ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
Il ruolo della Corte di giustizia nella tutela della vita familiare

Alida Surace, 2006

4.1 La direttiva 2003/86/CE

Alla luce delle considerazioni, svolte nel secondo capitolo, relative al ruolo crescente assunto dalla Corte di Lussemburgo in materia di tutela dei diritti fondamentali, risulta importante dedicare il presente capitolo all'analisi della funzione concretamente svolta dalla suddetta Corte in riferimento alla tutela della vita familiare e dei risvolti cui ciò ha portato a livello nazionale.

Se, come precedentemente affermato, il dovere di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU grava sulla Corte con esclusivo riferimento agli atti comunitari e quindi agli atti normativi statali di diretta applicazione di questi ultimi, il sindacato giurisdizionale di essa assumerà rilevanza crescente in ragione della concreta applicazione che gli Stati nazionali daranno alla recente direttiva comunitaria relativa al ricongiungimento familiare.

Con la direttiva 2003/86/CE, emanata dal Consiglio europeo il 22 settembre 2003, la Comunità europea ha finalmente affrontato la complessa problematica riguardante il diritto al ricongiungimento familiare, aspetto indubbiamente essenziale di una politica comune di immigrazione. L'analisi della suddetta direttiva non comprenderà il particolare regime da essa riservato ai rifugiati, poiché trattasi di argomento che esula dal presente lavoro (1).

Come risulta dai riferimenti presenti nel precedente capitolo, il diritto al ricongiungimento familiare, riconosciuto ai migranti, costituisce il principale corollario del diritto al rispetto della vita familiare, protetta, oltre che dall'articolo 8 della CEDU, da ulteriori strumenti di diritto internazionale. Secondo la Corte di giustizia questo diritto fa anche parte dei diritti fondamentali riconosciuti dall'ordinamento giuridico comunitario, in quanto principio generale del diritto (2).

La direttiva giunge tuttavia con notevole ritardo, in seguito ad un lungo e difficile percorso durato oltre tre anni, a testimonianza dell'estrema difficoltà dei negoziati in materia di immigrazione e dell'assenza di un obbiettivo politico comune (3). Nel frattempo sono state approvate diverse leggi nazionali, volte ad arginare il fenomeno, in assenza quindi di una politica comune. (4)

In vista della regolamentazione dell'immigrazione familiare, che costituisce indubbiamente una delle vie principali di accesso legale all'Europa per i migranti, e dell'integrazione degli immigrati nel tessuto sociale europeo attraverso il sostegno del proprio nucleo familiare (5), la Commissione presentò al Consiglio, poco dopo l'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam del 1999, una prima proposta (6), modificata nel 2000 in seguito al parere del Parlamento europeo. A seguito di lunghi negoziati in seno al Consiglio, la Commissione presentò nel 2002, su richiesta del Consiglio europeo di Laeken del 2001, una nuova proposta (7), rispondente soprattutto all'esigenza di alcuni Stati, di controllare e limitare maggiormente l'immigrazione familiare. L'iniziale testo normativo prevedeva effettivamente, per gli stranieri in possesso di un titolo di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, la possibilità di ricongiungimento, una volta soddisfatti determinati requisiti materiali, con un'ampia categoria di soggetti appartenenti al proprio nucleo familiare: erano infatti compresi il congiunto, il compagno non coniugato, i figli minori compresi quelli adottati, gli ascendenti a carico e i figli maggiori, qualora non sposati o non autosufficienti per ragioni di salute (8). Si trattava di un regime giuridico che aveva l'ambizione di conformarsi alle esigenze risultate prioritarie nel Consiglio europeo di Tampere del 1999 (9) circa il trattamento da riservare ai soggetti provenienti da paesi terzi e legalmente residenti nei paesi membri della Comunità europea, garantendo loro «diritti e doveri comparabili a quelli dei cittadini dell'Unione Europea» (10).

Fu tuttavia solo la terza proposta della Commissione (11), dopo l'introduzione di ulteriori restrizioni nel contenuto della seconda, a costituire la base effettiva della direttiva del 2003, in cui lo sforzo di mediazione compiuto dal legislatore comunitario traspare soprattutto dal fatto che essa lascia agli Stati ampia e inusuale discrezionalità, anche sulla disciplina di aspetti cruciali (12).

Il ricongiungimento familiare preso in esame è definito dalla direttiva stessa come «l'ingresso e il soggiorno in uno Stato membro dei familiari di un cittadino di un paese terzo che soggiorna legalmente in tale Stato membro, al fine di conservare l'unità familiare, indipendentemente dal fatto che il legame familiare sia anteriore» (13). Il suo ambito di applicazione è circoscritto dall'articolo 3 attraverso il riferimento alle seguenti tre condizioni:

  • soggiornante titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da uno Stato membro per un periodo di validità non inferiore ad un anno;
  • esistenza di una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile;
  • familiari cittadini di paesi terzi.

Per quanto riguarda in particolare il primo requisito, «gli Stati membri possono esigere che il soggiornante, prima di farsi raggiungere dai suoi familiari, abbia soggiornato legalmente nel loro territorio per un periodo non superiore a due anni» (14). Possono inoltre introdurre un periodo di attesa di un massimo di tre anni tra la presentazione della domanda di ricongiungimento familiare e il rilascio del corrispondente titolo di soggiorno, se la legislazione nazionale in vigore tiene conto della capacità di accoglienza. Ai sensi dell'articolo 4, i soggetti ai quali è riconosciuto il diritto di ingresso e di soggiorno sono:

  • il coniuge del soggiornante;
  • i figli minorenni del soggiornante e del coniuge, compresi quelli adottati (in conformità alla normativa internazionale);
  • i figli minorenni, compresi quelli adottati, del solo soggiornante, se egli è l'unico titolare dell'affidamento o l'altro genitore abbia acconsentito;
  • i figli minorenni, compresi quelli adottati, del solo coniuge (alle stesse condizioni suddette).

Ne deriva pertanto che, come previsto dalla direttiva stessa, l'ingresso e il soggiorno degli altri membri della famiglia, ovvero gli ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del coniuge (se a carico di questi ultimi e privi di un adeguato sostegno familiare nel paese di origine), i figli maggiorenni non coniugati o incapaci di provvedere al proprio sostentamento per ragioni di salute, il partner del soggiornante legato a questo da una relazione stabile e duratura o formalmente registrata, nonché i figli di tali persone (alle condizioni suddette), dipendono dal potere discrezionale degli Stati. Anche con riferimento alla famiglia nucleare è tuttavia prevista l'introduzione di deroghe: è infatti possibile limitare il diritto al ricongiungimento familiare dei figli minori che abbiano già compiuto dodici anni, condizionando il loro ingresso all'espletamento di un esame circa le condizioni per la loro integrazione, se previsto dalla legislazione nazionale in vigore al momento di attuazione della direttiva (15). Gli Stati possono inoltre esigere «che le domande riguardanti il ricongiungimento familiare di figli minori debbano essere presentate prima del compimento del quindicesimo anno di età, secondo quanto previsto dalla loro legislazione in vigore al momento dell'attuazione della presente direttiva» (16). Il carattere restrittivo della disciplina introdotta dalla direttiva è ricavabile anche dalla possibilità riconosciuta ai familiari del soggiornante di richiedere un titolo di soggiorno autonomo, dopo un periodo di tempo che può durare fino a cinque anni (17), e dalla previsione di ritiro o rifiuto di rinnovo del permesso di soggiorno dei familiari, tra l'altro, qualora le condizioni fissate dalla direttiva per il ricongiungimento non siano più soddisfatte, senza che sia prevista un'eccezione quantomeno per alcune di esse (18).

Oltre a non conseguire l'obbiettivo di armonizzazione dei regimi giuridici nazionali relativi al ricongiungimento familiare dei migranti, la direttiva tradisce in un certo senso anche la priorità politica accordata dal Consiglio di Tampere al trattamento equo dei cittadini di paesi terzi, garantendo loro, come sopra accennato, un insieme di diritti quanto possibile analoghi a quelli di cui godono i cittadini dell'Unione europea. Alcune soluzioni legislative concordate rappresentano un risultato inaccettabile dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali, tra l'altro poco coerente con il principio del loro rispetto su cui l'Unione Europea dovrebbe essere fondata (19). Nonostante le dichiarazioni contenute nell'incipit della direttiva, alcune disposizioni hanno infatti la conseguenza, quantomeno potenziale in quanto affidata alla discrezionaltà degli Stati, di impedire, o rendere estremamente difficile l'esercizio del diritto al rispetto della vita familiare, soprattutto se letto alla luce della portata ad esso attribuita nel sistema convenzionale. Quattro aspetti del regime giuridico della direttiva sono stati in particolare ampiamente criticati (20):

  1. Condizioni per il ricongiungimento familiare dei figli con più di dodici anni e possibilità di esclusione di quelli con più di quindici: si tratta indubbiamente dell'aspetto che suscita maggiori perplessità, alla luce di un'effettiva tutela dei diritti fondamentali. Pur ammettendo l'inesistenza di una definizione universale di famiglia ai fini del ricongiungimento familiare, è inevitabile constatare quantomeno l'esistenza di un largo consenso rispetto all'inclusione dei figli minori. Costituisce d'altronde una discriminazione in base all'età, come tale vietata dall'articolo 14 della CEDU, e priva di un'adeguata e ragionevole giustificazione. Dal momento che sono considerati minori i soggetti con «età inferiore a quella in cui si diventa legalmente maggiorenni nello Stato membro interessato» (21), al di sotto di tale età dovrebbero essere esclusi i trattamenti differenziati permessi invece espressamente dalla direttiva. Questi risultano d'altronde contrari anche alla Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo (22), che sancisce tra l'altro il principio della non separazione del figlio dai genitori, a meno che ciò non sia necessario nell'interesse preminente di quest'ultimo (23), e richiede che le domande di ricongiungimento familiare siano considerate «con uno spirito positivo, con umanità e diligenza» (24). Se d'altronde tener conto della capacità di integrazione dei minori può essere ragionevole, le conseguenze che ne possono derivare in base alla direttiva, non sono tuttavia altrettanto ragionevoli, anche alla luce di quanto disposto dall'articolo 8 della CEDU. Non pare peraltro sufficiente a giustificare queste ultime, il già ricordato diritto degli Stati di controllare l'ingresso e il soggiorno dei migranti sul proprio territorio, data l'assenza di un dovere assoluto di rispettare la scelta da essi compiuta circa il luogo di residenza del proprio nucleo familiare. D'altronde le difficoltà incontrate dai giovani immigrati potrebbero probabilmente essere superate attraverso misure ad hoc, senza prevedere necessariamente la loro esclusione dal ricongiungimento che priverebbe sia gli stessi che i loro genitori di una normale vita familiare. Sebbene manchi, come riferito nel precedente capitolo, una giurisprudenza unanime sul punto, è possibile tuttavia considerare «irragionevole, se non inumano» (25), porre i genitori di fronte alla scelta tra tornare nel paese di origine e rinunciare all'unità familiare.
  2. Periodo di attesa per l'effettivo esercizio del diritto al ricongiungimento: l'imposizione di un periodo di soggiorno legale fino a due anni come condizione per la richiesta di ricongiungimento, o la possibilità per gli Stati di attendere fino a tre anni tra la presentazione della stessa e l'effettivo rilascio del titolo di soggiorno, letti in relazione alla possibilità che il tempo necessario per esaminare la domanda venga prorogato in casi eccezionali, possono ledere in maniera evidente il diritto al rispetto della vita familiare, impedendo il ricongiungimento anche per diversi anni. Le condizioni cui può legittimamente essere condizionato l'esercizio di un diritto non dovrebbero invece arrivare a svuotare lo stesso di contenuto, rendendo il suo godimento eccessivamente difficile. (26) Il protrarsi di una separazione forzata dal proprio nucleo familiare può d'altronde avere conseguenze non indifferenti soprattutto sulla crescita dei minori. Dal punto di vista giuridico inoltre la direttiva può giungere a violare il principio di proporzionalità cui, coerentemente alla giurisprudenza della Corte EDU, dovrebbe essere improntata ogni interferenza nel diritto al rispetto della vita familiare, come tutelato dall'articolo 8 della CEDU; essa può inoltre risultare difficilmente compatibile con l'impegno preso dagli Stati di «agevolare per quanto possibile il ricongiungimento familiare del lavoratore migrante autorizzato a stabilirsi sul territorio» (27).
  3. Distinzione tra il congiunto e il partner non sposato: la scelta effettuata dalla direttiva nel senso di privilegiare il modello tradizionale di famiglia nucleare fondata sul matrimonio (28), oltre a risultare socialmente inadeguata e criticabile dal punto di vista della coerenza del sistema giuridico, risulta chiaramente in contrasto con quanto sostenuto, fin dal 1986 dalla Corte di Strasburgo (29). Anche volendo prescindere dalla giurisprudenza convenzionale, a livello internazionale, la Convenzione delle Nazioni Unite per la protezione dei migranti e delle loro famiglie, adottata dall'Assemblea generale nel 1990 e in vigore dal 2003, stabilì l'assimilazione tra coppie coniugate e coppie di fatto in materia di ricongiungimento (30), mentre a livello europeo si potrebbe invocare, oltre all'articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, l'articolo 12 della CEDU che garantisce ad ognuno non soltanto il diritto di sposarsi, ma anche di «fondare una famiglia». A ciò si aggiunge ovviamente l'articolo 8 della CEDU, letto in relazione al divieto di discriminazione nell'esercizio dei diritti, sancito dall'articolo 14. Come sopra accennato, un adeguamento alla giurisprudenza di Strasburgo, senz'altro opportuno in tale materia, avrebbe posto in evidenza la forte discrasia nella tutela della vita familiare apportata dai due organi giudiziari europei (31). D'altra parte lo stesso diritto comunitario derivato si è evoluto nel senso di un'assimilazione tra coppie coniugate e non (32);
  4. Ritiro o rifiuto di rinnovo del titolo di soggiorno del familiare quando il soggiornante non soddisfa più le condizioni di esercizio del diritto in questione: risulta difficilmente accettabile che la direttiva permetta il ritiro o l'impossibilità di rinnovo del permesso riferendosi genericamente al caso in cui le condizioni da essa fissate per il ricongiungimento non siano più soddisfatte. Ciò comporta, ad esempio, che nel caso in cui il soggiornante non disponga di risorse tali da permettergli di non ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato di residenza (33), oltre a versare evidentemente in una situazione precaria, si vedrà anche privato del diritto all'unità familiare. Si tratta indubbiamente di una misura che non tiene affatto conto dei requisiti che, in base al secondo comma dell'articolo 8 della CEDU e alla sua interpretazione fornita dagli organi convenzionali, devono essere soddisfatti ogni qualvolta un provvedimento (in questo caso la possibile espulsione dei familiari) sia suscettibile di incidere sul rispetto della vita privata e familiare. Se anche essa fosse necessaria «per il benessere economico del paese» (34), sarebbe infatti imprescindibile verificare anche la proporzionalità tra gli obbiettivi cui è ispirato il provvedimento in questione e gli interessi individuali coinvolti (35).

I primi due aspetti trattati sono stati oggetto, come sarà approfondito nel prossimo paragrafo, di un ricorso per annullamento (36) di fronte alla Corte di giustizia perché considerati «inaccettabili alla luce dei diritti fondamentali, in particolare del diritto alla vita familiare ed al diritto di non discriminazione, il cui rispetto si impone nell'ordinamento comunitario dell'Unione europea per effetto dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea» (37).

4.2 La sentenza della Corte di giustizia del 27/6/2006

Il ricorso presentato dal Parlamento europeo contro il Consiglio dell'Unione europea aveva ad oggetto, come prima accennato, la disciplina riservata dalla direttiva ai minori di dodici e quindici anni, e la previsione di lunghi periodi di attesa prima della presentazione della domanda di ricongiungimento, o tra questa ed il rilascio del relativo permesso di soggiorno, chiedendone l'annullamento perché considerati lesivi dei diritti fondamentali e, in particolare, del diritto al rispetto della vita familiare e del diritto di non discriminazione, quali garantiti rispettivamente dagli articoli 8 e 14 della CEDU oltre che dalla Carta sociale europea. Si trattava peraltro di disposizioni che prevedono la possibilità per gli Stati membri di derogare agli obblighi imposti dalla direttiva.

Lascia alquanto stupiti che il Parlamento non abbia fondato il proprio ricorso sulla mancanza di consultazione relativamente alla disposizione contenuta nell'articolo 4, n. 6 della direttiva. Come risulta dalle conclusioni dell'avvocato generale J. Kokott, il Parlamento è stato infatti consultato per l'ultima volta il 23 maggio 2002, mentre l'articolo in esame compare per la prima volta in un documento del Consiglio del 25 febbraio 2003, senza che il Parlamento abbia quindi potuto esprimere il proprio parere anche su esso. Al fine di evitare che la funzione consultiva venga vanificata, la giurisprudenza della Corte di giustizia risulta costante nell'affermare che «l'obbligo di consultare il Parlamento europeo durante il procedimento legislativo, [...] comporta l'obbligo di una nuova consultazione ogni volta che l'atto infine adottato, considerato complessivamente, sia diverso quanto alla sua sostanza, da quello sul quale il Parlamento sia già stato consultato» (38). Dal momento che la Corte ha già individuato di propria iniziativa eventuali vizi procedurali con riferimento al Trattato CECA, ad avviso di alcuni (39), la rilevabilità d'ufficio andrebbe estesa anche al Trattato CE. Manca tuttavia nella sentenza qualsiasi riferimento a tal riguardo.

La Corte respinge innanzitutto l'eccezione di irricevibilità sollevata dal Consiglio e relativa al fatto che il ricorso non sarebbe diretto contro un atto delle istituzioni, impugnabile innanzi alla Corte per quanto attiene al rispetto dei diritti fondamentali (40), affermando che anche se le disposizioni impugnate riconoscono agli Stati una certa discrezionalità, esse potrebbero di per sé risultare in contrasto con i diritti fondamentali, «qualora imponessero agli Stati membri o autorizzassero espressamente o implicitamente i medesimi ad adottare o mantenere in vigore leggi nazionali in contrasto con i detti diritti» (41). Sul rilievo effettuato dalla Repubblica federale di Germania circa la non separabilità dell'articolo 4, n. 1, ultimo comma della direttiva, dal resto della medesima e quindi l'impossibilità di un annullamento parziale, la Corte si riserva invece di pronunciarsi dopo l'esame del merito della controversia (42), peraltro decidendo al termine di esso di non prendere in considerazione il suddetto rilievo, in ragione dell'infondatezza del ricorso.

Volendo limitare l'analisi al rapporto tra la direttiva e i diritti sanciti nel sistema convenzionale, i quali, secondo costante giurisprudenza della Corte di giustizia, sono protetti nell'ordinamento giuridico comunitario (43), le iniziali considerazioni svolte dalla Corte risultano in perfetta sintonia con tali diritti, in particolare con l'articolo 8 della CEDU nell'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di Strasburgo. Si afferma infatti che, ancorché la CEDU non garantisca in assoluto agli stranieri la possibilità di ingresso e soggiorno in un determinato paese, il rispetto della vita familiare implica per gli Stati membri «obblighi che possono essere di carattere negativo, qualora uno di essi sia tenuto a non espellere un soggetto, ovvero di carattere positivo, quando l'obbligo sia quello di consentire ad un soggetto di fare ingresso e di risiedere sul proprio territorio», con la conseguenza che ogni ingerenza deve trovare fondamento nell'articolo 8 stesso (44). Il potere discrezionale concesso agli Stati dalla prima disposizione impugnata, riferita al trattamento riservato ai minori che abbiano già compiuto 12 anni, sarebbe quindi perfettamente coerente con la possibilità riconosciuta da tale articolo di bilanciare, in ogni singola fattispecie concreta, gli interessi in gioco, con l'obbligo di tenere in dovuta considerazione l'interesse superiore del figlio minore, la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona, la durata del soggiorno nello Stato membro interessato, nonché l'esistenza di legami con il paese di origine, secondo quanto disposto dalla direttiva comunitaria stessa (45). Alla luce di tali considerazioni la Corte stabilisce che la possibilità di limitare l'ingresso di un minore di età superiore ai dodici anni, in ragione di un livello minimo di capacità di integrazione, non può essere considerata in contrasto con il diritto fondamentale al rispetto della vita familiare, né con il divieto di discriminazione in base all'età. Non convince molto questa conclusione dal momento che, come giustamente rilevato dal Parlamento, «uno degli strumenti più importanti di un'integrazione riuscita di un minore sarebbe costituita dal ricongiungimento con la sua famiglia», risultando pertanto incongruo il compimento di un test di integrazione anteriormente a tale momento, tanto più che la direttiva omette qualsiasi definizione della nozione di integrazione e che un criterio di tal genere, specificato da una normativa nazionale, non sembrerebbe ricompreso tra gli obbiettivi legittimi contemplati dall'articolo 8, secondo comma della CEDU (46). Il rispetto della proporzionalità tra l'ingerenza nella vita familiare e l'obbiettivo perseguito di incentivare il ricongiungimento con i minori, avrebbe dovuto indurre all'adozione di misure meno radicali da attuarsi dopo il ricongiungimento e non permettere agli Stati una sua totale preclusione. Rileva da ultimo il fatto che il margine lasciato agli Stati membri nella scelta di tale deroga permette implicitamente un uso strumentale della stessa, essendo sufficiente che la normativa nazionale sussista alla data di attuazione della direttiva, e non a quella, più ragionevole, della sua emanazione o entrata in vigore (47).

Con riferimento alla seconda disposizione impugnata, relativa al trattamento riservato ai minori di età superiore a quindici anni, la Corte ripete i ragionamenti svolti nell'esame della prima, concludendo quindi per l'assenza di una violazione dei diritti garantiti dalla CEDU, dal momento che non è comunque vietato agli Stati di prendere in considerazione una domanda relativa ai minori suddetti e di consentire ugualmente il loro ingresso, in ragione dell'interesse del minore e del rispetto della vita familiare. La motivazione fornita dalla Corte risulta in un certo senso in contraddizione con quanto da essa stessa affermato nella parte iniziale della sua pronuncia. Se infatti, come prima riportato, «una disposizione di un atto comunitario potrebbe, di per sé, risultare in contrasto con i diritti fondamentali qualora [...] autorizzasse [...] implicitamente i medesimi a adottare o mantenere in vigore leggi nazionali in contrasto con i detti diritti», non pare allora sufficiente rilevare che gli Stati sono liberi di non attuare alcun regime differenziato in base all'età, dal momento che la disposizione considerata non impone loro alcun obbligo a riguardo. Dal momento che essa li autorizza a derogare alla disciplina generalmente riservata ai minori, anche in questo caso la direttiva, o anche la Corte di giustizia in sede di interpretazione, avrebbero dovuto fornire una giustificazione oggettiva, senza lasciare agli Stati totale libertà nella valutazione degli interessi coinvolti, con il rischio quindi di incorrere in una loro violazione.

Analogamente avviene con riferimento alla terza disposizione impugnata, relativa ai periodi di attesa imponibili all'esercizio effettivo del diritto al ricongiungimento, e considerata dalla Corte ammissibile in quanto non si traduce in una precisa imposizione agli Stati, i quali dovranno quindi provvedere a «prendere debitamente in considerazione l'interesse superiore del minore». Merita invece di essere preso in considerazione con maggiore puntualità quanto affermato dall'avvocato generale su questo punto, nelle sue conclusioni relative alla sentenza della Corte. Discostandosi nettamente dai rilievi svolti fino a quel momento, egli ritiene che l'articolo 8 della direttiva, autorizzando gli Stati membri a prevedere periodi di attesa anche molto lunghi, può avere come implicita conseguenza l'emanazione di norme nazionali «senza contemplare la possibilità di procedere ad una valutazione dei casi estremi, come è richiesto dalla giurisprudenza della Corte eur. D.U.», rendendo necessaria la tutela giurisdizionale al fine di evitare una violazione dei diritti fondamentali. La direttiva pare tra l'altro indurre quasi all'adozione di una simile normativa, poiché il secondo 'considerando', anziché ricordare agli Stati gli obblighi gravanti su di essi in tema di diritti fondamentali, afferma che la direttiva stessa «rispetta i diritti fondamentali ed i principi riconosciuti in particolare nell'articolo 8 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali». Alla luce di queste considerazioni l'avvocato generale arriva quindi automaticamente a constatare che «se si accontentassero della valutazione del legislatore comunitario, gli Stati membri non avrebbero più alcun motivo di svolgere in tema di diritti fondamentali dell'uomo considerazioni che non siano contenute nel testo della direttiva». Ne consegue quindi che «le esigenze di una effettiva tutela dei diritti dell'uomo e della certezza del diritto portano all'incompatibilità dell'art. 8 della direttiva con il diritto comunitario». L'intera valutazione compiuta dall'avvocato generale si discosta peraltro dalla statuizione della Corte circa l'infondatezza del ricorso. Egli infatti, trattando preliminarmente la questione dell'esistenza di un atto impugnabile, ritiene il ricorso irricevibile per l'impossibilità di pervenire ad un annullamento parziale della direttiva, che coinvolgesse cioè le sole norme impugnate dal Parlamento. Nel caso però in cui la Corte avesse svolto un esame nel merito, avrebbe dovuto a suo avviso annullare «l'articolo 4, n. 6 della direttiva [...] per la mancata consultazione del Parlamento, e l'art. 8 della direttiva per violazione del diritto alla protezione della vita familiare, diritto che fa parte dei diritti dell'uomo».

Diventa a questo punto utile svolgere alcune considerazioni conclusive circa l'atteggiamento dimostrato dalla Corte in un settore che risulta peraltro di estrema importanza nell'ambito del lavoro fin qui svolto. Nonostante l'iniziale centralità assegnata alla tutela dei diritti fondamentali, quali garantiti in particolare dal sistema convenzionale, all'interno dell'ordinamento comunitario e all'interpretazione di essi alla luce di quanto stabilito dalla giurisprudenza di Strasburgo più volte richiamata, la Corte approda tuttavia a conclusioni non pienamente coerenti con tali premesse. Dalla sentenza analizzata sembra infatti trasparire, più che una reale convinzione circa la infondatezza del ricorso del Parlamento e quindi la conformità delle disposizioni impugnate al diritto fondamentale al rispetto della vita familiare e al divieto di non discriminazione, la consapevolezza che la libertà concessa agli Stati di apporre limitazioni al ricongiungimento, abbia svolto una funzione irrinunciabile ai fini del raggiungimento di un accordo in seno al Consiglio. Si tratta d'altronde della stessa constatazione fatta dalla Repubblica federale di Germania, autorizzata all'intervento in sostegno del Consiglio, per contestare la possibilità di annullamento parziale della direttiva comunitaria (48). È infine la stessa Corte, nel giudizio relativo all'ultima disposizione impugnata, ad ammettere che la configurabilità di trattamenti differenziati in presenza di situazioni analoghe (inevitabile conseguenza della discrezionalità esercitabile dagli Stati), «non costituisce altro che l'espressione della difficoltà di procedere ad un ravvicinamento delle legislazioni in un settore che, fino a quel momento, ricadeva unicamente nella competenza degli Stati membri».

Non resta quindi altro che considerare la direttiva comunitaria come un primo e importante passo in vista di un'effettiva armonizzazione della disciplina europea del ricongiungimento familiare e di un pieno rispetto della vita familiare dei migranti, accogliendo tra l'altro con il giusto favore l'attuazione che di essa è stata data nell'ordinamento italiano, senza dar seguito, come sarà spiegato nel prossimo paragrafo, ad alcuna delle possibili deroghe, ed anzi recependo prontamente le (poche) disposizioni suscettibili di migliorare il trattamento attualmente riservato alle famiglie migranti dal T.U. sull'immigrazione.

4.3 Lo schema di decreto legislativo per l'attuazione della direttiva 2003/86/CE

Sebbene il termine di scadenza previsto dalla direttiva per conformarsi ad essa, fosse il 3 ottobre 2005 (49), l'Italia non ha ancora provveduto a tale adeguamento. Nella Legge comunitaria 2004 il Governo è stato tuttavia delegato a farlo entro il termine di diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della direttiva stessa (50).

Le norme del T.U. sull'immigrazione chiamate in causa dalla direttiva sono gli articoli 28, 29 e 30 anche se, ai sensi dell'articolo 3 della direttiva, agli Stati è riconosciuta la possibilità di mantenere in vigore le disposizioni più favorevoli contenute nelle rispettive normative nazionali, eventualità quest'ultima che trova realizzazione nella normativa italiana, in cui il regime cui è sottoposto il ricongiungimento familiare risulta nel complesso meno restrittivo di quello previsto dalla direttiva comunitaria (51). L'aspetto forse più preoccupante alla luce di un'effettiva tutela dei diritti dei migranti, è la possibilità riservata agli Stati di modificare la legislazione nazionale coerentemente a quanto disposto dalla direttiva, anche se ciò implichi un peggioramento della stessa. Si tratta di un'ipotesi configurabile nell'ordinamento italiano richiedendo ad esempio che il soggiornante che intende esercitare il diritto al ricongiungimento abbia «una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile» (52), che il ricongiungimento per i minori con più di dodici anni sia preventivamente sottoposto alle verifiche suddette, che la richiesta sia comunque presentata entro il compimento del quindicesimo anno di età o che il termine per esaminare le domande sia aumentato, rispetto a quanto attualmente previsto (53). Si tratta in ogni caso di modifiche che sarebbero chiaramente peggiorative.

Sono nondimeno individuabili nella normativa comunitaria, alcuni aspetti che, se debitamente recepiti, potrebbero garantire invece un trattamento di favore per i migranti. Il riferimento è in particolare alla possibilità di prevedere l'ingresso anche degli ascendenti del coniuge del soggiornante, il rilascio di un titolo di soggiorno autonomo in ogni caso dopo un periodo non superiore ai cinque anni (54) e la necessità di prendere in considerazione, nel caso di diniego, ritiro o mancato rinnovo del titolo di soggiorno, «la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d'origine» (55). Tale ultima previsione utilizza tra l'altro, come già accennato, criteri corrispondenti a quelli presi in considerazione dalla Corte EDU per verificare se uno Stato, nel respingere una domanda di ricongiungimento familiare, ha correttamente proceduto alla ponderazione degli interessi coinvolti (56).

Lo schema di decreto legislativo recante disposizioni di attuazione della direttiva comunitaria ha effettivamente apportato al T.U. sull'immigrazione tutte le possibili modifiche che, alla luce di quanto previsto da essa, determinano un miglioramento della disciplina del ricongiungimento (57).

È richiesto innanzitutto che la mancata ammissione di uno straniero nei confronti del quale è chiesto il ricongiungimento, sia giustificata dal fatto che questo rappresenti «una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza» (58). Il requisito dell'attualità sembra in un certo senso corrispondere all'importanza, sottolineata dalla giurisprudenza di Strasburgo con riferimento alla pericolosità di un soggetto destinatario di un ordine di espulsione, di tenere conto del periodo di tempo trascorso dalla consumazione del reato e il comportamento tenuto nello stesso periodo (59).

In secondo luogo, è stato letteralmente riprodotto il testo dell'articolo 17 della direttiva sopra riportato, con riferimento alle valutazioni necessarie sia al fine di revocare o rifiutare il rinnovo del permesso del soggiornante o di un membro della famiglia (60), sia ai fini dell'adozione di un provvedimento di espulsione amministrativa nei confronti dei medesimi soggetti (61).

Viene inoltre aggiunto tra i permessi di soggiorno che consentono al titolare di esercitare il diritto al ricongiungimento, quello per motivi familiari, colmando così una lacuna che tuttavia, come analizzato nel precedente capitolo, già la Corte di Cassazione aveva provveduto ad integrare in sede di applicazione pratica della normativa (62).

L'art. 29 del T.U. sull'immigrazione è stato invece integralmente riscritto dallo schema di decreto legislativo, introducendo modifiche di portata sostanziale, soprattutto con riferimento ai soggetti nei confronti dei quali è possibile richiedere l'ingresso in Italia ai fini del ricongiungimento, senza che il relativo trattamento sia stato minimamente compromesso dalla (strana) disciplina riservata dalla direttiva ai minori di dodici e quindici anni. Non sarà più necessario dimostrare che i figli rimasti nel paese di origine sono a carico del genitore che richiede il ricongiungimento, né che il richiedente non ha altri fratelli, come attualmente richiesto per consentire l'ingresso dei genitori (63). Basterà infatti dimostrare l'assenza di un adeguato sostegno familiare nel paese di origine o di provenienza. (64)

È importante infine rilevare l'introduzione anche di norme più flessibili sull'idoneità dell'alloggio, in base alle quali non sarà più obbligatoria la conformità alla legge regionale, essendo sufficiente che siano rispettati i requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dalla Asl competente. Gli effetti concreti delle modifiche finora analizzate saranno probabilmente esaminabili nel giro di pochi mesi, dal momento che le norme di attuazione e di integrazione dello schema di decreto legislativo, come quelle necessarie per il coordinamento con il D.P.R. n. 394/1999 dovrebbero essere emanate entro 180 giorni dall'entrata in vigore dello stesso schema di decreto. (65)

4.4 L'applicazione dell'articolo 8 della CEDU da parte della Corte di giustizia

Volendo dividere, anche con riguardo alla giurisprudenza di Lussemburgo, le conseguenze derivanti dal rispetto della vita familiare in ragione del tipo di obblighi (positivi o negativi) imposti agli Stati, ritengo utile partire dalle considerazioni svolte dall'avvocato generale Kokott relativamente al rapporto tra l'articolo 8 della CEDU e il diritto al ricongiungimento familiare.

La giurisprudenza in questo settore, anteriormente all'emanazione della direttiva prima analizzata, si è sviluppata principalmente attraverso i casi in cui si trattava di decidere circa il diritto di soggiorno dei familiari (indipendentemente dalla loro cittadinanza) di cittadini comunitari che, nell'esercizio delle libertà fondamentali (66), avevano stabilito la propria residenza in uno Stato diverso da quello di origine. Risultano esemplificative in particolare due sentenze rese in via pregiudiziale, dalle quali si evince una chiara interpretazione delle norme di diritto comunitario rilevanti in questo settore.

Nel primo caso venne sottoposta alla Corte una questione pregiudiziale relativa all'interpretazione dell'articolo 49 del Trattato CE e della direttiva del Consiglio relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri all'interno della Comunità in materia di stabilimento e di prestazione di servizi (67). In particolare si chiedeva alla Corte se, sulla base delle suddette disposizioni, fosse possibile dedurre per il coniuge non comunitario il diritto di soggiornare con il proprio coniuge, nello Stato membro di origine di quest'ultimo (68). La Corte sottolinea innanzitutto che «giacché la direttiva è volta a facilitare l'esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi da parte dei cittadini degli stati membri, i diritti attribuiti ai coniugi (69) dei cittadini degli Stati membri vengono loro riconosciuti affinché possano accompagnare questi ultimi quando, spostandosi o soggiornando in un altro Stato membro diverso dal loro Stato membro di origine, esercitano, alle condizioni previste dalla direttiva, i diritti derivanti dal Trattato» (70). Con lo scopo di eliminare gli ostacoli suscettibili di influire sull'esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato, «il legislatore comunitario ha riconosciuto l'importanza di garantire la tutela della vita familiare dei cittadini degli stati membri». Ad uno Stato membro è consentita tuttavia l'adozione di misure nazionali che ostacolino l'esercizio della libera prestazione di servizi, ma solo qualora esse risultino conformi ai diritti fondamentali di cui la Corte garantisce la tutela e quindi, nel caso di specie, al diritto al rispetto della vita familiare. Conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza di Strasburgo (71), la Corte afferma infatti che «l'esclusione di una persona da un paese in cui vivono i suoi congiunti, può rappresentare un'ingerenza nell'esercizio del diritto al rispetto della vita familiare come tutelato dall'art. 8, n. 1, della Convenzione. Una simile ingerenza viola la Convenzione a meno che essa non corrisponda ai requisiti di cui al n. 2 dello stesso articolo», rendendo pertanto necessaria l'individuazione del giusto equilibrio tra il rispetto del suddetto diritto e altre esigenze tra cui la salvaguardia dell'ordine pubblico e della pubblica sicurezza. Viene quindi constatato che la richiedente ha contratto un «matrimonio autentico» e che «conduce una vita familiare effettiva occupandosi in particolare dei figli di suo marito». È facile notare che la Corte non dedica particolare attenzione, in questa come in altre pronunce, alla definizione di famiglia, tutelabile ai sensi dell'articolo 8 della CEDU, evitando ad esempio di soffermarsi sulle questioni relative alle ipotesi di convivenza di fatto in assenza di un vincolo giuridico-formale o di assenza di convivenza (in particolare tra genitori e figli), nonostante esse, come ampiamente trattato nel precedente capitolo, abbiano a lungo costituito un aspetto fondamentale della tutela della vita familiare, peraltro diversamente affrontato, nel corso degli anni, dalle giurisdizioni nazionali ed europee. Con riguardo alla prima questione si potrebbe tuttavia facilmente dedurre che la Corte, facendo costante riferimento ai coniugi e all'esistenza di un matrimonio o di un vincolo coniugale (72), dia per scontata l'esigenza di un tale vincolo (73), mentre con riguardo alla problematica della coabitazione del nucleo familiare è più difficile prevedere quale potrebbe essere la sua posizione. In ogni caso sarebbe comunque auspicabile, al fine di garantire coerenza e omogeneità al sistema di protezione dei diritti sanciti dalla CEDU, che la Corte di giustizia facesse riferimento anche in questo settore alla giurisprudenza di Strasburgo. Alla luce delle considerazioni condotte nel caso in esame, la Corte conclude che «l'art. 49 CE, letto alla luce del diritto fondamentale al rispetto della vita familiare, dev'essere interpretato nel senso che osta a che [...] lo Stato membro di origine di un prestatore di servizi stabilito in tale Stato, il quale fornisce servizi a destinatari stabiliti in altri Stati membri, neghi il diritto di soggiorno nel suo territorio al coniuge del detto prestatore, cittadino di un paese terzo».

Nel secondo caso vengono sottoposte alla Corte questioni sostanzialmente analoghe, vertenti sull'interpretazione delle disposizioni di diritto comunitario (74), relative alla libera circolazione delle persone e al diritto di soggiorno di un cittadino di un paese terzo coniugato con un cittadino di uno Stato membro. La situazione riguardava in particolare un cittadino di un primo Stato membro, coniugato con un cittadino di un paese terzo con il quale viveva in un secondo Stato membro. A fronte del desiderio del cittadino comunitario di rientrare nello Stato di origine per esercitare un'attività lavorativa subordinata, insieme al coniuge, veniva però in rilievo che quest'ultimo non fruiva dei diritti previsti dalla direttiva relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli Stati membri e delle loro famiglie all'interno della Comunità. Ad avviso della Corte «le autorità competenti del primo Stato membro devono, per valutare la domanda di ingresso e di soggiorno del detto coniuge nel territorio di quest'ultimo stato, tener conto del diritto al rispetto della vita familiare ai sensi dell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali [...], sempreché il matrimonio sia autentico» (75). Coerentemente con quanto affermato in quell'occasione, la Corte ha successivamente ritenuto che uno Stato membro non sia autorizzato a negare l'ingresso e il soggiorno di uno straniero coniugato con un cittadino comunitario per il solo motivo che egli «è entrato illegalmente nel territorio dello Stato membro interessato» (76). Pur in assenza di un espresso richiamo, sembra evidente che la giurisprudenza di Strasburgo può aver verosimilmente fornito la giusta chiave di lettura dell'articolo 8 della CEDU, nel momento in cui la Corte di giustizia ritiene necessario procedere ad un effettivo bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti, concludendo così che, in presenza di una vita familiare effettiva, un'ingerenza da parte dello Stato attraverso il diniego del permesso di soggiorno per il cittadino non comunitario, «costituirebbe una sanzione manifestamente sproporzionata in rapporto alla gravità dell'inosservanza delle prescrizioni nazionali relative al controllo degli stranieri» (77).

Analoghe considerazioni possono essere dedotte dalle conclusioni cui è giunta la Corte in una recente pronuncia, sempre relativa alla libera circolazione delle persone, in cui si dichiara che uno Stato viene meno agli obblighi ad esso incombenti in forza della direttiva comunitaria 64/221/CEE, se impedisce l'ingresso dei coniugi di cittadini comunitari, perché segnalati nel sistema di informazione Schengen, «senza aver preliminarmente verificato se la presenza di tali persone costituisse una minaccia effettiva, attuale e abbastanza grave per un interesse fondamentale della collettività» (78).

Come emerge chiaramente dalle sentenze analizzate, per quanto la Corte assegni un ruolo importante alla CEDU e all'interpretazione che di essa fornisce la Corte di Strasburgo, il diritto al rispetto della vita familiare assume tuttavia rilievo, non in quanto tale, ma piuttosto quale corollario del fondamentale principio della libertà di circolazione stabilito in ambito comunitario, in modo tale che il suo pieno godimento sia volto principalmente all'eliminazione degli ostacoli all'esercizio delle libertà fondamentali enunciate dal Trattato CE (79).

In tutti i casi sopra esaminati quindi, la combinazione di un diritto di soggiorno di origine comunitaria in capo ai cittadini degli Stati membri, con il principio del rispetto della vita familiare, ha condotto all'esistenza di un diritto di soggiorno anche ai membri della loro famiglia, indipendentemente dalla loro cittadinanza, «che può venire limitato solo in casi eccezionali e a condizioni molto rigorose» (80). Non si può tuttavia omettere di considerare che, per quanto riguarda invece il ricongiungimento familiare di famiglie i cui membri sono esclusivamente cittadini di paesi terzi, non è individuabile nell'ordinamento giuridico comunitario un simile diritto di soggiorno e, non essendo quindi possibile trasporre automaticamente a queste situazioni le summenzionate pronunce della Corte di giustizia, risulta imprescindibile il riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo. È effettivamente questa la conclusione cui si giunge, ad esempio, nella sentenza della Corte di giustizia del 28 giugno 2006, senza tuttavia conformarsi in modo completo a quella giurisprudenza o arrivando talvolta persino a travisarne le affermazioni. Induce a questa constatazione soprattutto quanto affermato dall'avvocato generale con riferimento al ricorso presentato dal Parlamento avverso la direttiva comunitaria relativa al ricongiungimento familiare, nelle cui conclusioni si legge infatti che «Secondo l'opinione della Corte eur. D.U. il rifiuto del ricongiungimento non rappresenta [...] un'ingerenza nell'art. 8 della CEDU, tale da esigere l'esistenza di una giustificazione». Risulta quasi impossibile conciliare questa posizione con l'ampia giurisprudenza di Strasburgo relativa all'interpretazione del diritto al rispetto della vita familiare precedentemente analizzata: basti richiamare le numerose occasioni in cui la Corte EDU ha sottolineato che il rispetto della vita familiare non si esaurisce nel limitare le ingerenze statali, ma implica la presenza anche di obbligazioni positive, volte a garantire l'effettivo godimento di tale diritto, ben potendosi ciò tradurre nel dovere di permettere l'ingresso nel proprio territorio di uno straniero, ai fini di ricongiungimento, ovvero di sviluppo della vita familiare, con la conseguenza che un rifiuto di tale possibilità è legittimamente configurabile solo se giustificato ai sensi del secondo comma dell'articolo 8 (81). È importante a tal riguardo ricordare che, pur in assenza di una precisa definizione che permetta in ogni caso di distinguere le obbligazioni positive da quelle negative, «in entrambi i casi deve essere garantito il giusto bilanciamento tra i contrapposti interessi del singolo individuo e della società nel suo complesso» (82). Com'è possibile allora sostenere l'assenza di un obbligo di giustificazione ai sensi dell'articolo 8, comma 2 della CEDU, del diniego di ingresso per ricongiungimento? Si noti che in questo caso l'avvocato generale, non fa riferimento ad alcuna pronuncia della Corte EDU, a conferma della sua conclusione. La stessa Corte di giustizia ammette invece, come prima riportato, che dal rispetto della vita familiare conseguono a carico degli Stati membri della Comunità europea, anche obbligazioni positive che si traducono generalmente proprio nel «consentire ad un soggetto di fare ingresso e di risiedere sul proprio territorio» (83). L'avvocato generale riconosce tuttavia, con riferimento però solo alla presenza di figli, che «la necessaria ponderazione degli elementi del singolo caso può costituire il fondamento di un diritto al ricongiungimento» (84). La sussistenza di un approccio maggiormente garantista nel caso in cui siano coinvolti i figli è peraltro dimostrato da un'ulteriore sentenza della Corte di giustizia che, fornendo un'interpretazione estensiva delle direttive comunitarie in materia di soggiorno, ha dichiarato l'esistenza di un diritto di soggiorno per i genitori, cittadini di un paese terzo, di un cittadino comunitario, anche se non a carico di quest'ultimo. La direttiva 90/364/CEE (85) garantisce infatti tale diritto ai soli ascendenti a carico, mentre ad avviso della Corte, dal momento che anche un minore cittadino di uno Stato membro è titolare dei diritti di libera circolazione e di soggiorno garantiti dal diritto comunitario, «il rifiuto di consentire al genitore cittadino di uno Stato terzo che effettivamente ha la custodia di un figlio [...], di soggiornare con tale figlio nello Stato membro ospitante, priverebbe di qualsiasi effetto utile il diritto di soggiorno di quest'ultimo» (86). Anche in questo caso la lettura dei diritti fondamentali è comunque condotta alla luce dei diritti garantiti dall'ordinamento comunitario: in tal senso una diversa conclusione della Corte sarebbe risultata in contrasto con la sua costante giurisprudenza volta a sottolineare le esigenze connesse all'unità familiare, in quanto strumento per l'effettiva realizzazione delle libertà fondamentali sancite dal Trattato CE (87).

A conclusioni non diverse si giunge analizzando alcune pronunce della Corte di giustizia relative all'adozione di provvedimenti di espulsione, lesivi dell'unità familiare. Con un'importante sentenza resa in via pregiudiziale, la Corte ha stabilito alcuni criteri che le autorità amministrative e giudiziarie nazionali sono tenute a seguire nella valutazione di legittimità di un provvedimento di espulsione adottato nei confronti di cittadini di Stati con i quali la Comunità ha stipulato accordi di associazione. Il riferimento era all'incidenza di una sentenza di condanna sull'esercizio di taluni diritti. In base all'accordo di associazione tra Comunità europea e Turchia del 19 settembre 1980, i giudici nazionali sono in particolare obbligati «a prendere in considerazione [...] determinati dati di fatto successivi all'ultimo provvedimento delle autorità competenti, che non consentano più una limitazione dei diritti dell'interessato» (88). Questa pronuncia si colloca sulla scia del tentativo di giungere ad un'equiparazione tra i cittadini comunitari e quelli di paesi con i quali vi siano accordi, dal punto di vista della libera circolazione e dei limiti all'espulsione legata a motivi di ordine pubblico (89). Ancora una volta i criteri enunciati in ambito comunitario (tra i fatti rilevanti nel caso di specie può essere annoverata ad esempio la condotta tenuta dal soggetto destinatario dell'espulsione), risultano conformi a quelli previsti dalla giurisprudenza di Strasburgo (90). La conclusione cui pervengono entrambe le Corti è in linea con la necessità di accertarsi che il provvedimento di espulsione non sia giustificato da esigenze general-preventive, ma sia piuttosto fondato sulla sussistenza di un pericolo concreto e attuale, escludendo così qualsiasi automaticità tra sentenza di condanna ed espulsione. (91) È utile ricordare che la stessa Corte di Cassazione italiana, come ampiamente analizzato (92), ha dichiarato l'illegittimità di un sistema di espulsione automatica conseguente ad una condanna penale, ritenendo invece prevalenti i diritti fondamentali garantiti in ambito internazionale e richiamati dal diritto comunitario (93). In base al suddetto accordo, gli Stati sono autorizzati ad avvalersi di motivi di ordine pubblico, di sicurezza e di sanità pubblica, al fine di limitare i diritti dei cittadini di paesi terzi e dei loro familiari regolarmente soggiornanti nel loro territorio. Per giungere effettivamente all'equiparazione prima menzionata, la nozione di ordine pubblico dev'essere intesa in modo restrittivo e soprattutto «occorre far riferimento all'interpretazione della medesima eccezione elaborata in tema di libera circolazione dei lavoratori che siano cittadini degli Stati membri della Comunità». Utilizzando le prescrizioni contenute nella direttiva 64/221/CEE, prima citata, le autorità nazionali dovranno quindi «accertare nel caso concreto se il provvedimento o le circostanze che hanno portato a tale condanna provino un comportamento personale che costituisca una minaccia attuale per l'ordine pubblico».

Richiamando quanto ripetutamente sottolineato dai giudici di Lussemburgo, è quindi indubbio che «la Corte di giustizia delle Comunità europee in sede di interpretazione dei diritti fondamentali dei quali la stessa garantisce l'osservanza, deve tener conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che a sua volta interpreta la Convenzione europea dei diritti dell'uomo» (94). Come è possibile evincere dalla normativa comunitaria e dall'interpretazione di questa fornita dalla Corte in sede di rinvio pregiudiziale, sussiste una chiara e comprensibile differenza di trattamento tra i cittadini comunitari e quelli appartenenti ai paesi terzi. Nel momento in cui questa differenza viene però ad incidere, seppur indirettamente, sui diritti garantiti «ad ogni persona» (95) dalla CEDU, ciò potrebbe costituire una violazione, da parte degli Stati parte del sistema convenzionale, del divieto di discriminazione, quale previsto dall'articolo 14 della CEDU stessa. I giudici di Strasburgo sono tuttavia intervenuti a dirimere eventuali contrasti tra giurisdizioni, configurabili a tal riguardo, in occasione della pronuncia resa nel caso C. c. Belgio, analizzata nel precedente capitolo. Il ricorrente sosteneva, tra l'altro, di essere stato vittima di una discriminazione fondata sulla nazionalità, poiché la sua espulsione si traduceva in un trattamento meno favorevole di quello riservato agli autori di reati che, in quanto cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea, risultavano invece protetti contro tali provvedimenti. Pronunciandosi quindi sull'asserita violazione dell'articolo 14 della CEDU in connessione con l'articolo 8, la Corte concluse che «tale trattamento preferenziale è basato su un motivo oggettivo e ragionevole, dal momento che gli Stati membri dell'Unione europea costituiscono un ordinamento giuridico particolare che ha, conseguentemente, introdotto una sua propria cittadinanza». Viene tra l'altro richiamata la sentenza Moustaquim in cui la Corte aveva chiarito che «l'articolo 14 protegge gli individui che si trovano in condizioni analoghe, da ogni discriminatoria differenza di trattamento nell'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione e dai suoi protocolli» (96), e che alla luce di ciò era pienamente giustificata la differenza di trattamento tra i cittadini comunitari e quelli di Stati terzi, in ragione della diversa condizione (appartenenza o meno ad uno speciale ordinamento giuridico) in cui essi versano.

Sembra pertanto impossibile, quantomeno allo stato attuale della giurisprudenza di Strasburgo, pretendere l'estensione anche ai cittadini di paesi terzi, del trattamento riservato dall'ordinamento comunitario ai propri cittadini, nonostante tale obbiettivo sia stato affermato, come già sottolineato, fin dal 1999 in occasione del Consiglio europeo di Tampere. Riveste comunque un ruolo fondamentale a tal riguardo la direttiva in materia di ricongiungimento familiare, in precedenza analizzata, nonostante la fondatezza delle critiche ad essa indirizzate. È possibile infatti constatare innanzitutto che la connessione di tale settore con il diritto comunitario è evidente (97). Ne consegue pertanto che gli atti con cui gli Stati vi danno attuazione sono sindacabili da parte della Corte anche alla luce del rispetto dei diritti fondamentali, in ragione di quanto disposto dall'articolo 46, lett. d) del Trattato sull'Unione europea come interpretato dalla Corte stessa (98). Questa sarà quindi tenuta al controllo della normativa nazionale emanata in materia, garantendo piena applicazione delle norme convenzionali, indipendentemente dalla cittadinanza dei soggetti coinvolti, e ricordando comunque agli Stati che essi, anche qualora agiscano al di fuori dell'ambito di applicazione del diritto comunitario, hanno prima di tutto il dovere di «rispettare gli obblighi loro imposti dall'art. 8 della CEDU, non in quanto vincolati dal diritto comunitario, ma in quanto firmatari della CEDU» (99).

Note

1. Sono invece esclusi dal campo di applicazione della direttiva i soggetti in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato e i beneficiari di altra protezione temporanea o sussidiaria, analogamente a quanto previsto dall'articolo 29 del T.U. sull'immigrazione.

2. Cfr. Corte di giustizia, sentenza del 18 maggio 1989, Commissione c. Repubblica Federale tedesca, causa 249/86 in «Raccolta» 1989.

3. Da rilevare, ad ulteriore conferma di ciò, la mancata partecipazione all'adozione della direttiva di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca.

4. Cfr. C.U. de Sousa, Le regroupement familial au regard des stansards internationaux in F. Juliene-Laferriere, H. Labayle, O. Edstrom (a cura di), La politique européenne d'immigration et d'asile: bilan critique des cinq ans après le traité d'Amsterdam. The european immigration and Asylum Policy: Critical assessment five years after the Amsterdam Treaty, Bruylant 2005.

5. Ai sensi del quarto 'considerando' della direttiva, «il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare. Esso contribuisce a creare una stabilità socioculturale che facilita l'integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri, permettendo d'altra parte di promuovere la coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità, enunciato dal Trattato».

6. Proposta di direttiva del Consiglio relativa al diritto al raggruppamento familiare dell'1 dicembre 1999.

7. Proposta modificata di direttiva del Consiglio relativa al diritto al raggruppamento familiare del 27 agosto 2002.

8. Nel nono 'considerando' della direttiva si afferma che «il ricongiungimento dovrebbe riguardare in ogni caso i membri della famiglia nucleare, cioè il coniuge e i figli minorenni», mentre nel successivo 'considerando' si lascia la possibilità agli Stati di disciplinare autonomamente il ricongiungimento degli altri parenti.

9. Il Consiglio europeo di Tampere era volto a realizzare la strategia dell'Unione di pervenire ad una politica comune europea in materia di asilo e immigrazione, articolata in quattro punti: a) necessaria collaborazione con i paesi di origine degli immigrati; b) importanza di un regime comune europeo in materia di asilo; c) equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi; d) importanza di una chiara politica di gestione dei flussi migratori. Per un approfondimento sul tema si veda L. Zanfrini, op. cit., pp. 116-117.

10. Cfr. il punto 18 delle conclusioni di Tampere. Si tratta di un obbiettivo riconosciuto, almeno formalmente, anche nel testo definitivo della direttiva. Si veda in proposito il secondo 'considerando'.

11. Per una puntuale ricostruzione del percorso che ha portato all'adozione della direttiva in questione si veda C.U. de Sousa, Le regroupement familial au regard des stansards internationaux in F. Juliene-Laferriere, H. Labayle, O. Edstrom (a cura di), op. cit.

12. Si veda ad esempio il decimo 'considerando' della direttiva. Sarà tra l'altro interessante capire come sarà affrontata la problematica connessa alle coppie omosessuali, dal momento che la direttiva si limita a parlare di coniuge o partner non coniugato.

13. Articolo 2 della direttiva.

14. Articolo 8.

15. Articolo 4, comma 1.

16. Articolo 4, comma 6.

17. Articolo 15.

18. Articolo 16.

19. Articolo 6, comma 2 del Trattato sull'Unione europea.

20. Secondo quanto riportato in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto», n. 49 del 2003, un totale disaccordo con la disciplina prevista dalla direttiva è stato manifestato da circa cento organizzazioni non governative e dalla Caritas Europa, che hanno inoltrato a Pat Cox, allora presidente del Parlamento europeo, la richiesta di adire la Corte di giustizia per l'annullamento della direttiva stessa. Si veda in proposito il sito del Coordinamento europeo per il diritto degli stranieri a vivere in famiglia e in particolare la sezione dedicata al Lobbying presso il Parlamento Europeo perché avvii la procedura di annullamento della Direttiva sul ricongiungimento familiare degli stranieri. Per un approfondimento si veda anche C.U. de Sousa, Le regroupement familial au regard des stansards internationaux in F. Juliene-Laferriere, H. Labayle, O. Edstrom (a cura di), op. cit., p. 127 ss.

21. Articolo 4, comma 1.

22. Si noti che in tale sede è considerato come fanciullo «ogni essere umano avente un'età inferiore a diciott'anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile».

23. Si vedano l'articolo 1 e l'articolo 9 della Convenzione. Si veda inoltre l'articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

24. Articolo 10 della Convenzione.

25. Si vedano in proposito le considerazioni svolte dal giudice Martens nell'opinione dissenziente relativa alla decisione resa dalla Corte EDU nel caso Gül c. Svizzera, cit. Si veda inoltre l'opinione concordante del giudice Turmen, relativa alla sentenza del 21 dicembre 2001, Sen c. Paesi Bassi, in cui si considera tale disciplina improntata ad uno spirito restrittivo, incompatibile con la tutela dei diritti dell'uomo e del fanciullo in particolare.

26. Per osservazioni in tal senso si veda C.U. de Sousa, Le regroupement familial au regard des stansards internationaux in F. Juliene-Laferriere, H. Labayle, O. Edstrom (a cura di), op. cit.

27. Articolo 19, comma 6 della Carta sociale europea.

28. In base alla formulazione dell'articolo 4, comma 3, gli Stati potrebbero limitare la possibilità di ricongiungimento al coniuge del soggiornante, senza incorrere in alcuna violazione dei diritti fondamentali e quindi creando un evidente contrasto giurisprudenziale tra Strasburgo e Lussemburgo nel caso in cui una situazione analoga fosse sottoposta ad entrambe le Corti.

29. Sentenza Johnston c. Irlanda, cit. Si ricordi anche la sentenza Kroon c. Paesi Bassi, cit.

30. Secondo l'articolo 44, comma 2, «Gli Stati membri adottano le misure che ritengono appropriate e di loro competenza, per agevolare il ricongiungimento dei lavoratori migranti con i loro congiunti o con le persone con le quali hanno relazioni che, in virtù della normativa applicabile, producono effetti equivalenti a quelli del matrimonio, come anche con i loro figli minori e non coniugati».

31. Come verrà approfondito nel paragrafo 4.1, la stessa Corte di giustizia fa spesso riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo.

32. Si vedano ad esempio la direttiva comunitaria 2001/55/CE del 20 luglio 2001, relativa alla protezione temporanea (Norme minime per la concessione di una protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di rifugiati e misure volte ad assicurare un equilibrio tra gli sforzi compiuti dagli Stati membri per accogliere tali persone e sopportare le conseguenze di questa accoglienza), il regolamento Dublino II del 18 febbraio 2003, n. 343, che stabilisce i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro competente ad esaminare una domanda d'asilo presentata nel territorio di uno Stato membro da parte di un cittadino di un Paese terzo, e la direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004, sul diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell'Unione europea e dei membri delle loro famiglie. Per un quadro generale della normativa interessata dalla direttiva si vedano le considerazioni svolte dall'Avvocato generale J. Kokott dell'8 settembre 2005.

33. Si vedano l'articolo 16, comma 1, lett. a) e l'articolo 7, comma 1, lett. c).

34. Articolo 8, comma 2 CEDU.

35. A conferma dell'importanza attribuita al criterio della proporzionalità, si vedano le sentenze della Corte EDU, analizzate nel precedente capitolo.

36. Si veda anche quanto detto in proposito ai ricorsi presentabili alla Corte di giustizia nel paragrafo 2.2.2.

37. Ricorso presentato il 22 dicembre 2003 dal Parlamento europeo contro il Consiglio dell'Unione europea, Causa C-540/03.

38. Corte di giustizia, sentenza del 1 giugno 1994, Parlamento c. Consiglio, causa C-388/92 in «Raccolta» 1994, p. I-2067.

39. Tesi sostenuta in particolare dall'avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer, come riportato nelle conclusioni in esame.

40. Articolo 46, lett. d) del Trattato sull'Unione europea.

41. Corte di giustizia, sentenza del 27 giugno 2006, Causa C-540/03, Parlamento europeo c. Consiglio dell'Unione europea.

42. Da notare che la Repubblica federale di Germania basava la sua considerazione unicamente sul fatto che quella disposizione costituiva uno dei punti cruciali del compromesso politico che aveva permesso l'adozione della direttiva stessa.

43. Si vedano tra le altre, le sentenze, citate dalla Corte stessa nella pronuncia in esame, rese nel caso Carpenter dell'11 luglio 2002, causa C-60/00 e Akrich del 23 settembre 2003, causa C-109/01, che verranno analizzate nel presente capitolo.

44. Vengono in particolare richiamate le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo Sen c. Paesi Bassi, Gül c. Svizzera e Ahmut c. Paesi Bassi.

45. Articolo 5, n. 5 e articolo 17. I criteri di valutazione dettati dalla Corte di giustizia, non possono non ricordare quanto ripetutamente affermato dalla Corte EDU in materia di corretto bilanciamento degli interessi coinvolti. Si veda fra tutte la sentenza del 15 luglio 2003, Mokrami c. Francia, ric. n. 52206/99, parzialmente riprodotta in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 3/2003, p. 89 ss., dove vengono peraltro espressamente richiamate tutte le principali pronunce della Corte rilevanti per l'argomento trattato.

46. Si noti che la Corte sostiene ripetutamente la tesi opposta senza tuttavia specificare a quale obbiettivo concreto faccia riferimento, limitandosi ad affermare che «la necessità dell'integrazione può emergere da più legittimi scopi tra quelli enunciati dall'art. 8, n. 2, della CEDU».

47. Rilievo ritenuto invece privo di importanza da parte della Corte: «poco importa [...] che la normativa nazionale che precisi il criterio di integrazione applicabile abbia dovuto sussistere solamente alla data di attuazione della direttiva e non alla data della sua entrata in vigore o della sua emanazione».

48. Nella sentenza si legge infatti che «la Repubblica federale di Germania sottolinea, in limine, l'importanza che, a suo parere, riveste l'art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, che conterrebbe uno dei punti centrali del compromesso grazie al quale sarebbe stato possibile pervenire all'adozione della direttiva».

49. Articolo 20.

50. Si veda l'allegato B alla Legge del 18 aprile 2005, n. 62 recante Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee, pubblicata nel Supplemento Ordinario n. 76 alla Gazzetta Ufficiale italiana n. 96 del 27 aprile 2005.

51. Si tratta di una constatazione non certo positiva, se si considera che le modifiche introdotte dalla legge Bossi-Fini alla normativa italiana sull'immigrazione sono anch'esse notoriamente restrittive.

52. Articolo 3 della direttiva comunitaria 2003/86/CE. Si vedano in proposito le considerazioni svolte da C. Favilli, Coniuge e figli minori ricongiunti d'obbligo in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto», Monografia dell'edizione n. 5/2005, p. 149, in cui viene rilevata l'assenza di tale requisito nella normativa italiana, dal momento che tra i soggetti che possono esercitare il diritto in esame rientrano i titolari del permesso di soggiorno per motivi di studio, che non implica necessariamente una fondata prospettiva di soggiorno stabile.

53. L'articolo 29, comma 8 del T.U. sull'immigrazione prevede che «Trascorsi novanta giorni dalla richiesta del nulla osta, l'interessato può ottenere il visto di ingresso direttamente dalle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane, dietro esibizione della copia degli atti contrassegnata dallo sportello unico per l'immigrazione, da cui risulti la data di presentazione della domanda e della relativa documentazione».

54. La normativa attualmente in vigore in Italia (articolo 30, comma 5 del T.U. sull'immigrazione) riserva tale possibilità al caso di morte del familiare, di separazione o di scioglimento del matrimonio.

55. Articolo 17 direttiva.

56. Si tratta di una precisazione compiuta dalla stessa Corte di Giustizia nella sentenza appena esaminata.

57. Tale schema risale al 28 giugno 2006. Gli articoli che sono stati, anche in piccola parte, integrati o modificati, sono tra l'altro più numerosi di quelli apparentemente interessati dalla direttiva.

58. Articolo 2, comma 1, lett. a) dello schema di d. lgs.

59. Cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza Boultif, cit.

60. Il periodo che l'articolo 2, comma 1, lett. b) dello schema di d. lgs. introduce all'articolo 5, comma 5 del d. lgs. 286/1998, dispone che «Nell'adottare il provvedimento di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto [...], si tiene conto anche della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine».

61. Si veda l'articolo 2, comma 1, lett. a) dello schema di d.lgs., che introduce il comma 2-bis all'articolo 13 del d. lgs. 286/1998.

62. Sentenza n. 1714/2001, cit.

63. Secondo il Ministro dell'Interno Amato, non ha innanzitutto alcuna importanza «se un genitore ha un altro figlio se poi sono morti di fame entrambi» e inoltre, considerando «il diritto al nonno un diritto fondamentale dei minori», è importante favorire il ricongiungimento con i genitori, dal momento che questo implica l'ingresso in Italia di tanti nonni disponibili ad accudire i nipoti, contribuendo così al benessere del nucleo familiare. Si veda in proposito l'articolo di E. Pasca, Più semplici i ricongiungimenti. Recepita una direttiva Ue: sarà più facile abbracciare figli e genitori. Ora bisogna aspettare che il decreto approvato dal Governo arrivi in Gazzetta Ufficiale, La Repubblica, 28 luglio 2006.

64. Si veda l'articolo 2, comma 1, lett. e) dello schema di decreto legislativo.

65. Articolo 4 dello schema di decreto legislativo.

66. L'articolo 49 del Trattato CE stabilisce che «le restrizioni alla libera prestazione di servizi all'interno della Comunità sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un paese della Comunità che non sia quello del destinatario della prestazione». Tale norma si inserisce nel più ampio contesto dei cosiddetti 'imperativi della libera circolazione' (cfr. G. Gaja, Introduzione al diritto comunitario, cit., p. 93), riferiti alla circolazione di merci, persone, servizi e capitali. Per quanto riguarda in particolare i cittadini comunitari, in base all'articolo 18 del Trattato CE, essi sono titolari del «diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente Trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso».

67. Direttiva 73/148/CEE del 21 maggio 1973.

68. La questione fu sottoposta dall'Immigration Appeal Tribunal del Regno Unito, investito dell'appello della signora Carpenter, sposata con un cittadino britannico, cui era stato impedito di soggiornare con il marito, nel paese di origine di quest'ultimo.

69. Si noti che la direttiva in questione è finalizzata all'eliminazione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno anche con riferimento ad altri membri della famiglia dei cittadini comunitari: figli di età inferiore a 21 anni, ascendenti e discendenti a carico, anche del coniuge. Analoga previsione è contenuta in un'altra direttiva in materia di libera circolazione delle persone, che sarà successivamente analizzata.

70. Corte di giustizia, sentenza dell'11 luglio 2002, Carpenter, causa C-60/00 in «Raccolta» 2002, p. I-6279.

71. Viene infatti richiamata, tra le altre, la sentenza Boultif c. Svizzera.

72. In questo senso, oltre alle sentenze esaminate si veda ad esempio la sentenza della Corte di giustizia del 25 luglio 2002, Mouvement contre le racisme, l'antisémitisme et la xénophobie ASBL (Mrax) c. Regno del Belgio, causa C- 459/99, che sarà analizzata in seguito. Quest'ultima, come d'altronde molte altre, richiama espressamente la sentenza Carpenter per corroborare l'affermazione circa l'importanza che il legislatore comunitario ha ricollegato alla protezione della vita familiare.

73. Si vedano le considerazioni svolte nel paragrafo 4.1 relativamente alla distinzione tra partner coniugati e non, presente nella direttiva 2003/86/CE.

74. Il riferimento è in particolare all'articolo 49 del Trattato CE, alla direttiva del Consiglio del 25 febbraio 1964, 64/221/CEE per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, al regolamento del Consiglio del 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità e alla direttiva del Consiglio del 15 ottobre 1968, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli Stati membri e delle loro famiglie all'interno della Comunità.

75. Corte di giustizia, sentenza Akrich, cit.

76. Corte di giustizia, sentenza Mrax, cit.

77. Nel caso sottoposto alla Corte veniva in rilievo sia la questione del trattenimento del cittadino non comunitario nello Stato belga oltre la scadenza del visto che quella del'ingresso illegale.

78. Corte di giustizia, sentenza del 31 gennaio 2006, Commissione delle Comunità europee c. Regno di Spagna, causa C-503/03. Si veda anche la sentenza del 29 aprile 2004, nei procedimenti riuniti C-482/01 e C-493/01, aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte con riferimento alla libera circolazione delle persone, a norma dell'art. 234 CE, dal Verwaltungsgericht Stuttgart (Germania) nelle cause dinanzi ad esso pendenti, in cui la Corte afferma la necessità che «la valutazione effettuata caso per caso dall'autorità nazionale di dove si situi il giusto equilibrio tra gli interessi legittimi presenti avvenga nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario, e in particolare tenendo debitamente conto del rispetto dei diritti fondamentali, come la tutela della vita familiare».

79. Per considerazioni in tal senso si veda soprattutto la sentenza Carpenter, cit.

80. È quanto affermato dall'avvocato generale Kokott nelle conclusioni relative alla causa C-540/03 e C-503/03, cit.

81. Si veda in proposito il paragrafo 3.5 e in particolare le sentenze Sen e Gül, citate. La stessa Corte di giustizia peraltro, fin dal 1985 era giunta alle medesime conclusioni nella sentenza X e altro c. Paesi Bassi in «Rivista di diritto internazionale» 1987, p. 147, affermando che «l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo [...], impone allo Stato un obbligo di carattere non solo negativo, dato che la tutela effettiva della vita privata e familiare può implicare ugualmente l'adozione di misure che ne assicurino il rispetto».

82. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza dell'11 luglio 2000, Ciliz c. Paesi Bassi, n. 29192/95.

83. Cfr. paragrafo 4.2.

84. Viene in particolare richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 21 dicembre 2001, Sen c. Paesi Bassi. Anche in tale occasione la Corte ripete che in base all'articolo 8 della CEDU gravano sugli Stati membri anche obbligazioni positive con la conseguenza che, anche il rifiuto di un permesso di soggiorno richiesto con la finalità di garantire il godimento della vita familiare, dev'essere il risultato di un giusto equilibrio tra i contrapposti interessi dell'individuo da una parte, e dell'intera società dall'altra.

85. Direttiva del Consiglio del 28 giugno 1990.

86. Corte di giustizia, sentenza del 19 ottobre 2004, Chen e. a., causa C-200/02, parzialmente riprodotta in «Diritto, immigrazione e cittadinanza» n. 3/2004, p. 87 ss. Secondo la Corte «il godimento del diritto di soggiorno da parte di un bimbo in tenera età, implica necessariamente che tale bimbo abbia il diritto di essere accompagnato dalla persona che ne garantisce effettivamente la custodia».

87. Per affermazioni in questo senso si veda M. Castellaneta, Soltanto l'estensione del diritto al genitore consente alla prole di vivere nello Stato membro in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto» n. 42/2004, p. 107.

88. Corte di giustizia, sentenza dell'11 novembre 2004, Cetynkaya, causa C-467/02.

89. Cfr. M. Castellaneta, Al giudice nazionale spetta il compito di verificare i motivi di ordine pubblico in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto» n. 1/2005, p. 63. Il caso di specie riguardava un cittadino turco, condannato più volte per reati di rapina, estorsione e traffico di stupefacenti.

90. È ancora una volta la sentenza Boultif a venire in rilievo.

91. Cfr. M. Castellaneta, Al giudice nazionale spetta il compito di verificare i motivi di ordine pubblico, cit.

92. Cfr. paragrafo 3.1.3.

93. Corte di Cassazione, sentenza n. 2194/1993, cit.

94. Corte di giustizia, sentenza del 17 settembre 2002, Baumbast, R e Secretary of State for the Home Department, causa C-413/99. Analogamente la Corte dichiara nella sentenza del 15 ottobre 2002 nei procedimenti riuniti C-238/99 P, C-244/99 P, C-245/99 P, C-247/99 P, da C-250/99 a C-252/99 e C-254/99 P.

95. Con tale locuzione sono infatti individuati nell'articolo 1 i titolari dei diritti sanciti dalla CEDU.

96. Un'analoga spiegazione è ripetuta nelle sentenze Mrax e Johnston, cit.

97. Secondo il primo 'considerando' della direttiva infatti «al fine di creare progressivamente uno spazio di libertà, di sicurezza e giustizia, il trattato che istituisce la Comunità europea prevede [...] l'adozione di misure in materia di asilo, immigrazione e tutela dei diritti dei cittadini di paesi terzi».

98. Si veda in particolare la sentenza Hubert Wachauf c. Repubblica federale di Germania, cit.

99. Conclusioni dell'avvocato generale Geelhoed presentate il 7 aprile 2006 con riferimento alla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Svezia nella causa C-1/05, Yunying Jia c. Migrationsverket.