ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
Il rispetto della vita familiare alla luce dell'art. 8 della Convenzione europea

Alida Surace, 2006

3.1 La Convenzione europea nell'ordinamento italiano

Tenuto conto di quanto affermato nel precedente capitolo circa la sussidiarietà del meccanismo di controllo sovranazionale istituito dalla CEDU e della fondamentale funzione di prevenzione affidata agli ordinamenti interni, risulta fondamentale analizzare il problema dell'incorporazione della CEDU nel diritto interno e della sua diretta applicabilità da parte degli organi statali. Si tratta evidentemente di un problema piuttosto complesso e che ha ricevuto diversa soluzione nei vari Stati.

Mi limiterò a prendere in esame la situazione italiana, pur se non mancherà il riferimento a soluzioni adottate in Stati diversi, qualora il richiamo sia funzionale al tema trattato.

3.1.1 L'importanza della conoscenza della Convenzione

Come già accennato in precedenza (1), se la pressione esercitata dal Comitato dei ministri, ma anche dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, svolge la funzione imprescindibile di cercare di ottenere da uno Stato responsabile della violazione della CEDU modalità esecutive soddisfacenti, la pressione interna svolge un ruolo altrettanto primario. Dal meccanismo sovranazionale derivano infatti stimoli che necessitano di pronta ricezione da parte del sistema interno e che quest'ultimo deve essere in grado di attuare.

Ciò implica organi statali attenti all'opera della Corte EDU (ma anche della Corte di giustizia nel caso in cui essa venga chiamata in causa per la tutela dei diritti garantiti dalla CEDU), sensibili alla questione del rispetto dei diritti fondamentali da parte dell'ordinamento interno e della coerenza di quest'ultimo ai parametri derivanti dal sistema convenzionale; mezzi di informazione preparati e capaci di diffondere in modo accurato e sistematico le pronunce delle Corti europee rilevanti per l'Italia, un'opinione pubblica consapevole che la partecipazione ad un sistema sovranazionale o integrato con altri paesi (basta pensare alla stessa Unione europea) non è di per sé sufficiente a fornire la soluzione adeguata alla violazione di certi diritti e ad esentare l'ordinamento interno dalle relative responsabilità. Per quanto riguarda il potere giudiziario, pur se è difficile ritenere che il giudice interno sia obbligato ad un cambiamento di giurisprudenza in ossequio alla posizione delle Corti, resta tuttavia auspicabile un tale adeguamento tra gli ordinamenti (2). Non credo sia corretto ritenere che tale fondamentale apporto del sistema interno sarebbe destinato a venire meno del tutto, nel momento in cui le sentenze pronunciate a livello europeo avessero immediata efficacia esecutiva nel caso di specie: infatti i pochi casi che giungono alla Corte EDU o alla Corte di giustizia e sono da esse risolte in tempo utile, sono spesso una cartina di tornasole solo parzialmente rivelatrice della situazione interna complessiva e delle conseguenze concrete che una certa legislazione o la sua applicazione da parte dei giudici hanno sulla tutela dei diritti fondamentali.

È certamente indubbio che gli avvocati italiani (3), principali depositari della finzione di far valere a livello interno la tutela dei diritti garantiti dalla CEDU, abbiano negli ultimi anni acquisito maggiore conoscenza di essa e capacità di richiederne il rispetto di fronte alle giurisdizioni nazionali, ma in modo ancora incompleto. Facendo ad esempio riferimento al solo articolo 8 della CEDU, dal 2002, anno di entrata in vigore della legge n. 189 che ha modificato il Testo Unico sull'immigrazione (d.lgs. 286/1998) ad oggi, la Corte EDU ha emesso ben 48 sentenze riferite all'Italia, a fronte di un ristretto numero di pronunce emesse dalle giurisdizioni italiane, che menzionano tale giurisprudenza con lo scopo di far valere i diritti garantiti dal suddetto articolo, o di interpretare conformemente ad esso la normativa nazionale.

Sintomo dell'insufficiente sensibilità al rapporto tra ordinamento interno ed ordinamento europeo, ritengo possa essere considerata anche la scarsa attenzione a ciò dedicata nelle relazioni dei Presidenti di Corte d'Appello per l'anno giudiziario 2006: a parte qualche sommario riferimento alle problematiche connesse all'eccessiva durata dei processi, all'attuazione della legge Pinto n. 89 del 2001 (4), e quindi alla violazione dell'art. 6 della CEDU (5), solo nella relazione del Presidente della Corte d'Appello di Firenze è presente una sezione dedicata alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, mentre la Corte d'Appello di Bari richiama semplicemente i rapporti tra diritto interno e diritto comunitario e quella di Palermo contiene un riferimento alle principali questioni in tema di diritto comunitario e di CEDU. Ad una lettura più approfondita si è però costretti a constatare che nel primo caso il presidente si è limitato ad affermare che «non risultano pronunziate nel distretto decisioni di particolare importanza con riferimento alla Convenzione europea dei diritti sull'uomo» (6), nel secondo il riferimento è unicamente all'art. 234 Trattato CE e nel caso di Palermo il rapporto tra gli ordinamenti è trattato limitatamente alla questione dei rifiuti e dei diritti del consumatore.

L'attenzione particolare al rispetto dell'articolo 6 e quindi alle problematiche connesse al funzionamento della giustizia e alla durata dei processi è confermata anche dal Rapporto annuale sull'Italia presentato a Strasburgo alla fine del 2005 dal Commissario per i diritti umani (7), dove si legge che:

la giustizia è un elemento fondamentale dell'organizzazione sociale, poiché determina la realizzazione e la protezione dei diritti degli individui. La sua disfunzione incide negativamente sull'insieme della popolazione, per quanto taluni possano trovarvi un interesse o trarne un vantaggio, la maggior parte ne subisce gravi conseguenze.

Nel corso dei procedimenti giudiziari, i diritti degli individui, siano essi convenuti o ricorrenti, sono limitati, ostacolati fino alla decisione finale dei tribunali. L'insieme della società italiana subisce le ripercussioni dirette o indirette provocate dalle storture e dall'inerzia della giustizia italiana. [...] le conseguenze disastrose di tali ritardi possono talvolta rivelarsi drammatiche, dal momento che l'incapacità di garantire il diritto alla giustizia in tempi ragionevoli incide sulla possibilità di garantire altri diritti, in particolare i diritti fondamentali. Per quanto concerne le cause penali, le conseguenze sull'accusato sono evidenti, segnatamente per gli innocenti, che devono in particolare sopportare il danno prolungato alla loro reputazione. Oltre a tali conseguenze per gli accusati, la lentezza dei procedimenti nega ugualmente alle vittime il diritto alla giustizia e contribuisce in modo più generale a favorire una certa impunità, che indebolisce lo stato di diritto e la pubblica sicurezza.

Sarebbe quantomeno auspicabile, se non essenziale, che gli operatori del diritto conoscessero la giurisprudenza europea e i meccanismi di interazione di questa con l'ordinamento nazionale, perché il non aver correttamente invocato la CEDU (e la sua concreta applicazione da parte degli organi convenzionali), davanti ai giudici nazionali può comportare una preclusione, alla luce della regola del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, dell'accesso al sistema convenzionale di tutela dei diritti fondamentali. Un'eventuale pronuncia europea che constati l'avvenuta violazione delle norme convenzionali potrebbe comunque non risultare sufficiente se, come già accennato, lo Stato responsabile non contemplasse questa possibilità tra i casi di riapertura di un procedimento (8).

3.1.2 Lo status giuridico della Convenzione in Italia

Come sostenuto da de Salvia, «rivelatore della complessa originalità del pensiero giuridico italiano è il rapporto che esso intrattiene con lo spazio che lo circonda, vale a dire il rapporto fra il diritto endogeno, italiano, ed il diritto esogeno, in un certo senso, estraneo». (9)

Il problema centrale, da risolvere per capire l'interazione tra ordinamento italiano ed ordinamento europeo in materia di tutela dei diritti fondamentali, riguarda il valore da attribuire alle norme contenute nella CEDU, attraverso l'analisi della giurisprudenza della Corte costituzionale, e soprattutto della Corte di Cassazione.

Cercherò innanzitutto di ripercorrere brevemente i tratti fondamentali che hanno segnato l'evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale per quanto riguarda il rango da attribuire alla CEDU nella gerarchia delle fonti. (10)

In base all'art. 10 della Costituzione, la necessaria conformità dell'ordinamento interno alla normativa internazionale riguarda solo le «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Ne consegue che le norme della CEDU, frutto di un accordo internazionale e dotate pertanto di carattere pattizio, non rientrano in quell'ambito. (11) Rimane tuttavia la possibilità di riconoscere a tali norme un ruolo di supporto nell'opera di interpretazione giurisprudenziale.

Sebbene la Corte Costituzionale abbia rifiutato in passato il tentativo della dottrina di utilizzare l'art. 2 della Costituzione italiana per difendere le norme della CEDU da interpretazioni restrittive (12), essa si è successivamente aperta alla possibilità di riconoscere diritti inviolabili ulteriori rispetto a quelli tutelati dalla Costituzione (13). Solo nel 1993 la Corte ha mostrato un cambiamento di prospettiva, affermando che le norme della CEDU (14) derivano «da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (15). Cosa si intenda per competenza atipica e quale ne sia il fondamento non è precisato dalla Corte, ma essa ha tuttavia dimostrato un primo riconoscimento del valore della CEDU.

Merita inoltre di essere segnalata una sentenza successiva, risalente al 1999, in quanto la Corte, se da un lato sottolinea il valore dei diritti umani, che trovano espressione nell'articolo 2 della Costituzione, dall'altro riafferma, alquanto inaspettatamente, il carattere programmatico e quindi la non applicabilità diretta delle norme della Convenzione europea, motivando tale decisione con il fatto che si tratta di norme pattizie (16), che richiedono misure di attuazione da parte del legislatore (17).

Riveste indubbia importanza in questo ambito, la riforma costituzionale del 2001. Ai sensi del nuovo articolo 117 infatti «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» (18). Qualcuno individua, negli ultimi anni, una non più isolata tendenza dei giudici comuni a valorizzare il ruolo della CEDU e della sua applicazione giurisprudenziale nell'ordinamento italiano (19), di cui risulta emblematica la decisione presa, ad esempio, dal Tribunale di Genova, antecedente alla riforma costituzionale, volta ad affermare la diretta applicabilità e il rango superiore di una norma della CEDU rispetto alla legislazione nazionale, disapplicando così, in analogia con quanto previsto per il diritto comunitario, una legge ritenuta contraria al diritto giurisprudenziale convenzionale (20).

Il quadro si complica ripercorrendo brevemente anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione relativa alla CEDU, per la presenza di opposte tendenze rispetto a quelle individuate finora. Le pronunce stesse di quella Corte risultano, almeno inizialmente, alquanto altalenanti (21), a conferma del difficile bilanciamento tra le esigenze di ordine pubblico e la tutela dei diritti fondamentali, il cui riconoscimento non smette mai di essere «oggetto di difficile conquista» (22).

Se nel 1981 la Corte di Cassazione aveva infatti affermato, rompendo il filone interpretativo che attribuiva alle norme della CEDU carattere programmatico, che esse «salvo ovviamente quelle disposizioni il cui contenuto, pur utilizzati gli usuali metodi interpretativi, sia da considerarsi sì generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate, sono di immediata applicazione nel nostro paese e vanno concretamente valutate nella loro incidenza sul più amplio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento nell'ordinamento italiano» (23), alcune pronunce successive sembrano invece ripiegare su vecchie posizioni.

Oltre ad aver affermato, appena un anno più tardi, che le norme della CEDU hanno natura meramente programmatica (24), in una sentenza del 1983 la Corte ha sostenuto che la natura pattizia della CEDU, come del resto di tutti i trattati internazionali, implica che essa abbia «efficacia vincolante per le Alte Parti contraenti, e non anche per i relativi sudditi», a dispetto del fatto che la CEDU e i rispettivi obblighi gravanti sugli Stati in base ad essa, riguardino proprio costoro ed i loro diritti fondamentali.

A cercare di porre un termine ad un dissidio che occorreva sanare, sono intervenute le Sezioni Unite penali affermando che le norme della CEDU «a seguito della legge di ratifica del 1955, sono state ritenute dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema di immediata applicazione nel nostro ordinamento, essendosi in proposito precisato che i principi della CEDU, pur non assurgendo al rango di norme costituzionali, possono peraltro configurarsi come validi criteri di interpretazione delle norme interne e come correttivi di applicazione in via interpretativa» (25).

L'immediata applicazione in Italia delle norme della CEDU è stata infine ribadita con la nota sentenza Polo Castro del 1988 (26), che ha tentato di risolvere in via definitiva un contrasto giurisprudenziale sorto all'interno della sezione I penale (27), affermando tra l'altro che il carattere precettivo e quindi self executing di quelle norme è la logica conseguenza del principio di adattamento del diritto interno al diritto internazionale convenzionale, configurabile come automatico o conseguente ad una specifica attività normativa dello Stato, a seconda che si tratti o meno di norme complete, idonee cioè a creare diritti ed obblighi. Un importante esempio di applicabilità diretta è stato fornito dalla Corte stessa, appena un anno più tardi (28), con riferimento all'art. 5, n. 1, lett. f, e n. 4 della CEDU, ai sensi del quale «ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione», in attesa della conclusione del procedimento di espulsione o estradizione, ha il diritto di ricorrere ad un tribunale (29). L'importanza rivestita dalla sentenza Polo Castro non può tuttavia far sopravvalutare la sua portata innovativa, dal momento che la Corte non riconosce alle norme convenzionali una particolare forza di resistenza, né si discosta dal ruolo cruciale attribuito all'asserita incompletezza di alcune norme e quindi alla loro inidoneità a vincolare automaticamente il giudice interno, senza un previo intervento da parte del legislatore nazionale. Rimaneva pertanto irrisolto il problema dello status della CEDU nell'ordinamento italiano e quindi della composizione di eventuali conflitti tra il diritto convenzionale e le leggi nazionali posteriori. Problema invece ampliamente affrontato dalla Corte di Cassazione nel 1993.

3.1.3 Una pietra miliare: la sentenza Medrano

Merito indiscusso della decisione Medrano (30) fu il riconoscere alle norme della CEDU una particolare forza di resistenza rispetto alle norme interne successive, allineandosi così a ciò che la Corte Costituzionale aveva poco tempo prima affermato (31), e la loro diretta applicabilità.

Il ricorrente, Juan Carlos Medrano, cittadino argentino, viveva in Italia con la moglie ed il figlio di quattro anni. Dopo la condanna per un reato in materia di sostanze stupefacenti, veniva disposta nei suoi confronti l'esecuzione, a seguito dell'espiazione della pena, della misura di sicurezza dell'espulsione dallo Stato italiano. Egli deduceva, nell'unico motivo di ricorso, la nullità, per difetto di motivazione e violazione di legge, dell'ordinanza con cui era stata disposta l'espulsione, con riferimento alle conseguenze di tale provvedimento sui diritti fondamentali, quali riconosciuti dalla Costituzione e dai trattati internazionali ratificati dall'Italia, concernenti nel caso concreto la tutela della vita familiare e l'educazione della prole.

La Cassazione annullò la decisione della magistratura di sorveglianza per l'assenza di una valutazione di compatibilità tra la misura di sicurezza e le esigenze di cui all'articolo 8, comma 2 della CEDU, in base al quale è necessario che l'ingerenza nel diritto al rispetto della vita familiare di una persona sia «prevista dalla legge e che costituisca un misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine ed alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». Secondo la Cassazione, tale norma comporta il dovere per il giudice nazionale di verificare in concreto se lo straniero da espellere ha legami familiari stabili sul territorio nazionale e di valutare la proporzionalità tra il danno inferto alle suddette relazioni familiari e la gravità del reato commesso.

Come sopra accennato, i principi affermati sono quindi essenzialmente due. In primo luogo la diretta applicabilità da parte del giudice nazionale delle norme convenzionali:

«l'atteso intervento delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (32) ha, quindi, avuto il merito di riallineare, nel momento applicativo della legge, il nostro ordinamento a quel livello di civiltà giuridica già segnato e voluto dagli autori della nostra Costituzione per il giudizio incidentale di legittimità costituzionale della norma da applicare. In sostanza, in virtù della CEDU, in Italia il giudice nazionale non è oggi solamente chiamato a verificare - nel momento astratto della sua formulazione - la conformità costituzionale del sistema normativo da applicare, ma deve valutare, alla luce dei principi sanciti dalla Convenzione europea, tale sistema nel momento operativo della sua concreta ed effettiva applicazione, per evitare che lo stesso, distortamente interpretato, possa risolversi nella violazione dei fondamentali diritti della persona da essa riconosciuti e tutelati». (33)

In secondo luogo la Corte affronta, come avevo anticipato in conclusione del paragrafo precedente, il problema lasciato irrisolto dalle Sezioni Unite, ovvero quello dei rapporti tra le disposizioni della CEDU e la normativa ordinaria successiva, affermando che, con riferimento alla CEDU, «più che di prevalenza (34) [...] è corretto parlare di particolare forza di resistenza della normativa di origine convenzionale rispetto alla normativa ordinaria successiva». Tale forza di resistenza che la dottrina imputa al principio lex generalis non derogat priori speciali o a quello in base al quale pacta sunt servanda, conseguirebbe dalla «natura di principi generali dell'ordinamento che alle disposizioni della CEDU deve essere riconosciuta, in conseguenza del loro inserimento nell'ordinamento italiano». Si tratta d'altronde, secondo la Corte, di una conclusione ricavabile dall'articolo 2 della Costituzione italiana (35), espressamente riconosciuta dalla Corte di giustizia con le sentenze Nold e Hauer, sopra citate, e consacrata dall'articolo 6 del Trattato sull'Unione europea. In realtà, l'utilizzazione dell'art. 2 della Costituzione, avrebbe potuto implicare, in quel contesto, la costituzionalizzazione del diritto convenzionale, conclusione diversa da quella scelta dalla Cassazione, e che avrebbe condotto alla sospensione del giudizio e all'attribuzione della questione alla Corte Costituzionale (36). Anche la tesi della natura di «principi generali dell'ordinamento», attribuita alle norme della CEDU, può sollevare alcune perplessità. Raimondi ad esempio, dopo aver dedotto dal ragionamento della Corte che la particolare forza di resistenza di cui sono dotate le norme della CEDU deriva essenzialmente dalla loro appartenenza al diritto comunitario, rifiuta l'idea che l'applicazione della CEDU in Italia dipenda dal diritto comunitario, piuttosto che dalla legge italiana di esecuzione, e «tanto meno in una materia, come quella considerata dalla sentenza in commento, che è certamente estranea alle attuali competenze comunitarie» (37). In realtà non mi pare che la Cassazione giunga a tali estreme conclusioni (38), ma propenda piuttosto per la teoria della specialità dei trattati, richiedendo infatti che la normativa sugli stupefacenti sia «interpretata nel senso che l'applicazione pratica di quest'ultima non può risolversi immotivatamente nella violazione del principio sancito nella norma convenzionale».

La giurisprudenza della Corte di Cassazione non ha tuttavia uniformemente aderito alle linee guida tracciate dalla sentenza Medrano e dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 1993. È di conforto constatare però come il legislatore abbia in passato preso coscienza della necessità di adottare una normativa specifica, almeno con riferimento alla tutela di alcuni diritti fondamentali: mi riferisco ovviamente ai due provvedimenti legislativi che hanno portato ad una modifica sostanziale dell'art. 111 della Costituzione (39), e all'attuazione di disposizioni legate al giusto processo e all'equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo (40).

La speranza era che questi provvedimenti aprissero la strada all'attribuzione di un ruolo crescente a tutte le norme della CEDU e soprattutto alla giurisprudenza di Strasburgo, che di tali norme forniscono una preziosa interpretazione per la tutela dei diritti garantiti, con la consapevolezza che «nei moderni Stati democratici europei il diritto è inserito in una realtà che non si limita più solamente ai confini di uno Stato ma che, travalicando frontiere e retoriche, si allarga ai confini di uno spazio giuridico comune europeo di cui i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali garantiti dalla CEDU sono una componente essenziale» (41). In assenza di una legislazione risolutiva a riguardo, assume fondamentale importanza l'analisi dell'evoluzione giurisprudenziale attraverso la quale provare a comprendere quanto il sistema nazionale sia ispirato o indirizzato a quello convenzionale globalmente inteso, quantomeno a livello informale e in assenza di espressi richiami a quest'ultimo.

3.1.4 Il ruolo dei giudici comuni: il problema dell'applicabilità diretta

Tornando a quanto accennato circa la formulazione dell'art. 117 della Costituzione, credo sia importante approfondire meglio le tematiche inerenti la collocazione della CEDU nel nostro ordinamento, attraverso il collegamento tra la sua forza gerarchica e la potenziale autoapplicabilità, che fa da pendant con l'intreccio dei rapporti tra giudici comuni, Corte Costituzionale e giudice europeo dei diritti.

Il caso del Tribunale di Genova prima citato, che ha anticipato le problematiche sorte con l'introduzione del suddetto articolo della Costituzione, è facilmente riconducibile nel solco tracciato dalla sentenza Medrano. Come precedentemente sostenuto, la Cassazione si è in quell'occasione riferita espressamente alla Corte EDU, la cui giurisprudenza risultava particolarmente chiara nel richiedere un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco, alla luce dell'articolo 8 della CEDU. Occorre peraltro notare come tale bilanciamento si ricolleghi a conseguenze diverse, a seconda del punto di vista scelto.

Dal punto di vista dell'ordinamento convenzionale, sullo Stato membro incombe l'obbligo di subordinare l'esercizio di alcuni poteri alla valutazione della loro incidenza su determinati diritti garantiti dalla CEDU. Questo non implica che lo Stato attribuisca sempre e comunque al giudice comune la titolarità di tale bilanciamento nel caso concreto, ma certamente «vieta allo Stato di applicare leggi che quel bilanciamento lo omettano completamente, o lo realizzino solo formalisticamente» (42).

Dal punto di vista dell'ordinamento interno, invece, la regola del bilanciamento comporta la limitazione di efficacia della norma interna in tutti i casi in cui lo straniero si trovi in una delle condizioni contemplate dalla CEDU.

Ci sono altre due importanti vicende che meritano di essere richiamate: la prima è l'abrogazione, dichiarata in una pronuncia del CSM, della norma nazionale che imponeva il processo a porte chiuse (43), in chiara applicazione della giurisprudenza convenzionale che estendeva l'art. 6 della CEDU anche ai procedimenti disciplinari, conferendo all'organo giudicante il potere di effettuare il bilanciamento (44); la seconda è la richiesta di abrogazione, da parte del Pretore di Udine, della norma nazionale che imponeva al datore di lavoro l'obbligo di denunciare l'assunzione di un dipendente straniero, perché ritenuta in contrasto con l'articolo 8 della CEDU.

È possibile rilevare una forte analogia, quantomeno funzionale, tra il concetto di abrogazione utilizzato nelle ultime due decisioni citate, e la disapplicazione cui ha fatto ricorso il Tribunale di Genova: si tratta a ben vedere di una funzione assimilabile quasi ad un controllo di validità della legge (45). Questa constatazione ha infatti portato a ricondurre le decisioni sopra analizzate ad una logica di «aggiramento del controllo di costituzionalità» (46).

Da alcuni giudizi svolti dalla Corte Costituzionale è possibile ricostruire il suo particolare approccio a questioni di tal genere (47). La situazione che si presentava alla Corte è così schematizzabile: il giudice comune rilevava un contrasto tra la normativa interna e quella convenzionale, dal momento che la seconda richiedeva un bilanciamento degli interessi coinvolti, che la prima pareva invece escludere. Anziché propendere per la diretta applicazione della norma convenzionale, preferiva però utilizzarla solo come fondamento della questione di costituzionalità della norma interna, affidando così il necessario bilanciamento alla Corte Costituzionale, la quale però confermava la norma interna legittimando il monopolio del legislatore ad effettuare il bilanciamento e mostrando così un approccio formalistico agli obblighi imposti dalla CEDU (48). Ed è proprio alla luce di tale formalismo che diventa opportuno spiegare le 'strategie' usate dal giudice comune e il valore attribuito alla giurisprudenza della Corte EDU. (49) È utile anche in questo caso distinguere l'ambito convenzionale da quello interno.

Nel primo caso, come rilevato con riferimento all'efficacia delle sentenze della Corte EDU, il valore del suo diritto giurisprudenziale è stato a lungo limitato, soprattutto con riferimento alla questione dell'efficacia erga omnes delle pronunce e alla possibilità che le cause della violazione commessa dallo Stato fossero eliminabili attraverso l'applicazione immediata da parte dei giudici nazionali del diritto convenzionale. Il consolidamento di una simile prassi potrebbe tuttavia indurre la Corte quantomeno a prospettare la possibilità dell'applicazione diretta del suo diritto giurisprudenziale. Si tratta d'altronde di una strada già intrapresa dalla Corte nel caso in cui ha utilizzato le categorie comunitarie della 'precisione' e 'completezza' per sostenere l'applicabilità diretta di un suo precedente giurisprudenziale (50), o ha rilevato che una Corte Costituzionale aveva omesso di dichiarare la violazione della CEDU da parte di una norma statale identica ad una censurata precedentemente da essa (51).

Dal punto di vista interno, invece, il giudice nazionale viene a rivestire un ruolo cruciale nel momento in cui dimostra la capacità di conformarsi direttamente al diritto convenzionale, anche con la finalità di evitare potenziali condanne contro lo Stato di appartenenza, basandosi sulle condanne già emesse verso altri Stati. Potrebbe addirittura essere la giurisprudenza interna a fungere da stimolo per il Governo a valorizzare l'applicabilità diretta della giurisprudenza convenzionale, instaurando così una sorta di fenomeno circolare. Rimane peraltro inevitabile constatare come l'assenza di un raccordo diretto tra giudice interno e Corte europea sia un forte ostacolo, soprattutto alla luce di un confronto con il modello comunitario in cui, come ampliamente analizzato, il meccanismo del rinvio pregiudiziale diviene spesso fondamentale nel rapporto tra gli ordinamenti (52). Non è certo un caso se i giudici interni si sono talvolta riferiti al parallelismo con il modello comunitario per sostenere la prevalenza e la diretta applicabilità delle norme convenzionali, nell'interpretazione fatta dalla Corte EDU. Anche la modifica costituzionale dell'art. 117 poteva indurre a sostenere una tale ipotesi. Volendo evitare un'analisi dettagliata del problema, mi limito a rilevare che si tratta in realtà di una strada difficilmente percorribile, per la prevalenza, tra l'altro, di posizioni che ritengono comunque fuorviante e spesso inapplicabile il parallelo con il sistema comunitario, e la conseguente attribuzione di un ruolo cruciale ai giudici nazionali (53). Si ritiene infatti che, in mancanza di un rinvio pregiudiziale nel sistema convenzionale, gli eventuali contrasti con la CEDU o con il suo diritto giurisprudenziale comportano il dovere del giudice comune di sollevare una questione di costituzionalità, anche se la la Corte ha precedentemente emesso un giudizio negativo sull'asserita inconstituzionalità della stessa norma. L'ambiguità o la scarsa considerazione del diritto convenzionale da parte della Corte non abilita quindi il giudice interno ad applicare direttamente quest'ultimo, non essendo configurabile un potere di sindacato diffuso del diritto legislativo nazionale, alla stregua di quanto avviene con riferimento all'ordinamento comunitario. In questa logica quindi anche l'art. 117 della Costituzione non causa significativi cambiamenti poiché il controllo del rispetto degli obblighi internazionali resta interamente affidato al giudice costituzionale. Nel caso del sistema comunitario è stata invece la stessa Corte Costituzionale ad escludere, adeguandosi all'orientamento della Corte di giustizia, il riferimento agli obblighi comunitari come parametro di legittimità costituzionale (54). Posto che nell'ordinamento convenzionale la Corte EDU ha il monopolio interpretativo delle norme della CEDU e che il non adeguamento da parte degli organi giudiziari interni potrebbe causare una condanna dello Stato, le misure necessarie che esso ha il dovere di adottare sono valutate, com'è noto, dal Comitato dei Ministri e non dalla Corte, la quale non è pertanto abilitata a pronunciarsi sull'efficacia diretta del diritto convenzionale, a differenza di quanto vale per la Corte di giustizia. La conclusione cui si giunge seguendo il ragionamento fin qui condotto, è di ritenere che «ai giudici comuni resta la cosiddetta interpretazione convenzionalmente conforme, ma non il potere di decidere la disapplicazione delle leggi inconvenzionali» (55). Conclusione assolutamente in linea, come evidenzierò nel prossimo paragrafo, con quanto recentemente sostenuto dalla Corte di Cassazione.

3.1.5 Le ordinanze della Cassazione del 20 e 29 maggio 2006

Entrambe le ordinanze, emanate dalla Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, fanno riferimento alla materia degli espropri, ed in particolare alla legislazione italiana sulle espropriazioni per pubblica utilità, risalente al 1992 e ritenuta dalla Corte Costituzionale italiana, in sede di giudizio di legittimità, compatibile con la Costituzione (56).

La Corte EDU aveva emesso nel 2004 una sentenza di condanna nei confronti del Governo, ritenendo che la disciplina italiana violasse la CEDU (57), mentre la Cassazione nel medesimo anno si era pronunciata nel senso della legittimità della legislazione italiana (58). La stessa Corte aveva però successivamente disposto il rinvio della deliberazione di una causa al fine di «evitare possibili contrasti di giudicati» (59), proprio in attesa che la Corte EDU si pronunciasse in materia di espropriazione per pubblica utilità.

La Grande Camera si è pronunciata il 29 marzo 2006 ribadendo la presenza di «elementi di inadeguatezza nel sistema indennitario [...] relativamente ai suoli edificatori», previsto dalla normativa italiana (60) e la conseguente violazione delle norme della CEDU (61), condannando lo Stato italiano al risarcimento a favore dei soggetti espropriati. La pronuncia della Grande Camera si rivela di estrema importanza soprattutto per il suo carattere generale e anche politico (62), sottolineando come «la violazione accertata nella specie derivava da una situazione riguardante un gran numero di persone, e cioè la categoria di privati che hanno subito una espropriazione di terreno. La Corte è già stata adita da qualche dozzina di ricorsi che sono stati presentati dalle persone interessate da una espropriazione alla quale si applicano i criteri di indennizzo impugnati. Ciò non è solo un fattore che aggrava la responsabilità dello Stato con riguardo alla Convenzione in ragione di una situazione passata o attuale, ma è anche una minaccia per la futura efficacia del sistema stabilito dalla Convenzione» (63). La Corte EDU constata quindi una violazione strutturale e sistematica della CEDU e dei suoi protocolli, dovuta ad una chiara disfunzione della legislazione italiana che, quantificando l'indennità in maniera inaccettabile rispetto al valore del bene, ha pregiudicato un elevato numero di persone. In base alla Risoluzione del Comitato dei Ministri del 12 maggio 2004 e in ottemperanza all'art. 46 CEDU, gravava sullo Stato italiano l'obbligo di porre fine, attraverso appropriate misure giuridiche, amministrative e finanziarie alla violazione dei diritti dell'uomo, nel senso indicato dalla giurisprudenza di Strasburgo.

Nel contesto fin qui delineato si inseriscono le ordinanze della Corte di Cassazione del 20 e del 29 maggio 2006 che hanno rimesso le rispettive cause davanti alla Corte Costituzionale perché questa si pronuci sull'asserito contrasto tra la normativa del 1992 sopra citata e la ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU in materia di espropri. Avendo le due ordinanze contenuto e tenore pressoché identico, farò riferimento esclusivamente a quella più recente (64), cercando di evidenziarne l'indubbio valore politico e giuridico nella risoluzione del conflitto tra le leggi nazionali e la CEDU, con particolare riferimento al ruolo dei giudici comuni.

Innanzitutto, secondo la Cassazione, il rispetto della sentenza di condanna emessa dalla Corte EDU è di esclusiva competenza del legislatore con la conseguente impossibilità per il giudice comune di disapplicare la legge vigente in favore di una disciplina indennitaria sostitutiva rimessa al suo libero apprezzamento, o di riapplicare la disciplina previgente. Come viene dalla Corte evidenziato, «il giudice è soggetto unicamente alla legge (art. 101 Cost.), ed ammettere un potere (o addirittura un obbligo) di non applicarla, significherebbe aprire un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario, che appare estranea al nostro sistema costituzionale». È importante in questo contesto ricordare che in altre occasioni la stessa Corte ha ritenuto che il rispetto della CEDU è strettamente connesso all'interpretazione proveniente da Strasburgo ed alla conseguente deducibilità del dovere di interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, conformemente al diritto convenzionale largamente inteso. Attribuendo a questo natura giuridica, il suo mancato rispetto da parte del giudice di merito costituisce una violazione di legge, denunciabile innanzi alla Corte di Cassazione (65). La Corte ha tuttavia ritenuto che un vincolo di interpretazione gravi sul giudice nazionale solo quando la norma interna sia la riproduzione di norme convenzionali, essendo in tal caso obbligatorio il riferimento ai precedenti del giudice europeo. Analogamente la diretta applicazione alla fattispecie della norma convenzionale è limitata ai casi in cui essa sia immediatamente precettiva e comunque di chiara interpretazione, e non emergano conflitti interpretativi tra giudice nazionale ed europeo (66).

L'istituto dell'indennizzo espropriativo, rilevante nel caso di specie, non corrisponde invece ad una norma sufficientemente chiara e precisa della Convenzione, limitandosi questa all'affermazione di principi programmatici. Ne consegue, nel ragionamento della Corte, che l'abrogazione della legge statale 'incriminata' deve essere necessariamente «legata alle ipotesi contemplate dall'art. 15 disp. prel. c.c. e 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur avvalendosi della autorevole interpretazione del giudice internazionale». La Corte affronta quindi la dibattuta questione dello status della CEDU nell'ordinamento interno (67), affermando molto chiaramente che non è ravvisabile in tale ordinamento alcun meccanismo deputato a stabilire, in caso di contrasto tra il diritto nazionale e la CEDU, la prevalenza di quest'ultima, anche ove il contrasto fosse rilevato (come nel caso in esame) da una Corte cui gli Stati hanno attribuito tale potere, in modo assimilabile alle limitazioni di sovranità consentite dall'articolo 11 della Costituzione con riferimento alle fonti normative provenienti dall'ordinamento comunitario. Dopo aver escluso la cosiddetta 'comunitarizzazione' della CEDU (68) e aver però constatato l'esistenza di un contrasto della normativa italiana con la Costituzione, e in particolare con la nuova formulazione dell'art. 117, la Corte ritiene di dover rimettere gli atti alla Corte Costituzionale al fine di riesaminare la suddetta normativa, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU. Le norme della CEDU, in particolare l'art. 6 e l'art. 1 del protocollo n. 1, sono qualificate come «norme interposte, attraverso l'autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalità». Solo le sentenze interpretative della Corte di giustizia, adita ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, godono infatti di applicazione diretta e immediata nell'ordinamento interno e comportano la disapplicazione della normativa nazionale dichiarata incompatibile con l'ordinamento comunitario.

La conclusione cui perviene la Cassazione ricorda l'epoca in cui era imposto al giudice ordinario di rivolgersi alla Corte Costituzionale anche per dirimere il conflitto con il diritto comunitario (69).

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, accanto alla via legislativa, i cui progressi sono rintracciabili tra l'altro nella citata legge del 9 gennaio 2006, n. 12, l'adeguamento dell'ordinamento italiano alla tutela dei diritti fondamentali garantiti in ambito convenzionale, attraverso la cosiddetta 'interpretazione conforme' o il rinvio come extrema ratio al giudizio di costituzionalità, risulta l'unica strada per una tutela effettiva dei diritti fondamentali, soprattutto quando vengono in gioco norme della CEDU di indubbia natura programmatica, per la cui concreta applicazione risulta imprescindibile il riferimento al diritto giurisprudenziale di Strasburgo. Mi riferisco in particolare al tema che sarà al centro della mia analisi giurisprudenziale, ovvero quello della tutela della vita familiare ai sensi dell'art. 8 della CEDU.

3.1.6 Considerazioni conclusive sull'impatto della Convenzione e della giurisprudenza della Corte EDU sulla giurisprudenza nazionale

Indipendentemente dal rango riconosciuto alla CEDU all'interno dell'ordinamento nazionale, se uno Stato si rifiutasse di riconoscere la sua efficacia per l'asserita presenza di insuperabili conflitti costituzionali, dopo aver volontariamente convenuto di far parte del sistema convenzionale perché spinto dal «profondo attaccamento a tali libertà fondamentali che costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico effettivamente democratico e dall'altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti dell'Uomo» (70), si dimostrerebbe quantomeno profondamente incoerente.

Un ottimo esempio di rispetto degli obblighi gravanti sugli Stati firmatari della CEDU, può essere fornito dalla Francia e in particolare dalla prassi seguita dalla sua Corte di Cassazione. In seguito alla constatazione, da parte della Corte EDU, di una violazione dell'art. 8 della CEDU, la Suprema Corte francese, pur ammettendo che le pronunce emesse a Strasburgo vincolano lo Stato responsabile solo per il caso di specie, ha sostenuto che i tribunali interni sono comunque competenti ad applicare la CEDU e quindi a conformare la loro giurisprudenza a quella europea. (71)

Se la violazione è invece insita nella norma stessa, è imprescindibile una sua modifica, configurandosi altrimenti uno stato di continua violazione della CEDU, dal momento che ogni applicazione di quella legge implica una violazione degli obblighi derivanti dall'art. 46 della CEDU stessa.

La discrezionalità riconosciuta ai singoli Stati nella scelta delle misure generali e individuali da adottare, non può in ogni caso tradursi nella sospensione dell'applicazione della CEDU e quindi in una perpetuazione della violazione, in attesa della realizzazione di una riforma (o anche della decisione della Corte Costituzionale, nei casi in cui il meccanismo scelto dall'ordinamento interno sia analogo a quello delineato dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza prima analizzata). (72)

L'aspetto che mi interessa maggiormente, alla luce dell'argomento trattato, riguarda però il caso in cui la violazione derivi da un atto amministrativo o giudiziario. Nel caso in cui esso sia già definitivo, il rispetto della giurisprudenza della Corte EDU diventa molto complesso, quantomeno per quanto riguarda la cosiddetta 'restitutio in integrum', per gli Stati che non contemplano la decisione della Corte tra i presupposti della revisione delle decisioni nazionali dotate di forza di giudicato. Come già rilevato nel secondo capitolo (73) lo stesso Comitato dei Ministri ha più volte sottolineato come il riesame di un caso o la riapertura di un procedimento siano i mezzi più efficaci, se non gli unici, per realizzare la tutela dei diritti garantiti dalla CEDU, data la frequente insufficienza, se non la totale inadeguatezza, della cosiddetta 'equa riparazione'. Tra le situazioni esaminate dal Comitato per pervenire a tali conclusioni figurano ad esempio quelle che concernono «persone espulse in violazione del diritto al rispetto della loro vita familiare» (74).

Sarebbe certamente auspicabile la creazione di un meccanismo di raccordo tra gli ordinamenti, tale da garantire la reciproca informazione, soprattutto tra le Corti supreme e le Corti europee, riguardo ai potenziali contrasti o ai disaccordi giurisprudenziali esistenti, al fine di armonizzare e rendere così effettiva la tutela dei diritti fondamentali, quantomeno in ambito europeo.

Dal momento che, a differenza dell'ordinamento comunitario, manca per il giudice nazionale la possibilità di ricorrere alla Corte EDU prima di decidere il caso pendente di fronte ad esso, diventa peraltro determinante, nel rapporto sistema convenzionale/ordinamento interno, il ruolo rivestito dalla Corte di Cassazione, al fine di non rendere inefficace o inutile l'adeguamento alla giurisprudenza di Strasburgo da parte di un singolo giudice di merito.

3.2 Art. 8 e tutela della vita familiare

«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di un'autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

Come si ricava facilmente dalla lettera dell'articolo in esame, la tutela da esso apportata riguarda due diverse situazioni: la vita privata e la vita familiare, essendo il domicilio e la corrispondenza collocabili nel contesto della vita privata, in quanto funzionali alle esigenze di questa.

Il modello per la formulazione di tale articolo è stato fornito, come si ricava dai lavori preparatori, dall'art. 12 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, che è però stato scisso negli articoli 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 10 (Libertà di espressione) della CEDU. Per quanto la nozione di «rispetto» sia alquanto vaga e necessiti pertanto di una specificazione, la giurisprudenza della Corte si è invece incentrata principalmente su quella di «interferenza» (75). È importante allora notare come sia le azioni positive statali nei confronti dell'individuo, sia le omissioni, possono integrare gli estremi di una interferenza, suscettibile quindi di ledere diritti protetti dalla CEDU, che necessita quindi di giustificazione ai sensi dell'art. 8, comma 2. Si tratta evidentemente di una formulazione programmatica, che ha reso inevitabile un approccio di tipo casistico, privilegiato infatti dalla Corte, al fine di realizzare un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, ed evolutivo, al fine di permettere un adeguato adattamento ai mutamenti sociali e alle esigenze collettive. (76)

Volendo incentrare l'analisi sul secondo ambito di applicazione dell'art. 8 (la vita familiare), occorre innanzitutto rilevare che la Corte ha privilegiato, come approfondirò in seguito, un'interpretazione estensiva, ai sensi della quale la nozione di famiglia va oltre quella cosiddetta 'legittima'. Assume infatti rilevanza primaria la situazione di fatto, la cui valutazione deve prescindere quanto possibile dalla qualificazione giuridico-formale del rapporto e la possibilità di creare e mantenere legami familiari tra due o più soggetti, non necessariamente accompagnati dalla coabitazione. L'apertura così dimostrata dalla Corte EDU è dovuta in parte all'evoluzione socio-culturale legata alla nozione di famiglia, e in parte alla trasformazione dell'Europa in paese d'immigrazione, con la conseguente e inevitabile commistione di culture, non dovendosi tuttavia trascurare la discrezionalità degli Stati a riguardo e la conseguente difformità delle scelte compiute in materia familiare.

3.3 Il governo delle migrazioni familiari e umanitarie

Negli ultimi anni sia le migrazioni familiari che quelle umanitarie hanno conosciuto una crescita esponenziale e in certo qual modo imprevista, nel senso che è stata indipendente dalle scelte di contingentamento da parte dei singoli Stati (come avviene normalmente, rectius dovrebbe avvenire, per i flussi legati a ragioni lavorative). Che si tratti di diritto al ricongiungimento familiare o di protezione umanitaria, la questione ricade in un settore in cui più di altri le scelte di politica migratoria sono inevitabilmente limitate dalla presenza di norme di diritto internazionale e di principi irrinunciabili per gli Stati democratici. Con riferimento a tale situazione si parla infatti di embedded liberalism, ossia di un contesto istituzionale che «vincola enormemente il potere decisionale dei singoli Stati, riducendo drasticamente la loro capacità di determinare il volume e la composizione dell'immigrazione» (77). Gli ordinamenti giuridici dei paesi europei si sono pertanto trovati quasi costretti a riconoscere ai migranti il diritto di ricongiungersi con i propri familiari, alla luce della tutela della vita familiare secondo quanto previsto ad esempio dall'art. 8 della CEDU. All'indomani dell'attuazione della cosiddetta 'politica degli stop' (78), il ricongiungimento familiare ha assunto enorme rilievo ed è stato considerato responsabile, secondo stime del 2004 relative ai paesi dell'Unione europea (79), di circa la metà degli ingressi regolari registrati ogni anno. È probabilmente legato a ciò il tentativo degli Stati di governare questa tipologia di flussi migratori, attraverso la predisposizione di misure dirette o indirette.

Limitando l'analisi alle migrazioni familiari, tra le misure dirette è collocabile la tendenza a considerare titolari del diritto al ricongiungimento solo alcune categorie di migranti, escludendo ad esempio i residenti temporanei, o a restringere i familiari ai quali è consentito l'ingresso. In Italia ad esempio, anche se la normativa è destinata a cambiare alla luce di quanto disposto dallo schema di decreto legislativo destinato all'attuazione della direttiva 2003/86/CE, attualmente l'assenza di altri fratelli maggiorenni nel paese di origine costituisce un presupposto cui è necessariamente subordinato il ricongiungimento dei genitori. Altre misure sono invece legate all'irrigidimento dei requisiti (relativi ad esempio alle garanzie finanziarie e alla disponibilità dell'alloggio) necessari per l'esercizio del diritto in questione. Al di là della disciplina normativa, gli Stati devono però confrontarsi anche con le pressioni normalmente esercitate a livello di società civile per il rispetto dei diritti fondamentali.

Fanno invece parte delle misure indirette, che tendono a scoraggiare l'immigrazione rendendola meno conveniente, le previsioni normative destinate a limitare l'accesso al mercato del lavoro.

3.4 Tutela della vita familiare come presupposto per il ricongiungimento

L'analisi delle sentenze della Cassazione rilevanti sotto tale profilo sarà opportunamente limitata, seppur con qualche eccezione, all'arco temporale 2002-2006 in ragione del fatto che la legge 189/2002, cosiddetta 'Bossi-Fini', ha introdotto significative modifiche anche con riferimento alla tutela dell'unità familiare, riducendo in particolare l'ambito di applicazione del ricongiungimento familiare.

La previsione dell'articolo 29 del d.lgs 286/1998 (T.U. sull'immigrazione), soprattutto dopo le modifiche apportate dal d.lgs 5/2007 (80), dimostra il riconoscimento di un'esigenza, la tutela del nucleo familiare attraverso la realizzazione della convivenza, che secondo la stessa Corte Costituzionale (81) costituisce espressione delle norme costituzionali che assicurano la protezione della famiglia e in particolare dei figli minori. Il diritto e il dovere di mantenimento, educazione ed istruzione dei figli riconosciuto ai genitori e l'importanza di una vita comune per garantire l'unità della famiglia, sono considerati alla stregua di diritti fondamentali della persona, spettando pertanto in linea di principio anche agli stranieri (82). La Corte Costituzionale ha peraltro ribadito (83) che il T.U. sull'immigrazione ha effettivamente previsto una specifica tutela del diritto dello straniero regolarmente soggiornante a mantenere l'unità familiare, introducendo appunto l'istituto del ricongiungimento familiare. La fruizione di detto diritto può tuttavia essere limitata dalla possibilità di garantire al nucleo familiare condizioni di vita adeguate (84) o da un corretto bilanciamento condotto alla luce di altri valori ugualmente protetti, quali l'ordine pubblico e la sicurezza comune. L'articolo 28, come modificato dalla Bossi-Fini, elenca i familiari per i quali lo straniero, titolare di «carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi» (85), può chiedere il ricongiungimento. Oltre che per il coniuge non legalmente separato e per i figli minori a carico, come già previsto, la nuova disciplina prevede la possibilità di ingresso per ricongiungimento anche per i «figli maggiorenni a carico, qualora non possano per ragioni oggettive provvedere al proprio sostentamento a causa del loro stato di salute che comporti invalidità totale» (86).

Preme tuttavia rilevare come tale disposizione, che sembrerebbe apparentemente ampliare l'ambito di applicazione dell'istituto, serve semplicemente a limitare gli effetti dell'abrogazione della lettera d) contenuta nella precedente formulazione dell'art. 28, secondo la quale il ricongiungimento era esteso ai «parenti entro il terzo grado, inabili al lavoro secondo la legislazione italiana». Anche con riferimento ai genitori sono state introdotte notevoli limitazioni, i cui effetti si sono dimostrati spesso inaccettabili nella pratica, perché non è più sufficiente che essi siano a carico del richiedente e che quest'ultimo dimostri la disponibilità di un alloggio e di un reddito adeguati, essendo ora necessario che gli stessi «non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza» o si tratti di «genitori ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute» (87). L'art. 29 del T.U. sull'immigrazione è stato fortunatamente riscritto integralmente dal d.lgs. 5/2007, che ha introdotto modifiche di portata sostanziale, soprattutto ai soggetti nei confronti dei quali è possibile richiedere l'ingresso in Italia ai fini del ricongiungimento. Non è infatti più necessario dimostrare che i figli rimasti nel paese di origine sono a carico del genitore che richiede il ricongiungimento, né che il richiedente non ha altri fratelli quale condizione per consentire l'ingresso dei genitori. Basterà dimostrare, in esatta conformità con quanto previsto dalla direttiva 2003/86/CE, l'assenza di un adeguato sostegno familiare nel paese di origine o di provenienza (88).

Prima di passare all'analisi diretta dei casi giurisprudenziali più significativi, ritengo importante richiamare brevemente l'esistenza di alcune distorsioni della prassi amministrativa rispetto alle previsioni legislative. Innanzitutto è da segnalare una prassi (che si potrebbe considerare illegittima) in base alla quale gli Uffici competenti ad istruire le pratiche relative al ricongiungimento, rifiutano di ricevere la domanda se sprovvista della documentazione da essi ritenuta essenziale ai fini dell'accoglimento della richiesta, indipendentemente dal fatto che i documenti siano espressamente richiesti dalla legge. La prassi difforme rispetto alla legge può poi comportare l'emanazione di provvedimenti di diniego o di revoca del permesso di soggiorno per motivi familiari, che rendono spesso inevitabile adire il giudice competente, con evidenti eterogeneità delle decisioni dei singoli casi. (89)

La scelta di limitare l'analisi alle pronunce della Cassazione è dettata anche dalla volontà di delineare uno standard applicativo della normativa e della tutela dei diritti fondamentali coinvolti, in modo da rendere più agevole un confronto con la giurisprudenza europea. Non mancheranno tuttavia alcuni riferimenti a pronunce provenienti da giudici comuni, in ragione della loro rilevanza rispetto all'argomento trattato. L'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione (ASGI) ha condotto nel 2001, su incarico del Dipartimento per gli Affari Sociali italiano, uno studio dal titolo Dal permesso alla carta di soggiorno. I nodi problematici di un percorso di integrazione, diretto all'esame delle difficoltà concrete con cui deve fare i conti un migrante nel momento in cui entra in rapporto con la Pubblica Amministrazione per la tutela dei propri diritti (90). Nonostante il riferimento sia alla situazione esistente anteriormente all'entrata in vigore della Bossi-Fini, alcuni rilievi risultano nondimeno di evidente attualità. Mi limito semplicemente ad elencarli, non essendo questa la sede opportuna per un approfondimento. I problemi principali, potenzialmente capaci di mettere a repentaglio, se non di vanificare, l'effettiva tutela dell'unità familiare, riguardano la durata della procedura, la valutazione e l'interpretazione da parte degli Sportelli Unici per l'Immigrazione (prima da parte della Questura territorialmente competente) dei requisiti richiesti dalla legge, la conseguente discrezionalità amministrativa che si risolve talvolta in vere e proprie vessazioni, le interferenze nella vita privata e nella libertà individuale (91), l'accesso ai diritti sociali e infine la limitazione del diritto all'unità familiare nel caso di allontanamento di un membro della famiglia (92).

A fronte di una disciplina e di una prassi amministrativa che, come rilevato, non costituiscono lo sviluppo che legittimamente ci si potrebbe aspettare dal richiamo al «diritto all'unità familiare» e alla «tutela dei minori», come risulta dalla stessa intestazione del Titolo IV del T.U. sull'immigrazione, la Corte di Cassazione si è spesso dimostrata, nelle sue pur non numerosissime pronunce, piuttosto garantista e favorevole ad un'interpretazione del testo normativo che renda effettiva la tutela della vita familiare e degli interessi del minore.

Una prima pronuncia che merita di essere analizzata a testimonianza di questo atteggiamento da parte della Suprema Corte, seppur precedente all'approvazione della legge Bossi-Fini, concerne la legittimazione passiva per la richiesta di ricongiungimento familiare di familiari stranieri. Come sopra riportato, essa era concessa dalla legge «agli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi» (93).

La signora Maitnate Hadda, nata in Marocco, dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno per ricongiungersi con il figlio che lavorava in Italia, aveva presentato a sua volta domanda di ricongiungimento familiare con la propria figlia minore residente in Marocco. L'ambasciata italiana a Rabat rifiutò il visto d'ingresso, con motivazione analoga a quella che successivamente portò la Corte di appello adita, a riformare la sentenza del tribunale di primo grado e a confermare il diniego del visto d'ingresso, considerando tra l'altro che «il D.L.vo. n. 286 del 1998 conteneva - con riferimento al caso in esame - norme eccezionali rispetto al generale principio secondo cui il soggiorno in Italia degli stranieri non appartenenti alla Comunità Europea non è ammesso, potendo essere consentito in via di eccezione per ipotesi predeterminate (94), ritenute dal legislatore meritevoli di tutela e pertanto, trattandosi di norma di carattere eccezionale, esse non possono essere applicate al di là dei casi tassativamente stabiliti, né si può ricorrere al procedimento analogico per ipotesi soltanto in apparenza non previste» (95).

La Cassazione, coerentemente con un'interpretazione costituzionalmente conforme (96), rilevò innanzitutto che l'articolo 30 del d.lgs. 286/1998 equipara il permesso di soggiorno per motivi di famiglia a quello per motivi di lavoro, dal momento che attribuisce ad entrambi facoltà analoghe se non identiche (in termini di servizi assistenziali, possibilità di studio e di lavoro) e quindi «un trattamento giuridico differenziato non sarebbe neppure costituzionalmente legittimo (si noti che l'art. 2, comma secondo, del D.L.vo n. 286 del 1998 concede allo straniero regolarmente soggiornante in Italia i diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano (97), nel cui novero va compreso anche il diritto all'eguaglianza di trattamento desumibile dall'art. 3 della Costituzione, costituente principio fondamentale dell'ordinamento)». (98) D'altronde, come afferma giustamente la Corte, «se la ratio legis è quella di favorire l'unità familiare [...], questa intenzione del legislatore non può essere ignorata in forza di una lettura meramente letterale dell'art. 28, primo comma, del D.L.vo n. 286/1998, trascurando del tutto i pur significativi elementi d'interpretazione emergenti dal testo coordinato di tale norma e di quelle in precedenza richiamate» (99).

Una questione analoga si è presentata recentemente innanzi al Tribunale di Pordenone, che ha deciso in perfetta sintonia con la pronuncia della Cassazione appena analizzata, concludendo, dopo aver richiamato la sentenza suddetta, che «allorché lo straniero sia ammesso al soggiorno nel territorio dello Stato, egli gode di tutti i diritti civili propri del regolarmente soggiornante e non può essere escluso, in suo favore, l'esercizio del diritto all'unità familiare, il quale è costituzionalmente garantito (art. 29 Costituzione) a tutti e non solo ai cittadini italiani» (100).

La Corte di Cassazione non si è invece dimostrata, a mio avviso, sufficientemente garantista e coerente con la tutela dell'unità familiare in una pronuncia relativa all'articolo 31, terzo comma del d.lgs. 286/1998, ai sensi del quale «Il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, può autorizzare l'ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del presente testo unico».

I genitori di due ragazzi minorenni di nazionalità albanese, fecero ricorso per Cassazione avverso il decreto con cui la Corte d'appello di Ancona aveva revocato l'autorizzazione, loro concessa dal Tribunale per i minorenni, a rimanere nel territorio nazionale per tre anni. La Corte di appello aveva in particolare rilevato che «tali norme, di carattere eccezionale perché derogano alla disciplina generale, [...] troverebbero rigorosa applicazione in situazioni di emergenza e di pericolo attuale per il minore, per "gravi motivi", non ravvisabili nel semplice fatto che il minorenne goda in Italia di migliori opportunità di sviluppo psico-fisico, rispetto a quelle del suo paese di origine (101), e neppure nella necessità di garantire l'unità del nucleo familiare [...] che, peraltro, non necessariamente deve trovare soddisfazione nel nostro paese» (102).

La Cassazione, rifacendosi ad una sua giurisprudenza piuttosto consolidata sull'argomento (103), ribadì che l'autorizzazione non poteva essere concessa per l'esistenza di situazioni di durata lunghissima o indeterminabile, come il completamento dell'intero processo educativo-formativo del minore, senza superare la lettera e la ratio legis stessa della disposizione. Concluse pertanto rigettando il ricorso e precisando che le esigenze giustificative della suddetta autorizzazione non devono essere generiche, ma «determinate da motivi gravi, corrispondenti alla necessità di non deprivare traumaticamente il fanciullo della fruizione di diritti fondamentali, riconosciuti dalla legge a prescindere dalla sua condizione di straniero» (104).

Le considerazioni della Corte non paiono in verità condotte alla luce dell'interesse del minore e quindi del rispetto di quanto disposto dall'articolo 28 del T.U. sull'immigrazione, dove si afferma che «in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'articolo 3, comma 1, della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176». Come sottolineato dalla stessa Corte Costituzionale, nella decisione n. 376 del 2000 con cui dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'articolo 19, comma 2, lettera d) del d.lgs. 286/1998 nella parte in cui non estendeva il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto (105), l'articolo 31 del T.U. sull'immigrazione ha introdotto specifiche disposizioni normative volte a garantire la concreta tutela del minore. Se è certamente vero che il diritto all'unità familiare non deve necessariamente trovare soddisfazione nel nostro paese (106), è altrettanto vero che «i gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore» dovrebbero essere considerati quelli normalmente connessi alla crescita del bambino (107) e quindi, potenzialmente, anche alla continuità nella frequenza, quantomeno, della scuola dell'obbligo. In altre parole, il 'grave motivo' che può giustificare la permanenza in Italia dei genitori, a prescindere dalla titolarità di un titolo di soggiorno, dovrebbe essere proprio il superiore interesse del minore a vivere in famiglia, senza che questo comporti l'allontanamento dal territorio dove questa si è stabilita o la separazione dai genitori, in perfetta corrispondenza a quanto prescritto nella CEDU, ai sensi della quale una compressione del diritto al rispetto dell'unità familiare sarebbe possibile solo in presenza di necessità di ordine pubblico, e nella Convenzione di New York, che vieta di separare i genitori dai figli, se non quando ciò risulta indispensabile nell'interesse di questi ultimi (108). La Corte avrebbe almeno potuto valutare la situazione complessiva dei minori, «non solo sotto il profilo scolastico, ma sociale, affettivo e più propriamente ambientale, in quanto collegata alla vita di relazione condotta» (109).

La Convenzione di New York, e in particolare il diritto dei minori a restare con il genitore che li mantiene e dimostra la volontà concreta di prendersene cura (articoli 9 e 10), è stata invece espressamente richiamata dalla Cassazione per avvalorare la tesi per cui «nessun riferimento specifico ad altri concetti, come quello di "potestà" sui minori dei genitori, esclusiva o concorrente, può avere rilievo per negare il diritto dello straniero extracomunitario a riunirsi ai figli minori, quando al loro sostentamento egli provveda in via esclusiva, non contribuendovi l'altro genitore, il cui assenso è necessario (art. 29, comma 1, lett. b), proprio per assicurare comunque l'esercizio della potestà genitoriale in Italia al soggetto che richiede il ricongiungimento» (110).

La priorità assegnata al superiore interesse del fanciullo ha portato ad esempio ad ordinare, in conseguenza del diniego emesso dall'Ambasciata italiana (111), il rilascio del visto d'ingresso per il ricongiungimento alla sorella, da parte di un minore, orfano di genitori, e affidato a lei in base alla legge etiope. Veniva infatti in rilievo che l'articolo 29 del T.U. sull'immigrazione, «nell'esplicitare i casi in cui è ammissibile il ricongiungimento familiare, non si limita a richiedere lo status di adottato del minore nei confronti del quale si chiede il ricongiungimento, bensì considera i minori adottati, affidati o sottoposti a tutela alla stregua di figli legittimi, riconoscendo quindi la possibilità anche per il minore la cui situazione sia protetta da una tutela che non ha i caratteri della stabilità come l'adozione, di potersi ricongiungere con i soggetti che esercitano tale tutela» (112).

Un ulteriore caso in cui viene chiaramente in rilievo il rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione e l'interesse del minore riguarda la questione, che le Questure non raramente si trovano a dover risolvere, di minori entrati in Italia in assenza di visto (113), ma conviventi con la propria famiglia regolarmente soggiornante in Italia. Mentre per i minori di quattordici anni si riscontrano comunemente casi di applicazione letterale dell'articolo 31, comma 1, del T.U. sull'immigrazione, e quindi di iscrizione del figlio nel permesso di soggiorno del genitore (a prescindere dall'assenza di visto d'ingresso), il problema risulta più complesso nel caso di minori ultraquattordicenni. L'unica soluzione che risulta tuttavia conforme alla Costituzione, al prioritario interesse del minore e quindi in sintonia con la tutela del diritto alla vita familiare ai sensi dell'articolo 8 della CEDU, appare quella per cui «può e deve farsi applicazione analogica del secondo comma dell'art. 31 d. lgs. 286/1998, dovendosi intendere che il diritto del minore al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari dopo il compimento del quattordicesimo anno di età, e fino al compimento della maggiore età, non sia subordinato alla preventiva iscrizione nel permesso di soggiorno ai sensi del primo comma del medesimo articolo» (114).

Una diversa questione affrontata dalla Cassazione (115) e cui fa riscontro un'interessante giurisprudenza di Strasburgo sulla nozione di 'famiglia' ai sensi dell'articolo 8 della CEDU, riguarda il requisito della coabitazione con i parenti di nazionalità italiana. Dal momento però che le pronunce della Corte di Cassazione che vengono in rilievo sono in questo caso legate al bilanciamento tra diritto all'unità familiare e motivi di ordine pubblico, è preferibile rimandarne la trattazione al prossimo paragrafo.

Una problematica finalmente risolta, come sopra accennato, con le modifiche apportate dal d. lgs 5/2007, riguardava la legittimità costituzionale dell'articolo 29, comma 1, lett. c del T.U. sull'immigrazione nella parte in cui limitava la possibilità di ricongiungimento dei genitori ultrasessantacinquenni al caso in cui «gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute».

La questione era stata sollevata per la prima volta dal Tribunale di Prato (116) in riferimento agli articoli 2, 3, 10 e 29 della Costituzione e all'art. 8 della CEDU (117). Alla base della questione di legittimità vi era innanzitutto il rilievo che tale limitazione dell'ambito del ricongiungimento impedisce di soddisfare l'inviolabile diritto alla vita familiare e in particolare gli obblighi di solidarietà familiare nei confronti dei genitori anziani, sancito dagli articoli 2 e 29 della Costituzione e garantito quindi anche ai cittadini stranieri, pienamente equiparati a quelli italiani con riferimento ai diritti fondamentali, nell'ipotesi di presenza nel paese di origine di altri figli conviventi con gli stessi. Ciò determinerebbe tra l'altro una ingiustificata disparità di trattamento, e quindi una violazione dell'articolo 3 della Costituzione, fra i richiedenti che abbiano fratelli e quelli che ne siano privi. Per quanto riguarda poi la conformità alla CEDU (118), la compressione del diritto garantito dall'articolo 8, comma 1, sarebbe ammissibile solo qualora l'ingerenza «costituisca misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui». Non ricorrendo nel caso di specie, ad avviso del Tribunale di Prato, nessuna di queste ipotesi, era stato pertanto ritenuto necessario sollevare la questione di legittimità costituzionale per contrasto con la citata disposizione.

Nonostante la fondatezza dei dubbi sollevati dal giudice a quo, la Corte Costituzionale ha tuttavia respinto tutte le questioni prese in esame. Merita in particolare di essere riportato il passo in cui si afferma che «mentre l'inviolabilità del diritto all'unità familiare è certamente invocabile e deve ricevere la più ampia tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione e, quindi, in relazione al ricongiungimento dello straniero con i figli minori, non può invece sostenersi che il principio contenuto nell'art. 29 della Costituzione abbia un'estensione così ampia da ricomprendere tutte le ipotesi di ricongiungimento di figli maggiorenni e genitori; infatti nel rapporto tra figli maggiorenni, ormai allontanatisi dal nucleo di origine, e genitori, l'unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile costituzionalmente garantito e contestualmente si aprono margini che consentono al legislatore di bilanciare "l'interesse all'affetto" con altri interessi di rilievo» (119). Lascia piuttosto perplessi la posizione della Corte, prima di tutto con riferimento all'interpretazione alquanto restrittiva dell'articolo 29 della Costituzione, e la conseguente limitazione della tutela alla famiglia nucleare (120); in secondo luogo con riferimento alla violazione dell'articolo 3, in quanto l'asserita ragionevolezza delle restrizioni al godimento della vita familiare alla luce dell'ipotesi che vi siano altri figli nel Paese di origine e che siano pertanto possibili altre forme di conservazione dell'unità familiare, non convince affatto sotto il profilo della prioritaria rilevanza attribuita alla presenza o meno di altri figli; risulta infine insufficiente la motivazione dell'insussistente violazione dell'articolo 8 della CEDU, in quanto la Corte avrebbe comunque dovuto quantomeno prendere in considerazione la giurisprudenza di Strasburgo in materia, sconfessando così i rilievi fatti dalla difesa erariale che aveva escluso la violazione delle norme convenzionali, sostenendo che la Corte EDU aveva affermato che «il diritto al rispetto della vita familiare può subire varie limitazioni, poiché spetta agli Stati contraenti assicurare l'ordine e il benessere pubblico nell'esercizio del loro diritto al controllo dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri». In realtà, se si analizzano le sentenze pronunciate dalla Corte EDU sull'argomento, non si può che giungere ad una conclusione completamente diversa. Basti qui rilevare, rimandando una trattazione più approfondita ad un secondo momento, come in più di una circostanza la Corte EDU ha sostenuto che la vita familiare tutelata dall'articolo 8 non è solo quella che si realizza all'interno di una famiglia cosiddetta legittima, comprendendo ad esempio anche i rapporti tra nonni e nipoti, e che le eventuali limitazioni di tale diritto necessitano di rigorosa giustificazione ai sensi del secondo comma dell'articolo 8. Non risultano pertanto chiare le esigenze che sono considerate dalla Corte Costituzionale prioritarie e tali da giustificare, in assoluto, una restrizione del diritto al rispetto della vita familiare. È opportuno infine ricordare che il testo della disposizione impugnata, prima delle modifiche apportate dalla legge 189 del 2002, consentiva allo straniero, che dimostrasse la disponibilità di un alloggio e di un reddito adeguati, di chiedere il ricongiungimento familiare per i genitori, ponendo come unico presupposto che essi fossero a carico del richiedente. Previsione chiaramente preferibile dal punto di vista della coerenza con i principi costituzionali e convenzionali. L'unità familiare si realizza normalmente infatti attraverso il coinvolgimento di tutti i suoi membri, essenziali, seppur nella diversità dei ruoli, a contribuire al benessere economico ed affettivo della famiglia, senza che tale contributo possa venir dimenticato solo in ragione dell'età o del grado di parentela, come spesso succede nell'applicazione della normativa sull'immigrazione. È legittimo pertanto ritenere che «se alla famiglia italiana viene riconosciuto il diritto a beneficiare dell'aiuto di tutti i membri, non vi è ragione per non riconoscerlo anche a tutti i componenti della famiglia straniera» (121).

È forse ancora presto per tracciare conclusioni relative all'atteggiamento della Cassazione nei confronti del diritto al rispetto della vita familiare. Dall'analisi fin qui condotta è peraltro possibile rilevare come, a fronte di una legislazione sull'immigrazione che rende spesso inevitabile un'interpretazione a fini integrativi, diventa fondamentale il ruolo svolto dalla Suprema Corte per armonizzare le decisioni spesso divergenti dei vari giudici di merito e della Pubblica amministrazione, e quindi per poter comprendere se e quanto la giurisprudenza di Strasburgo, nel presente studio solo con riferimento alla tutela della vita familiare, riesca a influenzare quella delle Corti italiane, indipendentemente dalla presenza o meno di ricorsi volti a far rilevare una violazione dei diritti garantiti dalla CEDU. Da quest'ultimo punto di vista, come già sottolineato, la Cassazione si è dimostrata generalmente disponibile ad un'interpretazione garantista delle norme previste dal T.U. sull'immigrazione; è peraltro inevitabile registrare la quasi totale assenza di un esplicito riferimento al sistema convenzionale, sia da parte della stessa Corte che nelle motivazioni addotte dalle parti ricorrenti, quando invece le pronunce della Corte EDU, sarebbero estremamente utili, sia come supporto interpretativo, che come prevenzione di potenziali condanne nei confronti dell'Italia.

3.5 Tutela della vita familiare come limite all'espulsione

La tutela della vita familiare assume particolare rilievo soprattutto con riferimento a quelle situazioni in cui tale diritto viene necessariamente posto in rapporto, ai fini di un corretto bilanciamento, con le esigenze di ordine pubblico e di sicurezza comune, che vengono normalmente in rilievo quando uno straniero viene colpito da un provvedimento di espulsione. Le sentenze che ho selezionato, alcune pronunciate anche in questo caso da giudici di merito, costituiscono un evidente segnale di come sia possibile concludere quel bilanciamento attribuendo alla tutela dell'unità familiare un'importanza prioritaria.

Viene innanzitutto in rilievo come «la giurisprudenza dei tribunali amministrativi sul punto è proprio nel senso di ritenere affetto da carenza di motivazione il provvedimento di espulsione dal territorio italiano che ignori la complessiva situazione della famiglia dell'espulso che, qualora non vi siano particolari motivi di ordine pubblico, deve essere mantenuta unita» (122). L'eventuale annullamento del provvedimento di espulsione, che tiene indubbiamente conto, seppur implicitamente, della ratio dell'articolo 8 della CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale, è infatti normalmente motivato sia in base alle norme del T.U. sull'immigrazione relative all'unità familiare e alla tutela dei minori, sia in base ad alcune disposizioni costituzionali, riferite alla tutela dei diritti fondamentali della persona (articolo 2), alla condizione giuridica dello straniero (articolo 10), ai diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (articolo 29) e a quelli dei figli (articolo 30). (123)

Una sentenza che, per il fondamentale ruolo rivestito e ampiamente analizzato in precedenza, non può non essere citata anche in tale contesto, è quella pronunciata dalla Cassazione nel caso Medrano (124). In tale occasione la Cassazione ha infatti sottolineato, rifacendosi alla giurisprudenza degli organi della CEDU, come l'espulsione sia destinata inevitabilmente ad incidere sui diritti fondamentali del soggetto destinatario, e nel caso in esame sull'intera famiglia, potendone compromettere l'unità. Ad una sentenza di condanna non può pertanto seguire un'espulsione automatica, essendo necessario «prendere in esame le circostanze del caso di specie (gravità del reato determinante l'espulsione, possibilità per i familiari di seguire l'interessato, età e situazione personale e giuridica dei figli e dei familiari in genere, ecc.), al fine di pervenire a una decisione di giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco» (125). Dopo aver opportunamente richiamato l'articolo 8 della CEDU, la Corte conclude che la normativa (126) deve essere interpretata in modo che la sua applicazione non si risolva «immotivatamente nella violazione del principio sancito dalla normativa convenzionale che costituisce un criterio ermeneutico per la corretta applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione ed occorre quindi che il giudice accerti in concreto la pericolosità del soggetto (127) [...], valutando, fra l'altro, - nell'ottica e per le finalità perseguite anche dalla disposizione di origine convenzionale - gli indici concernenti le condizioni di vita familiare dello straniero» (128).

Sembra utile ricordare anche un altro caso, pur se non molto recente, in cui l'articolo 8 della CEDU ha ugualmente concorso, insieme ad altre disposizioni, a far prevalere la tutela dell'unità familiare rispetto alle valutazioni sulla cui base era stato emesso un provvedimento di espulsione. Il caso riguardava uno straniero convivente con la madre regolarmente soggiornante, titolare di permesso di soggiorno per lavoro. Nonostante si trattasse di un maggiorenne e fosse quindi esclusa la normativa di favore riservata ai minorenni, è stato ritenuto che «il diritto dello straniero all'unità familiare non può essere disconosciuto ogni volta che esso contrasti con l'esigenza di tutela degli interessi pubblici, menzionati anche dall'art. 8 della Convenzione, anche quando il diritto non sia specificamente contemplato dalla [...] l. n. 40/88» (129).

In un caso più recente che non può non colpire per la presenza di un'intera sezione dedicata a «La pericolosità sociale della ricorrente e i limiti all'applicazione dell'espulsione derivanti dall'articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo» e ad un'attenta analisi delle sentenze Corte EDU, si sottolinea che ogni decreto di espulsione deve necessariamente contenere una valutazione degli elementi indicati dalla giurisprudenza convenzionale (130) e quindi un giudizio di comparazione degli interessi coinvolti per stabilire se l'espulsione possa essere considerata come «una necessità sociale imperiosa [e] proporzionata rispetto ai diritti (di cui all'articolo 8 citato) che devono essere salvaguardati» (131).

Un altro caso riguarda, ad esempio, un diniego di permesso di soggiorno per motivi di famiglia, motivato con la presenza di una sentenza di condanna a carico del richiedente e con l'assenza dei requisiti previsti dal T.U. sull'immigrazione ai fini del ricongiungimento familiare. A dispetto delle valutazioni effettuate dalla Questura, insufficienti perché compiute secondo criteri normativi astratti e generali, trascurando la specifica situazione soggettiva del richiedente (132), è indispensabile, ai fini di un adeguato bilanciamento degli interessi coinvolti, valutare, alla luce di essa, il diritto all'unità familiare e la tutela dei minori (133). Sono infatti queste le considerazioni che, alla luce dell'avvenuto reinserimento sociale del ricorrente e delle conseguenze di un mancato rinnovo del titolo di soggiorno sulla sua famiglia, hanno portato il Tribunale adito, a concludere che «alla luce del principio sancito con il disposto di cui all'art. 28, comma 3 del d. lgs. n. 286/98, va, infine, considerato con carattere di priorità il superiore interesse dei tre figli minori [...], nati e residenti in Italia, per i quali il padre riveste un ruolo di primaria importanza, sia economica che affettiva, come confermato sia dalla moglie, che dal responsabile dell'ufficio immigrazione e territorio del Comune di Bologna» (134).

La presenza di un nucleo familiare che comprenda anche figli minori e una situazione di precedente permanenza regolare fanno chiaramente pendere più facilmente la bilancia a favore della tutela della vita familiare, dove invece l'assenza di questi fattori comporta più verosimilmente la rigida applicazione delle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri. Ecco perché la Corte di Cassazione ha considerato legittima ed eseguibile l'espulsione emessa a carico di un cittadino straniero privo di un titolo di soggiorno valido ed entrato in Italia, presumibilmente per ricongiungersi alla moglie, anch'essa irregolare. Secondo la Cassazione, il diritto al mantenimento dell'unità della famiglia viene in considerazione, ai fini della valutazione di legittimità di un provvedimento di espulsione emesso ai sensi dell'articolo 13 del T.U. sull'immigrazione, solo con riferimento agli stranieri regolarmente presenti. La sentenza si conclude infatti rilevando che per ritenere legittima la permanenza in Italia dei cittadini stranieri irregolari «non è, di per sé, sufficiente l'esistenza di un nucleo familiare; né tale disciplina si pone in contrasto con alcun principio, desumibile dall'art. 2 Cost., relativo alla tutela del diritto all'unità familiare, atteso che il legislatore ordinario può legittimamente limitare tale diritto, per bilanciare l'interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi alle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri» (135).

Analoghe considerazioni hanno portato la Corte ad escludere che la convivenza con parenti stranieri regolari sia sufficiente ad impedire l'espulsione, anche se la rigorosa applicazione della normativa sull'immigrazione può verosimilmente incidere, in modo talvolta irrimediabile quando l'intera famiglia è chiaramente integrata nel contesto nazionale, sull'unità della stessa. (136) Indipendentemente dalla presenza di un divieto normativo all'espulsione, sarebbe forse stato corretto prendere anche in questo caso in considerazione la situazione complessiva del ricorrente, tenendo tra l'altro presente come il rispetto dell'articolo 8 della Convenzione, nell'interpretazione fornita dalla CEDU, non solo limita le ingerenze dello Stato nella vita familiare, ma è anche fonte di obbligazioni positive a carico dello stesso, volte a favorire il godimento di tale diritto (137). Eppure la Corte Costituzionale, con l'ordinanza n. 158 del 2006 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità posta dal Tribunale di Genova con riferimento all'articolo 19, comma 2, lett. c) del D. lgs. 286/1998 per violazione della tutela della famiglia, anche se straniera, ai sensi dell'articolo 2 della Costituzione (138) e al principio di uguaglianza garantito dall'articolo 3 della Costituzione. I giudici della Consulta hanno infatti affermato che «la questione sollevata dal giudice remittente, ove accolta, andrebbe a vanificare i fini sottesi alla legge per il ricongiungimento familiare, dal momento che sarebbe consentito in ogni caso allo straniero coniugato e convivente con altro straniero di aggirare le norme in materia di ingresso e soggiorno, con evidente sacrificio degli altri valori costituzionali considerati dal d.lgs. n. 286 del 1998 [e], quanto alla ritenuta violazione dell'art. 3 della Costituzione, non può effettuarsi alcun giudizio di comparazione tra la situazione dello straniero coniugato con altro straniero - sia pur munito di permesso di soggiorno - e quella dello straniero coniugato con un cittadino italiano, trattandosi di situazioni fra loro eterogenee (ordinanza n. 232 del 2001)».

A conclusioni opposte, e chiaramente più garantiste dal punto di vista del rispetto della vita familiare, è giunto un Giudice di pace le cui considerazioni, per il rilievo assegnato a tale diritto, meritano senz'altro di essere analizzate. Nei confronti di un cittadino ecuadoregno, convivente con il figlio minore e con la madre di questo, era stata disposta l'espulsione ai sensi dell'articolo 13, comma 2 del d. lgs. 286/1998. Dopo aver giustamente rilevato che la normativa, precisamente l'articolo 19, comma 1, lett. c) invocato dal ricorrente, attiene esclusivamente ai conviventi con cittadini di nazionalità italiana, ritiene nondimeno di dover approfondire la questione relativa alla richiesta di riconoscimento del diritto a mantenere l'unità familiare dal momento che «non vi è dubbio che l'espulsione sia un provvedimento che non solo limita la libertà di soggiorno e di circolazione dello straniero ma può ledere anche alcuni diritti soggettivi di cui è comunque titolare ogni straniero in ogni modo presente sul territorio nazionale; il diritto di vivere in famiglia è senza dubbio uno di questi» (139). In secondo luogo, conformandosi ad un'interpretazione giurisprudenziale costituzionalmente orientata, è necessario valutare, in caso di soggiorno irregolare dello straniero, le specifiche condizioni dello stesso e quindi l'eventuale presenza di un nucleo familiare stabilito sul territorio nazionale. In conclusione, «alla luce dell'orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale che privilegia la tutela del diritto all'unità familiare, in quanto diritto fondamentale della persona e perciò spettante anche agli stranieri, [...] si può ritenere che tali esigenze non possano essere subordinate alle ragioni del provvedimento amministrativo in oggetto» (140). Evidentemente solo una lettura in tal senso del diritto all'unità familiare riesce ad evitare le irrimediabili conseguenze che una rigida applicazione dell'articolo 19, comma 1, lett. c), come prima rilevato, vengono ad incidere sulla vita di una famiglia che non comprenda componenti di nazionalità italiana.

È opportuno a questo punto analizzare anche l'importante sentenza, solo menzionata nel precedente paragrafo, relativa alla problematica della convivenza. Nel caso in esame, il Tribunale di Verona aveva disposto il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di famiglia ai sensi dell'articolo 30, comma 1 del d. lgs. 286/1998, annullando così il diniego della Questura, motivato con la pericolosità sociale del soggetto. La Corte d'appello, adita sostenendo che lo straniero «mancava dei due requisiti dell'art. 19 del T.U. ostativi all'espulsione e necessari per ottenere il permesso per motivi familiari, cioè quello della convivenza con la figlia minore cittadina italiana e l'altro dell'esercizio della potestà genitoriale, inesistente in difetto di coabitazione» (141), accoglieva il ricorso decretando che la mancanza di rapporti con la figlia, rendendo inapplicabile l'articolo 19, comma 2, lett. c), comportava la prevalenza delle esigenze di ordine pubblico su quelle connesse all'unità familiare. La Corte di Cassazione, con una pronuncia alquanto innovativa rispetto alla giurisprudenza nazionale in materia (142), propende invece per la conclusione opposta, con motivazioni solide e complete. Viene innanzitutto sottolineato come l'articolo 30 del T.U. sull'immigrazione inserito, diversamente dall'articolo 19, nel Titolo IV relativo al diritto all'unità familiare e alla tutela dei minori, non richieda la coabitazione o la convivenza dello straniero con il parente al quale vuole essere ricongiunto e contempli inoltre la possibilità di rilascio di permesso di soggiorno, anche in assenza di altro titolo valido, al fine evidente di tutelare il superiore interesse del minore. La Corte ricorda quindi che il diniego di permesso era conseguito al fatto che lo straniero coinvolto rientrava tra i soggetti socialmente pericolosi (143), ai quali l'articolo 28 del D.P.R. 394 del 1999 permette di ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari ex articolo 30 del T.U. sull'immigrazione solo se «si trovano nelle documentate circostanze di cui all'art. 19, comma 2, lett. c, del Testo Unico», ovvero siano conviventi con i parenti per riunirsi ai quali è chiesto il permesso di soggiorno. Il ragionamento della Corte continua affermando che «la norma regolamentare contrasta chiaramente con il T.U. che tutela gli interessi superiori del minore, con carattere di priorità anche rispetto alle ragioni di ordine pubblico per le quali è regolato l'ingresso e il soggiorno degli extracomunitari in Italia; [...] quando il genitore straniero chieda il permesso per recuperare l'unità familiare con un figlio minore cittadino italiano, con il quale non conviva, salvo il caso di perdita della potestà genitoriale secondo la legge interna, la carenza di coabitazione o convivenza con il minore non è ostativa al rilascio del permesso di soggiorno, anche in difetto del titolo per ottenerlo». Si tratta di una sentenza che, se seguita in modo adeguato dalle giurisdizioni di merito, avrà inevitabili risvolti sul bilanciamento tra le esigenze di tutela della vita familiare e quelle di ordine pubblico, ampliando in un certo senso la nozione stessa di 'famiglia' (144).

3.6 L'applicazione dell'articolo 8 della CEDU nella giurisprudenza di Strasburgo

La giurisprudenza della Corte EDU, soprattutto alla luce della formulazione poco precisa dell'articolo 8, costituisce, rectius dovrebbe costituire, un punto di riferimento imprescindibile per gli Stati aderenti al sistema convenzionale, quantomeno per dare alla nozione di 'vita familiare' un'interpretazione che non vanifichi la garanzia di questo diritto a livello nazionale. Per chiarezza espositiva, le pronunce della Corte che ho ritenuto fondamentali per la completezza del presente lavoro, verranno trattate separatamente, a seconda che si riferiscano principalmente alla specificazione dei diritti previsti dall'articolo 8, comma 1 CEDU o al necessario bilanciamento tra essi e le ulteriori esigenze, in conformità con quanto previsto dall'articolo 8, comma 2 della CEDU.

3.6.1 Sentenze volte alla precisazione della nozione di famiglia

Preme innanzitutto rilevare come la Corte abbia escluso, ormai da diversi anni, che la nozione di vita familiare che rileva ai sensi dell'articolo 8 della CEDU si limiti a comprendere la situazione che consegue all'instaurazione di una famiglia qualificabile come legittima. La prima sentenza che giunge a queste conclusioni risale al 1979 e fu pronunciata nel caso Marckx c. Belgio. In tale occasione il problema consisteva sostanzialmente nella qualificazione del rapporto tra una donna e sua figlia, in mancanza di una figura maschile e di un legame giuridico con questa. La Corte fa notare inizialmente che l'articolo 8 non fa alcuna distinzione tra famiglia legittima o illegittima, cosa che sarebbe a suo avviso in contrasto con l'articolo 14 e con il divieto da esso imposto di prevedere qualsiasi discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla CEDU (nel caso in esame si sarebbe trattato di una discriminazione fondata sulla nascita). Pertanto una donna e sua figlia rientrano a pieno nella nozione di famiglia, al pari delle situazioni cosiddette 'legittime', essendo peraltro «incontestabile che Paula Marckx si è assunta la piena responsabilità di sua figlia [...] dal momento della sua nascita e si è costantemente presa cura di lei, con la conseguenza che tra di esse è esistita e tuttora esiste una vera e propria vita familiare» (145).

In una sentenza di qualche anno successiva la Corte ha fornito un'analoga interpretazione del diritto al rispetto della vita familiare affermando che essa comprende sia le unioni legittime che quelle prive di un vincolo giuridico-formale. Costituendo entrambe una famiglia ai sensi dell'articolo 8, «sono pertanto protette da esso, anche se la relazione esiste al di fuori del matrimonio» (146).

Un'ultima sentenza che merita di essere menzionata in questo contesto è quella resa nel caso Keegan c. Irlanda. A fronte delle considerazioni fatte dal Governo irlandese, secondo il quale né il semplice legame di sangue tra una madre e sua figlia, né il sincero e profondo desiderio di una vita familiare erano sufficienti per costituire la stessa, la Corte ha ripetuto e ampliato quanto precedentemente sostenuto nei casi analoghi prima analizzati. Viene infatti sottolineato che la nozione di famiglia non può essere limitata ad una relazione basata sul matrimonio, ma comprende necessariamente anche altri legami materiali di fatto. In particolare, un figlio nato all'interno di un'unione di tal genere è ipso iure un membro di essa, fin dal momento della sua nascita, con l'importante conseguenza che tra il figlio e i suoi genitori si stabilisce un legame che rientra nella nozione di vita familiare ai sensi dell'articolo 8 della CEDU, «anche se al momento della sua nascita i genitori non coabitano più o la loro relazione è terminata» (147).

Secondo la Corte la situazione di fatto, normalmente la convivenza, va quindi valutata indipendentemente dall'esistenza di un vincolo giuridico: «il rispetto della vita familiare esige che la realtà biologica e sociale prevalga su una presunzione legale contraria sia ai fatti accertati che agli auspici delle persone interessate, senza in realtà giovare a nessuno» (148). Essa tuttavia, tracciando un importantissimo filone giurisprudenziale nel quale, come precedentemente accennato, si collocano anche pronunce relative agli effetti della filiazione, afferma che in molti casi anche la convivenza dei soggetti perde rilevanza, a favore di un'attenta valutazione circa la possibilità di creare o mantenere legami di tipo familiare (149). In particolare nel caso Boughanemi c. Francia, la Corte sostiene che «la nozione di vita familiare, sulla quale si basa l'articolo 8, comprende, anche dove non c'è coabitazione, il legame tra un genitore e suo figlio, indipendentemente dal fatto che quest'ultimo sia o meno legittimo» (150). Sebbene eventi particolari possano incidere su questo legame ai sensi dell'articolo 8, comma 2, si deve trattare di circostanze eccezionali, rientranti in quelle previste dall'articolo stesso, essendo pertanto inaccettabile un'eventuale interferenza nella vita familiare, basata sull'unica erronea considerazione che la famiglia protetta dalla CEDU presupponga necessariamente la convivenza dei suoi componenti.

3.6.2 Sentenze volte alla precisazione degli effetti della filiazione

Con riguardo al rapporto genitori/figli, la Corte ha chiaramente escluso, come già accennato con riguardo al caso appena trattato, che il rispetto della vita familiare possa prevedere discriminazioni basate sulla differenza tra figli naturali e figli legittimi (151), dando prioritaria importanza al solo legame di sangue (152), e non considerando invece altrettanto importante la coabitazione. Essa non è infatti qualificata come una condicio sine qua non per la sussistenza di una vita familiare tra genitori e figli, dal momento che, ad esempio, «l'esercizio da parte del padre del diritto di visita del figlio e il suo contributo economico all'educazione erano elementi sufficienti per la costituzione di una vita familiare» (153). L'eventuale espulsione di uno straniero, che comporta l'impossibilità di mantenere i legami con la figlia affidata alla sola madre, cittadina del paese dal quale è disposta l'espulsione, costituisce quindi una chiara violazione dell'articolo 8 della CEDU, se non «necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui» (154).

3.6.3 Sentenze volte alla precisazione delle ragioni che possono giustificare un'ingerenza nella vita familiare

Secondo una giurisprudenza convenzionale ormai consolidata (155), ogni Stato è titolare di un potere sovrano in merito all'ammissione, al respingimento, all'espulsione e all'estradizione dello straniero. L'articolo 8 della CEDU introduce tuttavia alcuni limiti a questo potere. Se quindi spetta agli Stati il compito di «mantenere l'ordine pubblico, in particolare nell'esercizio del loro diritto di controllare, in conformità ad un principio consolidato di diritto internazionale ed ai trattati internazionali cui essi aderiscono, l'ingresso, il soggiorno e l'espulsione degli stranieri» è altrettanto vero che le decisioni in materia, «nella misura in cui possono incidere sul diritto protetto dal primo comma dell'articolo 8, devono risultare necessarie in una società democratica, ovvero giustificate da un bisogno sociale imperioso e, soprattutto, proporzionate al legittimo interesse perseguito» (156). Risulta di conseguenza inaccettabile un'omissione, da parte degli Stati, della valutazione comparativa tra gli interessi di ordine pubblico ai quali è normalmente preordinato il provvedimento di espulsione e gli interessi dei quali è titolare lo straniero ai fini di pervenire ad una decisione di giusto equilibrio tra essi.

Nonostante la Corte abbia sempre dato per scontato che «l'esecuzione di un provvedimento di espulsione costituirebbe un'ingerenza da parte dell'autorità pubblica nell'esercizio del diritto [...] al rispetto della vita familiare, come garantito dall'articolo 8, comma 1», essa ha anche sostenuto, in accordo con la Commissione, che tale provvedimento può non rilevare, in linea teorica, sotto il profilo dell'articolo 8, se lo straniero può lasciare il proprio paese insieme ai propri familiari, purché ovviamente la misura risulti ragionevole. In pratica tuttavia è quasi impossibile che tali presupposti si verifichino, e che sia pertanto da escludere che si siano creati vincoli sociali e familiari degni di tutela (157). Come la Corte constata giustamente, non va dimenticato che l'articolo 8 tutela anche la vita privata, la quale può anche essere autonoma, ovvero indipendente dai legami familiari (158). Nel caso di uno straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione dal Belgio, è stato infatti precisato che egli «aveva stabilito reali legami sociali in Belgio, [...] e aveva conseguentemente creato anche una vita privata là, ai sensi dell'articolo 8, che include il diritto di un individuo a formare e sviluppare legami con altre persone, inclusi i rapporti professionali o di affari» (159). La distinzione non è ovviamente facile, dal momento che le relazioni private e familiari possono coesistere, senza necessariamente coincidere. Anche se la seconda fosse venuta meno o risultasse di scarso rilievo, sarebbe comunque opportuno dimostrare l'inesistenza di altri legami (di natura appunto sociale, professionale o economica), per ritenere conseguentemente legittima l'espulsione (160).

A tal proposito lascia piuttosto stupiti il caso in cui la Corte ha ritenuto che il rifiuto da parte della Svizzera dell'ingresso, e quindi del ricongiungimento, di un minore con i propri genitori (di origine turca) non violasse la norma convenzionale. In tale occasione venne data preminenza al tempo trascorso dal bambino in Turchia e all'asserita volontà dei genitori di lasciarlo crescere nel proprio paese d'origine, osservando infatti che quest'ultimo «aveva sempre vissuto là ed era pertanto cresciuto nell'ambiente linguistico e culturale del suo paese» (161). Una valutazione completa della vita familiare avrebbe tuttavia dovuto dare maggiore rilievo al fatto che un corretto sviluppo psico-fisico, ma anche sociale, di un minore è necessariamente condizionato dalla situazione dei propri genitori, per i quali lasciare il paese di residenza può avere gravi conseguenze non solo a livello personale, ma anche sul benessere economico e affettivo dell'intero nucleo familiare. La Corte constata invece che «in ragione della durata del periodo in cui i coniugi Gül hanno vissuto in Svizzera, non sarebbe certamente facile tornare in Turchia, ma non ci sono, rigorosamente parlando, ostacoli che impediscano loro di sviluppare la propria vita familiare anche in Turchia». Anche ammettendo che la situazione familiare in esame «è estremamente difficile da un punto di vista umano», la Corte ribadisce il principio per cui l'articolo 8 «non può essere considerato come un'imposizione allo Stato di un obbligo generale di rispettare la scelta dei coniugi su dove radicare la propria vita familiare, o di autorizzare la riunificazione della famiglia sul proprio territorio» (162).

È utile a questo punto ricordare che la prova della rigida interpretazione fornita dalla Corte con riferimento al secondo comma dell'articolo 8, è chiaramente ricavabile in quasi tutte le sue pronunce. Ogni volta che un provvedimento statale sia suscettibile di interferire nel rispetto della vita familiare, la Corte infatti analizza singolarmente tutti i requisiti richiesti dalla Convenzione affinché tale interferenza possa considerarsi legittima. Viene in particolare valutato se essa è: a) prevista dalla legge, b) volta a perseguire un obbiettivo legittimo (in relazione a quelli elencati nel secondo comma), c) necessaria in una società democratica. Relativamente al primo requisito non sono riscontrabili casi in cui la Corte ne ha dichiarato la mancata soddisfazione. Anche il perseguimento di un obbiettivo legittimo è normalmente considerato sussistente, soprattutto quando si tratta di preservare l'ordine e prevenire la commissione dei reati. Ciò che invece ha portato spesso la Corte a dichiarare la violazione dell'articolo 8 è stata la qualificazione del provvedimento di espulsione come «non necessario in una società democratica, vale a dire non giustificato da un bisogno sociale imperioso e non proporzionato al legittimo obbiettivo perseguito» (163). Dalla sentenza Boultif è in particolare ricavabile un'ampia disamina degli elementi che devono essere oggetto di attenta valutazione da parte della Corte (e quindi degli organi nazionali al fine di non incorrere in una eventuale condanna dello Stato di appartenenza): «la natura e la gravità del reato commesso, la durata del soggiorno dello straniero nel paese da cui dovrebbe essere espulso, il tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta dello straniero nel suddetto periodo, la nazionalità delle persone coinvolte, la situazione familiare [...], altri fattori che rivelino la realtà e la genuinità del legame familiare (compresa la consapevolezza da parte dei familiari circa il reato commesso, la presenza di figli e la loro età.) Non ultimo, la Corte deve verificare il grado di difficoltà che la famiglia verosimilmente dovrebbe affrontare per ritornare nel paese di origine».

Vale la pena ricordare, per la particolarità del ragionamento condotto, anche l'opinione dissenziente formulata da un giudice della Corte, relativamente al caso Boughanemi. Avvalorando l'idea, in precedenza sostenuta da altri giudici, che gli stranieri, una volta integrati nello Stato di residenza in ragione della durata del periodo ivi trascorso e delle relazioni private o familiari create, non dovrebbero essere considerati espellibili, alla stregua di quanto avviene per i cittadini, ammette però la configurabilità di qualche eccezione, legata alla particolarità delle circostanze. Non integra tuttavia gli estremi della eccezionalità, la commissione di molti reati (164) che rientrano a suo avviso tra quelli definiti 'normali', con la conseguenza che «per reati normali, sanzioni e provvedimenti normali devono essere considerati sufficienti, allo stesso modo in cui sono considerati sufficienti per i reati commessi dai cittadini» (165). Analogamente si esprime un altro giudice, autore anch'egli di un'opinione dissenziente, il quale sottolinea che la misura dell'espulsione risulta senz'altro sproporzionata per il conseguimento dei pur legittimi obbiettivi dichiarati dagli Stati. Gli stranieri che vantano legami stabili e concreti con il paese da cui dovrebbero essere espulsi, dovrebbero poter usufruire di un trattamento non meno favorevole di quello garantito ai cittadini. Posto che lo straniero sia responsabile di un reato e sia per questo stato condannato, «se la sanzione comminata è adeguata e proporzionata al reato commesso - come dovrebbe essere - aggiungere un provvedimento di espulsione [...] enfatizza eccessivamente l'interesse generale alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell'ordine, rispetto alla protezione del diritto individuale alla vita privata e familiare» (166).

Normalmente tuttavia la commissione di taluni reati (soprattutto quelli connessi allo spaccio di stupefacenti) è stata dalla maggioranza dei giudici ritenuta prevalente non rilevando, quantomeno sotto il profilo della proporzionalità, la valutazione dei criteri legati al periodo di residenza e all'esistenza di legami familiari. Le stesse considerazioni legate alla gravità dei reati commessi sono effettivamente alla base della disciplina dell'espulsione (come alternativa alla detenzione) contenuta nel T.U. sull'immigrazione. In quel caso però ad una maggiore gravità fa da pendant la prevalenza dell'interesse punitivo dello Stato, mentre valutazioni dello stesso tenore di quelle dei due giudici sopra riportate, relative cioè ai legami privati e familiari instaurati nel paese di residenza, non godono di analogo rilievo. Un adeguato bilanciamento degli interessi coinvolti, condotto sull'esempio fornito dalla Corte nelle sue pronunce, potrebbe forse portare, se non ad una modifica sostanziale della disciplina, almeno ad una sua integrazione attraverso un'interpretazione anche in questo caso conforme al sistema convenzionale e, in particolare, alla giurisprudenza di Strasburgo.

Note

1. Cfr. paragrafo 2.2.4.

2. Cfr. A. Bultrini, Il meccanismo di protezione dei diritti fondamentali istituito dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Cenni introduttivi in B. Nascimbene (a cura di), op. cit.

3. È possibile estendere tale osservazione anche ai giudici ordinari, per la maggiore sensibilità dimostrata verso la giurisprudenza della Corte EDU. Cfr. le osservazioni svolte su questo aspetto da M. de Stefano, Dopo le condanne della Corte di Strasburgo sugli espropri, la Cassazione italiana chiama la Corte Costituzionale, in «Impresa», n.6/2006, p. 919 ss.

4. Come verrà ripreso nel paragrafo 3.1.3 e in particolare nella nota 40, questa legge ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico statale uno strumento che consente, come previsto dal suo articolo 2, un'equa riparazione a «chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione».

5. Si vedano ad esempio le relazioni relative alle Corti d'Appello di Bari, Catania, Reggio Calabria, Trieste.

6. Cfr. Relazione del dott. Marcello De Roberto, Presidente della Corte d'Appello di Firenze del 28 gennaio 2006.

7. Si tratta di una carica istituita dagli Stati membri, con la funzione principale di indagine, a livello generale, circa l'effettiva applicazione delle norme internazionali a tutela dei diritti umani nell'ambito dei singoli Stati.

8. Si veda in proposito il confronto riportato nel paragrafo 2.2.4 tra le diverse discipline dei paesi europei.

9. M. de Salvia, op. cit., p. 89.

10. Per un ulteriore approfondimento sul tema si rimanda a M. de Salvia, op. cit., p. 89 ss.

11. Ivi, p. 91.

12. Nella sentenza n. 98 del 1979 riprodotta in «Giurisprudenza Costituzionale» 1979, I, p. 719, la Corte affermava che l'art. 2 «nel riconoscere i diritti inviolabili dell'uomo, che costituiscono patrimonio irretrattabile della sua personalità, deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quanto meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente protetti».

13. Si veda la sentenza n. 561 del 1987.

14. Il riferimento era anche ai Patti del 1966 elaborati nell'ambito delle Nazioni Unite.

15. Così la sentenza n. 10 del 1993, parzialmente riprodotta in M. de Salvia, op. cit., p. 92.

16. Come la Corte aveva d'altronde già affermato nel 1980 in un caso riguardante il diritto di autodifesa degli imputati, «le norme internazionali pattizie rese esecutive nell'ordinamento italiano, avendo valore di legge ordinaria, non possono essere assunte a parametro di legittimità costituzionale di altre leggi. [...] Le norme internazionali pattizie, ancorché generali, sono escluse dall'ambito di applicazione dell'art. 10, comma 1, Cost. L'art. 11 Cost. non viene in considerazione riguardo alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, né riguardo al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici [...], dal momento che le norme contenute in tali accordi non comportano alcuna limitazione della sovranità nazionale».

17. Nella sentenza n. 388 del 1999 si legge infatti che le «norme pattizie, [...] non si collocano di per se stesse a livello costituzionale, mentre spetta al legislatore dare ad esse attuazione».

18. Articolo sostituito dall'art. 3, comma 1, l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3; il testo originario era così formulato: «La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni [...]».

19. In questo senso A. Guazzarotti, I giudici comuni e la CEDU alla luce del nuovo art. 117 della Costituzione, in «Quaderni costituzionali» 2003, p. 25 ss.

20. Tribunale di Genova, sentenza 4 giugno 2001, in Foro it. 2001, I, 2653 ss. Il riferimento del Tribunale era all'art. 6 della CEDU nell'interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 9 dicembre 1994, Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia, serie A n. 301 B. Ulteriore dimostrazione della netta prevalenza dell'utilizzo dell'art. 6 della CEDU rispetto a quanto avviene per gli altri diritti garantiti da essa.

21. Per un quadro generale su questo argomento e per approfondire ciò che analizzerò in seguito si veda M. de Salvia, op. cit.

22. Così D. Striani, Diritti dell'uomo: finalmente riconosciuti?, in nota alla sentenza della Corte di Cassazione del 17 dicembre 1981, sez. I penale, riprodotta in «Cassazione penale» 1984, p. 1454 ss.

23. Cassazione penale, Sez. I, sentenza del 17 dicembre 1981, cit.

24. Cassazione penale, Sez. V, sentenza del 12 febbraio 1982 in «La giustizia penale» 1993, Parte Terza, p. 20.

25. Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza del 13 luglio 1985 in «La giustizia penale» 1986, Parte Terza, p. 130 ss.

26. Corte di Cassazione, Sez. Unite penali, sentenza del 23 novembre 1988 in «Cassazione penale» 1989, p. 1418.

27. Nel caso Lagolio del 22 dicembre 1987 la Corte di Cassazione, sez. I penale, aveva infatti ripetuto che «le norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo hanno carattere meramente programmatico ed efficacia vincolante solo per gli Stati contraenti e non per i relativi sudditi, ancorché sia consentito a questi ultimi adire la Commissione europea per i diritti dell'uomo dopo la decisione interna avente carattere definitivo; ne deriva la preclusione della deduzione, nei motivi di ricorso, di violazioni concernenti disposizioni della Convenzione» in «Rivista penale» 1989, p. 207.

28. Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza dell'8 maggio 1989, n. 2130, in «Rivista di diritto internazionale» 1989, p. 1037.

29. La Corte ha stabilito in particolare la necessità di estendere al mandato di arresto dell'estradando, emesso su ordine del Ministro della giustizia, quanto previsto dall'art. 111, comma 2 della Costituzione it. e dagli artt. 190, comma 2 e 263-bis c.p.p., per i soli provvedimenti giurisdizionali, ovvero la possibilità di ricorrere per Cassazione.

30. Corte di Cassazione, sez. I penale, sentenza del 12 maggio 1993, n. 2194.

31. Sentenza n. 10 del 1993, cit.

32. Il riferimento è ovviamente alla sentenza Polo Castro, cit.

33. Così la sent. Medrano, cit.

34. Qualificazione considerata invece adeguata dalla Corte per il diritto comunitario come si ricava chiaramente dalla stessa sentenza in cui la Corte afferma che «parte della dottrina ritiene che [...] il criterio della prevalenza del regolamento comunitario, delle sentenze della Corte di giustizia e delle direttive aventi efficacia diretta, costituisce il necessario corollario del principio secondo cui l'ordinamento della CEE e quello dello Stato, pur essendo distinti ed autonomi, sono tuttavia tra loro coordinati e tale coordinamento deriva dalla circostanza che la legge di esecuzione del Trattato di Roma ha trasferito agli organi comunitari - in conformità all'art. 11 Cost. e nelle materie loro riservate - le competenze ad essi attribuiti dal Trattato».

35. Anche se, come si è visto in precedenza, la Corte Costituzionale nella sentenza n. 98 del 1979, prima citata, aveva negato la possibilità di riconoscere alle norme della CEDU una particolare efficacia, alla luce di quanto disposto dall'art. 2 della Costituzione.

36. In questo senso cfr. G. Raimondi, Un nuovo status nell'ordinamento italiano per la Convenzione europea dei diritti dell'uomo in nota alla sentenza Medrano, cit., p. 443 ss.

37. Ivi, p. 447.

38. È quanto d'altronde concluso dalla stesso Raimondi.

39. L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2, cui si deve l'inserzione degli attuali primi cinque commi dell'art. 111. Si tratta in sostanza di una riproduzione dell'art. 6 CEDU. Risulta particolarmente interessante a riguardo la Relazione della Commissione affari costituzionali presentata alla Presidenza il 16 luglio 1999, firmata dall'on. A. Soda.

40. Legge 24 marzo 2001, n. 89 recante disposizioni in materia di «equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 del codice di procedura civile», cosiddetta 'legge Pinto'. L'art. 2 della legge in oggetto rinvia direttamente alla CEDU stabilendo il diritto ad una equa riparazione per «chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali [...] sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione».

41. Così M. de Salvia, op. cit., p. 98.

42. A. Guazzarotti, op. cit., p. 29.

43. CSM, sez. disciplinare, sentenza del 5 luglio 1985, in «Foro italiano» 1986, III, p. 47. Si trattava di una pronuncia riguardante la pubblicità dei procedimenti disciplinari dei magistrati. La decisione del CSM fu poi confermata dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 10 luglio 1991, n. 7662, in cui la Corte ammetteva il potere del giudice di valutare la possibilità di deroga del principio della pubblicità, nei soli casi stabiliti dalla CEDU.

44. Si tratta delle sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 23 giugno 1981, Le Compte.

45. Come fa giustamente notare Guazzarotti, altri giudici ricorrevano infatti, in simili circostanze, alla Corte Costituzionale. Sulla questione dell'utilizzo strategico dell'abrogazione tacita, per evitare di sollevare la questione di legittimità costituzionale, cfr. S. Niccolai, Alcuni spunti in tema di abrogazione tacita e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, in «Giurisprudenza costituzionale» 1988, II, p. 680 ss.

46. A. Guazzarotti, op. cit., p. 31.

47. Il riferimento è alla sentenza n. 17/1981 relativa al contrasto tra il divieto di pubblicità delle udienze nel processo minorile e l'art. 6 della CEDU in combinato disposto con l'art. 2 della Costituzione italiana, e la sentenze n. 235/1993 riferita al divieto di pubblicità dei procedimenti giudiziari riguardanti la responsabilità disciplinare dei giornalisti.

48. Cfr. G. Gaja, The Accused Person's Rights in Criminal Proceedings, in «The Italian Yearbook of International Law» 1980-81, p. 257, dove si sottolinea, in critica alla sentenza n. 17/1981, che l'art. 6 della CEDU, oltre a consentire di derogare al principio di pubblicità delle udienze, «prevede anche un'eccezione da affidare al potere discrezionale dei giudici, in vista delle 'speciali circostanze' del caso». Un caso alquanto emblematico del formalismo dimostrato dalla Corte è costituito dalla sentenza n. 104/1969 in cui, valutando la conformità della normativa interna sull'obbligo di denunciare l'assunzione di lavoratori stranieri all'art. 8 della CEDU, afferma semplicisticamente che le norme impugnate «non possono violare il disposto dell'art. 8 della CEDU, perché l'ingerenza della nostra autorità, cui dalla legge è consentito di procurarsi quelle notizie, non può non trovare giustificazione in una o più delle molteplici ragioni contemplate da quell'articolo e ritenute valide a giustificare quella ingerenza».

49. Cfr. A. Guazzarotti, op. cit.

50. Sentenza del 29 novembre 1991, Vermeire c. Belgio, serie A 214-C. In tale occasione però la principale finalità delle affermazioni della Corte sull'applicabilità diretta delle proprie sentenze era contestare la posizione del Governo belga, che si rifaceva al disposto dell'articolo 46 della CEDU per sostenere la discrezionalità degli Stati circa le modalità di esecuzione delle sentenze della Corte. Cfr. B. Randazzo, Giudici comuni e Corte europea dei diritti, p. 26 ss., contenuto nella Relazione al Convegno La Corte e le Corti, Catanzaro, 31 maggio - 1 giugno 2002.

51. Come riportato da A. Guazzarotti, si tratta della sentenza del 22 aprile 1993, Modinos c. Cipro, Serie A n. 259, citata come caso in cui la Corte sottolinea l'efficacia erga omnes delle proprie pronunce.

52. Non si può tuttavia ignorare che le pronunce della Corte di giustizia non sono sempre risolutorie, in particolare quando essa, mostrandosi riluttante a svolgere direttamente un bilanciamento degli interessi coinvolti, si limita ad enunciare criteri di ragionevolezza e proporzionalità la cui applicazione nel caso concreto è attribuita ai giudici nazionali, non diversamente da quanto avviene nei rapporti tra questi e la Corte EDU.

53. Per un approfondimento sul tema si rimanda allo studio svolto da A. Guazzarotti, op. cit., p. 37 ss.

54. È quanto la Corte ha riconosciuto a partire dalla sentenza del 5 giugno 1984, n. 170 intervenuta dopo che la Corte di giustizia nella sentenza Simmenthal del 9 marzo 1978, aveva implicitamente negato la possibilità di qualificare il contrasto tra diritto nazionale e comunitario come questione di costituzionalità.

55. A. Guazzarotti, op. cit., p. 51.

56. Corte Costituzionale, sentenza n. 283 del 10 giugno 1993; sentenza n. 442 del 2 dicembre 1993.

57. Corte europea dei diritti dell'uomo del 29 luglio 2004, caso Scordino c. Italia, ricorso n. 36813/97. Il testo è riportato in «Il fisco», n. 34/2004, I, p. 5945 ss. con commento di M. de Stefano. In tale occasione la Corte aveva rilevato come sia la Corte d'appello che la Corte di Cassazione avevano fatto riferimento alle disposizioni della legge criticata per suffragare le loro decisioni, diminuendo così l'indennizzo che i ricorrenti potevano effettivamente aspettarsi «ai sensi della legge [...] in vigore al momento della presentazione del ricorso per indennizzo davanti le giurisdizioni nazionali». Secondo la Corte queste, basandosi sulla disposizione criticata ai fini della decisione circa l'indennità di espropriazione, avevano dato luogo ad un'«ingerenza del potere legislativo nel funzionamento del potere giudiziario al fine d'influenzare la risoluzione della lite».

58. Cassazione, sez. I civile, sentenza dell'11 giugno 2004, n. 11098, richiamata in M. de Stefano, Dopo le condanne della Corte di Strasburgo sugli espropri, la Cassazione italiana chiama la Corte Costituzionale, cit.

59. Cassazione, sez. I civile, ordinanza del 23 marzo 2005, n. 6324 in M. de Stefano, Dopo le condanne della Corte di Strasburgo sugli espropri, la Cassazione italiana chiama la Corte Costituzionale, cit.

60. In particolare dall'art. 5 bis del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359 recante «Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica».

61. Il contrasto rilevato dalla Corte EDU era con l'art. 1 del protocollo I della CEDU, rubricato Protezione della proprietà.

62. Per osservazioni in tal senso si veda M. de Stefano, Dopo le condanne della Corte di Strasburgo sugli espropri, la Cassazione italiana chiama la Corte Costituzionale, cit.

63. Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, sentenza del 29 marzo 2006, caso Scordino c. Italia, ricorso n. 36813/97, paragrafo 235.

64. Corte di cassazione, sez. I civile, ordinanza n. 12810/06, Ammirati c. Comune di Torre Annunziata, I.A.C.P. Provincia di Napoli.

65. Cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 26 gennaio 2004, n. 1340, richiamata in M. de Stefano, La Cassazione italiana riconosce integralmente la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, cit.

66. Cfr. Corte di Cassazione, sentenza del 19 luglio 2002, n. 10542.

67. La stessa Corte rileva che «la collocazione della Convenzione nella gerarchia delle fonti non è mai stata chiarita appieno, giacché la qualificazione di essa come fonte atipica (Corte Cost. 19.1.1993, n. 10) non risolve fino in fondo le non infrequenti ipotesi di conflitto, non solo con le norme di legge ordinaria, precedenti e successive, ma con le stesse norme costituzionali».

68. Si rimanda alle considerazioni svolte in relazione al parere 2/94 della Corte di giustizia e al paragrafo 2.4.

69. Per osservazioni in tal senso cfr. M. de Stefano, Dopo le condanne della Corte di Strasburgo sugli espropri, la Cassazione italiana chiama la Corte Costituzionale, cit. e T.A.R. Veneto del 21 novembre 1980, n, 845, Toffoli c. Regione Veneto in «Tribunale Amministrativo Regionale» 1981, I, p. 151: «La sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, resa ai sensi dell'art. 177 del Trattato di Roma, che stabilisce l'incompatibilità tra norme legislative dello stato italiano e i regolamenti comunitari non comporta che il giudice italiano possa procedere alla disapplicazione della legge italiana incompatibile, in quanto l'effetto di caducazione di quest'ultima può prodursi solo a seguito di un'espressa dichiarazione di illegittimità emessa dalla Corte Costituzionale a cui l'ordinamento italiano affida in modo esclusivo il controllo di legittimità delle leggi».

70. Così il preambolo alla CEDU.

71. Per un approfondimento sul tema rimando a I.C. Barreto, op. cit., p. 99 ss.

72. Ivi, p. 112 ss.

73. Cfr. paragrafo 2.2.4.

74. Raccomandazione R(2000) del 19 gennaio 2000, riprodotta in parte in I.C. Barreto, op. cit., p. 106.

75. Cfr. S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, Padova 2001.

76. Ivi, p. 307 ss.

77. Così L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Editori Laterza, Bari 2004, p. 123.

78. Per una ricostruzione delle diverse fasi migratorie si rimanda a L. Zanfrini, op. cit., dove la fine delle politiche di reclutamento attivo è collocata nella fase post-industriale, che ha inizio tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70, in corrispondenza della recessione dell'economia mondiale, e in particolare dello shock petrolifero del 1973, che ha decretato la fine della fase precedente, cosiddetta 'fordista' o 'neoliberale', caratterizzata invece da un ampio ricorso a dispositivi di reclutamento di lavoratori immigrati.

79. Ivi, p. 123.

80. Tale decreto, in vigore dal 15 febbraio 2007, risponde alla finalità, come previsto dallo stesso art. 1, di stabilire «le condizioni per l'esercizio del diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini di Paesi terzi, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato italiano, in applicazione della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003».

81. Cfr. la sentenza del 12 gennaio 1995, n. 28, richiamata tra l'altro anche dal Tribunale di Bologna, nell'ordinanza del 22 dicembre 2003, in «Diritto, immigrazione e cittadinanza» n. 1/2004, p. 157, in cui si ripete infatti che «l'esigenza della convivenza del nucleo familiare si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia, e in particolare, nell'ambito di questa ai figli minori [...]. Sicuramente l'allontanamento di [...] dal territorio italiano, vanificherebbe tutto quanto sopra esposto».

82. Cfr. Art. 2, comma 1, d. lgs. 286/1998.

83. Cfr. Ordinanza n. 232 del 2002.

84. Deriva chiaramente da tale esigenza l'imposizione di requisiti relativi al reddito o all'alloggio.

85. Art. 28 d.lgs. 286/1998. Il d. lgs. 5/2007 ha aggiunto, tra le tipologie di permessi di soggiorno idonei a fornire legittimazione per l'esercizio del diritto al ricongiungimento, anche quello per motivi familiari, colmando così una lacuna che tuttavia, come si vedrà in seguito, già la Corte di Cassazione aveva provveduto opportunamente ad integrare in sede di applicazione pratica della normativa.

86. Art. 29, lett. b-bis) d.lgs 286/1998.

87. Art. 29, comma 1, lett. c) d.lgs 286/1986.

88. Cfr. Art. 29, comma 1, lett. d).

89. Le considerazioni svolte si basano sui dati riportati dal Cestim - Centro Studi Immigrazione Verona, nella ricerca Diritto a vivere in famiglia. Prassi amministrativa e legge in Italia: distorsioni, del maggio 2005 e condotta nell'ambito del Progetto di monitoraggio, sensibilizzazione e intervento contro il non rispetto dei diritti fondamentali, gli abusi e le discriminazioni amministrativi e legali subiti dalle famiglie migranti in 7 Paesi dell'Unione europea.

90. Si tratta di una ricerca finanziata dalla Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, presso la Presidenza del Consiglio.

91. Il riferimento è in particolare alla previsione dell'art. 30, comma 1 bis del T.U. sull'immigrazione secondo il quale il permesso di soggiorno per motivi familiari rilasciato ai sensi dell'art. 30, lett. b) «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l'effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole».

92. Come sarà approfondito nel prossimo capitolo, l'articolo 19 del T.U. sull'immigrazione prevede infatti un divieto di espulsione in ragione dei vincoli parentali solo per gli stranieri «conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiani».

93. Art. 28, comma 1 d. lgs. 286/1998.

94. Si tratta di un atteggiamento che richiama quanto sostenuto dall'avvocato generale in occasione della pronuncia della Corte di giustizia del 27 giugno 2006, causa C-540/03. Per osservazioni in proposito si rimanda al capitolo 4.

95. Corte di Cassazione, sez. I civile dell'8 gennaio - 7 febbraio 2001, n. 1714 in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto», n. 9/2001, p. 51.

96. Si potrebbe anche dire convenzionalmente conforme, dal momento che rende effettiva la tutela della vita familiare garantita dall'art. 8 della CEDU.

97. Art. 2, comma 2, d. lgs. 286/1998: «Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e il presente testo unico dispongano diversamente. Nei casi in cui il presente testo unico o le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità, essa è accertata secondo i criteri e le modalità previste dal regolamento di attuazione».

98. Corte di Cassazione, sentenza n. 1714/2001, cit.

99. Ibidem.

100. Tribunale di Pordenone, decreto del 24 giugno 2005 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 4/2005, p. 155.

101. Si veda invece quanto disposto dal Tribunale di Torino in un'ordinanza del 2003 che verrà successivamente analizzata, secondo il quale assume particolare rilievo che in caso di espulsione del padre, volendo mantenere l'unità familiare, i figli e la madre sarebbero costretti a trasferirsi in un paese con il quale «non hanno il benché minimo legame e che offrirebbe loro possibilità di sviluppo e crescita ben inferiori rispetto a quelle di cui hanno sino ad oggi goduto in Italia». Si vedano inoltre le considerazioni svolte dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, Boultif c. Svizzera, che verrà in seguito analizzata.

102. Corte di Cassazione, sez. I civile del 5 aprile - 14 giugno 2002, n. 8510, in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto», n. 27/2002, p. 29.

103. La Corte ha ribadito la sua posizione anche nella recente sentenza dell'11 gennaio 2006, n. 396.

104. Corte di Cassazione, sentenza n. 8510 del 2002, cit.

105. Questa pronuncia costituisce un importante esempio di come la giurisprudenza italiana si limita spesso a menzionare la CEDU o altri strumenti internazionali come semplice conferma di principi già presenti nel nostro ordinamento costituzionale: la tutela della vita familiare è sancita dagli articoli 8 e 12 della CEDU, dall'articolo 10 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, dagli articoli 9 e 10 della Convenzione sui diritti del fanciullo. In quell'occasione la Corte sottolineò infatti che «dal complesso di queste norme, pur nella varietà delle loro formulazioni, emerge un principio pienamente rinvenibile negli artt. 29 e 30 Cost., in base al quale alla famiglia deve essere riconosciuta la più ampia protezione ed assistenza». Cfr. «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 3/2000, p. 86.

106. Posizione che, come verrà approfondito nel prossimo paragrafo, è ampiamente condivisa dalla Corte EDU. Si veda in particolare la sentenza del 19 febbraio 1996, Gül c. Svizzera.

107. Cfr. Tribunale per i minorenni di Venezia, decreto del 28 settembre 1998 in cui si esclude che sia necessaria la sussistenza di particolare patologie per integrare gli estremi della gravità dei motivi cui è subordinata l'autorizzazione concessa ai genitori del minore.

108. Per considerazioni in tal senso cfr. M. Noci, La decisione 376/2000 della Consulta concede a tutti i padri il diritto a rimanere in Italia, accanto al minore, fino al compimento del sesto mese di età, in «Il sole 24 ore - Guida al diritto», n. 32/2000, p. 22.

109. Corte d'appello di Lecce, ordinanza del 17 novembre 2004. La Corte di merito, indipendentemente dalla conclusione cui è giunta, che ha portato peraltro alla riforma del provvedimento di diniego emesso dal Tribunale per i minorenni, ha in tale occasione svolto un'analisi approfondita della vita complessivamente condotta dalla minore in Italia, senza limitarsi all'esigenza di scolarizzazione. Risultano inoltre estremamente significative alla luce di un effettiva tutela della vita familiare le considerazioni svolte rispettivamente dalla Corte d'appello di Bari nell'ordinanza del 31 dicembre 2001 e dal TAR Puglia nella pronuncia del 20 agosto 2002 per cui «i gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore che consentono di autorizzare la permanenza in Italia di un familiare in deroga alle altre disposizioni, possono essere costituiti dall'esigenza di non porre il minore di fronte all'alternativa di sradicarsi dall'ambiente, anche scolastico, in cui è sempre vissuto o di separarsi da un genitore», oppure «nel grave pregiudizio psicologico che rinverrebbe al minore in caso di sradicamento dal nostro paese». Un ulteriore aspetto che potrebbe essere preso in considerazione in questo contesto è costituito dalle conseguenze che un rimpatrio forzato dell'intera famiglia nel paese di origine, potrebbe avere sulla stessa. Si veda, ad esempio, il decreto del 31 luglio 2004 del Tribunale per i minorenni di Milano in cui si da notevole importanza al fatto che «nel caso di un rimpatrio forzato [...], la famiglia si troverebbe in una situazione particolarmente precaria, non avendo casa, lavoro e prospettive per il futuro e vivendo da tempo in Italia».

110. Corte di Cassazione, sez. I civile, sentenza del 14 aprile - 9 giugno 2005, n. 12169, in «Il sole 24 ore - Guida al diritto», n. 26/2005, p. 22.

111. Nel provvedimento, alquanto discutibile, si affermava che «l'esame della documentazione prodotta non ha evidenziato il possesso delle condizioni previste per la concessione del visto per ricongiungimento familiare di cui all'art. 29 del T.U. 286/1998. L'istituto dell'adozione, infatti, così come quello dell'affidamento, è regolato dalla legge etiopica in maniera tale da non produrre gli effetti di una adozione legittima e non permette l'instaurazione di un rapporto equiparabile giuridicamente a quello della filiazione legittima».

112. Tribunale di Bologna, decreto del 28 febbraio 2005, in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 3/2005, p. 151. Sulla prevalenza del diritto all'unità familiare e della tutela dei diritti dei minori si vedano anche Tribunale di Torino, ordinanze del 18 giugno 2003 e del 30 luglio 2003 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», rispettivamente n. 3/2003, p. 142 e n. 4/2003, p. 134.

113. Fra i vari motivi per cui si verifica tale situazione, il più comune è quello del genitore che possiede i requisiti necessari per ottenere l'ingresso del figlio minore a fini di ricongiungimento, ma per sua negligenza o per negligenza della P.A. il minore entra comunque in Italia ricongiungendosi di fatto con la famiglia, senza che la procedura per il ricongiungimento sia stata perfezionata. Cfr. Le considerazioni svolte da L. Miazzi nella scheda di commento all'ordinanza del Tribunale di Padova del 10 giugno 2005, in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 4/2005, p. 175.

114. Tribunale di Padova, ordinanza del 10 giugno 2005, cit., p. 173.

115. Corte di Cassazione, sez. I civile, sentenza del 4 febbraio 2005, n. 2358 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza» n. 1/2005, p. 145 ss.

116. Ordinanza n. 251 del 10 ottobre 2003. Analoga questione era stata inoltre sollevata dal Tribunale di Forlì con l'ordinanza del 28 giugno 2004 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza» n. 2/2004, p. 166 e dal Tribunale di Genova con l'ordinanza del 9 marzo 2005, in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto», n. 25/2005, p. 89.

117. La pronuncia riveste particolare importanza soprattutto perché è tra le poche che, in questa materia, effettuano un espresso richiamo ai diritti garantiti dalla CEDU.

118. Secondo il Tribunale, ma si tratta come precedentemente analizzato di una tesi minoritaria, essa ha forza privilegiata rispetto alla normativa ordinaria in virtù dell'art. 10 della Costituzione che impone al legislatore di regolare «la condizione giuridica dello straniero [...] in conformità delle norme e dei trattati internazionali». Non è in sostanza invocabile l'articolo 10 della Costituzione poiché, secondo l'indirizzo seguito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 32 del 1999, «esorbita dagli schemi del diritto internazionale pattizio».

119. Corte Costituzionale, sentenza del 6 - 8 giugno 2005, n. 224 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza» n. 2/2005, p. 144 ss.

120. Si veda quanto sostenuto dalla Corte EDU circa la nozione di famiglia. Si rimanda in particolare alla sentenza Marckx e al paragrafo 3.6.1.

121. Così N. Zorzella nella scheda di commento all'ordinanza di Forlì, prima citata, in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 2/2004, p. 169.

122. Tribunale di Trento, ordinanza del 7 dicembre 2002 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 1/2003, p. 128.

123. Per osservazioni in tal senso cfr. B. Nascimbene, La Convenzione, la condizione dello straniero e la giurisprudenza in B. Nascimbene (a cura di), op. cit., p. 182.

124. Cfr. paragrafo 4.1.3.

125. Corte di Cassazione, sez. I penale, sentenza del 12 maggio 1993, cit.

126. In quel caso si trattava dell'articolo 86 del D.P.R. n. 309/1990, che dispone l'espulsione dello straniero condannato per alcuni reati in materia di stupefacenti.

127. Lo stesso articolo 15 del T.U. sull'immigrazione prevede l'obbligo di valutare la pericolosità sociale dello straniero, prima di allontanarlo dal territorio nazionale, in conformità tra l'altro con l'orientamento della Corte Costituzionale nella sentenza del 24 febbraio 1995.

128. Corte di Cassazione, sentenza del 12 maggio 1993, cit.

129. Pretore di Roma, sentenza del 5 ottobre 1998, n. 32727, in R. Miele, La nuova legislazione sugli stranieri, Union Printing, Viterbo 1998, p. 287.

130. Come si vedrà meglio in seguito devono essere in particolare presi in considerazione la natura e la gravità dell'infrazione commessa, la durata del soggiorno dello straniero nel paese da cui sta per essere espulso, la condotta dello straniero dopo la commissione del reato, la situazione familiare del ricorrente, ecc.

131. Tribunale di Torino, ordinanza del 23 gennaio 2003 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 2/2003, p. 127 ss.

132. Si trattava di un cittadino kosovaro, presente in Italia dal 1999, padre di tre bambini nati in Italia e convivente con la moglie regolarmente soggiornante.

133. Argomento cui, come ormai ampiamente ripetuto, è dedicato un intero titolo del T.U. sull'immigrazione e che quindi è necessario prendere quantomeno in considerazione ogni qualvolta l'applicazione della normativa possa risultare lesiva di quegli interessi.

134. Tribunale di Bologna, ordinanza del 13 febbraio 2004 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 1/2005, p. 151.

135. Corte di Cassazione, sez. I civile, sentenza del 24 novembre 2004, n. 22206 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 1/2005, p. 128.

136. Cfr. Corte di Cassazione, sez. I civile, sentenza del 12 febbraio 2004, n. 2685.

137. Si veda la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 26 maggio 1994, Keegan c. Irlanda, A 290. A proposito delle obbligazioni positive discendenti dalla CEDU, anche la sentenza del 13 giugno 1979, Marckx c. Belgio, A 31 dove la Corte afferma che «Come ricavabile dall'articolo 8, il rispetto della vita familiare implica in particolare [...] l'esistenza nella legge nazionale di un regime di tutela che renda possibile, fin dal momento della nascita di un figlio, l'integrazione nella sua famiglia. In questo contesto, lo Stato può scegliere tra vari strumenti, ma una legislazione che non riesce a realizzare tale requisito viola il primo comma dell'articolo 8, senza che ci sia alcun bisogno di esaminare la questione ai sensi del secondo comma dell'articolo 8». Si vedano anche le considerazioni svolte da S.A.R. Galluzzo, L'obbligo di riunire genitore e figlio deve essere valutata nel singolo caso in «Il Sole 24 Ore - Guida al diritto» n. 5/2005, p. 75, relative alla sentenza della Corte EDU del 30 giugno 2005, n. 30595/02.

138. Tribunale di Genova, ordinanza del 26 maggio 2005.

139. Giudice di pace di Bologna, decreto dell'11 novembre 2005 in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», n. 2/2005, p. 134.

140. Ibidem.

141. Corte di Cassazione, sentenza 2358/2005, cit.

142. In perfetta sintonia con la giurisprudenza convenzionale, come approfondirò nel prossimo paragrafo.

143. Ai sensi dell'articolo 1 della l. 1423/1956.

144. Nozione che arriva a comprendere ad esempio, come prima accennato, anche i rapporti tra nonni e nipoti, scardinando un po' la convinzione, radicata nella giurisprudenza italiana (si veda in particolare la sentenza della Corte Costituzionale n. 224 del 2005, cit. e le considerazioni svolte nel paragrafo 3.4, per cui la vita familiare tutelata dalla Costituzione, come dal T.U. sull'immigrazione, è essenzialmente quella nucleare).

145. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 13 giugno 1979, Marckx c. Belgio, A 31.

146. Corte europea dei diritti del'uomo, sentenza del 18 dicembre 1986, Johnston c. Irlanda, A 112.

147. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 26 maggio 1994, cit.

148. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 27 ottobre 1994, Kroon c. Paesi Bassi.

149. Cfr. S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi, op. cit., p. 314.

150. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 24 aprile 1996, Boughanemi c. Francia.

151. Cfr. S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi, op. cit., p. 315.

152. Cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 21 giugno 1988, Berrehab c. Paesi Bassi, Serie A n. 138: «dal momento della nascita di un figlio e solo per questo fatto, esiste tra lui/lei e i suoi genitori, un legame equivalente ad una famiglia, anche se i genitori non vivono insieme».

153. Ibidem. Cfr. anche la sentenza del 7 agosto 1996, C. c. Belgio in cui la Corte conferma tale interpretazione ripetendo quanto affermato sulla coabitazione e sulla legittimità delle relazioni. Viene infatti riprodotto interamente il passo della sentenza Boughanemi prima citato.

154. Articolo 8, comma 2 della CEDU.

155. B. Nascimbene usa l'espressione jus receptum in B. Nascimbene, La Convenzione, la condizione dello straniero e la giurisprudenza in B. Nascimbene (a cura di), cit.

156. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 26 marzo 1992, Beldjoudi c. Francia, Serie A n. 234-A. Considerazioni analoghe sono contenute anche nelle seguenti sentenze: 28 maggio 1985, Abdulaziz c. Regno Unito, Serie A n. 94; Berrehab c. Paesi Bassi, cit. (la Corte in questo caso differenzia il bilanciamento a seconda che si tratti o meno di primo ingresso); 18 febbraio 1991, Moustaquim c. Belgio, Serie A n. 193.

157. Si vedano in particolare la decisione della Commissione europea dell'8 ottobre 1974, ric. n. 6357/73, X. c. Germania e la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera, n. 54273/00 dove viene assegnato un ruolo fondamentale alle difficoltà che la famiglia incontrerebbe a lasciare il proprio paese di residenza.

158. Cfr. B. Nascimbene, La Convenzione, la condizione dello straniero e la giurisprudenza in B. Nascimbene (a cura di), cit.

159. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 7 agosto 1996, C. c. Belgio, cit. In quel caso la Corte aveva tuttavia sostenuto l'assenza di una violazione dell'articolo 8, rilevando come nella situazione in esame, la misura dell'espulsione era proporzionata ai legittimi scopi perseguiti.

160. Per osservazioni in tal senso si veda B. Nascimbene, La Convenzione, la condizione dello straniero e la giurisprudenza in B. Nascimbene (a cura di), op. cit.

161. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 19 febbraio 1996, Gül c. Svizzera.

162. A conclusioni opposte giunge invece la Corte nel caso Berrehab c. Paesi Bassi, citato in cui però il minore non aveva analoghi legami con il paese di origine.

163. Tra le molteplici sentenze che contengono tale constatazione rimando alla nota 146. Si veda inoltre la sentenza C. c. Belgio, cit.

164. Nel caso in esame si trattava del reato di sfruttamento della prostituzione.

165. Opinione dissenziente del giudice Martens.

166. Opinione dissenziente del giudice Baka.