ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Considerazioni conclusive

Vittoria Furfaro, 2008

In ossequio alla premessa metodologica posta come incipit della trattazione sin qui svolta concernente il lavoro penitenziario, e alla luce delle informazioni acquisite esaminando la disciplina legislativa in materia, nonché analizzando come cases study le esperienze del polo industriale penitenziario in Toscana e del Programma esecutivo d'azione n. 14, si possono trarre alcune conclusioni.

Il punto di avvio è indubbiamente il dato legislativo, in quanto si deve fare il raffronto fra il "dover essere" della norma e l'"essere" della concretezza dei fatti. Ai sensi dell'art. 15 ord. pen. il lavoro penitenziario è elemento principale del trattamento rieducativo, di cui a sua volta, deve beneficiare in conformità all'art. 27 della Costituzione, ogni persona in stato di esecuzione di pena detentiva in carcere. Partendo dal presupposto che il lavoro penitenziario è considerato un "diritto" e parimenti un "obbligo" per il detenuto, proprio perché strumento a forte connotazione rieducativa, se ne è dedotto che l'amministrazione penitenziaria ha l'onere di garantire al detenuto l'ammissione ad un'attività lavorativa. Conseguentemente per assicurare l'effettività di tale previsione legislativa, dovrebbe sussistere la possibilità per il titolare del diritto-dovere al lavoro di ottenerne la tutela in via giurisdizionale, potendo in caso di violazione dello stesso, richiedere ad un giudice terzo e imparziale il soddisfacimento del proprio diritto in via coercitiva o in extremis la tutela in via meramente risarcitoria. Queste considerazioni che parrebbero ovvie tali non sono qualora titolare del diritto al lavoro sia un detenuto. Infatti da un lato l'amministrazione penitenziaria può facilmente sottrarsi all'onere cui è gravata adducendo "l'impossibilità" ad adempiervi (art. 15 secondo comma); dall'altro l'unica possibilità di tutela giurisdizionale conferita al detenuto consiste nel reclamo al magistrato di sorveglianza ex art. 69 comma quarto ord. pen., il quale peraltro può soltanto condurre ad un'ordinanza avente una valenza meramente declamatoria non essendo affiancata da strumenti che ne assicurino l'adempimento coercitivo da parte dell'amministrazione penitenziaria. Cosicché la mancata "effettività" della previsione secondo cui ai detenuti deve essere assicurato il lavoro porta con sé il rischio di scalfire anche l'"effettività" del disposto costituzionale per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Questa è sicuramente la più importante discrasia fra "dover essere" della norma ed "essere" della sua applicazione pratica.

Altra disposizione legislativa totalmente priva di effettività è quella secondo cui i posti di lavoro a disposizione della popolazione penitenziaria devono essere qualitativamente e quantitativamente dimensionati alle effettive esigenze degli istituti penitenziari (art. 25 bis ord. pen.). È sufficiente infatti dare uno sguardo alle risultanze statistiche concernenti il quantum di detenuti lavoranti entro il circuito penitenziario toscano - che è peraltro rappresentazione della situazione pressoché uniforme a livello nazionale - per rendersi conto che soltanto un esiguo numero di persone ristrette nella propria libertà personale gode del "privilegio" dell'ammissione al lavoro. E ancora sulla base delle rilevazioni concernenti il polo industriale toscano, si può sostenere la natura puramente declamatoria della previsione secondo cui il lavoro penitenziario deve essere organizzato in maniera tale da far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata al futuro reinserimento entro la società libera. Si è constatato infatti come la stragrande maggioranza dei detenuti ammessi al lavoro, svolga un'attività lavorativa alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria ed avente ad oggetto i servizi interni. Così il lavoro si concretizza in attività del tutto peculiari dell'istituto di pena, di carattere elementare e totalmente prive di qualsiasi valenza formativa tale da impedire una preparazione adeguata al libero mercato del lavoro, con notevole pregiudizio - di nuovo- per il reinserimento socio-lavorativo del detenuto.

Questo a sua volta fa dubitare dell'effettività della previsione secondo cui l'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro all'esterno, perché se così fosse verrebbero impiantate attività lavorative che rispecchierebbero le corrispondenti attività del mondo produttivo libero e il cui svolgimento avrebbe sicuramente un significato enorme in termini di preparazione professionale. Di nuovo facendo riferimento ai nostri cases study, si può sostenere che l'idea di avere all'interno del carcere delle lavorazioni penitenziarie che possano riflettere le variabili forme in cui può esplicarsi il lavoro nel mondo libero è conseguenza di un abbaglio del legislatore. Infatti l'esperienza del polo industriale toscano ha evidenziato almeno due ragioni salienti che sminuiscono la fattibilità di tale idea: innanzitutto ostano la stessa organizzazione interna della vita carceraria, scandita e sorvegliata in ogni momento, nonché le esigenze di ordine e sicurezza che caratterizzano un'istituzione totale quale quella penitenziaria, entrambi incompatibili con i ritmi e le esigenze delle attività produttive. In secondo luogo la maggior parte degli istituti penitenziari, così come dimostrano la realtà toscana e le vicende delle carceri interessate dall'attuazione del P.E.A. n. 14, sono o privi di luoghi sufficientemente ampi ed adeguati all'installazione di lavorazioni ovvero necessitano di interventi di messa a norma spesso, rectius sempre, irrealizzabili a causa della carenza dei fondi economici a ciò destinati.

Esclusa dunque l'equiparabilità in punto di organizzazione del lavoro penitenziario con l'assetto del lavoro libero, occorre trarre le dovute conclusioni sull'equiparabilità in punto di diritti e tutele fra prestatori di lavoro detenuti e prestatori di lavoro liberi. In linea teorica non verrebbe neppure da porsi tale problema in quanto dovrebbe ritenersi "scontato" che certi diritti e certe tutele ormai ritenute pacificamente delle conquiste fondamentali ed irrinunciabili per qualsiasi prestatore di lavoro spettino anche ai lavoratori detenuti. In realtà invece sebbene possa essere affermata la titolarità in capo ai prestatori di lavoro detenuti dei diritti fondamentali dei lavoratori tout court, occorre sempre riscontrarne l'effettività e dunque la possibilità di esercizio e godimento degli stessi in concreto. In tal senso è fondamentale una valutazione di compatibilità fra il diritto vantato dal lavoratore e le limitazioni di libertà che gravano sul detenuto, trattandosi nel nostro caso di due status giuridici completamente sovrapposti.

Non è un caso che con riferimento ad alcuni diritti fondamentali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione a tutti i lavoratori, siano state poste questioni di legittimità costituzionale della normativa penitenziaria in quanto ritenuta in contrasto con i precetti costituzionali e che soltanto con un intervento del giudice delle leggi si è assicurato il riconoscimento di tali diritti ai prestatori di lavoro detenuti. Si pensi al diritto a ferie annuali retribuite di cui all'art. 36 Cost., con riferimento al quale la Corte Costituzionale è dovuta intervenire per chiarire che si tratta di un diritto che compete a tutti i lavoratori "senza distinzioni di sorta" (sent. n. 158 del 2001). Parimenti soltanto nel 2006 si è avuto un intervento della Corte Costituzionale che ha finalmente riconosciuto il diritto dei prestatori di lavoro di ricorre al giudice del lavoro per le controversie in materia di lavoro e così ottenere una tutela effettiva dei diritti discendenti dalla posizione di lavoratori, non invece assicurata dal reclamo al magistrato di sorveglianza quale unico rimedio giurisdizionale in precedenza ammesso (sent. n. 341 del 2006). E rimangono peraltro insoluti altri nodi interpretativi, relativi al riconoscimento del diritto di associazione sindacale, nonché del diritto di riunione sindacale e del diritto di sciopero che per quanto possano essere ritenuti spettanti anche ai prestatori di lavoro detenuti, risultano compressi notevolmente in punto di esercizio considerate le caratteristiche del modus vivendi all'interno degli istituti penitenziari ovvero delle esigenze derivanti dall'esecuzione della pena detentiva qualora si tratti di condannati ammessi al lavoro all'esterno o ad una misura alternativa alla detenzione. Se ne deve concludere che tali diritti spettano anche ai prestatori di lavoro in quanto diritti fondamentali, ma non possono essere esercitati se non con notevoli limitazioni: è evidente che un diritto privo di effettività si risolve in mera declamazione normativa.

Terminando sui diritti spettanti al prestatore di lavoro detenuto, si deve rilevare come ancora sussista una notevole differenziazione rispetto ai prestatori di lavoro liberi in punto di determinazione della "mercede". Si è avuto modo di specificare come tale disomogeneità di trattamento sia ammessa dal legislatore - e peraltro ritenuta legittima dalla Corte costituzionale - soltanto con riferimento ai detenuti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, tuttavia considerando che si tratta del rapporto di lavoro che riguarda la maggior parte dei detenuti, ha delle ripercussioni notevoli soprattutto in punto di significato del lavoro penitenziario, quasi che si trattasse di un lavoro di valenza minore rispetto a quello libero. E ancora manca un'esplicita previsione legislativa concernente il diritto al trattamento di fine rapporto ai detenuti lavoranti, che sebbene spettante anche a tale categoria di prestatori di lavoro in quanto non sussistono particolari ragioni in senso contrario, di fatto non viene riconosciuto.

In definitiva perciò, dopo aver escluso l'assimilabilità delle modalità e dell'organizzazione del lavoro penitenziario all'assetto del lavoro libero, si deve parimenti escludere una piena equiparabilità in punto di diritti e tutele fra prestatori di lavoro detenuti e prestatori di lavoro liberi. Si tratta evidentemente di due realtà del circuito produttivo assai diverse, stante anche il "luogo di produzione" quantomeno singolare che caratterizza il lavoro penitenziario. La presa d'atto di tale diversità, a nostro avviso, non va intesa come disconoscimento del ruolo e dell'importanza del lavoro penitenziario, avendo sempre a mente la finalità rieducativa che lo connota, ma al contrario come punto di partenza per prospettare soluzioni alternative.

Prima di proporre eventuali rimedi, è opportuno trarre un'ulteriore conclusione, questa volta sulle strategie di rilancio del lavoro penitenziario seguite da ultimo dal legislatore. Si è visto infatti come il perseguimento della piena occupazione di detenuti ed internati sia stato affidato in particolare a due meccanismi correttivi del mercato del lavoro carcerario: da un lato il favor legislativo nei confronti delle cooperative sociali, per l'appunto finalizzate al reinserimento di persone svantaggiate; e dall'altro lato l'introduzione di sgravi contributivi ed agevolazioni fiscali per incentivare le assunzioni di detenuti lavoranti sia da parte delle cooperative che delle imprese pubbliche o private. Si è parimenti sottolineato però come si sia trattato di un tentativo che ha condotto a risultati modestissimi, infatti facendo riferimento nuovamente all'esperienza del polo industriale toscano si è evidenziato come l'assetto del lavoro penitenziario non sia cambiato a seguito dell'entrata in vigore dell'agognata legge Smuraglia: veniva rilevato infatti come la maggior parte dei detenuti fosse ancora dipendente dall'amministrazione penitenziaria e parimenti per lo più impiegata in servizi interni. Mentre i detenuti lavoranti alle dipendenze di terzi risultavano nella maggior parte dei casi impiegati da cooperative sociali, così come voluto dal legislatore, avendo indubbiamente le stesse il merito di preoccuparsi oltre che del profitto economico anche del guadagno umano derivante dal reinserimento lavorativo di soggetti ai margini del mercato del lavoro. Tuttavia è anche da rilevare che le cooperative sociali proprio perché svolgono il proprio ruolo con criteri non prettamente economici, necessitano di costanti finanziamenti e sovvenzioni. Da ciò discende la "precarietà" che caratterizza l'attività produttiva delle cooperative sociali, in quanto qualora venissero meno gli apporti finanziari esterni, le stesse non sarebbero in grado di sopravvivere autonomamente. Da questo punto di vista dunque le imprese sarebbero in grado di fornire ai detenuti occasioni di lavoro e di reinserimento sociale più stabili nel tempo.

Si è anche accennato alle difficoltà e alla riluttanza delle imprese di installare lavorazioni penitenziarie all'interno del carcere, essendo queste poste al rischio di essere compromesse per ragioni esterne alla produzione, attinenti strettamente al mondo penitenziario. Cosicché sembra sostenibile la deduzione per cui il coinvolgimento di imprese e cooperative sociali può avvenire soprattutto favorendo l'apertura delle carceri, ma in senso inverso rispetto alla tendenza perseguita finora dal legislatore di sollecitare l'ingresso delle imprese e delle cooperative negli istituti penitenziari, tentando di farvi ivi impiantare delle attività lavorative. Al contrario la direzione indicata dalle esperienze in itinere, in particolare dagli scarsi successi così conseguiti, va nel senso di incentivare l'"ingresso" del carcere nelle imprese e nelle cooperative favorendo una maggior osmosi fra penitenziario e mondo "libero" attraverso le misure alternative alla detenzione e il lavoro all'esterno.

Alla luce di quest'ultima considerazione peraltro, si spiegherebbero di per sé gli scarsi risultati ottenuti dal progetto di polo industriale, volto più che altro ad impiantare "dentro le mura" le attività produttive nonché, e soprattutto, il fallimento delle aspettative riposte nella legge Smuraglia quale presupposto alla base di tale progetto. In realtà la legge n. 193 del 2000 ha colto nel segno laddove ha previsto degli sgravi contributivi e fiscali per incentivare l'assunzione da parte di imprese e cooperative sociali di detenuti ed internati, tuttavia il legislatore ha ancora una volta avallato l'idea, se è concesso utopica, di un carcere-fabbrica in cui possano essere adeguatamente organizzate delle efficienti attività produttive. L'errore dunque potrebbe essere rivenuto nel voler rendere "sensibili" le imprese e le cooperative sociali al problema del lavoro penitenziario subordinando però il loro impegno alla condizione sine qua non secondo la quale le attività lavorative "devono" essere organizzare all'interno degli istituti penitenziari, senza possibilità di soluzione alternativa.

Se venisse invece avallata l'idea di favorire il lavoro penitenziario all'esterno dell'istituto penitenziario attraverso le misure alternative alla detenzione e presso datori di lavoro terzi rispetto all'amministrazione penitenziaria, verrebbero contestualmente risolti almeno altri due ordini di problemi su evidenziati: da un lato sarebbe indubbiamente assicurata una maggiore uniformità di trattamento in punto di diritti e tutele fra prestatori di lavoro detenuti e prestatori di lavoro liberi, quali in particolare il diritto ad una retribuzione proporzionata all'attività lavorativa svolta, e sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa, nonché i diritti economici conseguenti al rapporto di lavoro, in primis il diritto al trattamento di fine rapporto.

Conseguentemente verrebbe garantita ai detenuti la possibilità di svolgere un'attività lavorativa "vera" dotata di un enorme valenza formativa sul piano della preparazione professionale, ma soprattutto in grado di assolvere effettivamente il ruolo di strumento di reinserimento sociale in quanto il prestatore di lavoro detenuto verrebbe inserito a pieno titolo nel "reale" circuito produttivo. Questo a sua volta avrebbe un enorme significato in punto di presa di coscienza da parte del detenuto del proprio ruolo e della propria importanza sociale concorrendo anche questi concretamente al "progresso materiale e spirituale della società". Soltanto così verrebbe garantita in un colpo solo l'effettività del diritto-dovere al lavoro dei detenuti e del principio della finalità rieducativa della pena, altrimenti mere e velleitarie enunciazioni legislative.