ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Giuseppe Campesi, 2009

Sono passati più di quindici anni dal primo intervento normativo in materia di immigrazione e il governo dei flussi di manodopera che investono la nostra penisola non pare ancora aver trovato un suo stabile assetto. Le riforme si susseguono con il mutare dei governi e nel dibattito pubblico la «questione immigrazione» è sovente tematizzata con toni che rasentano pericolosamente l'isterismo collettivo.

Lungi dal riuscire a rappresentarsi quale paese pronto ad accogliere un'immigrazione di una certa consistenza, l'Italia si sente «invasa», un'orda di miserabili bussa alle porte di "casa" nostra e vi entra anche senza il nostro consenso. Nella percezione comune gli immigrati sono degli importatori di degrado e disordine sociale, la causa principale dell'aumento di criminalità e dell'esplodere del senso d'insicurezza che pervade i maggiori centri urbani; mentre le statistiche criminali sembrano confermare in maniera inconfutabile tali pulsioni dell'opinione pubblica. Stando ai dati, infatti, gli immigrati sembrano delinquere molto più degli italiani.

Tuttavia, nonostante l'equazione immigrazione-criminalità abbia assunto i connotati di una verità sociale indiscutibile, sentiamo il bisogno di provare ad offrire una chiave di lettura diversa del fenomeno. Non convince, in particolare, la lettura acritica del dato statistico - patrocinata a livello accademico da una certa criminologia, per così dire, ortodossa - che, dimentica dei contributi che la criminologia critica e la migliore sociologia della pena hanno offerto allo studio della "questione criminale", giunge a supportare i diffusi sentimenti di odio e repulsione nei confronti degli immigrati. Ciò che è possibile ricavare dal dato statistico non è una mera quantificazione dell'oggetto "devianza degli immigrati", ma la misura dell'andamento dei processi di controllo sociale: essi, infatti, non si limitano a rilevare una realtà preesistente ed indipendente dall'azione delle agenzie di controllo stesse, ma contribuiscono fattivamente al processo di costruzione sociale della criminalità degli immigrati.

Come ha cercato di dimostrare quella che potremmo definire una teoria materialistica della pena: la direzione, l'intensità e la qualità dell'azione delle agenzie di controllo sociale non è tanto condizionata da effettive variazioni nella diffusione e nella gravità dei comportamenti criminali, quanto piuttosto dal variare delle esigenze di governo e disciplinamento del segmento più basso della stratificazione sociale, spesso, nelle società capitalistiche, composto da materiale d'importazione. Esiste, dunque, un legame indissolubile tra la storia delle migrazioni, la storia del capitalismo e dei suoi cicli politico-economici e la storia dei meccanismi disciplinari di controllo sociale; legame che non va dimenticato oggigiorno, allorché si volge lo sguardo verso gli attuali flussi migratori ed i fenomeni sociali che scatenano all'interno delle società d'immigrazione.

Nella storia delle società moderne, infatti, non sono una novità né i flussi di manodopera né, tanto meno, meccanismi di rigetto simili a quelli che vive almeno da una decade l'Italia. Sin dal xvi sec. l'Europa conobbe imponenti spostamenti di popolazione tra campagna e città che, da subito, nelle aree di maggior afflusso, posero il problema di governare e gestire quella che era considerata, non senza accenti di disprezzo, un'orda di miserabili e senzatetto che si affollavano all'esterno delle mura cittadine.

Simili macro-fenomeni, scatenati dai profondi mutamenti strutturali al passaggio tra xvi e xvii sec., furono, insieme a quella che Karl Marx chiamò «accumulazione originaria», tra le condizioni fondamentali per lo sviluppo di un'economia capitalistica e per la nascita delle società che ancora abitiamo.

Da un lato il primo, enorme, «accumulo di capitali» ottenuto grazie all'accaparramento ed allo sfruttamento intensivo della proprietà fondiaria ed alle fiorenti attività mercantili tra nuovo e vecchio mondo; dall'altro l'avvio di un processo di «accumulazione degli uomini» che avrebbe consentito lo sviluppo dei meccanismi di potere consoni alle grandi Monarchie Nazionali prima ed agli Stati Costituzionali dopo, oltre che la nascita delle società industriali con il xix sec.

Ovviamente il processo non fu indolore e, difficilmente, fu compreso dai contemporanei così come è possibile a chi lo osservi, come noi, ex post. L'urbanizzazione di masse di contadini suscitò vivo sgomento negli abitanti della Parigi o della Londra del xix sec., i quali percepirono quello che in fondo era l'afflusso dell'esercito di uomini che avrebbe creato due delle più grandi potenze industriali e militari, come una vera e propria invasione, la calata di popoli diversi e barbari pronti a fomentare disordini ed a corrompere la società.

Gli esempi potrebbero proseguire con il caso delle migrazioni transnazionali che si avviarono sul finire del xix sec. e, via di seguito, con le progressive "colonizzazioni" di nuovi mercati e dei corrispondenti universi sociali che la civiltà industriale ha operato nel corso del xx sec.; in ogni caso, con una straordinaria regolarità, la nuova componente dell'esercito industriale, ha subito il peso di una feroce stigmatizzazione.

Marginalizzate socialmente e deprivate economicamente, le masse dei nuovi arrivati rappresentarono sempre, al pari dello strato sottoproletario cui si andavano ad affiancare nella composizione di un vasto esercito industriale di riserva, una vera e propria dinamite sociale. Improntare i meccanismi di controllo idonei a governare le dinamiche sociali più dirompenti di quest'enorme «accumulo di uomini» fu dunque questione di primaria importanza per le società moderne.

È da quest'esigenza che vengono alcuni dei meccanismi di controllo sociale che costituiscono uno dei tratti più peculiari della modernità: dalla necessità di liberarsi dalla paura che incutono masse di miserabili e nullatenenti pronti ad infestare con le loro scorribande le vie cittadine, da questa impellenza nasce lo stimolo a creare gli ingranaggi idonei ad integrare forzosamente nella dinamica produttiva, o perlomeno ad accantonare come materiale di riserva, quell'universo sociale che la storiografia definisce con la nozione di «pauperismo».

Secondo l'ormai classica definizione foucaultiana, tali meccanismi di controllo sarebbero nel tempo venuti a creare una «società disciplinare». Un tipo di società basata su una forma di controllo sociale che, lungi dall'assicurare all'individuo una sfera d'intangibilità rispetto al potere sovrano, come dal xix sec. si affretteranno a declamare le Carte Costituzionali, prende in carico l'esistenza individuale in ogni dettaglio più minuto, determinandone un'«oggettivazione» progressiva. Secondo Michel Foucault a partire dall'esigenza di amplificare la presa disciplinare sul corpo sociale ed, in particolare, dall'esigenza di trovare gli strumenti idonei a governare le dinamiche sociali che più di altre destavano preoccupazione - come l'esistenza di enormi sacche di pauperismo - si pongono le basi per la nascita di un insieme di «saperi» sull'individuo. A prescindere dal loro livello di formalizzazione, è proprio con la creazione di complesse formazioni simboliche idonee a tematizzare in termini di «pericolosità sociale» i caratteri, lo stile di vita, il modo di essere di un soggetto, che si pongono le basi per la nascita di quei meccanismi di potere in grado di garantire un efficace ed ordinato «accumulo di individui». È, infatti, grazie alla possibilità di tematizzare quale «classe pericolosa», e di sostanziare tale concetto con il ricorso a saperi sempre più formalizzati, quell'universo sociale che andava a comporre il cosiddetto pauperismo che il sistema di controllo sociale messo in campo dalle moderne società industriali è riuscito a proseguire nell'opera di disciplinamento delle classi subalterne alle condizioni esistenziali riservatigli dalla struttura economico sociale iniziata in pieno ancien regime.

L'imponente tentativo di disciplinare e mettere al lavoro gli «oziosi e vagabondi» (che altro non erano se non le masse umane in movimento dalla campagna alla città), o comunque di neutralizzarne il potenziale eversivo, avviatosi in tutta Europa, è potuto proseguire in evo moderno, solo grazie a determinate costruzioni concettuali che consentissero, in un quadro giuridico formalmente egalitario, di stigmatizzare come pericolose socialmente le esistenze e gli stili di vita non sufficientemente "ordinati" e "laboriosi" delle classi marginali.

Se, infatti, è possibile sostenere che il principale compito del sistema di controllo penale moderno fu, ben aldilà della semplice risposta alla criminalità, il governo delle classi subalterne, è perché esso si è dotato sin dalla sua origine di un insieme di meccanismi polizieschi che, anziché colpire l'infrazione di una norma o la lesione di un bene giuridico, erano in grado di sanzionare un complessivo stile di vita.

L'esercizio di tale funzione di disciplinamento sociale ha riprodotto all'interno dei nostri sistemi penali dei settori autonomi dell'ordinamento connotati da uno spiccato carattere poliziesco, ciò che è stato chiamato da Luigi Ferrajoli, «sotto-sistema penale di polizia», in cui non vigono le garanzie individuali pensate dai riformatori illuministi ed il controllo sociale sanziona "individui" e non "fatti" criminali.

È proprio l'esistenza di tale sotto-sistema poliziesco che ha consentito ai meccanismi di controllo sociale, in società marcatamente stratificate, di gestire il segmento più basso di popolazione senza che l'ideologia dell'eguaglianza di fronte alla legge andasse in frantumi. L'enorme selettività del sistema a scapito dei settori sociali più marginali fu, appunto, giustificabile grazie al ricorso a quelle risorse concettuali in grado di costruire come «classe pericolosa» l'universo sociale che popolava la base della piramide sociale.

In questo contesto i flussi di forza lavoro diretti verso i nuovi agglomerati industriali (ma più in generale tutto lo strato sociale più basso) poterono essere disciplinati e costretti ad accettare le condizioni di lavoro e di vita che la struttura sociale offriva loro, proprio perché costruiti socialmente quale massa barbara e pericolosa e sottoposti ad uno stretto controllo poliziesco. Quanti manifestavano una conflittualità più o meno esplicita, rifiutando la rigida disciplina impostagli, potevano essere sanzionati anche del tutto indipendentemente dalla commissione di un reato, sul presupposto che l'ozio, il vagabondaggio, la disoccupazione e la povertà, fossero in sostanza il luogo di coltura di tutti i peggiori mali per una società civile ed ordinata. Nel xix sec., in breve, la coscienza borghese inquadrò il "proletariato" nel novero delle «classi pericolose per la società».

Certo, con il tempo le norme dedicate agli «oziosi e vagabondi» scomparvero dai sistemi penali, ma la loro antica funzione, sottoporre ad una vera e propria «tutela poliziesca» le classi subalterne, sarà assunta da altri istituti giuridici.

È così che si può spiegare come mai gli istituti di pena nelle società moderne tendono ad accogliere una popolazione in tutto e per tutto simile agli ospiti delle antiche case di lavoro ed ospizi per poveri, come mai essi sono sembrati sempre scivolare verso una funzione di «assistenza repressiva», più che di risposta alla criminalità tout court, assumendo in concreto una funzione di surrogato delle politiche sociali. Sin dal xix sec., come sottolinea Dario Melossi, il penitenziario rappresenta la via d'accesso al contratto sociale per le masse che pretendono di entrarvi, esse devono imparare a rispettarne i precetti ed accettarne la struttura fondamentale, anche se pesantemente squilibrata a loro svantaggio.

Questa è la principale (fra le altre) funzione che il sistema penale ha assunto nelle nostre società: governare l'afflusso di popolazione che il sistema produttivo aveva necessità di assorbire e eventualmente garantire una gestione per quanto possibile indolore dei settori confinati ai margini del mercato del lavoro o momentaneamente espulsi dalla dinamica produttiva, attenuandone le conseguenze sociali più dirompenti.

Con questi strumenti-polizieschi impattarono i neo-immigrati nelle città industriali e fu questo a lungo l'unico meccanismo di «assistenza» loro riservato. Grazie a tali pervasivi strumenti di criminalizzazione della miseria, sorretti da una concezione stigmatizzante della povertà, si riuscì a disciplinare e governare il proletariato in formazione.

Questa realtà perdurò fino a tutto il xix sec. e, ancora, nei primi decenni del xx sec., fintanto che prevalse una certa visione liberista dello Stato e dei rapporti sociali. Con il diffondersi, invece, dell'idea che lo Stato avrebbe dovuto farsi carico di tutta una serie di funzioni di assistenza nei confronti del mondo della marginalità sociale - ed, in particolare, dell'idea che la povertà e l'emarginazione non fossero tanto il frutto di una deficienza dell'individuo cui rispondere severamente per mezzo dell'intervento penale, ma piuttosto il portato di ragioni strutturali su cui si aveva il dovere d'intervenire con adeguati strumenti di compensazione degli squilibri sociali - il ruolo riservato alle agenzie penali venne progressivamente restringendosi.

La struttura delle società del xx sec. fu progressivamente più aperta rispetto all'integrazione politica e sociale delle masse popolari, anche perché tanto il livello di benessere, che le capacità del sistema produttivo di assorbire manodopera si andarono amplificando notevolmente. Con il tempo le necessità disciplinari scemeranno significativamente ed il governo degli strati sociali più bassi potrà essere progressivamente delegato ad altre agenzie amministrative rispetto al sistema di polizia.

Gli emigranti del xx sec., dunque, troveranno delle società d'accoglienza più disposte a farsi carico del loro disagio economico e sociale e, tendenzialmente, meno propense a stigmatizzare la loro miseria. Il Welfare avrebbe assunto funzioni un tempo riservate al sistema penale e, parallelamente, anche l'immagine sociale diffusa della miseria sarebbe andata modificandosi. Il povero non sarebbe più stato un pericoloso attentatore dell'ordine sociale, bensì un soggetto bisognoso di aiuto, cui offrire il minimo indispensabile per un'esistenza civile e dignitosa, un'adeguata «cittadinanza sociale».

Gli attuali flussi migratori, al contrario, s'inseriscono in una struttura sociale che assomiglia sempre più pericolosamente alle società del xix sec. Lo Stato, in quello che è ormai comunemente ritenuto un ciclo politico economico neo-liberista, abbandona le sue funzioni di assistenza e pretende di rendersi più "snello", mentre quella cittadinanza sociale conquistata nel corso del xx sec. a prezzo di dure lotte crolla sempre più rapidamente facendo ricomparire livelli di disuguaglianza sociale che si credevano scomparsi per sempre.

Nascono, nelle nostre metropoli, nuove forme di povertà ed a queste si aggiunge anche un «nuovo proletariato» che affluisce dalle regioni povere del mondo, verso il ricco occidente, trovando in esso possibilità lavorative sempre meno garantite e remunerate. Lungi dall'essere inutile rispetto alla dinamica produttiva, l'attuale immigrazione assicura al nostro sistema la presenza di una «classe laboriosa» pronta ad accettare le, sempre peggiori, condizioni di lavoro che le, sempre maggiori, esigenze di valorizzazione del capitale impongono. Essa però s'inserisce in una struttura sociale che tende a ridurre al minimo l'intervento dello Stato e tale vuoto pressoché totale di misure di assistenza ed integrazione sociale determina il crearsi di vaste sacche di marginalità sociale.

Alla base della piramide sociale si sta creando, insomma, un ampio strato di popolazione che, sostanzialmente ai margini del mercato del lavoro, relegato in uno stato di cronica disoccupazione e sottoccupazione o confinato nel settore informale della nostra economia, non trova alcuna possibilità d'inclusione all'interno della vita politica e sociale del paese. Un nuovo proletariato, che da un lato, consentendo elevati livelli di estrazione di plus-valore, risulta fondamentale per la nostra dinamica produttiva, ma all'altro necessita di essere adeguatamente governato poiché lo stato di deprivazione in cui versa lo rende, al pari di quanto non accadesse con gli strati proletari ottocenteschi, una bomba sociale pronta ad esplodere. L'isterismo che a tratti sembra dominare i dibattiti attuali sull'immigrazione pare essere dovuto, dunque, al fatto che attualmente essa s'inserisce nel nostro sistema sociale completamente abbandonata a sé stessa dalle agenzie del welfare, in un vuoto di politiche sociali che crea nelle nostre metropoli ampie sacche di marginalità e problematicità sociale, zone di confino sociale totalmente fuori controllo.

Nel governo di questa vera e propria underclass nostrana sembra che il «sotto-sistema penale di polizia» tenda a recuperare il suo antico ruolo nel governo della miseria. I tassi di carcerizzazione degli immigrati che si registrano in Italia (come altrove nel mondo occidentale) potrebbero essere appunto espressione di questo rinnovato ruolo del sistema penal-disciplinare nel governo delle nuove povertà: gestire gli effetti sociali più dirompenti della spirale di emarginazione che, nel quadro della deriva politico economica di fine xx secolo, la chiusura della nostra società rispetto all'inclusione degli immigrati determina. Spirale che è ben sintetizzabile negli stretti rapporti che intercorrono fra la chiusura delle frontiere, l'estensione del lavoro immigrato in nero e l'invisibilità sociale in cui si vorrebbero relegare nelle nostre città gli immigrati quando tendono a manifestare disagio e problematicità sociale.

Il panico da invasione e gli stereotipi criminalizzanti che gli immigrati subiscono nel nostro, come in altri paesi occidentali, sono, in questo quadro, un ulteriore segnale del fatto che la questione sociale torna, come nel xix sec., ad essere tematizzata per mezzo di un «vocabolario punitivo» e non più per mezzo del vocabolario della politica o della richiesta di cambiamento sociale. La diffusione di costruzioni simboliche che tornano a criminalizzare la povertà, associandola strettamente alla delinquenza ed al disordine sociale, la pervasività di certi stereotipi che inquadrano gli immigrati nel novero delle «classi pericolose», guidano in sostanza un processo di disciplina sociale che consente di governare gli effetti sociali più dirompenti dell'inclusione subordinata che il nostro sistema riserva agli immigrati, senza la necessità di un'inversione di rotta nella deriva politico-economico neoliberista che anche la nostra società sembra aver imboccato.

Etichettando la problematicità sociale come questione relativa a "criminalità" e pericolosità sociale", il dibattito pubblico sull'immigrazione consente di governare per mezzo di strumenti disciplinari di carattere penal-poliziesco le zone di confino sociale in cui sono relegati gli immigrati. Tali strumenti, però, lungi dal modificare la struttura sociale compensando o elidendo gli squilibri sociali, puntano ad una tecnocratica gestione dello status quo.

In questo quadro interpretativo il processo di criminalizzazione degli immigrati, dunque, si pone come un aspetto specifico del più ampio processo di ridisciplinamento che fa seguito al crollo della cittadinanza sociale, il quale ha investito nelle società occidentali l'intera base della piramide sociale ed ha determinato un processo di ricarcerizzazione che ha portato qualche osservatore ha parlare di «nuovo grande internamento». Questo nuovo grande internamento si è, in Italia, manifestato soprattutto nei confronti degli immigrati extracomunitari che hanno ripopolato i nostri istituti di pena sino al punto di portare la popolazione carceraria ben oltre i livelli massimi mai raggiunti in epoca repubblicana.

La ricerca che presentiamo si propone non solo di sviluppare le indicazioni teoriche tracciate, ma anche di tentare una verifica empirica di tali assunti esaminando la concreta attività di giudizio presso un tribunale penale, con l'obbiettivo di evidenziare come una certa visione della miseria e della povertà diffusa ormai anche fra gli attori processuali, coloro che sono chiamati ad una funzione di controllo sociale applicando gli istituti previsti dal nostro sotto-sistema penal-poliziesco, consenta di tenere molto elevati i livelli di criminalizzazione degli immigrati, trasformando il carcere in una struttura in cui immagazzinare gli universi sociali più problematici. Senza con ciò voler dare ad intendere che le corti penali siano nella loro azione soggette agli obbiettivi da altri prefissati o, peggio, parte di una qualche cospirazione ai danni degli immigrati

Come già ebbe modo di rilevare Michel Foucault, il potere nelle nostre democrazie di massa è «intenzionale e non soggettivo»: esso non si basa sulla figura di un soggetto unitario, in grado di pilotare i processi di controllo sociale a suo piacimento, ma sull'azione consapevole rispetto ad un fine più specifico (come quello di eliminare dalla strada quanti siano ritenuti un potenziale ed immediato pericolo a causa delle loro condizioni di vita miserevoli) dei tanti attori del controllo sparsi per tutto il corpo sociale. Nel complesso, queste piccole azioni quotidiane, spicciole, questa vera e propria microfisica del potere determina fenomeni sociali dalla portata più complessiva e dagli effetti più generali, effetti di cui, sovente, non sono consapevoli nemmeno i singoli attori del controllo sociale, che agiscono sulla base di telos molto più circoscritti.

A tal fine seguiremo un percorso che, delineati con maggiore precisione i presupposti teorici e metodologici da cui muoviamo (cfr.: capitolo I e II), attraverso l'analisi dell'evoluzione storica di ciò che abbiamo definito sotto-sistema penale di polizia e del suo ruolo nei processi di controllo sociale in Italia (cfr: capitolo III e IV) ci consentirà di individuare quali siano le esigenze di disciplinamento che la nostrana underclass pone oggigiorno al sistema sociale italiano (cfr.: capitolo V) e come queste vengano effettivamente soddisfatte dal nostro sistema penale (cfr.: capitolo VI).