

Come è stato osservato (4), è molto probabile che il legislatore non avesse proprio pensato all'incidenza del suo provvedimento sul trattamento dei tossicodipendenti imputati di reato, e che, "pianificando le misure alternative alla carcerazione preventiva", avesse "dimenticato del tutto" o "deliberatamente ignorato" i tossicodipendenti che pure costituivano ormai una fascia cospicua della popolazione carceraria. Sta di fatto che, a dispetto delle imprecisioni termologiche (5) della legge, "la fantasia e l'intelligenza dei giudici, alla ricerca di soluzioni idonee ad affrontare il problema dei tossicomani che delinquono per procurarsi la sostanza stupefacente" portò a sfruttare la nuova normativa per conciliare le esigenze cautelari enunciate dall'allora art. 274 c.p.p. con una politica di decarcerizzazione dei tossicodipendenti, facendo fare alle comunità terapeutiche la loro apparizione come strumento di decarcerizzazione sotto la veste di "luoghi pubblici di cura e assistenza".

In dottrina (6), molti autori si sono espressi in maniera contraria all'uso del nuovo istituto della detenzione domiciliare presso un luogo di cura. Le critiche sottolineavano il pericolo di creare un diritto speciale, per non dire "premiale", per i tossicodipendenti In particolare, si sottolineava l'esigenza che la misura cautelare alternativa alla custodia in carcere fosse concessa nel rispetto del principio di eguaglianza tra imputati tossicodipendenti e non, quindi valutando la posizione dell'imputato tossicodipendente alla luce dei parametri adottati per tutti gli altri imputati, senza attribuire alcun peso alla condizione di tossicodipendenza. Si ammetteva che il magistrato potesse tenere conto di questo status solo nel caso in cui la necessità di una misura cautelare nascesse dalla pericolosità del soggetto dovuta alla sua condizione di tossicodipendenza. Solo in questo caso, si sosteneva, la detenzione domiciliare in comunità terapeutica poteva apparire la misura cautelare più idonea, in quanto capace di garantire, rispetto agli altri imputati, il principio di parità riguardo l'esigenze di sicurezza, e, allo stesso tempo, "più rispondente allo scopo riabilitativo" (7). Si criticava poi la coartazione della volontà di sottoporsi al trattamento terapeutico che derivava dalla possibilità di sottrarsi al carcere attraverso gli arresti domiciliari presso una comunità.

Un passo più deciso nella direzione indicata con la legge del 1982 fu fatto due anni dopo con la legge n. 398, del 28 luglio 1984, che trasfuse la disciplina degli arresti domiciliari o "in un luogo pubblico di cura o di assistenza" nel nuovo art. 254-bis, prevedendo che essi potevano essere adottati anche nei confronti dell'imputato di reato per il quale l'emissione del mandato di cattura era obbligatorio, quando risultava "evidente" che non sussistessero le ragioni cautelari indicate nel secondo comma dell'art. 254. Il principale merito di questa legge è probabilmente quello di aver, seppure implicitamente, delineato la custodia presso "luoghi pubblici di cura e assistenza", considerati dalla dottrina dell'epoca un po' vagamente destinati a soddisfare scopi "genericamente assistenziali" (8), come luoghi deputati all'esecuzione della custodia cautelare nei confronti dei soggetti tossicodipendenti. La strada scelta da legislatore per dare questa indicazione era però, quantomeno, tortuosa. L'art. 25 della legge 398/84, mentre prevedeva che non doveva gravare nessun onere sull'amministrazione penitenziaria per "il mantenimento, la cura e l'assistenza medica dell'imputato sottoposto alla misura dell'arresto nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora", stabiliva che non dovevano essere considerati "luoghi di abitazione o di privata dimora, le comunità terapeutiche o di riabilitazione - che così venivano esplicitamente menzionate (9) - individuate con decreto del Ministro di grazia e giustizia, sentite le regioni interessate, tra quelle che svolgono funzioni di recupero sociale senza finalità di lucro". Da questo, non certo lineare, quadro normativo emergeva che il legislatore, a dispetto delle perplessità della dottrina, avallava l'operazione ermeneutica condotta dalla giurisprudenza e suggeriva ai magistrati di adottare la misura cautelare degli arresti in comunità nei confronti dei soggetti tossicodipendenti, quando ritenevano che essa potesse soddisfare le esigenze cautelari, sia se procedevano per un reato per il quale era previsto l'arresto facoltativo che per uno per il quale era previsto l'arresto obbligatorio. Questa possibilità in ultima istanza non era che l'applicazione ad un caso particolare della previsione generale secondo cui la pericolosità dell'imputato doveva essere desunta, oltre che dalle circostanze del fatto, dalla sua personalità: l'imputato tossicodipendente, secondo lo schema generale che fa da perno dal 1975 in poi alle politiche penali in materia di tossicodipendenza, vede scemare la propria pericolosità, che si assume legata alla dipendenza della sostanze assunte, sottoponendosi ad un trattamento terapeutico.

Queste disposizioni si limitavano però a rimettere al giudice, senza fornirgli alcuna guida, il bilanciamento tra le esigenze terapeutiche, mai esplicitamente menzionate, e le esigenze cautelari. In particolare esse non creavano alcun meccanismo di salvaguardia della spontanea partecipazione al percorso comunitario di recupero e delle correlate esigenze delle strutture comunitarie. Così in sede di conversione del D.L. n. 144, del 22 aprile 1985, nella legge n. 297, del 21 giugno 1985, legge con cui si introdusse l'affidamento terapeutico, misura alternativa specificamente mirata per favorire la decarcerizzazione e il recupero dei tossicodipendenti, furono introdotti gli articoli 4-quinquies e 4-sexies. L'art. 4-sexies vincolava il giudice, che aveva disposto un ordine di cattura verso un imputato tossicodipendente già inserito all'interno di un programma terapeutico, a valutare, nei casi in cui poteva essere concessa la libertà provvisoria, non solo le esigenze cautelari legate alle ragioni processuali e al pericolo di reiterazione dei reati, ma anche il vantaggio che l'imputato avrebbe tratto dal seguire il programma da libero.

L'art. 4-quinquies stabiliva esplicitamente che l'autorità giudiziaria procedente dovesse tener conto, al momento di adottare un provvedimento cautelare restrittivo della libertà personale, oltre che delle esigenze cautelari previste dall'allora art. 254 c.p.p., anche del pregiudizio che avrebbe arrecato al tossicodipendente l'interruzione del programma terapeutico presso una comunità. Se il giudice lo riteneva opportuno poteva rimuovere la situazione detentiva esistente per consentire al tossicodipendente la prosecuzione del programma cui si era sottoposto, prima dell'apertura del procedimento penale nei suoi confronti, anche se eventualmente il programma si era già interrotto per la custodia in carcere. In questo modo si dava vita, nel campo delle misure cautelari, al meccanismo di incentivazione penale alla "volontaria" intrapresa di un percorso terapeutico che caratterizzerà tutta la normativa sui tossicodipendenti autori di reato. Lo stesso magistrato, qualora avesse deciso di non emanare l'ordine di cattura, poteva disporre i controlli necessari a verificare il proseguimento del programma terapeutico.

Merita di essere sottolineata un'importante innovazione che questa norma introduce. Fino a quel momento il giudice poteva solo sostituire la custodia cautelare in carcere con gli arresti in un luogo pubblico di cura, per cui il tossicodipendente (o l'alcool dipendente), per evitare la carcerazione doveva avere in corso un programma comunitario residenziale. La legge 297/1985, in conformità alla sua ratio, mirante a proteggere il diritto di cura e la libertà terapeutica, non impone al giudice di stabilire gli arresti presso un luogo pubblico di cura, ma solo di tutelare il programma terapeutico in corso che quindi poteva essere anche di tipo residenziale. Scelta confermata poi dai provvedimenti normativi successivi, tanto che la Cassazione (10), qualche anno dopo, chiamata a pronunciarsi sul punto, chiarì che non era necessario che il programma terapeutico prevedesse il soggiorno del tossicodipendente in una comunità "chiusa", fosse cioè un programma residenziale, ma che era invece indispensabile che il programma fosse redatto in modo da consentire al giudice un adeguato controllo sulla sua capacità di favorire il recupero sociale del soggetto chi vi si sottoponeva.

La legge 297/1985, sulla scia di quanto aveva già fatto la legge 685/1975, si premurava comunque di garantire l'assistenza sanitaria ai tossico e alcool dipendenti sottoposti alla custodia cautelare in carcere parificandoli sotto questo profilo ai detenuti definitivi. L'art. 4 quater, stabiliva, infatti, che "quando per divieto di legge o per disposizione dell'autorità giudiziaria, il tossicodipendente o l'alcool dipendente imputato o condannato non sia ammesso alla misura sostitutiva prevista, il programma terapeutico al quale l'interessato risulti sottoposto o intenda sottoporsi viene proseguito nello stato di detenzione per opera del servizio sanitario penitenziario con il concorso delle strutture sanitarie regionali".

Tre anni dopo, nel 1988, con l'emanazione del nuovo codice di procedura penale (entrato in vigore dal 24 ottobre dell'anno successivo), la custodia cautelare nei confronti dei soggetti tossicodipendenti viene regolata ex novo, riconducendo all'interno della disciplina codicistica le linee di fondo della normativa speciale degli ultimi anni. Inoltre, l'orientamento favorevole alla cura venne molto accentuato: la comparazione tra esigenze cautelari e prosecuzione del percorso terapeutico fu fatta in via presuntiva dal legislatore, dando prevalenza al secondo. Secondo la formulazione originaria del 5º comma dell'art. 275, il giudice procedente non poteva, infatti, disporre la custodia cautelare in carcere dell'imputato tossico o alcool dipendente che avesse in corso un programma di recupero comunitario, a meno che non ricorressero esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza". Si prevedeva dunque in modo esplicito che le ordinarie esigenze cautelari, enunciate dall'art. 274, nel caso che ci si trovasse di fronte ad un soggetto tossicodipendente con un programma terapeutico comunitario in corso, non fossero sufficienti a giustificare una misura cautelare a carico dell'imputato. Il giudice, quindi, avrebbe dovuto bilanciare queste esigenze con quelle terapeutiche, ritenendo prevalenti le prime solo in caso ne riscontrasse eccezionale rilevanza. Questa previsione, al di là della sua innovatività, per la perentorietà con cui era formulata, in fin dei conti non rappresentava niente altro che la specificazione riferita ad un caso particolare del principio generale codificato nell'art. 273 c. 3 c.p.p., ove si prevede che "la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni alta misura risulti inadeguata".

Ancora una volta l'assunto di fondo sembra essere la convinzione che la pericolosità del soggetto sia in gran parte legata allo stato di tossicodipendenza, per cui una volta che egli si è sottoposto ad un programma terapeutico la sua predisposizione criminale si affievolisce notevolmente. Come ha sottolineato parte della dottrina (11), anche questa disposizione, appare l'applicazione al caso particolare dei tossicodipendenti e alcool dipendenti, del principio di adeguatezza enunciato dal 1º comma dell'art. 275, secondo il quale nel disporre le misure, il giudice tiene conto della loro specifica idoneità: in questo caso lo status soggettivo di tossico sancisce l'idoneità, almeno in via di massima, del programma terapeutico (che può essere residenziale, ed eventualmente, ma non necessariamente, accompagnato dalla misura degli arresti presso la comunità, oppure domiciliare, ed eventualmente, ma non necessariamente, accompagnato dalla misura degli arresti domiciliari), ad evitare la custodia in carcere in forza dello schema normativo che collega le esigenze cautelari alla particolare condizione soggettiva del tossicodipendente.

Il nuovo codice di procedura penale ha previsto un'altra misura cautelare non detentiva specifica per i tossicodipendenti in grado di accompagnare e favorire il loro percorso terapeutico: l'obbligo di dimora. Questo istituto è regolato dall'art. 283, c.p.p. il cui 5º comma, dispone che il giudice nel determinare i limiti territoriali delle prescrizioni, deve considerare, ove possibile, le esigenze di assistenza dell'imputato e in particolare, laddove l'imputato è un tossicodipendente che già inserito abbia in corso un programma di recupero presso una struttura terapeutica autorizzata, deve anche disporre i controlli necessari per accertare che il programma di recupero prosegua. Quest'ultima prescrizione testimonia ancora una volta l'importanza che il legislatore attribuisce al percorso terapeutico per combattere lo stato di tossicodipendenza e la tendenza a delinquere ad esso considerata connaturata.

4.2. L'art. 89 del T.U. del 1990: "Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti e alcool dipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici"

Con l'approvazione del Testo Unico del 1990, il 5º comma dell'art. 275 c.p.p., diventa il primo comma dell'art. 89 dello stesso T.U., rubricato "Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti o alcool dipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici". Il 5º comma dell'art. 275 c.p.p. fu però soppresso formalmente solamente dal 2º comma dell'art. 5, legge n. 222 del 14 luglio 1993 (12) che riformulo l'art. 89, T.U. del 1990. In linea con la normativa precedente e con il diritto di cura riconosciuto agli utenti delle sostanze psicotrope, il T.U. del 1990 riconosce, come ricordato, a chi si trova "in stato di custodia cautelare" -- come a chi è in espiazione pena - "per reati connessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza o sia ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o che comunque abbia problemi di tossicodipendenza", il diritto "di ricevere le cure mediche e l'assistenza necessaria all'interno degli istituiti carcerari a scopo di riabilitazione".

Subito dopo la libertà del giudice di valutare lo scemare della pericolosità del tossicodipendente che ha intrapreso il programma comunitario e di bilanciarla con le esigenze terapeutiche e la tutela del diritto alla salute, venne parzialmente limitata dalle modifiche apportate dai numerosi decreti (spesso reiterati e poi convertiti con sostanziali modifiche), emanati sull'onda dell'emergenza conseguente alle stragi di Capaci e via D'Amelio. In conseguenza di questi interventi normativi (13), che portarono, tra l'altro, all'introduzione, con ripetute modifiche, dell'art. 4-bis nella legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario, il giudice fu obbligato a disporre la custodia cautelare in carcere nei confronti del soggetto tossicodipendente che avesse in corso un programma di recupero, quando lo stesso fosse imputato dei gravissimi reati ivi previsti. Nella sua formulazione originaria il 4º comma dell'art. 89 individuava i reati che imponevano la custodia in carcere anche del tossicodipendente (e dell'alcool dipendente che voleva continuare o intraprendere un percorso terapeutico), attraverso il rinvio al 3º comma dell'art. 275 c.p.p.. Il 2º comma dell'art. 21, legge 332/95, riformulò interamente il 3º comma dell'art. 275 del codice di rito, modificò il testo del 4º comma dell'art. 89, sostituendo il rinvio ai delitti elencati dal 3º comma dell'art. 275, con quello ai delitti contemplati dall'art. 407, comma 2, lett. a), numeri da 1) a 6), del codice di rito e che disciplina i termini di durata massima delle indagini preliminari. La sostituzione si rese necessaria, perché la legge n. 332/1995 circoscrisse ai soli delitti di criminalità mafiosa l'elenco dei reati, contenuto nel 3º comma dell'articolo 275, in ordine ai quali derogare al principio di eccezionalità della custodia cautelare in carcere. Il 1º comma dell'art. 21 della legge del 95 inserì nell'art. 407 l'elenco degli altri reati precedentemente compresi nel 3º comma dell'art. 275, mentre il secondo comma dello stesso articolo sostituì con il richiamo al nuovo art. 407, all'interno di ciascuno degli istituti, il riferimento all'articolo precedente.

La disciplina della custodia cautelare dei delitti elencati dal 2º comma, lett. a) dell'art. 407 c.p.p., non è però uniforme. Occorre distinguere i reati di criminalità mafiosa da tutti gli altri. Per i primi, elencati ai numeri 1 (limitatamente all'art. 416-bis c.p.) e 3 del 2º comma, lett. a), la custodia in carcere è presuntivamente obbligatoria, infatti, se l'accusa è supportata da gravi indizi di colpevolezza, ai sensi del 3º comma dell'art. 275, grava sul giudice, nel caso ritenga di non disporre la custodia cautelare in carcere, un onere di motivazione negativa circa l'inesistenza di esigenze cautelari. Per le fattispecie di reato richiamate dai numeri 1 (salvo il richiamo all'art. 416-bis c.p.), 2, 4, 5 e 6, fra le quali si annoverano i reati previsti dagli articoli 73 (limitatamente all'ipotesi aggravata in concorso con il 2º comma dell'art. 80) e 74 del D.P.R. 309/90 (14), si applica il regime ordinario previsto per le misure cautelari e, pertanto, la misura prevista dall'art. 285 del codice di rito dovrà essere disposta dal giudice soltanto quando le esigenze cautelari del caso concreto non possono essere soddisfatte da una forma di limitazione della libertà personale meno gravosa. Sostanzialmente, il legislatore ha operato una tripartizione dei reati: i reati di mafia, per i quali vige, salvo motivazione contraria, una presunzione di pericolosità che giustifica la custodia in carcere e che prevale sull'esigenza di sottoporre tossico ed alcool dipendenti ad un trattamento terapeutico (15), altri gravi reati individuati dall'art. 407, comma 2, lett. a), numeri da 1) a 6) (16), per i quali il giudice deve valutare le ordinarie esigenze cautelari, che prevalgono sull'esigenza terapeutica, al fine di stabilire la misura adatta, tutti gli altri reati per i quali le esigenze terapeutiche prevalgono su quelle cautelari ed escludono la custodia in carcere.

In parziale controtendenza andarono le modifiche apportate all'art. 89 dalla legge 222 del 1993 che estese l'ambito dei casi in cui il tossico e l'alcool dipendente non potevano essere assoggettati alla custodia cautelare in carcere. Il primo comma dell'art. 89 ribadiva il divieto, se si prescinde dai reati di cui all'art. 407, comma 2, per l'autorità giudiziaria procedente di disporre la custodia cautelare in carcere nei confronti di un tossico o alcool dipendente imputato con un programma di recupero in corso, al fine di non pregiudicarne le istanze disintossicanti, salvo che ricorressero esigenze cautelari di particolari rilevanza, tali da giustificare il sacrificio del diritto di cura del ristretto. Il 2º comma dell'art. 89, introdotto dalla legge 222/1993, previde l'obbligo per l'autorità giudiziaria procedente, fatte sempre salve le esigenze cautelari eccezionali e i reati di cui al 2º comma dell'art. 407 c.p.p., di revocare la custodia cautelare in carcere, quando l'indagato o imputato intende sottoporsi ad un programma di recupero presso il Ser.T. od altra struttura autorizzata ed avanza un'istanza alla quale è allegata la certificazione dello stato di tossicodipendenza e la dichiarazione di disponibilità all'accoglimento rilasciata dalla struttura individuata. Quindi, la custodia cautelare in carcere oltre a fungere da pungolo per la volontaria intrapresa di un programma di recupero prima dell'inizio del procedimento penale, in conformità alla ratio di fondo del T.U. del 1990, assurge, in linea anche con quanto previsto in generale per la detenzione carceraria, come strumento principale di convincimento a sottoporsi al programma terapeutico. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 89 configurano, in sostanza, la custodia cautelare in carcere come strumento attraverso il quale indurre (rectius: coartare) l'abitualmente dedito al consumo di stupefacenti indagato, od imputato, ristretto nelle more del provvedimento cautelare di cui all'art. 285 del codice di rito, ad avviare un percorso curativo diretto al suo recupero psico-fisico (17).

Dottrina e giurisprudenza hanno discusso sui criteri per determinare le esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza" che la normativa aveva posto come vincolo oggettivo alla concessione al tossicodipendente imputato di proseguire, od intraprendere, il percorso terapeutico all'esterno delle mura carcerarie. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che per configurarsi un'esigenza di "eccezionale rilevanza" si deve trascendere la normale situazione di pericolo che porta alla comminazione della custodia cautelare in carcere: ci si deve trovare di fronte ad una minaccia degli interessi della collettività tale da prevalere sul diritto di cura del soggetto tossicodipendente e sull'interesse collettivo rappresentato dal suo recupero:

in materia di provvedimenti restrittivi nei confronti di tossicodipendente, il comma 1 dell'art. 89 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 esclude la possibilità di applicare il regime di favore ove ricorrano "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza". Tali esigenze, della cui sussistenza il giudice deve dare congrua e logica motivazione, non coincidono con una normale situazione di pericolo, ma si identificano in un'esposizione al pericolo dell'interesse di tutela della collettività di consistenza tale da non risultare compensabile rispetto al valore sociale rappresentato dal recupero del soggetto tossicodipendente. L'eccezionale rilevanza, quindi, non attiene, "tout court", alle normali esigenze cautelari, ma afferisce alla graduazione dell'intensità delle stesse, che deve essere tale da far ritenere insostituibile la misura carceraria. (18)

Questa impostazione comporta, in primo luogo, che il Giudice deve dare conto delle ragioni per le quali intende derogare alla regola del divieto della custodia in carcere. Deve spiegare perché a suo parere si configurino esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza" che gli fanno considerare talmente elevata pericolosità del soggetto in libertà da giustificarne il superamento (19). Inoltre, come la Cassazione ha chiarito, questa impostazione comporta che quando si procede ad una valutazione probabilistica della reiterazione del reato, i precedenti penali per reati connessi alla droga, "sono utili per una prognosi di reiterazione criminosa, ma non di per sé sintomatici dell'eccezionale rilevanza delle esigenze cautelari", poiché, ai sensi dall'art. 89 T.U., "l'esposizione a pericolo nell'interesse di tutela della collettività" deve imporsi "con caratteristiche di importanza del tutto straordinarie". Essi non posso quindi impedire l'attuazione di un percorso terapeutico di recupero del tossicodipendente, neppure essendo assunti come indicatori probabilistici negativi del suo successo (20). Orientamento ribadito qualche anno dopo, quando la Corte ha sostenuto (21) che

"i precedenti penali del tossicodipendente, se sono sufficienti per una prognosi di reiterazione criminosa, non sono di per sé sintomatici della richiesta "eccezionale rilevanza" delle esigenze cautelari che impedisce la revoca della medesima, intendendosi tale eccezionalità nel senso di un'esposizione al pericolo dell'interesse di tutela della collettività in modo assolutamente importante e del tutto straordinario, tale cioè da non risultare compensabile o meglio recessiva rispetto al valore sociale rappresentato dal recupero del soggetto, ancorché emergente in termini di probabilità ".

E ancora, successivamente, ha affermato che "tali eccezionali esigenze cautelari non possono desumersi solo dai trascorsi e precedenti penali dell'indagato, i quali, se sono idonei a postulare una prognosi di reiterazione criminosa, non danno ancora, di per sé, contezza della loro eccezionale rilevanza ai fini che occupano" (22).

Infine, la Cassazione (23), annullando con rinvio un'ordinanza resa dalla Sezione Riesame del Tribunale di Messina, in data 10 novembre 2005, ha stabilito il superato di una restrizione alla prevalenza delle esigenze terapeutiche rispetto alle normali necessità cautelari derivava dalla generale previsione, introdotta dalla legge n. 4 del 19 gennaio 2001 (24), aggiungendo all'art. 284 c.p.p. il comma 5-bis, alla stregua del quale la concessione di una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere è in generale inibita nei confronti di chi sia stato condannato per il reato di evasione, nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede. In questa occasione, la Corte ha precisato che "nei confronti del tossicodipendente che abbia in corso programmi di recupero, la condanna per il reato di evasione intervenuta nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede non è d'ostacolo alla concessione degli arresti domiciliari, perché rispetto alla previsione generale di cui all'art. 284, comma 5 bis c.p.p., che esprime una presunzione legale del pericolo di fuga, la norma di cui all'art. 89 D.P.R. n. 309 del 1990 ha natura speciale e prescrive che solo in presenza di eccezionali esigenze cautelari, che non si individuano nel solo pericolo di fuga presunto ex art. 284, comma 5 bis c.p.p., possa essere disposta la misura più afflittiva della restrizione carceraria". La Corte ritiene un dato pacifico, quello che la comune esperienza evidenzia e che costituisce il filo rosso di oltre trent'anni di politiche penali di contrasto alla diffusione della droga, cioè che il tossicodipendente è un soggetto con una forte propensione alla reiterazione dei reati "della stessa specie di quelli per cui si procede", poiché istigato a delinquere dalla necessità di reperire i mezzi per sostentare la propria condizione. Solo la sua disintossicazione può far scemare questa sua tendenza alla recidiva, per cui il fatto che prima di intraprendere il percorso terapeutico abbia commesso numerosi reati connessi all'uso delle sostanze psicotrope o sia evaso non può essere assunto come indicatore del fallimento del percorso stesso.

Per quanto riguarda il caso del soggetto che ha un programma in corso, previsto dal primo comma dell'art. 89 T.U., si è presto affermata la convinzione che la sottoposizione alla terapia disintossicante prima dell'arresto comprovasse l'intenzione del soggetto indagato, od anche imputato, di reinserirsi in un contesto di legalità (25). Il 1º capoverso dell'art. 89 richiedeva poi, per escludere la misura di cui all'art. 285 c.p.p., a carico di un soggetto alcool o tossico dipendente indagato, che l'interruzione del programma potesse pregiudicare la disintossicazione dell'interessato. La Suprema Corte ha stabilito che spetta all'indagato fornire la prova "che la terapia intrapresa abbia assunto il carattere di serietà, così da collegarsi ad una definitiva risoluzione di distacco dalla droga", e che questa venga attuata sulla base di un programma "la cui interruzione potrebbe pregiudicare il disegno di disintossicazione" (26).

Più complessa è stata la discussione sul caso previsto dal 2º comma dell'art. 89. Questo, infatti, statuisce che quando il soggetto tossicodipendente è detenuto, la documentata intenzione di intraprendere ab initio un percorso terapeutico e socio-riabilitativo, prevale sulle esigenze cautelari, sempreché queste non sono di straordinaria consistenza. Secondo il dettato normativo, per sospendere la custodia cautelare era sufficiente che l'interessato producesse un'istanza rilasciata dal Servizio pubblico competente, attestante lo stato di tossicodipendenza e la dichiarazione di disponibilità all'accoglimento della struttura, il provvedimento di custodia cautelare in carcere doveva essere revocato (27). L'ultimo periodo del 2º comma imponeva al Servizio pubblico per le tossicodipendenze di accogliere, in ogni caso, la richiesta dell'abitualmente dedito al consumo di stupefacenti di sottoporsi ad un programma terapeutico socio-riabilitativo. Ancora una volta, in coerenza con il carattere terapeutico del percorso di recupero, la giurisprudenza (28) ha sostenuto che, in presenza della idoneità terapeutica del programma e della garanzia di controllo sulla puntuale realizzazione del piano di cura, la scelta dell'interessato in ordine all'attuazione del piano terapeutico presso un Servizio pubblico funzionante come struttura "aperta", e non presso una struttura residenziale "chiusa", non può essere causa del diniego della revoca della misura cautelare "essendo rimessa allo stesso interessato in base al dettato normativo, la scelta tra l'una o l'altra forma di trattamento". A fronte di questo "quasi automatismo" per cui alla dichiarazione di volontà del tossicodipendente si metteva in moto il meccanismo di revoca della custodia in carcere, in dottrina non è mancato chi ha paventato il rischio che l'istituto della revoca fosse utilizzato in via strumentale da parte del tossicodipendente, che intraprendeva il percorso terapeutico al solo scopo di sfuggire ad una misura più afflittiva. Come nella discussione sull'affidamento terapeutico, queste voci hanno sottolineato la necessità di una prassi che indaghi sulla reale volontà al reinserimento sociale del soggetto interessato da un provvedimento cautelare, allo scopo di verificare se la revoca della custodia cautelare possa elidere i pericula libertatis che avevano condotto l'autorità giudiziaria a prescrivere la custodia cautelare in carcere (29). Altri autori hanno sottolineato che sembra sufficiente che il giudice valuti l'adeguatezza del programma, sia in rapporto alla sua finalità di recupero e di riabilitazione, sia in rapporto alle circostanze ricavabili dalle caratteristiche personali dell'interessato. Per il resto, i controlli volti a verificare la prosecuzione del percorso terapeutico intrapreso dal soggetto sottoposto ad un procedimento penale, che il giudice deve ex lege stabilire, allontanano il pericolo che i programmi terapeutici e socio-riabilitativi siano utilizzati in modo fraudolento dal soggetto non motivato per accedere ad un canale trattamentale preferenziale e meno afflittivo (30).

Secondo quanto già previsto originariamente dal 5º comma dell'art. 275 c.p.p. il giudice per le indagini preliminari o del dibattimento, con il provvedimento con il quale afferma che non si deve dare luogo alla custodia in carcere, stabilisce i controlli necessari per accertare che il tossico o l'alcool dipendente effettivamente si attenga al programma di recupero.

Il terzo comma dell'art. 89, introdotto dal D.L. 139/1993 convertito nella legge 222/93, previde poi che il giudice dovesse disporre la custodia cautelare in carcere, o il suo ripristino, "quando accerta che la persona ha interrotto l'esecuzione del programma ovvero mantiene un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione, o quando accerta che la persona non ha collaborato alla definizione del programma o ne ha rifiutato l'esecuzione". Anche questa norma non è che un'ipotesi speciale, ritagliata sulle misure cautelari per il tossico e l'alcool dipendente, del principio generale statuito all'art. 276 c.p.p., rubricato "provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte". Come è noto tale norma prevede che, alla presenza di trasgressioni inerenti ad una misura cautelare, il giudice possa sostituire la misura cautelare o cumulare la stessa con altra più grave, "tenuto conto dell'entità, dei motivi e delle circostanze della violazione". Nel caso specifico, probabilmente come contrappeso al regime di favore (31), il legislatore ha previsto, che quando si è derogato all'esigenze che comportavano la custodia cautelare in carcere, il giudice non può valutare il provvedimento da prendere, ma deve necessariamente disporre, o ripristinare, la custodia in carcere. Le ipotesi indicate dal comma 3 dell'art. 89 (interruzione del programma, comportamento incompatibile con la corretta esecuzione dello stesso, l'assenza di collaborazione), rappresentano, in altre parole, la tipizzazione, tassativa, dei motivi che comportano la sostituzione con la custodia in carcere della misura statuita per il tossico e l'alcool dipendente in virtù dei programmi terapeutici intrapresi o in procinto di essere intrapresi. E' ovvio che in presenza di violazioni delle prescrizioni diverse da quelle tipizzate, deve applicarsi la normativa generale di cui all'art. 276 c.p.p. e quindi il giudice può valutare la misura ritenuta più idonea al caso concreto.

Nella previsione del 3º comma dell'art. 89 T.U. ricade sicuramente il caso che un soggetto che sta seguendo il programma terapeutico commetta un nuovo reato vengono meno i presupposti della prevalenza dell'esigenze riabilitativo terapeutiche su quelle cautelari. La previsione dell'art. 89 consente di giungere a questa conclusione anche escludendo che possa aggravarsi il regime cautelare ex art. 276 c.p.p., non essendo assimilabile la commissione di un reato alle violazioni delle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare. La reiterazione della condotta criminosa nel corso del programma terapeutico può essere infatti considerata - salvo ipotesi particolari, da valutare caso per caso - "un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione" del programma e ne dimostra l'inefficacia. Pertanto, qualora venga commesso un reato per il quale debba disporsi la custodia in carcere, il Giudice dovrebbe poter dare per scontate le esigenze di cautela di eccezionale rilevanza.

La dottrina si è divisa sulla necessità di una connessione fra i controlli disposti dal giudice, da un lato, l'imposizione di una misura cautelare e l'obbligo di ordinare, o predisporre nuovamente, a carico del soggetto la misura di cui all'art. 285 c.p.p., dall'altro. Secondo la tendenza prevalente la possibilità di ordinare o ripristinare la custodia cautelare in carcere sussiste soltanto se è stata comunque comminata una misura cautelare, per esempio gli arresti domiciliari presso la comunità di recupero, e nei termini di durata massima della stessa. Tuttavia, una parte della dottrina ha sostenuto che a norma del 1º comma dell'art. 89, i controlli necessari per verificare il rispetto del programma di recupero possono essere disposti a prescindere dall'adozione di qualsiasi misura cautelare. Ciò comporterebbe, per l'imputato, l'onere di proseguire il programma senza limiti di tempo se non quello della raggiunta disintossicazione, pena l'assoggettamento al provvedimento custodiale preventivo di cui all'art. 285 del codice di procedura penale (32). Secondo questa tesi il meccanismo previsto dall'art. 89 T.U., farebbe rientrare anche l'assenza di misure cautelari per mancanza di esigenze "di eccezionale rilevanza" a fronte di un programma terapeutico in corso o di imminente inizio, nell'ambito del 4º comma dell'art. 299 c.p.p., che prevede l'aggravamento delle misure coercitive cautelari sulla base dell'accertamento condotto dall'autorità giudiziaria procedente ex officio, previa richiesta del pubblico ministero.

Dal combinato disposto degli articoli 284 c.p.p., 116, 6º comma, lett. b) e 96, 6º comma, D.P.R. 309/90, gli arresti domiciliari presso una comunità terapeutica o riabilitativa, emergono come una misura cautelare (33) diversa dalla custodia in carcere e quindi adottabile anche nei casi in cui non ci siano esigenze cautelare di eccezionale rilevanza. Secondo la disposizione del 1º comma dell'art. 284 c.p.p. il tossicodipendente può essere posto agli arresti domiciliare nella propria abitazione, in "altro luogo di privata dimora", cioè in una comunità privata presso una famiglia diversa da quella d'origine dell'imputato, o in "un luogo pubblico di cura ed assistenza", cioè in ospedale per la disintossicazione fisica o in una comunità pubblica a fini riabilitativi. In quest'ultimo caso, il costo degli arresti domiciliari e del trattamento terapeutico grava sul Ministero della giustizia se le strutture per la riabilitazione ed il reinserimento sociale dei tossicodipendenti sono iscritte agli albi regionali e provinciali istituiti ai sensi dell'art. 116, 6º comma, lett. b) del D.P.R. 309/90. Questa disposizione è contenuta nel 6º capoverso dell'art. 96, richiamato dal 5º comma dell'art. 89 che si premura di precisare che la disposizione vale non solo per chi avesse il programma terapeutico già in corso ma anche per chi decidesse di intraprenderlo nelle more della custodia cautelare in carcere. Infatti, il citato comma dell'art. 96 chiarisce e ribadisce quanto era stato disposto dall'art. 25 della legge 398/84, stabilendo: "grava "sull'amministrazione penitenziaria l'onere per il mantenimento, la cura e l'assistenza medica della persona sottoposto agli arresti domiciliari allorché tale misura sia eseguita presso le comunità terapeutiche o di riabilitazione individuate, tra quelle iscritte negli albi di cui all'art. 116, con decreto del Ministero di grazia e giustizia, sentite le regioni interessate" (34). Questa disposizione segnala un piccolo sfavore per i programmi di tipo domiciliare, perché non prevede che gravino sull'amministrazione penitenziaria, ma sulle strutture sanitarie regionali, le spese, non certo di mantenimento, ma di cura ed assistenza, per quei tossico ed alcool dipendenti per i quali viene formulato un programma che non richiede la residenza in comunità e di conseguenza viene stabilità la misura degli arresti domiciliari nella propria abitazione.

Porre l'onere di mantenimento, cura e assistenza medica del tossicodipendente in custodia cautelare in comunità a carico dell'Amministrazione penitenziaria, assunta la normale impossibilità di farvi fronte da parte del soggetto stesso, mira da un alto ad alleggerire il carico finanziario per le Regioni, che sarebbero chiamate a farvi fronte, dall'altro a favorire l'accesso al trattamento terapeutico di quei soggetti, che tra i tossicodipendenti non sono pochi (35), privi di residenza che non troverebbero alcuna Regione pronta a farsi carico della spesa. La concreta applicazione della detenzione domiciliare in comunità presenta però problemi non indifferenti legati alle diverse peculiarità operative delle varie strutture comunitarie, disintossicanti e/o socio-riabilitative. Peculiarità il cui rispetto dovrebbe implicare la subordinazione dell'esecuzione degli arresti domiciliari presso una di loro al consenso della stessa circa l'accettazione del soggetto imputato. Gli operatori delle comunità di recupero hanno spesso sottolineato gli effetti destabilizzanti che possono derivare dall'immissione all'interno del circuito comunitario di soggetti non vagliati dall'équipe trattamentale della struttura. Questa esigenza però stride con la previsione dell'ultimo periodo del 2º comma, art. 89 del D.P.R. 309/90, secondo cui "il Servizio pubblico è comunque tenuto ad accogliere la richiesta dell'interessato di sottoporsi a programma terapeutico", di chi vuole sottrarsi alla custodia in carcere, sia esso o meno agli arresti domiciliari.

4.3. Le modifiche alla disciplina delle misure cautelari introdotte nel 2006

La legge 49/2006, oltre ad innovare, come ricordato, la normativa sostanziale facendo venir meno la distinzione, a livello sanzionatorio, tra droghe "leggere" e quelle "pesanti" e introducendo il parametro della "quantità" nell'accertamento del reato, nonché la tipizzazione dei criteri giurisprudenziali in merito alla prova in ordine alla finalità di spaccio della sostanza stupefacente, ha modificato le disposizioni dell'art. 89 D.P.R. 309/1990 che definivano, in modo parzialmente derogatorio alla disciplina ordinaria, i criteri di applicazione delle misure cautelari personali a soggetti alcool e tossico dipendenti, al fine di favorirne il recupero e la riabilitazione. Il nuovo art. 89 del D.P.R. 309/90 configura gli arresti domiciliari come unico istituto a cui ricorrere in queste circostanze. In particolare, laddove era previsto, al primo comma, il divieto di applicazione della custodia in carcere, salvo la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, per il soggetto tossicodipendente che avesse in corso un programma terapeutico di recupero e per il quale l'interruzione del programma stesso potesse pregiudicare la disintossicazione, è stato imposto l'obbligo di applicare la misura degli arresti domiciliari, con contestuale prescrizione dei controlli necessari per accertare che il soggetto prosegua il programma di recupero. Analogamente il comma successivo, che disciplinava la revoca della misura cautelare in carcere per il soggetto che, documentato il proprio stato di alcool o tossico dipendenza e la disponibilità ad accoglierlo della struttura che doveva attuare il programma, oggi prevede che per il tossico o l'alcool dipendente in custodia cautelare carceraria che soddisfi i requisiti previsti siano disposti gli arresti domiciliari.

E' evidente il mutamento di prospettive del legislatore del 2006 e il sacrificio, che appare ai limiti della legittimità costituzionale, che viene imposto all'esigenze terapeutiche e al diritto di cura. La norma pre-esistente fissava un divieto di stabilire la custodia cautelare in carcere o, al secondo comma, di prevedere la sua revoca, quando non ricorrevano esigenze cautelare di eccezionale rilevanza, rimettendo alla discrezionalità del giudice l'individuazione della misura cautelare proporzionata ed idonea al singolo soggetto inquisito, consentendogli, al limite, come accennato, anche di non prevedere alcuna misura cautelare, qualora ritenesse l'andamento del programma terapeutico soddisfacente e capace di attenuare la pericolosità del soggetto. Oggi invece questa possibilità di tener conto delle specifiche esigenze terapeutiche, oltre che degli specifici indici di pericolosità è stata soppressa. Qualora il giudice ritenga che il soggetto, che ha in corso, o intende intraprendere, un percorso terapeutico, dovrebbe essere sottoposto, in mancanza del programma terapeutico stesso, alla custodia cautelare in carcere e qualora non ritenga che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza tali da prevalere su quelle terapeutico-riabilitative, la nuova formulazione della norma gli impone di disporre comunque gli arresti domiciliari.

E' evidente quindi che si restringe la libertà tout court del tossicodipendente, che in astratto dovrebbe essere sottoposto alla custodia cautelare in carcere, e la libertà terapeutica di chi deve elaborare e gestire il programma di recupero. Questo, infatti, non potrà essere svolto con il sussidio di misure cautelari, quali il divieto di espatrio, l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, il divieto o l'obbligo di dimora, o al limite in condizioni di libertà, ma dovrà necessariamente avvenire in regime di arresti domiciliari. Non sembra dunque infondata la tesi di chi in dottrina ha sostenuto che il nuovo regime dell'art. 89, D.P.R. 309/90 risente "dell'impostazione rigidamente rigoristica e dell'approccio prevalentemente punitivo e restrittivo che il legislatore ha dimostrato nella formulazione delle modifiche al testo sugli stupefacenti", affermando che tale modifica suscita "perplessità e dubbi di costituzionalità " (36). L'unico parziale elemento di elasticità introdotto dal legislatore del 2006 è l'aggiunta al 1º comma dell'art. 89, che però appare logico estendere anche alla detenzione domiciliare applicata non ab origine ma in sostituzione della custodia cautelare in carcere in forza del 2º comma dell'art. 89, secondo cui il giudice può indicare i giorni e gli orari nei quali il soggetto sottoposto ad arresti domiciliari può assentarsi per l'attuazione del programma. A fronte della rigidità sul tipo di misura da adottare questa previsione consente al giudice una grande discrezionalità sul suo effettivo contenuto e sulle sue modalità, discrezionalità che va naturalmente utilizzata per assecondare le esigenze di recupero e risocializzazione.

Come è stato osservato (37), non è che le altre misure cautelari non possono più essere disposte per il soggetto tossicodipendente. L'obbligo di applicare la misura degli arresti domiciliari sorge soltanto allorquando il giudice valuta la situazione dell'imputato talmente grave da ritenere in astratto di dover adottare la misura cautelare in carcere. Qualora invece "il giudice non ritenga necessario il ricorso alla misura carceraria per soddisfare le esigenze cautelari non si pone neppure un problema di possibile applicabilità del regime di favore, nulla vietando il ricorso ad altre più gradate (sic!) misure (magari calibrate a soddisfare le esigenze del recupero e della riabilitazione: arresti domiciliari presso una struttura terapeutica, ecc.)". In questo caso però l'aver intrapreso un programma terapeutico o il volerlo intraprendere, non facilita più la concessione di misure cautelari compatibili con il programma rieducativo. Esse potranno essere prescritte ai soggetti alcool o tossicodipendenti che hanno un programma riabilitativo in corso, o che si accingono ad iniziarlo, solo se il giudice, valutando esclusivamente i criteri stabiliti dall'art. 274 c.p.p. le riterrà idonee, senza operare alcun bilanciamento tra esigenze terapeutiche, soggettive ed oggettive, ed esigenze cautelari.

Sebbene dunque sia venuto meno il segnale forte che era dato da una norma che sanciva l'inapplicabilità per i tossicodipendenti della custodia cautelare in carcere, essa resta possibile nel solo caso sia giustificata dalle esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza". Mentre le esigenze terapeutiche consentono di derogare alle normali esigenze cautelari che porterebbero alla custodia in carcere, solo al fine di prescrivere in sua vece gli arresti domiciliari. In questa situazione il programma potrà essere residenziale (cioè svolto agli arresti presto il proprio domicilio o altra privata dimora) o comunitario, cioè svolto agli arresti presso una comunità terapeutica convenzionata ai sensi dell'art. 116 dello stesso T.U.. Questo si deduce a contrario dalla disposizione, contenuta nei nuovi primo e secondo comma dell'art. 89, secondo cui "quando si procede per gli articoli 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale e comunque nel caso sussistano particolari esigenze cautelari", gli arresti domiciliari possono essere concessi solo qualora il programma sia incorso o verrà intrapreso presso "una struttura residenziale".

Queste norme evidenziano che il legislatore ha introdotto una graduazione delle esigenze cautelari (38). Esse non si distinguono più soltanto nelle normali esigenze cautelari previste dall'art. 274 c.p.p. e nelle esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza", per la cui definizione dovrebbe valere l'orientamento della giurisprudenza consolidatosi con la previgente normativa. E' stato introdotto un livello intermedio tra i due, "le particolari esigenze cautelari", che impedisce la custodia cautelare in carcere e impone il particolare tipo degli arresti domiciliari in comunità. Si prescrive, quindi, un sacrificio della libertà terapeutica del soggetto preposto alla cura in favore di questo tipo di esigenze cautelari. Dunque, anche qualora i Ser.T. ritenessero più idoneo un programma domiciliare dovranno, se il giudice ritenesse la sussistenza di esigenze cautelari "particolari", oppure quando si procede per gli articoli 628, terzo comma (rapina aggravata), e 629, secondo comma (estorsione aggravata), del codice penale, predisporre un programma comunitario.

Resta il problema di definire in cosa consistono queste "particolari esigenze cautelari". E' evidente che esse devono essere valutate in base a parametri diversi da quelli fissati dalla giurisprudenza per definire le esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza" che possono essere salvaguardate soltanto attraverso la custodia in carcere. E' altrettanto evidente che - in una scala di graduazione dell'intensità delle esigenze cautelari - esse devono essere superiori a quelle che non consentono l'allontanamento del soggetto dal proprio domicilio per l'attuazione del programma di recupero. Il rischio da evitare non può essere configurato dal fatto che la prosecuzione del programma terapeutico domiciliare espone alla possibilità di allontanarsi dal luogo in cui ha esecuzione la misura, dato che, se il giudice soprassiede alla prescrizione della custodia cautelare in carcere, ai sensi dell'art. 274 c.p.p., "deve" applicare gli arresti domiciliari.

Ci troviamo, indubbiamente, di fronte ad una regolamentazione di una misura cautelare di contenuto terapeutico connotata da profili di illogicità, poiché gli arresti domiciliari con un programma di tipo comunitario, e non domiciliare, non sono determinati sulla base di esigenze terapeutiche, bensì in base alle esigenze cautelari enumerate dall'art. 274 c.p.p. e desunte dai parametri di riferimento da esso indicati, e nel caso della rapina e dell'estorsione aggravata, addirittura dalla fattispecie di reato. Il giudice dovrà quindi fare una scelta terapeutica sulla base di un giudizio prognostico in concreto, affermando che il soggetto, se non sottoposto al controllo derivante dalla permanenza in una struttura residenziale, reitererebbe la condotta criminosa, si darebbe alla fuga ovvero comprometterebbe la genuinità del materiale probatorio mediante contatti con estranei. La cosa appare ancora più illogica se si tiene conto che la norma non vieta al giudice, prescrivendo la detenzione domiciliare in comunità, di adottare i provvedimenti di cui al comma 3 dell'art. 284 c.p.p., anzi, la ricordata modifica al 1º comma dell'art. 89, secondo cui il giudice può indicare i giorni e gli orari nei quali il soggetto sottoposto ad arresti domiciliari può assentarsi per l'attuazione del programma, sembrano rappresentare un avallo alla sua applicazione. Quindi, ad esempio, qualora il programma di recupero lo consenta, o lo consideri addirittura opportuno, il giudice può consentire al soggetto sottoposto a misura cautelare di prestare attività lavorativa fuori dalla comunità stessa. La necessità del giudicante di disporre gli arresti domiciliari del tossicodipendente presso strutture terapeutiche sta però determinando, di fatto, un complessivo irrigidimento delle prescrizioni contenitive a discapito di quelle riabilitativo-risocializzanti.

Sembra che il legislatore abbia valutato il trattamento comunitario non in base al suo valore terapeutico ma al suo valore contenitivo, se non punitivo. Questa sensazione è rafforzata dal comma 5-bis dell'art. 89, aggiunto dalla legge 49/2006 che configura il responsabile della struttura come il controllore della misura cautelare, imponendogli l'obbligo di "segnalare all'autorità giudiziaria le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma" e sanzionando l'inosservanza di tale obbligo, nel caso in cui chi è sottoposto al programma commetta un reato, con la sospensione o la revoca dell'autorizzazione di cui all'articolo 116 e dell'accreditamento di cui all'articolo 117, "ferma restando l'adozione di misure idonee a tutelare i soggetti in trattamento presso la struttura". In dottrina si è considerata questa previsione come un "ovvio contrappeso del maggior ruolo attribuito a dette strutture con la parificazione ai servizi pubblici" (39). Questa previsione andrebbe, invece, ricollegata, a parere della scrivente, all'obbligo del giudice di adottare la misura degli arresti domiciliari presso la struttura, non potendo egli imporre misure cautelari diverse e più lievi alla cui violazione non consegue il delitto di evasione. Infatti, se il tossicodipendente si sottrae agli arresti commette il delitto di evasione e ciò comporta le durissime sanzioni sopra descritte per la comunità che non segnala il fatto all'autorità giudiziaria. Questa ratio spiega anche l'imposizione terapeutica del programma comunitario: gli arresti presso il proprio domicilio comporterebbero un riscontro, da parte degli operatori del Ser.T., molto meno immediato dell'allontanamento del soggetto che vi era sottoposto. Va infine ricordato che qualora gli arresti domiciliari vengano disposti presso un luogo pubblico di cura un obbligo analogo grava sul suo responsabile in forza dell'art. 362 c.p. (omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio).

Per quanto riguarda il 2º comma dell'art. 89, il legislatore ha reso più numerosi e specifici i documenti che devono essere allegati all'istanza di modificazione della misura della custodia cautelare in carcere negli arresti domiciliari. Oggi, deve essere prodotta: a) certificazione, rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze o da una struttura privata accreditata per l'attività di diagnosi, ai sensi del nuovo articolo 117 che ha conferito anche alle strutture private la possibilità di accreditarsi per formulare questa certificazione, attestante lo stato di tossicodipendenza; b) la procedura con la quale è stato accertato l'uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche, c) la dichiarazione di disponibilità all'accoglimento rilasciata dalla struttura. Dal tenore della norma sembra pacifico che il giudice debba verificare la sussistenza della documentazione allegata, non per valutare l'adeguatezza e la personalizzazione del programma, ma solo per accertare la sussistenza dei presupposti per la concessione degli arresti domiciliari. Sia in fase di concessione di questa misura ab origine che in sostituzione della custodia cautelare in carcere, il sindacato giudiziale non sembra potersi estendere al contenuto del programma medesimo, non essendoci una previsione normativa sul punto.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è orientata in senso diverso, affermando che l'art. 89, comma 2 D.P.R. n. 309 del 1990, sia pure inserito in una normativa la cui ratio è di tendere al recupero dell'imputato tossicodipendente, nel disporre la produzione di documentazione attinente al programma di recupero, implica una valutazione di congruità da parte del giudice sulla adeguatezza, specificità e personalizzazione del programma. Tale valutazione è stata giustificata con la necessità di evitare che l'istanza di scarcerazione si tramuti in un espediente per sottrarsi al carcere.

La legge 49/2006 ha ampliato poi l'elenco dei reati che escludono la possibilità, sia in fase di scelta della misura cautelare che di sua revoca, di derogare alle esigenze che impongono la custodia cautelare in carcere a favore di quelle terapeutiche. Con la normativa previgente, come visto, la preclusione riguardava solo i reati previsti dall'art. 407, comma 2, lettera a), numeri da 1 a 6, mentre ora riguarda tutti i delitti previsti dall'art. 4-bis legge 354/1975, salvo che si tratti di delitti di rapina aggravata ed estorsione aggravata (40) (purché, in tale caso, non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalità organizzata o eversiva, art. 89, commi 1 e 4 D.P.R. 309/1990), per i quali, come detto, sono applicabili gli arresti domiciliari in comunità. Il rinvio operato nella norma citata non ha carattere recettizio, ci si limita a richiamare i delitti elencati nell'art. 4-bis, senza recepire la condizione di inapplicabilità della norma, cioè l'assenza di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Con la conseguenza che potrà essere costretto alla custodia cautelare in carcere il tossico o l'alcool dipendente, con un programma di recupero in corso, anche se l'autorità procedente non ha "elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva" (art. 4-bis comma 1-ter) o addirittura ha acquisito "elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva" (art. 4-bis comma 1-bis). Quindi, non potrà svolgere un programma di recupero extra-murario un soggetto che invece, una volta condannato, potrà usufruire dei permessi premio, del lavoro all'esterno e delle misure alternative alla detenzione.

Tale illogicità è stata evidenziata da parte della dottrina che, con riguardo a questa preclusione, ha osservato che "la circostanza che si proceda per uno dei reati indicati nell'art. 4 bis non implica, di per sé, che il giudice debba necessariamente applicare la custodia cautelare in carcere quale unica misura adeguata e proporzionata" (41). Secondo un orientamento della Corte di Cassazione (42), risalente al tempo in cui l'art. 89 faceva ancora riferimento ai reati indicati dall'art. 407, comma 2, lettera a), numeri da 1 a 6, il fatto che si proceda per reati considerati dal legislatore particolarmente gravi non impone necessariamente di adottare la custodia cautelare in carcere. Anche in queste ipotesi, in astratto (43), il giudice deve adottare la custodia cautelare in carcere, dopo aver valutato la sussistenza di tutti i presupposti di cui all'art. 273 c.p.p. oltre alle esigenze di cui all'art. 274 c.p.p. e alle condizioni di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p.. Deve cioè prima accertare, in concreto, che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte soltanto con la misura della custodia cautelare in carcere. Quando, procedendo nei confronti di un tossicodipendente che abbia in corso (ovvero intenda intraprendere) un programma di recupero, per un reato di cui all'art. 4-bis o.p., non giunge ad una tale conclusione può applicare una misura cautelare meno restrittiva, come gli arresti domiciliari presso il domicilio del soggetto indagato o imputato presso una comunità residenziale di recupero, o, sempre in astratto, nessuna misura cautelare.

Merita, infine, di essere sottolineato che, forse un po' contraddittoriamente, la legge 49/2006 ha modificato il comma 9 lettera a) dell'art. 656 c.p.p., prevedendo, come eccezione al divieto di sospensione pena per i delitti di cui dall'art. 4-bis legge 354/1975, la sospensione della condanna per uno di questi delitti nei confronti di un soggetto già ammesso alla misura cautelare prevista dall'art. 89 D.P.R. 309/1990. Per cui, di nuovo, il tossicodipendente indagato o imputato, con un programma terapeutico in corso, per uno dei delitti di cui all'art. 4-bis della legge 354/1975, deve interrompere il programma e subire la custodia cautelare in carcere. Se invece lo stesso soggetto tossicodipendente sta svolgendo il programma terapeutico in misura cautelare per un altro delitto e viene condannato per uno dei delitti previsti dall'art. 4-bis della legge 354/1975 può proseguire il programma di recupero, anche eventualmente domiciliare.

4.4. Il peso della detenzione cautelare nell'aumento della carcerazione: il problema del 5º comma dell'art. 73 T.U.

Se si esaminano i dati relativi alla presenza in carcere per posizione giuridica, di cui nella pagina successiva si riporta la serie storica dal 30 giugno 1990 al 31 dicembre 2010, con dati a cadenza semestrale (44), balza agli occhi che se si confronta il dato del giugno 2006, rilevato a pochi giorni dall'emanazione dell'indulto, che era di 61.264, e quello del giugno 2010, in cui si è raggiunto il picco storico delle presenze nelle carceri italiane, che era 68.258, si nota che c'è stato un aumento di 6.994 detenuti. Questo aumento è interamente dovuto a quello dei detenuti in attesa di giudizio che, il 30 giugno del 2010 erano 7.881 meno che il 30 giugno 2006.

DATA TOT. IMPUTATI SU ULT. RIL. DEFINITIVI SU ULT. RIL. INTERNATI SU ULT. RIL.
30/06/1991 31.053 17.103 (55,07%) 12.698 1.252
31/12/1991 35.469 19.875 (56,03%) +2.772 14.319 +1.351 1.275 +23
30/06/1992 44.424 24.579 (55,19%) +4.704 18.510 +4.191 1.335 +60
31/12/1992 47.316 25.343 (53,56%) +764 20.567 +2.057 1.406 +71
30/06/1993 51.937 26.789 (51,57%) +1.446 23.718 +3.151 1.430 +24
31/12/1993 50.348 25.497 (50,51%) -1.292 23.503 -215 1.348 -82
30/06/1994 54.616 26.041 (47,68%) +544 27.203 +3.700 1.372 +24
31/12/1994 51.165 23.544 (46,01%) -3.503 26.265 -938 1.356 -16
30/06/1995 51.973 23.559 (45,32%) +115 27.093 +828 1.321 -35
31/12/1995 46.908 19.431 (41,42%) -4.128 26.089 -1.004 1.388 +67
30/06/1996 48.694 20.452 (42%) +1.021 26.882 +793 1.360 -28
31/12/1996 47.709 19.375 (40,61%) -1.077 26.962 +80 1.372 +12
30/06/1997 49.554 21.242 (42,86%) +1.867 26.987 +25 1.325 -47
31/12/1997 48.495 20.510 (42,29%) -732 26.646 -341 1.339 +14
30/06/1998 50.578 21.854 (43,20%) +1.344 27.451 +805 1.273 -66
31/12/1998 47.811 21.952 (45,91%) +98 24.551 -2.900 1.308 +35
30/06/1999 50.856 23.342 (45,89%) +1.390 26.167 +1.616 1.347 +39
31/12/1999 51.814 23.699 (45,73%) +357 26.674 +507 1.441 +94
30/06/2000 53.537 23.766 (44,39%) +67 28.321 +1.647 1.450 +9
31/12/2000 53.165 24.295 (45,69%) +529 27.414 -907 1.456 +6
30/06/2001 55.393 24.989 (45,11%) +694 28.962 +1.548 1.442 -14
31/12/2001 55.275 23.302 (42,15%) -1.687 30.658 +1.696 1.315 -127
30/06/2002 56.277 22.411 (39,82%) -891 32.729 +2.071 1.137 -178
31/12/2002 55.670 21.682 (38,94%) -729 32.854 +125 1.134 -3
30/06/2003 56.403 20.524 (36,38%) -1.158 34.695 +2.111 1.184 +50
31/12/2003 54.237 20.225 (37,29%) -299 32.865 -1.830 1.147 -37
30/06/2004 56.532 20.151 (35,64%) -74 35.291 +2.426 1.090 -57
31/12/2004 56.068 20.036 (35,73%) -115 35.033 -250 999 -91
30/06/2005 59.125 21.037 (35,58%) +1.001 36.995 +1.962 1.093 +94
31/12/2005 59.523 21.662 (36,39%) +625 36.676 -319 1.185 +92
30/06/2006 61.264 21.820 (35,61%) +158 38.193 +1.517 1.251 +66
31/12/2006 39.005 22.145 (56,77%) +325 15.468 -22.725 1.392 +141
30/06/2007 43.957 25.514 (58,04%) +3.369 17.042 +1.626 1.401 +9
31/12/2007 48.693 28.188 (57,95%) +2.674 19.029 +1.987 1.476 +75
30/06/2008 55.057 30.279 (55,81%) +2.091 23.243 +4.214 1.535 +59
31/12/2008 58.127 29.901 (51,44%) -378 26.587 +3.344 1.639 +104
30/06/2009 63.630 31.281 (49,16%) +1.380 30.549 +3.962 1.800 +161
31/12/2009 64.791 29.809 (46%) -1.472 33.145 +2.596 1.837 +37
30/06/2010 68.258 29.691 (43,49%) -118 36.781 +3.636 1.786 -51
31/12/2010 67.961 28.692 (42,43%) -999 37.432 +651 1.747 -39

In altre parole, se le nostre carceri hanno superato il numero dei detenuti, che nel 2006 fece parlare di "emergenza umanitaria" e spinse il Parlamento ad approvare l'indulto ciò è dovuto alla custodia cautelare in carcere. I condannati definitivi al momento dell'approvazione dell'indulto erano 1.412 in meno di quelli presenti al 30 giugno 2010. Sarebbe interessante capire se e come la legge del 49 ha influito sull'aumento in 4 anni del 36,11% dei detenuti in custodia cautelare.

Un'analisi accurata della diversa composizione della popolazione in custodia cautelare, per quanto estremamente interessante, va oltre l'ambito della presente analisi dell'esecuzione penale relativa ai tossicodipendenti: costituisce una ricerca a se, molto impegnativa, per lo svolgimento della quale in modo accurato probabilmente non ci sono neppure i dati disponibili. Vista la difficoltà di stimare l'impatto dell'indulto del 2006 sulle custodie cautelare (45) e date le numerose norme che negli ultimi anni hanno aumentato in casi in cui il mandato di arresto è obbligatorio, è estremamente difficile dire se la legge 49 ha avuto un impatto sull'impressionante incremento dei detenuti non definitivi. Si può dire che l'art. 89 T.U. sembra avere un'applicazione molto scarsa se non nulla al momento dell'arresto. Del resto questo accadeva anche prima della riforma, che ha, come detto, notevolmente ridotto la pressione versione la custodia cautelare non carceraria del tossicodipendente.

Non ci sono dati relativi ai soggetti tossicodipendenti in custodia cautelare presso comunità terapeutiche o agli arresti domiciliari con un programma Ser.T. Questo dipende dal fatto che i soggetti in tale stato non sono di competenza del D.A.P., che non viene neppure a conoscenza di questi provvedimenti. Il dato dovrebbe essere raccolto dai vari uffici giudiziari, distretto per distretto. Come nel caso, che vedremo, della sospensione pena ex art. 90, il fatto che questo dato non sia stato citato in nessuna "Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze", fa pensare che esso sia assolutamente insignificante. Del resto nel corso dell'ultimo decennio del secolo scorso si era visto che per far funzionare al momento del primo arresto il meccanismo previsto dall'art. 89 T.U. era necessario organizzare un coordinamento tra Ser.T. e procure, in modo che i primi venissero informati in tempo reale degli arresti dei tossicodipendenti, e potessero, se li avevano già in carico, organizzare tempestivamente un programma terapeutico comunitario da svolgere durante la custodia cautelare (46).

Sicuramente incide in modo significativo sul numero dei detenuti in attesa di giudizio la custodia cautelare in carcere per il reato di cui all'art. 73 T.U.. Gli ingressi dalla libertà, che si possono considerare per la stragrande maggioranza dovuta a provvedimenti cautelari, per violazione dell'art. 73, sono costantemente aumentati dal gennaio 2006 al giugno del 2008, passando da poco più del 27% degli ingressi totali in carcere al 30% di essi.

Ingressi dalla libertà
Semestre Totale Ristretti per i reati previsti dall'art. 73 del DPR 309/90 (% su totale) Stranieri ristretti per i reati previsti dall'art. 73 del DPR 309/90 (% su ingressi ex art. 73)
I 2006 47.117 12.763 (27,08%) 4.989 (39,08%)
II 2006 43.597 12.636 (28,98%) 5.336 (42,46%)
I 2007 45.810 13.632 (29,75%) 5.746 (42,15%)
II 2007 44.631 13.353 (29,91%) 5.847 (43,78%)
I 2008 47.108 14.474 (30,72%) 6.382 (44,09%)

Questo massiccio afflusso di soggetti arrestati per violazione dell'art. 73 T.U. è dovuto al fatto che all'art. 380, comma 2, lett. h), c.p.p. prevede l'arresto obbligatorio per questa fattispecie. Come accennato però, l'art. 73 D.P.R. 309/1990 prevede anche al 5º comma una fattispecie attenuata che lo stesso articolo 380, comma 2, lett. h) c.p.p., esclude dall'arresto obbligatorio in flagranza. Nei casi dunque in cui il fatto contestato ex art. 73 T.U. a chi è colto nella flagranza del reato sia di lieve entità, la misura dell'arresto non deve essere disposta obbligatoriamente ma facoltativamente. Cioè, ai sensi del comma 4 dell'art. 381 c.p.p., dato che siamo per definizione di fronte ad un fatto che "per le modalità e le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e la quantità delle sostanze" è di lieve entità. L'autorità di pubblica sicurezza può procedere "all'arresto in flagranza soltanto se la misura è giustificata [...] dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità ". Siamo di fronte ad un coacervo normativo molto ambiguo. Da un lato i criteri che configurano l'ipotesi attenuata sono definiti in modo molto aleatorio rispetto a quella di cui all'art. 73 comma 1-bis lett. a) D.P.R. 309/'90, dall'altro essi si sovrappongono in gran parte a quelli del comma 4º art. 381 c.p.p. Questo spinge evidentemente ad un'applicazione automatica della normativa che finisce per essere in malam partem. Nella casistica quotidiana si riscontra che l'autorità di pubblica sicurezza contesta - genericamente - la violazione di una delle condotte di cui all'art. 73, commi 1 e 1-bis, senza realizzare alcuna valutazione oggettiva dell'eventuale lievità dei fatti di reato commessi dai soggetti agenti.

Una volta che l'autorità di pubblica sicurezza ha proceduto all'arresto, ritenuto obbligatorio di un soggetto colto in flagranza a cedere una quantità seppur apparentemente modesta di droga, difficilmente la successiva fase della convalida (entro 48 ore) e dell'applicazione di una misura cautelare non è influenzata da questa prima valutazione. Sicuramente, il PM non è obbligato, o comunque indotto, a richiedere al Giudice l'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, ma per poter trasmettere al G.I.P. richieste cautelari diverse da quella di cui agli artt. 285 e/o 284 c.p.p. non si può che basare sulle circostanze evidenziate nel verbale di arresto dalla PG operante. In questa situazione l'unico accertamento oggettivo che potrebbe riportare alla sussunzione del fatto nel comma 5º dell'art. 73 T.U. sarebbe l'accertamento dell'effettiva "qualità e quantità della sostanza". Ma questo accertamento non può essere condotto in fase di decisione sulla misura cautelare né dal Pubblico ministero né dal Giudice che quindi non hanno elementi per contestare la formulazione dell'imputazione del reato, classificandolo come fatto di modesta entità. L'unico strumento, infatti, per una rapida valutazione della sostanza è il dispositivo del narcotest, ma è stato messo in evidenza che i suoi accertamenti non hanno il carattere della certezza assoluta, dal momento che i reagenti utilizzati possono evidenziare la presenza di stupefacenti anche in relazione a sostanze del tutto prive di principi attivi. Per questo in dottrina (47) si sostiene che la valenza processuale del narcotest, inoltre, dovrebbe essere limitata ai soli fini del sequestro della sostanza risultata positiva al test, mentre con riferimento all'applicazione delle misure restrittive della libertà personale, il rischio di errore dovrebbe imporre un'estrema prudenza nell'utilizzo, specie con riferimento alle condotte di mera detenzione.

Non sorprende dunque che di fronte a cessione di quantità apparentemente modeste soprattutto di droghe che una volta si sarebbero dette "leggere", ciò che finisce per decidere sulla custodia in carcere è "la pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità". Cioè riusciranno ad evitare il carcere i soggetti incensurati e, se stranieri, comunque regolarmente presenti in Italia: non è un caso che gli stranieri rappresentino una percentuale abnorme, e crescente, da poco meno del 40% a quasi il 45%, degli ingressi dalla libertà per violazione dell'art. 73. Anche questa selezione finisce dunque per confermare quel ruolo di strumento sanzionatorio della marginalità cui il carcere sembra sempre più inesorabilmente tendere.

Note

1. S. Verde, op. cit., p. 219.

2. Significativa è la sentenza del Tribunale di Torino (22 febbraio 1983) che afferma che "il legislatore pianificando le misure alternative alla carcerazione preventiva, o ha dimenticato del tutto i detenuti tossicodipendenti, che ormai costituiscono una fascia cospicua della popolazione carceraria, o li ha deliberatamente ignorati lasciando alla fantasia e all'intelligenza dei giudici la ricerca di soluzioni in qualche modo idonee ad affrontare il problema dei tossicomani che delinquono per procurarsi la sostanza stupefacente", citata in G. Ambrosini, "Droga e libertà personale nelle prime applicazioni della legge 532/1982", in Questione giustizia, 1 (1983), p. 111.

3. G. Ambrosini, "Droga e libertà personale nelle prime applicazioni della legge 532/1982", cit., p. 103 ss.

4. Ivi, p. 107-108.

5. Come nota G. Ambrosini, "Droga e libertà personale nelle prime applicazioni della legge 532/1982", cit., p. 104, sarebbe stato più appropriato parlare di 'modalità di esecuzione della custodia preventiva' anziché di sostituzione della stessa, dato che gli arresti domiciliari configurano comunque una custodia cautelare.

6. Cfr. A. Beconi, L. Ferrannini, "Problemi di applicazione delle misure alternative alla detenzione del tossicodipendente", cit., pp. 849-857.

7. Ibidem.

8. Cfr. Ferrua, "Le misure 'alternative' alla custodia in carcere: dalla convalida dell'arresto alla libertà promissoria" in V. Grevi (a cura di) Tribunale della libertà e garanzie individuali, p.86; Trib. Genova, 13/2/84, in Giurisprudenza italiana, II 1985, 92 con nota di G. De Roberto.

9. Questo dato sfugge a F. Corbi, "L'affidamento in prova con finalità terapeutiche: un nuovo sostituto della pena detentiva", in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1986, pp. 1110 e ss., quando sostiene che le comunità terapeutiche vengo formalmente riconosciute per la prima volta la legge 287 del 1985.

10. Cass. Sez. VI, n. 2097/1993, Fuso, in Cassazione penale, 1995, p. 344.

11. Cfr. V. Grevi, "Misure cautelari", in V. Grevi e G. Conso (a cura di), Profili del nuovo codice di procedura penale, CEDAM, Padova, 1996, pp. 291 e ss. L. Chiavario, "Variazioni sul tema delle misure coercitive nel processo penale tra nuovo codice e legge anticipatrice", in Giurisprudenza Penale, 1989, pt. III, p. 4.

12. Come vedremo questo non è un caso isolato per gli istituti in qualche modo duplicati dal T.U. del 1990, anche l'art. 47-bis della legge sull'Ordinamento Penitenziario, che conteneva l'originario regolamento dell'affidamento terapeutico, sarà abrogato non dallo stesso T.U. che regolamenta nuovamente l'istituto, ma solo dopo alcuni anni.

13. Vanno ricordati il D.L. 13/5/1991 n. 152 convertito con modifiche nella L. 203 del 15/7/1991 che modificò tra l'altro l'art. 275 c.p.p.; il D.L. 8/6/1992 convertito con modifiche nella legge n. 356 del 7 agosto 1992, che modificò tra l'altro l'art. 407 c.p.p.; il D.L. 13/3/1993 n. 60, reiterato con il D.L. 14/5/1993 n. 139 a sua volta convertito nella L. 14/7/1993 n. 222 che modificò tra l'altro (art. 5) l'originario art. 89 del T.U. sugli stupefacenti.

14. Com'è stato notato (R. Ricciotti, op. cit., pp. 283-284), l'art. 21 della legge 332/95 inserendo all'interno del punto n. 6), lett. a), del 2º comma, art. 407 del codice di procedura penale queste due fattispecie ha esteso fino a due anni i termini di durata massima delle indagini preliminari ad esse relative.

15. Questa prevalenza è stata valutata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale (sentenza n. 339, del 20 luglio 1995) che ha ritenuto ragionevole la scelta compiuta a livello di politica legislativa, di differenziare il regime cautelare dei tossicodipendenti imputati di un reato ex art. 275, comma 3, c.p.p., da quello destinato ai tossicodipendenti imputati di un diverso reato.

16. Vale la pena ricordare che per quanto attiene l'individuazione del termine massimo di custodia cautelare relativo alla fase delle indagini preliminari per i delitti di cui al 2º comma, lett. a) dell'art. 407 c.p.p., questo è fissato, ai sensi dell'art. 303, 1º comma, lett. a), n. 3 del codice di rito, in un anno e a questi reati non si applica inoltre la disciplina, introdotta dall'art. 14 della legge 332/95 che ha aggiunto i commi 2-bis e 2-ter all'art. 301 c.p.p., che ha sensibilmente ridotto i termini di durata della custodia carceraria disposta per fini probatori.

17. R. Ricciotti, M. M. Ricciotti, op. cit., p. 284.

18. Cass. pen., Sez. IV, 16 giugno 2005, n. 34218, precedentemente in senso analogo cfr. Cass., Sez. IV, n. 13302/2004, Fadda, in CED, Rv. 228037.

19. Cfr. Cass. pen. sez. I, 10 dicembre 1996 n. 6610, Verdini, in Cassazione penale 1998, p. 154.

20. Cass. Sez. VI, n. 1771/1995, 3 maggio 1995, Bevilacqua, in CED, Rv. 202591 e Cassazione penale, 1996, p. 650.

21. Cass. Sez. VI, 29 gennaio 1999 n. 294, D'Agostino, in CED RV 214051.

22. Cass. Sez. VI, n. 22122/2002, Quaranta, in CED, RV 222243.

23. Cass. pen. sez. II, 26 aprile 2006 n. 19348, in CED 2006.

24. Legge di conversione del D.L. 341/00.

25. Trib. Trapani, 24 dicembre 1990, ANPP, 1991, P. 434.

26. Cass. Sez. VI, 4 luglio 1992, Rizzo, ANPP, 1993, P. 327.

27. Richiedendo la legge che la tossicodipendenza del soggetto sia documentata da apposita certificazione rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze la Suprema Corte (Cass. pen. 20/05/1998) ha considerato insufficiente la certificazione rilasciata dal medico privato. In precedenza, la sentenza della Cass. Sez. VI, 4 maggio 1995, Coniglione, in Rassegna di studi penitenziari, 1996, p. 650, aveva ritenuto inidonea la nota rilasciata dal Servizio pubblico per le tossicodipendenze, che si era limitato a registrare le dichiarazioni dell'interessato, senza compiere alcuna verifica ed, in particolare, senza svolgere gli accertamenti clinici e di laboratorio specificamente demandatigli ai sensi dell'art. 113, 1º comma, lett. b), D.P.R. 309/90.

28. Cass. Sez. VI, 2 luglio 1993, Fuso, in Cassazione penale, 1995, p. 344; Cass. Sez. VI, 8 marzo 1994, Implia, MCP, 1994, fasc. 10, m. 25.

29. F. Schellino, "Commento art. 275 c.p.p.", in M. Chiavario (a cura di), Commento al nuovo codice di procedura penale. Secondo aggiornamento, UTET, Torino, 1993, pp. 100 e ss.

30. G. Amato, "Droga e attività di polizia", cit., p. 200.

31. G. Amato, "Le modifiche alla normativa sugli stupefacenti", Laurus Robuffo, Roma, 2006, p. 61: tale soluzione appare "ben spiegabile con il fatto che si è in presenza di una trasgressione ad un regime di favore, di cui, all'evidenza, l'interessato non si è dimostrato meritevole".

32. In senso contrario, Cfr., G. Amato, "Misure cautelari e tossicodipendenza, anche alla luce delle modifiche della l. 8 agosto 1995, n. 332", Cassazione penale, 1995, pp. 2813 e ss.

33. Ai sensi del 5º comma dell'art. 284, infatti, "l'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare".

34. Dopo la riforma del 2006, in conseguenza della ricordata modifica degli art. 116 (e 117) per equiparare le strutture private, anche per quanto concerne la certificare lo stato di tossicodipendenza, le strutture private a quelle pubbliche, il comma parla di "struttura privata autorizzata ai sensi dell'articolo 116 e convenzionata con il Ministero della Giustizia".

35. La marginalità sociale che spesso si accompagna alle condizioni di tossicodipendenza non di rado, infatti, porto anche alla cancellazione dalle liste anagrafiche del Comune di residenza.

36. C.A. Zaina, "La nuova disciplina penale delle sostanze stupefacenti", Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2006, pp. 504 e ss.

37. G. Amato, "Le modifiche alla normativa sugli stupefacenti", cit., pp. 58 ss.

38. In questo senso G. Amato, "Le modifiche alla normativa sugli stupefacenti", cit., p. 57 ss., che scrive: "il concetto di rilevanza, al quale si richiama l'articolo 89, riguarda non già la natura delle esigenze cautelari, bensì la "graduazione dell'intensità" di esse, che si vuole sia particolarmente elevata allorché la custodia cautelare in carcere deve essere applicata nei confronti di un tossicodipendente o di un alcool dipendente, in vista della possibilità di favorire l'esecuzione di un programma di recupero, alternativo rispetto alla misura coercitiva, in nome della finalità genericamente rieducativi alla quale deve essere improntato complessivamente il trattamento sanzionatorio (cfr. art. 27, comma 3, della Costituzione)".

39. G. Amato, "Le modifiche alla normativa sugli stupefacenti", cit., pp. 54-55.

40. Il 30 dicembre 2005, al momento dell'emanazione del decreto n. 272 si trattava dei seguenti delitti: produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope aggravati per l'ingente quantità delle predette sostanze (art. 73-80 comma 2 D.P.R. 309/90); l'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74); associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.) e dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolarne l'attività; nonché dei delitti di omicidio volontario (art. 575 c.p.), di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.); di sequestro di persone a scopo di estorsione (art. 630 c.p.). Il legislatore ha poi aggiunto a questo elenco nuovi reati, la prima volta quindici giorni prima della conversione del decreto, avvenuta il 21 febbraio 2006, con la legge 6 febbraio 2006, n. 38, e poi ancora con il D.L. n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito dalla L. 23 luglio 2009, n. 99. Così che ad oggi ai reati per i quali, originariamente, il legislatore aveva escluso la possibilità di derogare per esigenze terapeutica alla custodia cautelare in carcere, si sono aggiunti quelli previsti dagli articoli 600-bis, secondo e terzo comma, 600-ter, terzo comma, 600-quinquies, 609-bis, 609-quater, 609-octies, 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale, dall'articolo 291-ter del Testo Unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e dall'articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni.

41. G. Amato, "Le modifiche alla normativa sugli stupefacenti", cit., p. 56.

42. Nella sentenza Cassazione, Sez. II, 2 dicembre 2004, n. 5437, Signorelli, si legge: "È vero, infatti, che l'art. 89 prevede, nell'articolazione di cui ai primi due commi, come fatto del tutto eccezionale che possa essere disposta o mantenuta la misura cautelare della custodia carceraria nei confronti dei tossicodipendenti che abbiano in corso un programma terapeutico di recupero (I c.) ovvero che intendano sottopor visi" (omissis) "Tale ipotesi è subordinata al vaglio della sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza". È altrettanto vero che il comma IV della medesima norma pone una deroga a tale trattamento per l'ipotesi in cui si proceda per uno dei delitti previsti dall'art. 407 c. II lett. a) [...] ma tale eccezione non stabilisce [...] che vi sarebbe un divieto di concessione degli arresti domiciliari presso la comunità terapeutica ove si proceda per uno di detti delitti. La norma in esame va invece intesa, secondo la formulazione del dato testuale e nell'ottica di un corretto coordinamento con le altre norme di rilievo, nel senso che, non operando il trattamento di favore di cui ai ricordati primi due commi, si debba fare riferimento alle norme generali in tema di misure cautelari personali, contenute nel codice di procedura penale.
Per disporre la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di un tossicodipendente o di un alcool dipendente, che abbia in corso o intenda sottoporsi ad un programma di recupero terapeutico, va verificata la sussistenza delle ordinarie esigenze cautelari secondo i criteri di cui agli artt. 273 - 275 c.p.p., e va accertato che tali esigenze possano essere soddisfatte solo con la misura della custodia carceraria".

43. A dispetto della tesi della Cassazione i casi in cui, procedendo per un reato ritenuto grave dal legislatore, il giudice non ricorre in concreto alla custodia cautelare in carcere sono rarissimi, come vedremo la tendenza è anzi opposta: si tende a ricorrere alla custodia cautelare in carcere anche quando si procede per reati che il legislatore considera di lieve entità, come quelli previsti dall'art. 73 5º comma T.U. stupefacenti.

44. Rielaborazioni dati Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato - sezione statistica. Per il secondo semestre del 2010 il ministero segnala che per 90 detenuti ancora non ha la posizione giuridica.

45. Se si esaminano i dati relativi agli anni dal 1991 al 1994 si nota che i detenuti in attesa di giudizio erano oltre il 50%, questo era dovuto al fatto che il 12 aprile 1990 con D.P.R. n. 79 era stata proclamata un amnistia, seguita il 22 dicembre dello stesso anno dall'indulto proclamato con il D.P.R. n. 394. Dell'amnistia si possono giovare solo i soggetti definitivamente condannati, per cui essa altera le percentuali tra detenuti definitivi e in custodia cautelare. L'effetto dell'indulto, dato che viene applicato provvisoriamente anche ai soggetti in attesa di giudizio, è più difficile da stimare. Sebbene anche i soggetti con un procedimento in corso possano usufruire dell'applicazione provvisoria dell'indulto.

46. Un'organizzazione di questo genere era stata sperimentata per qualche anno, con buoni risultati a Milano, ma poi è stato interrotto; si ha notizia di un esperimento simile anche a Padova.

47. S. Zancani, "I delitti di produzione e traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope", cit., p. 85.