ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo secondo
Il processo penale minorile

Nastassya Imperiale, 2007

In questo capitolo saranno esaminati i principi che stanno alla base del processo penale minorile disciplinato dal D.p.r. 22 settembre n. 448 del 1988, che ha recepito le indicazioni delle principali fonti internazionali in materia minorile e della Costituzione, differenziandolo dal processo penale ordinario. In particolare, è fornito un quadro degli istituti giuridici che favoriscono una rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale. Questi istituti consentono di finalizzare il processo alla responsabilizzazione e non alla punizione del minore, facilitando la riparazione dei danni e la risoluzione del conflitto generato dal reato. Sono questi istituti che hanno consentito l'introduzione di un percorso di mediazione tra minore autore del reato e vittima.

1. I principi del D.P.R. 1988, n. 448

In conformità all'art. 31, comma 2, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere "la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo", l'ordinamento italiano disciplina l'esercizio della giurisdizione penale nei confronti dei minori autori di reato perseguendo non soltanto fini di punizione, ma anche e soprattutto finalità educative. Tali finalità nascono dalla necessità di adeguare l'intervento penale alle esigenze educative degli imputati minorenni, in conformità alla stessa funzione rieducativa della pena affermata nell'art. 27, comma 3 Costituzione. Per conseguire tali finalità, l'ordinamento giuridico ha istituito degli organi giurisdizionali specializzati, in aderenza al dettato dell'art. 102, comma 2 Cost., che prevede la possibilità di istituire delle sezioni specializzate per determinate materie presso gli organi giudiziari ordinari, "con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura", esperti in materie dell'età dell'evoluzione.

In particolare sono state adottate delle norme processuali idonee a favorire un'indagine accurata sulla personalità del minorenne, per evitare gli effetti stigmatizzanti derivanti dal contatto del minore imputato con la giustizia penale, e trasformare il processo in un'occasione per mettere in atto delle misure educative nei suoi confronti. In passato queste forme processuali erano previste dal r.d.l. 20 luglio 1934, n.1404 ("Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni"), il quale oltre a contenere norme sostanziali, prevedeva delle norme processuali appositamente create per i minori imputati, ottenute anche apportando le necessarie modifiche al codice di procedura penale del 1930. La delega data al governo con la legge n.81 del 1987 per la riforma del codice di procedura penale fu anche l'occasione per riformare il processo penale minorile, che oltretutto andava adeguato alle disposizioni internazionali in materia, in particolare alle "Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile", c.d. "Regole di Pechino", approvate dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1985.

La legge delega n. 81 del 1987, dopo aver enunciato nell'art. 2 i principi informatori del nuovo codice di procedura penale, all'art. 3 ha delegato il governo "a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione". Queste modificazioni e integrazioni sono di seguito enunciate in una serie di criteri, indicati con le diciannove lettere dell'alfabeto. Tale delega è stata attuata con i quarantuno articoli del D.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 ("Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni"), integrato dal D.p.r. 22 settembre 1988, n. 449, recante le norme di adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale e a quello minorile, e dal d.lgs. 28 luglio 1989, n. 272, recante le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie allo stesso d.p.r. n. 448 del 1988. Tutti questi provvedimenti sono entrati in vigore il 24 ottobre 1989 insieme al codice di procedura penale. Inoltre il d.p.r. n. 448 del 1988 è stato modificato, soprattutto con riferimento ai provvedimenti in materia di libertà personale, dal d.lgs. 14 gennaio 1991, n.12. I criteri indicati nell'art. 3 della legge delega costituiscono i tratti fisionomici del processo penale minorile, dai quali è possibile individuare i principi ispiratori del nuovo processo penale minorile, introdotti nel D.p.r. 22 settembre n. 448 del 1988.

1) Principio di adeguatezza.

Esso si ricava dall'art. 1, comma 1, d.p.r. n. 448 del 1988 il quale dispone: "Nel procedimento a carico di imputati minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale. Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne". Questo principio viene in rilievo in due modi diversi, poiché il concetto di adeguatezza fa riferimento non soltanto alle norme del codice di procedura penale, le quali si trovano in rapporto di sussidiarietà rispetto alle disposizioni del d.p.r. n. 448 del 1988, e che quindi devono essere applicate in modo adeguato ai principi dello stesso, e che Palomba definisce "adeguatezza come criterio di acquisizione delle norme sussidiarie del cpp", (1) ma anche alle norme del processo penale minorile che devono essere applicate tenendo presente le esigenze educative del minore e in modo adeguato alla sua personalità, quindi dice Palomba, "adeguatezza come criterio di individuazione della modalità di applicazione delle disposizioni facenti parte del sistema normativo processuale penale minorile", (2) in conformità con la finalità educativa e responsabilizzante del processo penale minorile. La finalità educativa del processo minorile è rilevata anche da Carlo Alfredo Moro, il quale dice:

La riforma sottolinea con molta forza che il processo penale deve avere come suo obiettivo quello di realizzare una ripresa dell'itinerario educativo del minore, che il compimento dell'atto criminale dimostra essersi interrotto o avere deviato, ma prevede anche che lo stesso processo si articoli in modo tale da poter contribuire allo svolgimento di questo itinerario, avendo esso stesso valenze educative. (3)

La funzione pedagogica del processo penale minorile emerge ancora dal già ricordato art. 1, il quale al comma 2, sancisce che "il giudice illustra all'imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico- sociali delle decisioni". Sempre in tale ottica, l'art. 10 dichiara l'inammissibilità nel processo penale minorile dell'esercizio dell'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato, ciò per evitare che un processo costruito con finalità educative sia snaturato da interessi meramente economici. Anche la disposizione contenuta nell'art. 19 stabilisce che il giudice nel disporre le misure cautelari, deve tenere conto "dell'esigenza di non interrompere i processi educativi in atto".

Per conseguire la finalità educativa, il legislatore ha stabilito la necessità di una specializzazione di tutti gli operatori del procedimento penale minorile, assicurata dall'individuazione degli organi giudiziari minorili. Tra questi, particolare rilievo assume il Tribunale per i minorenni quale organo giurisdizionale di primo grado, mentre organo giurisdizionale di secondo grado è l'apposita sezione di Corte d'appello, presso la quale svolge le funzioni di Pubblico ministero il Procuratore generale della Corte d'appello. In fase esecutiva, è prevista la presenza del Magistrato di sorveglianza per i minori.

2) Principio di minima offensività del processo.

Questo principio si basa sulla constatazione che il processo in sé può causare all'imputato delle sofferenze, soprattutto per il minore imputato il processo se non adattato alle esigenze della sua età può essere causa di sofferenze indelebili. Proprio per questo il processo penale minorile ha introdotto delle disposizioni che hanno come scopo quello di arrecare il minor danno al minore imputato. A tale fine il d.p.r. n. 448 del 1988 prevede degli istituti processuali che tendono a porre fuori dal circuito penale il minore in modo anticipato. È il caso della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, emessa quando l'ulteriore corso del processo può arrecare pregiudizio alle esigenze educative del minore (art. 27 c.p.p. min.). Questo istituto mette in evidenza la capacità offensiva che il processo come tale può avere nei confronti del minore, e ha come finalità l'eliminazione di un'inutile afflittività del processo in tutte quelle ipotesi, in cui la tenuità del fatto e l'occasionalità della condotta, non sia giustificata da una specifica finalità educativa e responsabilizzante, per questo motivo il legislatore ha previsto la necessità che il processo si concluda quando la sua prosecuzione non coincide con un'esigenza educativa del minore. Anche l'estinzione del reato per esito positivo della prova, evita al minore gli effetti stigmatizzanti di una condanna penale, quando il giudice ritiene opportuno esaminare la personalità del minore in maniera più compiuta. Inoltre, anche le misure cautelari devono essere attuate in modo da evitare il più possibile al minore, i disagi e le sofferenze materiali e psicologiche, che possono derivare dalla loro applicazione, avendo cura di non interrompere i processi educativi in corso.

3) Principio di de- stigmatizzazione.

Anche questo principio può essere inserito nella logica del principio di minima offensività, perché riguarda l'identità sociale del minore, che si vuole tutelare attraverso l'eliminazione di tutti quegli istituti che comportano una stigmatizzazione. Per Di nuovo e Grasso il processo penale minorile evidenzia:

Una speciale attenzione alla personalità dell'imputato, sia per le modalità processuali, che devono essere comunque tali da ridurre al minimo il danno che il processo penale ingenera per il fatto stesso d'essere impiantato, sia dal punto di vista esogeno della stigmatizzazione sociale, che da quello endogeno del trauma intrapsichico o del danno pedagogico che può causare. (4)

Sono espressione del principio di de- stigmatizzazione, gli istituti dell'irrilevanza del fatto e della messa alla prova, che limitano il contatto del minore con il sistema penale. Inoltre, sempre al fine di evitare al minore effetti stigmatizzanti, è stabilito che la sentenza che pronuncia l'estinzione del reato per esito positivo della prova non è iscritta nel casellario giudiziale. Inoltre, l'art. 13 c.p.p. min., sancisce il divieto di pubblicazione e di divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie o immagini idonee a consentire l'identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento. Anche la non pubblicità del dibattimento, stabilita dall'art. 33 c.p.p. min., serve a mantenere una percezione sociale positiva del minore, la stessa deroga a questo principio, prevista dal secondo comma, è concessa dal collegio giudicante solo nell'esclusivo interesse del minore. Sempre al fine di ridurre gli effetti stigmatizzanti che derivano dal processo, il codice di procedura penale minorile prevede delle disposizioni restrittive riguardanti le iscrizioni nel casellario giudiziale. A tale fine, il quarto comma dell'art. 5, d.p.r. 14 nov. 2002, n. 313, che disciplina il casellario giudiziale, stabilisce che le "iscrizioni di provvedimenti giudiziari relativi a minori di età sono eliminate al compimento del diciottesimo anno di età della persona cui si riferiscono, eccetto quelle relative al perdono giudiziale, che sono eliminate al compimento del ventunesimo anno, ed eccetto quelle relative ai provvedimenti di condanna a pena detentiva anche se condizionalmente sospesa". Allo stesso modo è fatto divieto di consegna di certificazioni riguardanti le iscrizioni nel casellario per i minorenni a persona diversa da quella alla quale si riferiscono, poiché questa limitazione è funzionale a tutelare l'identità sociale positiva del minore. Anche l'obbligo previsto per la polizia giudiziaria, dall'art. 20 disp. att. min., di adottare le opportune cautele nell'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, è funzionale a tutelare il minore dalla curiosità del pubblico, e quindi a ridurre i rischi di una stigmatizzazione. Come dice Isabella Mastropasqua, l'intervento penale dunque non si configura come:

Un intervento meramente segregante e stigmatizzante, bensì teso al recupero di quel processo educativo interrotto o deviato. Il nuovo processo penale, infatti, "offre delle occasioni educative". Si punta dunque su un processo inteso come momento importante per fare chiarezza insieme al minore, per aiutarlo ad interiorizzare le regole fondamentali del vivere civile. (5)

4) Principio di auto selettività.

Il processo penale minorile conosce dei meccanismi deflattivi maggiori rispetto al processo penale ordinario. Ne sono espressione i già ricordati istituti dell'irrilevanza del fatto e la sospensione del processo per messa alla prova.

5) Principio di indisponibilità del rito e dell'esito del processo.

A differenza di quanto previsto per il processo penale ordinario, il processo penale minorile è dominato dal principio d'indisponibilità del rito, poiché il giudice può disporre l'accompagnamento coattivo dell'imputato non comparso, così come stabilisce il primo comma dell'art. 31 c.p.p. min. Altra conferma a tale principio deriva dal divieto per l'imputato minorenne di patteggiare la pena, contrariamente a quanto previsto per il processo penale ordinario. La Scivoletto dice:

Anche il criterio dell'indisponibilità del rito e dell'esito evidenziano l'intenzionalità legislativa orientata a che il rito minorile non venga interpretato dal minorenne come strumento che può utilitaristicamente essere "aggiustato" ai propri fini. (6)

6) Principio di residualità della detenzione.

Ci sono tantissime disposizioni del d.p.r. 1988, n. 448 dal quale emerge la funzione di extrema ratio della pena detentiva. Questo principio risulta in maniera evidente dall'art. 16 c.p.p. min., che indica le condizioni per procedere all'arresto e al fermo, e dall'art. 23 c.p.p. min., per la custodia cautelare, e dall'ampia possibilità di ricorrere alle sanzioni sostitutive. Inoltre, la stessa Corte Costituzionale in molte pronunce ha avuto modo di ribadire tale principio, in particolare nella sentenza n. 412 del 1990, la Corte rileva come l'esigenza del recupero del minore è talmente preminente da prevalere sulla pretesa punitiva dello Stato, anche con riferimento a reati puniti con la pena dell'ergastolo, per cui si può dedurre che la pena detentiva va considerata come ultima ratio. (7) Inoltre in un sistema di giustizia minorile teso al recupero sociale del minore deviante, vi è la necessità di risposte ai fatti di devianza minorile che prescindano dalla logica punitiva. Infatti, Pennisi afferma:

Di qui, la necessità di trattare diversamente il minore, differenziando il regime sanzionatorio rispetto a quanto previsto dal sistema punitivo generale. Difatti, la diversità esistente tra minore ed adulto impone la creazione di un sistema ad hoc dove, peraltro, il ricorso alla pena detentiva svolga, effettivamente, il ruolo di ultima ratio. (8)

Inoltre la Corte con la sentenza n. 168 del 1994 ha denunciato, la radicale incompatibilità della previsione della pena dell'ergastolo anche nei confronti del minore, in violazione degli artt. 27, comma 3 e 31, comma 2 Cost. (9)

Il ruolo di ultima ratio della pena detentiva emerge ancora, dalla sentenza n. 450 del 1998, nella quale la Corte sollecita il legislatore a creare per i minori un regime differenziato di esecuzione delle pene e delle modalità di accesso alle misure alternative alla detenzione. (10)

2. La definizione anticipata del processo penale minorile

Nel processo penale minorile un ruolo fondamentale è assegnato allo studio e alla valutazione della personalità del minore imputato, tanto da essere stato definito il processo 'del fatto' e 'della personalità'. Tuttavia non è facile conciliare l'interesse per la persona del minore, che deve essere tutelata nei suoi diritti di crescita, e l'interesse dello Stato alla punizione del reato, come fatto lesivo dell'ordine sociale. La convivenza all'interno del processo penale minorile della tutela e della punizione, ha indotto, come abbiamo visto, il legislatore ha creare delle vie di fuga dal circuito penale, mediante l'introduzione di istituti giuridici che privilegiano le finalità risocializzanti.

2.1 La immediata declaratoria della non imputabilità

L'art. 97 cod. penale dispone che non è imputabile chi, al momento del fatto, non aveva compiuto i quattordici anni. A tale fine, il d.p.r. n. 448 del 1988, ha previsto all'art. 26 che in ogni stato e grado del procedimento il giudice, quando accerta che l'imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche d'ufficio, sentenza di non luogo a procedere trattandosi di persona non imputabile. Questa norma a dato luogo a numerosi dubbi interpretativi, a causa della possibilità di emettere sentenza di non luogo a procedere anche nella fase delle indagini preliminari. Invece, l'art. 98 cod. penale, subordina l'imputabilità del minore ultraquattordicenne alla valutazione della capacità di intendere e di volere. Esso stabilisce che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d'intendere e di volere; ma la pena è diminuita.

La capacità d'intendere e di volere del minore non può essere presunta, ma deve essere dimostrata nel caso concreto con ogni mezzo di prova, mediante una valutazione globale della personalità del minore. Così è stato stabilito da una decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione:

La capacità d'intendere e di volere del minore, che abbia compiuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto anni, non è presunta come per l'imputato maggiorenne, ma dev'essere obbligatoriamente accertata, a pena di nullità, in concreto e con riferimento al singolo episodio criminoso dal giudice di merito, il cui convincimento costituisce un apprezzamento di fatto insindacabile in cassazione se sorretto da adeguata motivazione, esente da vizi logici e giuridici. (11)

Il concetto d'incapacità d'intendere e di volere di cui all'art. 98 è diverso da quello indicato nell'art. 85 c.p. per l'imputato adulto. Esso si fonda sul concetto di maturità, avente natura psicologica, e contenuto ampio. La maturità del minore, si ricava non soltanto dallo sviluppo intellettivo dello stesso, ma anche dalla sua capacità di determinarsi e di capire il significato delle sue azioni, dalla capacità di valutare il carattere morale, e le conseguenze del fatto. Per Moro:

La capacità su cui si radica l'imputabilità esige non solo un accertamento della capacità del minore di rendersi conto della significanza antisociale dell'atto che pone in essere ma anche la capacità di valutarne le conseguenze indirizzando la sua volontà in una direzione scelta con raziocinio e non sulla base di incontrollabili impulsi sostanzialmente infantili. (12)

Perciò, la valutazione della capacità di intendere e di volere del minore si risolve in un giudizio di natura psicologica che deve tenere in considerazione tutti gli elementi di natura familiare, morale, culturale e ambientale rilevanti per la sua determinazione. (13) A questo fine, può essere utile per il giudice considerare anche la gravità del reato commesso. La Cassazione a questo proposito ha stabilito che:

Il giudice non è tenuto a nominare un perito per accertare la capacità di intendere e di volere del minore infradiciottenne, potendola accertare con altri mezzi e potendosi basare per tale accertamento sulla natura del reato, sulle modalità del fatto delittuoso, sul contegno del minore nel corso dell'impresa criminosa e durante il processo. (14)

Poiché la capacità d'intendere e di volere non può essere presunta, ma deve essere dimostrata, in caso di dubbio sulla sua sussistenza il minore deve essere dichiarato non imputabile. Inoltre, la mancanza di capacità d'intendere e di volere nel processo minorile non ha niente a che vedere con l'esistenza di una causa d'infermità mentale. Infatti, il concetto d'infermità mentale è ulteriore e diverso da quello d'immaturità. Pertanto, il loro accertamento deve essere oggetto d'indagine specifica. Di conseguenza quando sia accertata la presenza al momento della commissione del fatto di un vizio totale di mente, il minore deve essere assolto, a norma dell'art. 88 c.p.

La Azzacconi afferma che:

L'incapacità dipendente dall'immaturità, (concetto diverso dal vizio di mente in quanto il minore può essere immaturo pur se sano di mente) è globale e riguarda non solo il carente sviluppo delle facoltà intellettive e volitive, ma anche l'inadeguato sviluppo della coscienza morale, che consente di orientare la propria condotta secondo quei principi fondamentali per la convivenza nella società. Inoltre l'immaturità deve essere valutata in rapporto al tipo di reato commesso in quanto la capacità del soggetto può sussistere rispetto ad alcuni particolari reati e mancare rispetto ad altri e ciò in rapporto ai diversi livelli di maturazione individuale. E' intuitivo che non si esige dal minore lo stesso grado di sviluppo di maturazione mentale ed etica che si riscontra nell'adulto. (15)

Infatti, anche la Cassazione ha stabilito che, contrariamente all'infermità mentale:

L'incapacità di intendere e di volere da immaturità ha carattere relativo, nel senso che, trattandosi di qualificazione fondata su elementi non soltanto biopsichici, ma anche socio- pedagogici, relativi all'età evolutiva, l'esame della maturità mentale del minore va compiuta con stretto riferimento al reato commesso. Nel caso di delitti contro la persona e la proprietà è sufficiente un grado di maturità meno spiccato rispetto a quello richiesto da altre condotte penalmente sanzionate la cui contrarietà alle esigenze della vita di relazione non è immediatamente evidente. (16)

Nel periodo antecedente l'emanazione del nuovo processo penale minorile, l'istituto della non imputabilità è stato utilizzato in funzione di una depenalizzazione di fatto. L'uso dell'istituto in esame, per finalità di politica criminale contribuisce a deresponsabilizzare il minore di fronte alle sue azioni, per questo motivo è preferibile ricorrere alla pronuncia d'immaturità solo quando corrisponde a un effettivo limitato sviluppo della personalità del minore. Il nuovo processo penale minorile, dovrebbe in questo senso consentire un'applicazione meno estesa di questo istituto, grazie all'introduzione di altre formule definitorie, quali gli istituti dell'irrilevanza del fatto e della sospensione del processo con messa alla prova. Per Giannino:

Le nuove formule definitorie del processo minorile riducono sempre più l'applicabilità dell'istituto per finalità deflattive rendendolo invece applicabile nei soli casi in cui la pronuncia è dettata da una effettiva non imputabilità attinente ad un limitato e reale sviluppo della personalità. (17)

L'istituto può essere applicato solo in sede di udienza preliminare o in sede di udienza dibattimentale. La sentenza di proscioglimento per non imputabilità s'iscrive nel casellario giudiziale, ma l'iscrizione si cancella al compimento del diciottesimo anno di età.

2.2 L'irrilevanza del fatto

Questo istituto poggia le sue basi sulla scarsa rilevanza sociale del fatto reato. Esso nasce nell'ambito del contesto culturale che accompagnò l'emanazione di documenti internazionali quali le "Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile", c.d. Regole di Pechino, emanate dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1985, e la Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 20 del 1987 sulle "Reazioni penali alla delinquenza minorile". Entrambi i documenti, incoraggiano gli Stati ad adottare nell'ambito della giustizia penale minorile delle misure di "diversion", cioè di degiurisdizionalizzazione. La sentenza n. 250 del 1991 della Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 27 d.p.r. n. 448 del 1988 per eccesso di delega, poiché pur se inserita in un contesto processuale introduce un istituto di natura sostanziale, che implica un giudizio sull'evento e sulla condotta, in violazione dell'art. 76 Cost., in quanto la legge delega non prevedeva la possibilità di introdurre una nuova formula di proscioglimento connessa a situazioni sostanziali. La Corte ha anche osservato che "la formula di proscioglimento di cui all'art. 27 conferisce al pubblico ministero un potere dispositivo sull'azione penale, con violazione dell'art. 112 della Costituzione". (18) La corte stabilisce che viene sacrificato anche il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in nome di un favor minoris.

Il legislatore reintroduce l'istituto dell'irrilevanza del fatto con la legge 5 febbraio 1992, n. 123. Nella sua originaria formulazione l'art. 27 prevedeva la pronuncia di non luogo a procedere soltanto nella fase delle indagini preliminari. Con la legge 1992, n. 123 è stato aggiunto un quarto comma, che estende la previsione della sentenza di non luogo a procedere anche alla fase dell'udienza preliminare, al giudizio immediato e al giudizio direttissimo. Perciò, l'art. 27 dispone che, sia nel corso delle indagini preliminari (se vi è richiesta del pubblico ministero), sia nell'udienza preliminare, sia nel giudizio direttissimo, sia nel giudizio immediato (in questi casi senza richiesta del pubblico ministero), se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne. La sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto presuppone un fatto penalmente rilevante, positivamente accertato. La formulazione vaga della disposizione ha creato numerosi dubbi interpretativi. Per quanto concerne il requisito della tenuità del fatto, l'applicazione dell'istituto non risulta subordinata, al rispetto di limiti di gravità astratta del reato o a limiti edittali di pena. In realtà sembra che, come sostiene la Locci:

Il legislatore non abbia richiesto una tenuità qualificata, legittimando così l'applicabilità dell'istituto anche nei confronti di fatti di non particolare tenuità. Come pure va ritenuto che la scelta di riferire la tenuità al fatto piuttosto che al danno prodotto legittimi ed orienti verso un'applicazione più estesa dell'istituto. (19)

Anche Di Nuovo e Grasso sostengono che:

I La tenuità va riferita al fatto, da intendersi non in senso naturalistico (l'evento accaduto), ma il più latamente possibile: la condotta dell'agente e, quindi, la carica di oppositività dimostrato (intensità del dolo e grado della colpa), le circostanze dell'azione, le modalità e i mezzi utilizzati, il movente; il danno procurato alla vittima; l'allarme procurato alla società. (20)

Questa è la linea interpretativa seguita dalla dottrina, che usa come parametri di valutazione gli indici di gravità previsti nella prima parte dell'art. 133 cod. penale, mentre la giurisprudenza esprime diversi orientamenti, anche se anch'essa ricorre agli indici di gravità di cui all'art. 133 cod. penale, per dare più concretezza al concetto di tenuità, legittimando delle valutazioni basate sulla tenuità del fatto specifico, sulla tenuità delle modalità di condotta, sull'intensità del dolo o del grado della colpa, sulla tenuità del danno e dell'allarme suscitato dal reato. Il secondo requisito, indicato nell'art. 27 c.p.p. min., è l'occasionalità del comportamento. Anche riguardo a questo requisito dottrina e giurisprudenza al loro interno hanno diversi orientamenti. L'occasionalità è comunque riferita al comportamento, e non al fatto. La dottrina maggioritaria ritiene che questo requisito non possa essere riferito a un criterio di seriazione dei fatti, cioè a un criterio cronologico dei fatti, né al criterio della recidiva. Piuttosto ritiene che sia un requisito di carattere psicologico, volto a valutare l'atteggiamento del minore rispetto all'azione delittuosa, solamente in questo modo le indagini sulla personalità del minore acquistano rilevanza. Palomba ritiene che il comportamento è occasionale quando:

L'atto è frutto di circostanze particolari attinenti al momento, e quindi non è voluto o cercato o premeditato. Se così fosse, l'occasionalità potrebbe prestarsi ad essere valorizzata in rapporto alla particolare condizione di variabilità tipica dell'adolescente, che agisce sovente sulla base di pulsioni momentanee (occasionali) piuttosto che sulla base di progetti, programmi, disegni, piani, ragionamenti: di modo che il comportamento trasgressivo potrebbe considerarsi occasionale quando non è frutto di una scelta deviante precisa o sufficientemente orientata. (21)

Anche per una parte della giurisprudenza, l'occasionalità non può essere intesa in senso meramente cronologico, ma va considerata in senso psicologico, e quindi quando l'azione criminosa è frutto della condizione di variabilità tipica dell'adolescenza, senza che sia espressione di una scelta strutturata in senso trasgressivo. In questi casi, possiamo configurare l'irrilevanza del fatto come una rinuncia da parte dello Stato a perseguire l'autore del reato perché il comportamento dello stesso non mostra una personalità strutturata in modo deviante. (22) Altra parte della giurisprudenza ritiene invece che il requisito dell'occasionalità sia legato alla valutazione della recidiva, considerandola un ostacolo per la concessione della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. (23)

Un ulteriore requisito dell'istituto dell'irrilevanza del fatto è il pregiudizio per le esigenze educative del minorenne. La presenza dei requisiti oggettivi della tenuità del fatto e dell'occasionalità del comportamento, infatti, non è sufficiente a fondare la sentenza di non luogo a procedere. Il procedimento si deve chiudere solo se la sua prosecuzione è pregiudizievole per le esigenze educative del minorenne, per cui anche alla presenza di un fatto socialmente irrilevante esso potrebbe proseguire se tale requisito fosse assente. Per la dottrina la finalità deflattiva, tipica dell'irrilevanza del fatto, e l'esigenza della minima offensività del processo minorile devono essere entrambe presenti per potersi avere sentenza di non luogo a procedere, in caso contrario il processo potrebbe proseguire senza che ci sia un interesse dello Stato a perseguire un fatto giudicato come socialmente irrilevante. Perciò l'interpretazione più corretta sembra quella di ritenere che alla presenza dei due presupposti interagenti, la sentenza di non luogo a procedere non è emessa solo quando la prosecuzione del processo è considerata utile per le esigenze educative del minore. (24) Solo se interpretata in questo modo, la norma è espressione dei principi di destigmatizzazione e di minima offensività.

Per quanto riguarda il procedimento, l'art. 27 c.p.p. min. ne indica le linee portanti. Il comma 2, dell'art. 27 stabilisce che "sulla richiesta il giudice provvede in camera di consiglio sentiti il minorenne e l'esercente la potestà dei genitori, nonché la persona offesa dal reato. Quando non accoglie la richiesta il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero". Il comma 1, dell'art. 27 c.p.p. min., sembra delineare un procedimento speciale, volto a ottenere una chiusura anticipata del procedimento nel corso dell'indagine preliminare, alla presenza di un fatto socialmente irrilevante. Solamente il Pubblico ministero può avanzare tale richiesta, in qualità di dominus dell'indagine preliminare. L'irrilevanza del fatto può tuttavia essere pronunciata anche in sede di udienza preliminare, ai sensi del primo comma dell'art. 32 c.p.p. min., oltre che in sede di giudizio immediato e di giudizio direttissimo in conformità del quarto comma, dell'art. 27. Questa previsione fa sì che se il Pubblico ministero ha deciso di portare a termine l'indagine preliminare per chiedere il rinvio a giudizio, la sentenza di non luogo a procedere possa sempre essere emessa, se il minore via acconsente, dal Giudice dell'udienza preliminare. Giudice competente a emettere la sentenza di non luogo a procedere è il G.I.P. durante la fase delle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 26, comma 1 disp. att. min., sentiti il minore, l'esercente la potestà dei genitori e la persona offesa. A questi soggetti deve essere dato avviso dell'udienza, che si tiene in camera di consiglio a norma dell'art. 127 c.p.p. Nella fase processuale provvede il Giudice dell'udienza preliminare.

La finalità deflattiva dell'irrilevanza del fatto può essere compromessa da un'eventuale impugnazione o, nel caso di rigetto della richiesta, dalla restituzione degli atti al Pubblico ministero. Ai sensi del terzo comma dell'art. 27 c.p.p. min., è impugnabile solo la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, e non anche l'ordinanza di rigetto, perché quest'ultima non ha valore di decisione di merito. Legittimati a impugnare la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, sono solamente il minorenne, il quale potrebbe volere un'affermazione di non colpevolezza, e il Procuratore generale presso la Corte d'appello. Il quarto comma, dell'art. 27 c.p.p. min. prevede la possibilità che la sentenza di non luogo a procedere possa essere emessa, oltre che in sede di udienza preliminare, anche nel corso del giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, se ne ricorrono i presupposti, al fine di dare attuazione al principio di minima offensività del processo. La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto non va iscritta nel casellario giudiziale.

2.3 Il perdono giudiziale

L'istituto del perdono giudiziale è disciplinato nell'art. 169 codice penale, nel libro primo, titolo sesto, capo primo, relativo alla "estinzione del reato". L'istituto del perdono giudiziale risale al codice penale del 1930, per cui è anteriore alla nascita della giustizia minorile. In dottrina si è discusso sulla natura di questo istituto, come causa di estinzione del reato, oppure come una causa di estinzione della pena. Dalla sua collocazione sembra che esso sia da annoverare tra le cause di estinzione del reato, di conseguenza esso presuppone l'accertamento del reato, e un soggetto colpevole e responsabile, quindi un soggetto imputabile. Il perdono giudiziale è una causa di estinzione del reato che si applica solamente ai minori degli anni diciotto, in considerazione della particolare condizione adolescenziale. La sua disciplina è contenuta anche nell'art. 19 r.d.l. 1934, n. 1404. L'art. 169 cod. penale stabilisce che il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio o dal pronunciare condanna, e concedere il perdono se ritiene di dover applicare una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a 1.549,37 euro (anche se congiunta), quando avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, presume che il minore si asterrà dal commettere ulteriori reati. Nella commisurazione della pena, il giudice deve tenere conto anche della circostanza della minore età. Perciò, la concessione del perdono giudiziale, presuppone un giudizio prognostico sul futuro comportamento del minore e, quindi la convinzione da parte del giudice che la mancata irrogazione della pena sia un contributo al recupero sociale dello stesso. Tale valutazione presuppone l'esame del fatto -reato, il quale deve tenere conto degli indici di gravità del reato indicati nell'art. 133 cod. penale (gravità del reato e capacità a delinquere), oltre che un'attenta analisi della personalità del minore. Nel giudizio di valutazione il giudice può tenere in considerazione anche gli eventuali precedenti giudiziari del minore. Inoltre, dal combinato degli artt. 169, comma 3 e 164, comma 2, n.1 c.p., risulta che il perdono giudiziale non può essere concesso a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, né al delinquente o contravventore abituale o professionale.

Il quarto comma dell'art. 169 cod. penale dispone che il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta. Tuttavia la concessione può essere reiterata, in seguito a una pronuncia della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo questo comma, "nella parte in cui non consente che possa estendersi il perdono giudiziale ad altri reati che si legano col vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso il beneficio". (25) Inoltre la stessa Corte ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 169, quarto comma codice penale:

Nella parte in cui esclude che possa concedersi un nuovo perdono giudiziale nel caso di condanna per delitto commesso anteriormente alla prima sentenza di perdono, a pena che, cumulata con quella precedente, non superi i limiti per l'applicazione del beneficio. (26)

Inoltre, in seguito a queste sentenze la Corte di cassazione ha precisato che:

La reiterazione della concessione del perdono giudiziale è consentita, ricorrendone le condizioni, rispetto ai reati commessi in epoca anteriore alla sentenza con la quale è già stato concesso il beneficio, senza che sia necessario accertare la sussistenza della unicità del disegno criminoso tra quei reati e quelli oggetto di detta sentenza, ma non anche in relazione ai reati commessi successivamente. (27)

Il giudice, nella concessione del perdono giudiziale ha il dovere di indicare in motivazione le ragioni alla base della concessione del beneficio. Il perdono giudiziale, come osservano Di Nuovo e Grasso:

Sottrae l'imputato alla punizione, per così dire, sulla parola, sul convincimento che l'accaduto basterà per l'avvenire a dissuaderlo dal commettere reati in genere (delitti, ma, anche, contravvenzioni). Lo sprona ai suoi doveri di cittadino, dimostrando indulgenza, ma non debolezza. (28)

Per Ricciotti:

Non manca però nell'istituto del perdono giudiziale uno spirito retributivo. Infatti lo stesso concetto di perdono ha in sé una nota di riprovazione della condotta del minore. Esso consiste nella rinuncia alla punizione, che certamente ha natura di un premio attribuito in considerazione della condotta anteatta e di quella futura dell'imputato, entrambe immuni da illeciti penali, l'una per positivo accertamento, l'altra per motivata presunzione. (29)

La concessione del perdono giudiziale non può essere revocata, a differenza di quanto accade per la sospensione condizionale della pena e della liberazione condizionale, poiché esso estingue il reato incondizionatamente. Il perdono giudiziale è applicato con sentenza di non luogo a procedere nell'udienza preliminare, nel giudizio abbreviato e nell'udienza dibattimentale. Tale sentenza se emessa in sede di udienza preliminare può essere impugnata mediante opposizione dall'imputato e dal difensore munito di procura speciale, in conformità a quanto disposto dall'art. 32, comma 3 c.p.p. min. Questo tipo d'impugnazione è stato introdotto a seguito dell'intervento della Corte costituzionale che con sentenza 11 marzo 1993, n. 77, ha evidenziato come anche nelle sentenze di non luogo a procedere si presuppone la responsabilità dell'imputato. (30) Il comma 3-bis, dell'art. 32 c.p.p. min. stabilisce che l'opposizione proposta soltanto da uno solo di più imputati minorenni dello stesso reato ha effetto sospensivo dell'esecuzione della sentenza per tutti, fino a quando il giudizio di opposizione non sia definito con sentenza irrevocabile. La sentenza di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale è iscritta nel casellario giudiziale. L'iscrizione è cancellata al compimento del ventunesimo anno di età, ex art. 15, comma 2 c.p.p. min.

2.4 La sospensione del processo e la messa alla prova

È l'istituto più innovativo del processo penale minorile, previsto dagli artt. 28 e 29 D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448. Esso trae la sua ispirazione dal probation anglosassone, affermatosi in seguito alla perdita di centralità della pena detentiva, e avente come finalità quella di evitare al minore imputato la condanna. L'istituto trae la sua legittimazione dalla lettera 'e' dell'art. 3 della legge delega n.81 del 1987, la quale stabilisce il "dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore sotto l'aspetto psichico, sociale e ambientale, anche ai fini dell'apprezzamento dei risultati degli interventi di sostegno disposti" e la "facoltà di sospendere il processo per un tempo determinato, nei casi suddetti". Per questo, il giudice, quando ritiene di dover valutare la personalità del minore, può disporre la sospensione del processo e affidare il minore ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, affinché procedano all'attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con lo stesso provvedimento il giudice può imporre al minore, prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. Il giudice legittimato a disporre la sospensione del processo ai sensi dell'art. 28, comma 1 c.p.p. min, è il Giudice dell'udienza preliminare e il Giudice del dibattimento, cioè un giudice collegiale che, grazie alla sua particolare composizione, ritiene opportuno nell'interesse del minore disporre la sospensione del processo. Tanto si desume dall'art. 29, ultima parte c.p.p. min, il quale dispone che in caso di esito negativo della prova, il giudice provveda a norma degli artt. 32 (provvedimenti a seguito di udienza preliminare) e 33 (udienza dibattimentale). Presupposto per la sospensione del processo è l'ingresso del minore nel circuito penale a seguito di una notizia di reato. La sospensione del processo con messa alla prova ha come finalità quella di impedire una pronuncia sul merito del caso e consentire al minore di uscire dal circuito penale per evitare gli effetti stigmatizzanti della condanna penale. Questo istituto può essere considerato come un procedimento incidentale che s'inserisce nella fase dell'udienza preliminare o del dibattimento e cui la dottrina attribuisce natura sostanziale. La sospensione del processo con messa alla prova non fa riferimento all'accertamento della responsabilità del minore, ma come scrive Palomba:

La messa alla prova è una misura penale, anche se accompagnata da elementi di sostegno educativo. Essa, in quanto sostitutiva e impeditiva di una pronuncia di merito per il caso di esito positivo potrebbe assumere una valenza in qualche modo sanzionatoria ed afflittiva. (31)

Per ciò, presupposto della sospensione del processo è la convinzione da parte del giudice della responsabilità del minore imputato in ordine al reato per cui si procede. La sospensione del processo è disposta quando il giudice ritiene opportuno esaminare la personalità del minore all'esito della prova. Essa può essere disposta per qualsiasi tipo di reato, anche per quelli per i quali è prevista la pena dell'ergastolo, purché il giudice ritenga opportuno valutare la personalità del minore. Infatti, ai sensi del primo comma dell'art. 28, seconda parte "il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso della prescrizione". Premessa indispensabile affinché il giudice possa emanare ordinanza di sospensione del processo è l'elaborazione del progetto d'intervento per opera dei servizi minorili dell'amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi degli enti locali, così come risulta dall'art. 27 disp. att. min., come osserva Giannino:

Il progetto, elaborato dai servizi, deve essere frutto di accettazione da parte del ragazzo e che al giudice non spetta il compito di formazione del progetto ma a lui compete il potere di prospettare modifiche e suggerire integrazioni, per farlo divenire quanto più possibile idoneo alle esigenze del minore. (32)

L'art. 27, comma 2, disp. att. min., mette in evidenza gli elementi fondamentali del progetto d'intervento, tra l'altro:

  1. Le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita. A tale fine, il consenso del minore al progetto deve essere pieno ed espressione di una totale partecipazione a esso, deve essere frutto di un'adesione spontanea e deve essere prestato solo dopo che egli sia stato informato delle conseguenze di un eventuale esito negativo della prova.
  2. Gli impegni specifici che il minorenne assume. Tali impegni devono essere adeguati alle sue esigenze e capacità, devono tener conto del tipo di reato commesso e basarsi sulle risorse che il territorio locale mette a disposizione per il minore.
  3. Le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell'ente locale. Tali soggetti dovranno specificare nel progetto le modalità della loro partecipazione, la quale deve essere improntata come una collaborazione, e cui è affidato il compito di tracciare per il minore un progetto d'intervento il più possibile flessibile, in modo da consentire modifiche ed essere adattato alle eventuali future esigenze del minore.
  4. Le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. Queste prescrizioni sono le uniche che sono demandate al potere del giudice.

Inoltre, il giudice valuta, in collaborazione con i servizi, se la messa alla prova deve essere condotta in libertà oppure con l'integrazione di una misura cautelare. Il provvedimento che dispone la sospensione del processo con messa alla prova è un'ordinanza. Quest'ordinanza sembra avere una natura complessa, per Giannino è:

Definitoria relativamente all'accertamento del fatto, della responsabilità dell'imputato, della imputabilità; descrittiva con riguardo alla natura del progetto ed ai suoi contenuti; prescrittiva con riferimento alla riparazione-conciliazione; ordinatoria rispetto alla fissazione della nuova udienza. (33)

Il secondo comma dell'art. 28 c.p.p. min., stabilisce che "con l'ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno...". Questa disposizione mette in risalto la funzione essenziale che è stata affidata ai servizi sociali nell'ambito della messa alla prova. In particolare, il legislatore ha assegnato ai servizi sociali ministeriali un ruolo da protagonista, mentre ai servizi sociali dell'ente locale è affidato un ruolo di collaborazione, così facendo il legislatore è andato in direzione contraria alla scelta del decentramento amministrativo operata con il d.p.r. 616/77. Dietro a questa scelta, secondo una parte della dottrina, si cela la volontà di affidare al servizio sociale territoriale non soltanto un'attività di assistenza, ma anche di controllo sociale. Pavarini a tal proposito afferma:

L'esperienza ci insegna- anche nel settore della giustizia minorile- di un grado elevato di resistenza da parte dei servizi sociali territoriali ad accettare mandati di disciplina sociale ritenuti incompatibili con la propria vocazione assistenziale, ove il grado di incompatibilità è variabile e contingente, spesso anche relativamente indefinito, ma comunque c'è e non è facilmente eludibile. (34)

I servizi, a norma del terzo comma dell'art. 27 disp. att. min., informano periodicamente il giudice dell'attività svolta e dell'evoluzione del caso, proponendo, dove lo ritengono necessario, modifiche al progetto, eventuali abbreviazioni di esso ovvero, in caso di ripetute e gravi trasgressioni, la revoca del provvedimento di sospensione. L'abbreviazione della messa alla prova, sarà chiesta quando l'impegno del minore e i risultati raggiunti sono tali da essere espressione di un processo di responsabilizzazione del minore, che non necessitano un ulteriore proseguimento della prova.

La revoca, invece, ai sensi del quinto comma dell'art. 28 ha presupposti diversi, poiché a essa si può fare ricorso solo quando nel corso della messa alla prova, il minore ha dato luogo a 'ripetute' e 'gravi' violazioni delle prescrizioni imposte dal progetto. La valutazione della gravità delle trasgressioni è lasciata alla discrezionalità del giudice, ma si ritiene che esse siano tali quando sono espressione di una mancanza di volontà del minore di aderire al progetto. Pertanto può capitare che alla presenza di ripetute e gravi trasgressioni il giudice non dispone la revoca, se il minore ha comunque dato prova di voler aderire al progetto, e le violazioni sono tali da rappresentare le difficoltà di una personalità in evoluzione.

Il presidente del collegio, ai sensi del terzo comma dell'art. 27 disp. att. min., riceve le relazioni dei servizi, e ha il potere delegabile ad altro componente del collegio, di sentire senza formalità di procedura, gli operatori e il minorenne. Secondo la dottrina al presidente del collegio spetta il compito di seguire l'andamento della messa alla prova nel suo complesso, pertanto egli può apportare al progetto le modifiche che si rendono necessarie, purché non si tratti di modifiche sostanziali e comunque siano state concordate con le parti. Al giudice delegato, invece, è affidato il compito di sentire il minore e gli operatori dei servizi, e come osserva Miazzi:

La previsione, da parte della legge, di un giudice delegato, dovrebbe essere tenuta in maggiore considerazione dai servizi, i quali nei casi più complessi ed incerti dovrebbero suggerirne la nomina al collegio nell'udienza di sospensione. È infatti innegabile l'interesse alla presenza di un giudice costantemente informato del caso, che diventi il referente dei servizi non solo per le relazioni e le informali audizioni, ma anche e soprattutto per le modifiche del progetto, sostanziali o di durata, previste dall'art. 27 comma 3 disp. att. cod. proc. pen. min. (35)

E' comunque preferibile che come giudice delegato sia scelto un giudice onorario, che meglio del giudice togato può instaurare con gli operatori dei servizi una proficua comunicazione. Per quanto riguarda le modifiche sostanziali del progetto, prospettate dai servizi, è necessaria una decisione del collegio, nell'udienza prevista ex art. 29 c.p.p. min., su richiesta del Pubblico ministero. Inoltre, il collegio è competente a decidere di un'eventuale proroga della durata della messa alla prova, possibile solo entro i limiti di durata previsti dal primo comma dell'art. 28 c.p.p. min.

È evidente come dalla collaborazione dei servizi dipende l'esito positivo della prova, in particolare dalla capacità del servizio dell'ente locale di individuare tutta una serie di risorse che possono servire all'evoluzione sociale della personalità del minore. Le statistiche sullo stato di applicazione dell'istituto mostrano le difficoltà che alcuni servizi dell'ente locale di alcune Regioni, in particolare quelle del sud Italia, hanno nel reperire le risorse a tutela del minore.

Con l'ordinanza di sospensione il giudice può anche imporre al minore alcune prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato. Questa è un'innovazione rilevante introdotta dal legislatore dell'ottantotto. Tuttavia il tentativo di conciliazione con la vittima incontra molti ostacoli, dovute alle difficoltà delle vittime di incontrare l'autore del reato, inoltre come rileva Anna Petruzzi:

Trascorre molto tempo tra il momento del reato e quello del giudizio e questo può produrre notevoli mutamenti nel rapporto con la vittima. Talora, poi, manca proprio in alcune zone, in particolare nel Sud Italia una "cultura della riconciliazione": si dimentica completamente, così, la valenza educativa richiamata da questo aspetto della messa alla prova che consentirebbe invece un utile momento di autoresponsabilizzazione e maturazione da parte del minore. (36)

Nonostante ciò, è frequente l'introduzione nei progetti di messa alla prova di prescrizioni riguardanti l'attività di volontariato, che mostra un crescente interesse verso una forma di risarcimento indiretto, del danno arrecato dal reato.

L'ordinanza deve indicare anche il periodo di durata della messa alla prova, poiché questa serve al minore ad avere un obiettivo per un periodo certo, pur potendo essere oggetto di modifiche. La durata della messa alla prova deve essere commisurata al tipo di reato, e alla personalità del minorenne, che si presume, evolverà in senso positivo. Ai sensi del terzo comma dell'art. 28 c.p.p. min., "contro l'ordinanza possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero, l'imputato e il suo difensore", mentre il quarto comma stabilisce che "la sospensione non può essere disposta se l'imputato chiede il giudizio abbreviato o il giudizio immediato". La ragione di questa limitazione è da ravvisare nella possibilità offerta al minore imputato di scegliere un rito speciale più rapido, ma la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di questo comma, "nella parte in cui prevede che la sospensione non può essere disposta se l'imputato chiede il giudizio abbreviato", e "nella parte in cui prevede che la sospensione non può essere disposta se l'imputato chiede il giudizio immediato". (37)

Dopo la scadenza del periodo di prova, il presidente del collegio fissa l'udienza per la valutazione della prova. In caso di esito negativo della prova, il processo deve riprendere da dove era stato interrotto, e si avrà un rinvio a giudizio del minore, poiché appare improbabile una richiesta di non luogo a procedere per non imputabilità, o una condizione d'improcedibilità dell'azione. (38) Tuttavia, come osservano Di Nuovo e Grasso: "Non può escludersi che il processo si concluda con una sentenza di perdono giudiziale in alcuni casi dall'esito dubbio o incerto". (39) Anche per Moro, il quale sostiene che:

Appare per la verità singolare la possibilità di applicazione del perdono all'esito della sospensione del procedimento: se infatti l'esito sarà positivo la specifica causa di estinzione del reato è da preferirsi al perdono; se l'esito sarà negativo appare dubbio che si possa presumere un'astensione dal commettere ulteriori reati che costituisce l'indispensabile presupposto, ex art. 169 cod. pen., per la concessione del beneficio. (40)

L'art. 29 c.p.p. min., stabilisce che la valutazione positiva della prova dipende da due accertamenti: il primo riguarda la valutazione del 'comportamento del minore', e il secondo attiene alla 'evoluzione della sua personalità'. A tale fine, i servizi presentano al giudice una relazione sul comportamento del minore e una valutazione della sua personalità. Nel valutare il comportamento del minore bisogna fare riferimento all'impegno dimostrato nel corso della prova, per la Basco e la De Gennaro:

Sicuramente è un dato indicativo della buona riuscita della prova il fatto che il minore, nel corso della stessa, abbia mostrato costanza e impegno nel partecipare ai programmi educativi, alle attività e ai percorsi lavorativi predisposti dai servizi minorili. (41)

Per quanto attiene alla valutazione dell'evoluzione della personalità del minore, essa dipende dalle caratteristiche del progetto d'intervento. Se il progetto è stato costruito in modo da essere praticabile e flessibile, e utilizzando tutte le risorse ambientali e familiari del minore, il suo esito sarà sicuramente positivo. L'evoluzione della personalità del minore si ricava dal comportamento tenuto dal minore nel corso della prova, come la sua capacità di accettare i cambiamenti della sua personalità. Come dice la Petruzzi:

Quando ciò è avvenuto, ed è stata così verificata la capacità del minore non solo di non commettere più reati, ma di sapersi complessivamente adeguare a quel progetto di impegno cui ha dato il proprio assenso, allora si può dire che l'esito della prova è stato positivo. (42)

Per Giannino è necessario valutare:

Se il minore ha compreso le ragioni per le quali fu disposta la sospensione, se vi ha risposto positivamente e se il consenso da lui mostrato all'atto della accettazione si è mantenuto costante. Se tali condizioni si sono avverate allora è evidente che il periodo di sospensione ha in lui prodotto effetti positivi e cambiamenti che possono ritenersi stabili. (43)

In caso di esito positivo della prova, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato. Se la dichiarazione è fatta in sede di udienza preliminare, è emessa sentenza di non luogo a procedere, ex art. 425 c.p.p., se, invece, avviene in sede dibattimentale, è emessa sentenza di non doversi procedere ai sensi dell'art. 531 c.p.p. In caso di esito negativo della prova, l'art. 29, ultima parte, c.p.p. min., stabilisce che il giudice 'provvede a norma degli articoli 32 e 33'. La sentenza di non luogo a procedere per esito positivo della prova, non va iscritta nel casellario giudiziale essendosi estinto il reato.

Negli ultimi anni le indagini sullo stato di applicazione della messa alla prova, hanno reso evidente come essa è applicata a minori nei quali si rilevano indici prognostici favorevoli, perché in possesso di migliori risorse familiari e sociali. Restano esclusi dalla sua applicazione i minori stranieri, in particolare nomadi ed extracomunitari, per mancanza di risorse familiari cui fare affidamento. In questo modo si vengono a creare delle disparità di trattamento nell'accesso a tale istituto, che pure negli ultimi anni ha avuto un'applicazione molto estesa.

Note

1. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Milano, Giuffrè editore, 1991, p. 100.

2. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit., p. 101.

3. C.A. Moro, Manuale di diritto minorile, Bologna, Zanichelli, 2002, p. 483.

4. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura penale minorile, profili giuridici, psicologici e sociali, Milano, Giuffrè editore, 2005, p. 157.

5. I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell'area penale, Napoli, Liguori editore, 1997, p. 32.

6. C. Scivoletto, Sistema penale e minori, Roma, Carocci editore, 2001, p. 44.

7. Corte cost., sent. n. 412/1990, in Racc. uff. delle sentenze e ordinanze della Corte Costituzionale, vol. XCVI, 1990, p. 673.

8. A. Pennisi (a cura di), La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, Milano, Giuffrè editore, 2004, p. 92.

9. Corte cost., sent. n. 168/1994, in Racc. uff., cit., vol. CXI, 1994, p. 277 e ss.

10. Corte cost., sent. n. 450/1998, in Giurisprudenza costituzionale, vol.2, 1998, p. 3738 e ss.

11. Cass., Sez. Un., 26 gennaio 1985, in Cassazione Penale, 1985, 1335.

12. A.C. Moro, Manuale di diritto minorile, cit., p. 467.

13. Così ha precisato la Cass., 19/11/1984, in Foro it., 1986, n. 4.

14. Cass., Sez. II, 23 giugno 1983, in Cass. Pen., cit., 1985, 643.

15. M. Azzacconi, "Il processo penale minorile e le misure a tutela del minore", In Famiglia e minori, n. 10/1996, p. 13.

16. Cass., Sez. II, 5 maggio 1983, in Cass. Pen., cit., 1985, 644.

17. P. Giannino, Il processo penale minorile, Padova, Cedam, 1994, pp. 206-207.

18. Corte cost., sent. n. 250/1991, in Racc. uff., cit., p. 1 e ss.

19. L. Locci, "Gli istituti del processo penale minorile a beneficio del minore: l'irrilevanza del fatto e la messa alla prova", in Minori giustizia, Milano, n.4/2005, p. 89.

20. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura penale minorile, cit., p. 318.

21. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit., p. 381.

22. In tal senso, T.m. Cagliari, sentenza 11/4/1995, in Foro italiano, 1996, 450; Corte d'Appello, sez. min., Perugia, 15/12/1999, in Rass. giur. umbra, 2001, 223.

23. Come risulta da una ricerca condotta nei Tribunali di Bologna, Bari e Palermo nel periodo 1990-92 dall'IRSIG-CNR, in A. Mestiz, M. Colamussi, Working papers. Processo penale minorile: l'irrilevanza del fatto e la messa alla prova, Bologna, Edizioni Scientifiche Lo Scarabeo, 1997, pp. 5-15.

24. In tal senso, Corte d'Appello, sez. min., Perugia, 15/12/1999, cit.

25. Corte cost., sent. n. 108/1973, in Racc. uff., cit., p. 325 e ss.

26. Corte cost., sent. n. 154/1976, in Racc. uff., cit., p. 365 e ss.

27. Cass., Sez. V, 20/09/2005, in Ced Cass., rv 233075 (m).

28. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura penale minorile, cit., p. 333.

29. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, Padova, Cedam, 2001, p. 78.

30. Corte cost., sent. n. 77/1993, in Racc. uff., cit., p. 515 e ss.

31. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., pp. 415-6.

32. P. Giannino, Il processo penale minorile, cit., p. 234.

33. P. Giannino, Il processo penale minorile, cit., p. 236.

34. M. Pavarini, "Il rito pedagogico. Politica criminale e nuovo processo penale a carico di imputati minorenni", in Dei delitti e delle pene, n. 2, 1991, p. 133.

35. L. Miazzi, "I contesti dell'operatività dei servizi sociali nel processo penale minorile", in Minori giustizia, Milano, n.3/1994, p. 129.

36. A. Petruzzi, "I sentieri della messa alla prova", in Minori giustizia, Milano, n.3/1994, p. 73.

37. Corte cost., sent. n. 125/1995, in Racc. uff., cit., p.1 e ss.

38. In senso contrario, T.m. Milano, sent. 13/06/2000, in Foro Ambrosiano, vol. III, 2001, p. 225; T. m. Milano, sent. 1/07/1999, in Foro Ambrosiano, vol. I, 1999, p. 488.

39. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura penale minorile, cit., p. 359.

40. C.A. Moro, Manuale di diritto minorile, cit., p. 505.

41. M.G. Basco, S. De Gennaro, La messa alla prova nel processo penale minorile, Torino, Giappichelli Editore, p. 70.

42. A. Petruzzi, I sentieri della messa alla prova, cit., p.88.

43. P. Giannino, Il processo penale minorile, cit., pp. 244-245.