ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Vittoria Furfaro, 2008

Qualsiasi ricerca di carattere scientifico che si prefissi l'obiettivo di trattare una tematica di carattere giuridico non solo in punto di disciplina legislativa, e dunque sotto il profilo strettamente normativo, giuspositivistico, ma anche attraverso la lente del realismo giuridico e dunque dell'"effettività" del diritto, si trova inevitabilmente dinanzi all'onere di raffrontare l'"essere" manifestato dalla concretezza dei fatti sussunti sotto una certa fattispecie giuridica, con il "dover essere" immanente alla norma stessa. Soltanto un confronto fra quanto affermato sul piano teorico-normativo e quanto realizzato sul piano pratico-applicativo consente, infatti, di "smascherare", laddove esistente, la natura velleitaria delle norme. Il conseguimento di un simile risultato peraltro non è fine a sé stesso, ma una volta liberatisi di un ingombrante velo di Maja quale quello dell'apparente "validità" di una norma in virtù dei buoni propositi da questa meramente espressi ma non conseguiti, il giurista può avanzare, de jure condendo, eventuali soluzioni interpretative di carattere correttivo o, ancora più incisivamente, eventuali proposte di riforma della stessa disciplina legislativa con la finalità di colmare o quantomeno attenuare le lacune che determinano lo scarto fra l'essere e il dover essere.

La premessa teorica testé delineata valida indubbiamente per qualsiasi ricerca di carattere giuridico, assume a nostro avviso maggior rigore e maggiore rilevanza in campi del diritto in cui sono in gioco interessi primari della persona umana, quali, ai nostri fini, il diritto alla libertà personale (art. 13 Cost.), il diritto ad una sanzione penale rispettosa del "senso di umanità" e tendenzialmente orientata "alla rieducazione del condannato" (art. 27 Cost. comma terzo), e infine il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) quale mezzo precipuo di garanzia di "un'esistenza libera e dignitosa" (art. 36 Cost.) nonché quale "funzione" attraverso cui il titolare del diritto concorre "al progresso materiale e spirituale della società" (art. 4 Cost.). Con riferimento a tali diritti, la maggiore pregnanza di una verifica della corrispondenza fra il "dover essere" normativo e l'"essere" dei risultati applicativi concretamente perseguiti e perseguibili è giustificabile sulla base del presupposto che tanto maggiore è lo scarto fra norma e sua applicazione pratica, tanto minore sarà il soddisfacimento di diritti enunciati come "fondamentali ed inviolabili" a livello normativo. Pertanto se non si vogliono ridurre i diritti fondamentali a mere enunciazioni normative prive di effettività, è fondamentale che il legislatore preveda come corollari alla norma costituzionale affermativa del diritto, altre disposizioni che introducendo doveri ed obblighi nonché adeguati strumenti di tutela giurisdizionale, ne garantiscano un'attuazione effettiva. Peraltro è altrettanto sostenibile che la prova dell'idoneità, intesa come "validità" della norma in punto di garanzia dell'"effettività" della proposizione in essa enunciata, è data ex post a seguito della relativa applicazione in concreto della norma stessa, tramite cui sono più facilmente rilevabili eventuali ostacoli o difetti di carattere teorico o pratico.

Senza soffermarsi oltre su tale premessa a carattere metodologico, si deve però evidenziare che sarà questo il metodo di ricerca che verrà impiegato nella trattazione che proporremo. Infatti la tematica del lavoro penitenziario sarà esaminata non solo sotto il profilo giuspositivista, ma anche in relazione alla realtà della praxis, in particolare analizzando la dimensione del "pianeta carcere" nell'ambito del territorio toscano. La ricerca si concentrerà innanzitutto sulla disamina della disciplina legislativa in materia di lavoro penitenziario, contenuta in particolare nella legge sull'ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975) e nel relativo regolamento di attuazione (d.p.r. 230 del 2000), con lo scopo di verificare se le enunciazioni fatte dal legislatore in materia siano effettivamente sufficienti ad assicurare il soddisfacimento del diritto-dovere di "tutti" i detenuti e gli internati di svolgere un'attività lavorativa, fondamentale durante il periodo di esecuzione della pena detentiva in quanto elemento principale del trattamento rieducativo e risocializzativo (art. 15 legge n. 354/1975, cosiddetto "ordinamento penitenziario").

Dunque partendo dal presupposto che la prestazione di un'attività lavorativa è strumento saliente per il reinserimento del detenuto entro la società libera, e conseguentemente che se il detenuto al momento della riacquistata libertà non sarà in condizione di intraprendere un'attività lavorativa verrà inevitabilmente risospinto a delinquere, il legislatore ha previsto che l'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario debbano riflettere quelli del libero circuito produttivo in modo da far acquisire al detenuto capacità e competenze professionali "adeguate alle normali condizioni lavorative", e dunque facilmente spendibili sul mercato del lavoro "libero" (art. 20 ord. pen.). Infatti se sussistessero notevoli e irragionevoli disparità di trattamento fra prestatori di lavoro detenuti e prestatori di lavoro liberi, se ne dovrebbe concludere che il lavoro penitenziario è "altro" rispetto al lavoro libero in punto soprattutto di significato e considerazione sociale dello stesso, cosicché verrebbe avallata l'idea di un lavoro penitenziario quale "effetto penale" della condanna quasi riportando in auge la teoria retributiva a carattere fortemente repressivo del "lavoro forzato". Al riguardo E. Goffman nel saggio Asylums del 1961 sostiene che l'attività lavorativa svolta in un'"istituzione totale", quale il carcere, non assume mai "il significato strutturale che ha nel mondo esterno", dal momento che sussistono "motivazioni diverse e diversi modi di considerarla". Infatti il lavoro svolto entro le istituzioni totali "viene ufficialmente conosciuto come «terapia industriale» o «ergoterapia»; i pazienti [i detenuti nel nostro caso, NdA] devono svolgere attività, di solito, molto umili, come rastrellare foglie, servire a tavola, lavorare in lavanderia o pulire i pavimenti. Sebbene la natura di questi compiti derivi dalle necessità dell'istituto, la spiegazione abitualmente data al paziente è che queste attività lo aiuteranno a reinserirsi nella società e che la capacità e la buona volontà che dimostrerà, sarà presa come evidenza diagnostica del suo miglioramento. Il paziente stesso può vedere il lavoro sotto questa luce". Il lavoro diventa secondo Goffman una delle "pratiche" utilizzate dallo "staff" penitenziario per ottenere l'adattamento della popolazione detenuta alla vita dell'istituzione totale. Questo a sua volta comporta che l'istituzione totale finisca col diventare "un luogo deputato a produrre giudizi sull'identità di chi vi partecipa", così che "impegnarsi in un tipo particolare di attività nel modo in cui viene imposta, significa accettare di essere un tipo particolare di persona, che vive in un mondo particolare".

In definitiva pertanto, proprio sul presupposto del lavoro come veicolo di reinserimento sociale dovrà incentrarsi, a nostro avviso, la trattazione che si andrà a svolgere, al fine di verificare innanzitutto la rispondenza della disciplina normativa all'obiettivo della parificazione del lavoro penitenziario al lavoro libero, e una volta risposto a tale quesito, allo scopo di verificare la perseguibilità di tale obiettivo sotto il profilo dell'applicazione pratica delle relative previsioni normative. Per quanto concerne la disciplina contenuta nell'ordinamento penitenziario, è opportuno premettere che la stessa è stata nel corso del tempo oggetto di modifiche e riforme, dal momento che l'originaria impostazione legislativa era orientata nel senso di voler "costruire" una sorta di "carcere-fabbrica" in cui l'amministrazione penitenziaria gestisse in proprio ogni tipo di attività lavorativa, dunque non solo i cosiddetti servizi interni, ma anche le lavorazioni a carattere industriale, reperendo autonomamente opportunità lavorative attraverso la fornitura di commesse provenienti da altre amministrazioni pubbliche. Inoltre le attività lavorative così impiantate all'interno degli istituti penitenziari avevano carattere auto-referenziale nel senso che le produzioni dovevano essere destinate a soddisfare innanzitutto le richieste e i fabbisogni della stessa amministrazione penitenziaria e solo in seconda battuta degli altri committenti.

Tale impostazione si è mostrata nel tempo fallace, in quanto peccava di eccessivo ottimismo nelle capacità organizzative e gestionali di un'amministrazione quale quella penitenziaria il cui compito "naturale" era ben diverso da quello di dedicarsi all'organizzazione di attività lavorative che permettessero ai detenuti di partecipare a pieno titolo al circuito produttivo del mondo libero. Così il legislatore è intervenuto agli inizi degli anni novanta attraverso alcune innovative leggi di riforma. Innanzitutto la legge n. 296 del 1993 ha aperto una breccia nelle mura del carcere a favore del mondo imprenditoriale esterno, in particolare introducendo la possibilità per imprenditori esterni, pubblici e privati, di impiantare e gestire autonomamente, senza l'intermediazione dell'amministrazione penitenziaria, delle lavorazioni all'interno degli istituti di detenzione. In particolare grande fiducia era risposta nella cooperazione sociale, che il legislatore del resto aveva cercato di coinvolgere nel problema del lavoro carcerario già al momento dell'introduzione della legge contenente la disciplina in materia di cooperative sociali (legge n. 381 del 1991), laddove aveva ritenuto opportuno annoverare fra le categorie di "persone svantaggiate", nei cui riguardi avrebbe dovuto orientarsi la finalità di mutualità esterna delle cooperative sociali, anche la schiera privilegiata di detenuti e di internati ammessi alle misure alternative alla detenzione in istituto. L'ulteriore e più recente intervento normativo di riforma in materia di lavoro penitenziario si è avuto con la legge n. 193 del 22 giugno del 2000, nota come "legge Smuraglia", con la quale il legislatore ha avanzato il proposito di rilanciare il lavoro penitenziario attraverso incentivi di carattere fiscale nonché sgravi contributivi a favore in particolare delle cooperative sociali, per le quali sussiste un regime più favorevole rispetto a quello introdotto per le imprese sia in sede di determinazione del quantum delle agevolazioni sia in punto di individuazione delle condizioni per beneficiarne.

Pare opportuno a questo punto sottolineare come entrambe le riforme cui si è fatto cenno hanno comunque superato solo in parte l'ideologia di fondo della legislazione in materia di lavoro penitenziario - la prospettiva di un carcere-fabbrica- scalfendo la presunzione di "autosufficienza" in punto di gestione delle attività lavorative da parte dell'amministrazione penitenziaria, ma avallando l'idea secondo cui il lavoro deve prevalentemente essere organizzato e svolto in carcere. In realtà accanto all'ipotesi dell'ammissione al lavoro del detenuto entro la struttura carceraria, esiste anche la possibilità per i soggetti più "meritevoli" di poter svolgere un'attività lavorativa extra moenia attraverso la concessione di una misura alternativa alla detenzione in istituto ovvero dell'istituto del lavoro all'esterno ex art. 21 ord. pen.; ciò è conforme del resto alla stessa ratio dei benefici penitenziari la quale risiede per l'appunto nel favorire il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti consentendogli un graduale ed effettivo reingresso entro la società libera

Oltre alle modalità organizzative del lavoro penitenziario - all'interno o all'esterno del carcere, alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria o di terzi- rileva in punto di equiparazione fra lavoro dei detenuti e lavoro libero anche e soprattutto la disciplina strettamente giuslavoristica, concernente in particolare i diritti e le tutele garantiti ai prestatori di lavoro. Al riguardo la disciplina dettata dalla legge sull'ordinamento penitenziario è stata ancora una volta oggetto di modifiche e riforme, soprattutto a seguito di pronunce di illegittimità costituzionali aventi ad oggetto le disposizioni concernenti i più elementari diritti di qualsiasi prestatore di lavoro, quali il diritto ad una retribuzione equa e sufficiente e di recente il diritto alla tutela giurisdizionale. Peraltro in materia di diritti e tutele del prestatore di lavoro detenuto si è avuto un florido dibattito dottrinale che ha condotto a numerosi ed attenti studi, i quali a loro volta hanno cercato di colmare in via interpretativa le più evidenti carenze della disciplina legislativa. Con riferimento a tale profilo del lavoro penitenziario, si deve comunque segnalare la difficoltà concernente il godimento sic et simpliciter da parte di detenuti ed internati di diritti orami acquisiti come fondamentali dalla cultura giuslavorista, stante la sovrapposizione frequente con la disciplina penitenziaristica: si pensi in particolare al diritto di sciopero, al diritto di riunione sindacale, al diritto ai riposi settimanali e a ferie annuali i quali certamente in linea teorica spettano anche ai prestatori di lavoro in carcere ma che potranno essere effettivamente esercitati nei limiti in cui siano compatibili col regime carcerario. Obiettivo della ricerca che si andrà a svolgere sarà dunque anche quello di evidenziare l'effettiva titolarità di tali diritti, e in caso di esito positivo i limiti in cui possono essere esercitati. Infine considerata la finalità del lavoro penitenziario di favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, pare opportuno soffermarsi nel corso della trattazione sull'esame della disciplina giuslavorista concernente in particolare i contratti con finalità formativa e di inserimento lavorativo, che peraltro meglio si attagliano per le finalità e le caratteristiche che li connotano alle esigenze sia dei datori di lavoro che dei detenuti prestatori di lavoro.

Una volta esaurita la trattazione della disciplina normativa in materia di lavoro penitenziario, di cooperazione sociale, di incentivi economici e fiscali volti al rilancio delle attività lavorative in carcere nonché dei contratti con finalità di formazione professionale e di inserimento, la ricerca verterà sull'esame di uno spaccato della realtà penitenziaria rappresentata dagli istituti penitenziari toscani, nei quali proprio a seguito dell'introduzione della legge Smuraglia, è stato avviato un interessante progetto a carattere sperimentale, avente l'obiettivo di creare un polo industriale penitenziario che comprendesse l'intero ambito territoriale di competenza del Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria (PRAP) per la regione Toscana. Al riguardo è significativo il fatto che il PRAP Toscana abbia avviato il citato progetto anticipando di gran lunga le iniziative di rilancio del lavoro in carcere proposte successivamente dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP). Tuttavia, considerato l'assetto burocratizzato che caratterizza le pubbliche amministrazioni in Italia, si è avuta nel corso del tempo una sovrapposizione di iniziative fra DAP e PRAP che hanno notevolmente rallentato i tempi di attuazione del progetto, che è dunque ancora in itinere. Ciò nonostante sembra interessante soffermarsi sull'analisi di tali iniziative in quanto si può così osservare in concreto il funzionamento, rectius l'effettività della normativa in materia di lavoro penitenziario.

Infine ci soffermeremo brevemente sull'analisi di un altro progetto di rilancio del lavoro penitenziario, in tal caso avviato dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria attraverso il Programma esecutivo d'azione n. 14 per l'anno 2003 e avente ad oggetto la cessione a terzi, in particolare a cooperative sociali, del servizio mensa. Si tratta di una sperimentazione assai significativa in quanto concerne un'attività lavorativa tradizionalmente relegata nell'ambito delle cosiddette "attività domestiche" gestite in economia dall'amministrazione penitenziaria. Così avremo modo di fare un raffronto fra l'assetto del lavoro penitenziario prima della cessione del servizio mensa a terzi da parte delle direzioni degli istituti interessati dal P.E.A. di cui si tratta, e la situazione del lavoro carcerario successiva al passaggio in gestione della testé citata attività ad alcune cooperative sociali. In particolare cercheremo di evidenziare le differenze quantitative e qualitative intercorrenti fra la "mercede" dovuta dall'amministrazione penitenziaria a titolo di remunerazione per l'attività lavorativa svolta dai detenuti e la "retribuzione" a carico invece di qualsiasi altro datore di lavoro.

In particolare attraverso l'analisi degli sviluppi e dell'attuazione del progetto di polo industriale penitenziario e del programma esecutivo d'azione n. 14, potremo verificare innanzitutto l'idoneità dell'istituto carcerario ad ospitare delle lavorazioni a carattere industriale, sotto due profili diversi: da un lato dovrà essere valutata l'adattabilità delle regole della vita carceraria rispetto alle esigenze organizzative di un'impresa di lavoro e ai ritmi dell'attività produttiva; e dall'altro lato dovrà essere vagliata l'adeguatezza "strutturale" delle carceri ad accogliere tali lavorazioni, in punto di spazi e soprattutto sicurezza dei luoghi di lavoro. In secondo luogo dovrà essere appurata la congruità e la fondatezza delle aspettative legislative in relazione sia alla fiducia riposta nelle cooperative sociali come possibili datori di lavoro per detenuti e internati in grado di ridimensionare notevolmente l'elevato tasso di disoccupazione che da sempre caratterizza "l'esercito di riserva" di manodopera lavorativa rappresentato dai detenuti; sia in relazione alla previsione di sgravi ed agevolazioni contributive come possibile chiave risolutiva al problema del coinvolgimento di cooperative sociali e soprattutto imprese private nelle attività produttive del pianeta carcere.