ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
Dalla normativa restrittiva del 1991-1992 alla legge cosiddetta "ex-Cirielli"

Roberto Perotti, 2006

L'argomento principale portato di solito a sostegno del mantenimento dell'ergastolo così come del limite trentennale della pena della reclusione, è che di fatto, grazie ai benefici previsti dalla riforma penitenziaria del 1975 e poi dalla legge Gozzini, la durata massima di tali pene, quali concretamente vengono scontate, può scendere di fatto a venti e perfino a quindici anni. Fu questo, in particolare, l'argomento paradossale addotto dalla sentenza 264 del 21 novembre 1974 e poi dalla sentenza 274 del 27 settembre 1983 a sostegno della dichiarazione di non incostituzionalità dell'ergastolo rispetto all'articolo 27 della Costituzione: la pena perpetua - si disse in sostanza - è legittima perché è di fatto non-perpetua. Il risultato dell'introduzione dei benefici e quindi della flessibilità della pena è stato così quello di legittimare in sede teorica il mantenimento di pene elevatissime, e in sede pratica l'irrogazione di pene più severe in previsione della loro riduzione in sede di esecuzione. (Luigi Ferrajoli, Quattro proposte di riforma delle pene, in Borrè G e Palombarini G., a cura di, Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, FrancoAngeli, Milano 1998, p. 44)

3.1. La normativa restrittiva del 1991-1992

3.1.1. Il mutamento del clima politico-sociale dalla riforma penitenziaria del 1986 ai primi anni novanta

La fisionomia assunta dalla pena dell'ergastolo dopo la riforma dell'ordinamento penitenziario del 1986 (legge 10 ottobre 1986, n. 663) è connotata dal disegno di una pena meno segregante e meno segregata dal contesto sociale (si pensi all'introduzione del permesso premio fruibile anche dai condannati alla pena perpetua ovvero alla concedibilità a questi delle misure alternative), ma soprattutto la pena perpetua è caratterizzata dall'accantonamento del concetto di delinquente 'non-risociazzabile', con il conseguente venire meno di qualsiasi preclusione incentrata sul 'carattere perpetuo' della pena inflitta (1).

Nel contesto, contrassegnato dalle innovazioni introdotte con il Decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 (convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203) e con il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356), le suddette caratteristiche, costituenti punti cardine dell'ordinamento penitenziario scaturenti dalla riforma del 1986, sono state capovolte: alla luce degli interventi operati all'inizio degli anni novanta dello scorso secolo, infatti, è lecito sostenere che la pena dell'ergastolo ha, per certi versi, recuperato una funzione neutralizzatrice e che il tipo di reato commesso diviene nuovamente influente, poiché la condanna per determinate fattispecie criminose rende problematica la fruibilità della maggior parte delle misure rieducative (2).

Si deve poi rilevare come queste differenze di contenuto sono accompagnate da differenze "di metodo", attinenti, in altre parole, allo strumento utilizzato per attuare le nuove linee di politica penitenziaria: mentre la novella del 1986 è stata l'atto finale di un processo legislativo caratterizzato da un ricco dibattito parlamentare, gli interventi ad essa successivi sono realizzati attraverso lo strumento del decreto legge, il quale costituisce "l'espressione di una visione unilaterale dei problemi su cui è destinato ad incidere" (3). Il quadro è, poi, completato dalla constatazione che la legge del 1992 è condizionata dai gravissimi accadimenti esterni, che hanno impedito un dibattito parlamentare approfondito, ma hanno imposto tempi assolutamente contenuti (4). Questi connotati "genetici" assolvono una funzione di inquadramento: infatti, definiscono il clima che ha fatto da sfondo alle modifiche dell'ordinamento penitenziario e sottolineano il "prezzo" che questa tecnica legislativa ha costretto a pagare sul piano interpretativo.

Prima di analizzare il contenuto normativo che ha inciso sulla pena dell'ergastolo, è necessario considerare, seppure brevemente, il processo di revisione critica, culminato nella decretazione d'urgenza, per comprendere le ragioni del rapido "invecchiamento" (5) della riforma del 1986. In seguito all'approvazione della cosiddetta "legge Gozzini" era affiorata in una parte della dottrina una certa perplessità circa le eventuali distorsioni che si sarebbero verificate in sede applicativa: in particolare si era espresso il timore che l'accresciuta premialità avrebbe potuto deformare le varie misure finalizzate ad assicurare la flessibilità della fase esecutiva, trasformandole "da strumento di rieducazione in strumento di buon governo del carcere" (6). Vi era chi, poi, rilevava che l'abolizione della categoria dei reati "ostativi" e delle limitazioni alla concessione dei benefici per gli ergastolani avrebbe dovuto comportare una più ricca dotazione di strumenti conoscitivi in capo alla magistratura di sorveglianza (7). In generale, si può sintetizzare che la preoccupazione espressa era quella di una decarcerizzazione fine a se stessa o, comunque, attuata senza il supporto di adeguati riscontri sul versante della rieducazione (8).

Si deve, però, rilevare che a fronte delle critiche mosse da una parte minoritaria della dottrina, nei confronti della riforma del 1986 vi fu un generale consenso, che può essere riassunto dal bilancio, molto positivo, tracciato dal direttore generale degli istituti di prevenzione e di pena a distanza di circa un anno e mezzo dall'entrata in vigore della legge di riforma (9): numerose sono le note positive tra cui spicca, in particolare, la soddisfazione per la riduzione del sovraffollamento carcerario.

Il quadro di consenso intorno alla riforma del 1986 si deteriorò, però, rapidamente, tanto che, nel corso del 1990, si registrarono i primi interventi legislativi motivati dall'esigenza di intervenire in senso restrittivo sulla normativa introdotta dall'ultima legge di riforma. Le critiche alla cosiddetta "legge Gozzini" riguardavano da un lato, la sfasatura che si era determinata tra la pena irrogata con la sentenza di condanna e quella che, in concreto, finiva per essere espiata in carcere, dall'altro, l'ampia discrezionalità della magistratura di sorveglianza, la quale, sia per l'assenza di preclusioni legali, sia per non aver impostato le proprie decisioni a rigorosi criteri di meritevolezza, aveva reso possibile l'anticipato reingresso nel contesto sociale di condannati ad elevato indice di pericolosità (10). Si deve precisare che le numerose critiche rivolte alla riforma del 1986 raggiunsero il loro culmine dopo la promulgazione del nuovo Codice di procedura penale che introdusse i riti abbreviati e le conseguenti riduzioni di pena che l'adozione di tali riti comporta (11). Questa modifica era vissuta dalla dottrina come una rinuncia alla proporzionalità nella commisurazione della pena tra il reato commesso e la sanzione inflitta, inoltre aumentava l'insofferenza verso le ulteriori forme di premialità, operante nella fase esecutiva.

Il problema centrale rimaneva quindi quello della premialità, che appariva eccessiva e ingiustificata da valide contropartite, tuttavia le critiche alla decarcerizzazione del biennio 1989-1990 riguardavano non tanto "la non impeccabile impostazione dello scambio penitenziario" (12), quanto preoccupazioni in chiave di difesa sociale che puntavano su una riaffermazione della funzione retributiva della pena. L'ultimo elemento che costituiva la motivazione di questo mutamento di clima rispetto alla riforma penitenziaria del 1986, era il problema della criminalità organizzata che si manifestava particolarmente acuto. A questo dobbiamo aggiungere i casi dai quali emergeva che condannati per gravi fatti di criminalità organizzata dopo aver ottenuto la concessione di una misura rieducativa - di solito un permesso premio - si erano resi irreperibili o avevano commesso nuovi reati (13).

L'insieme di questi fattori aveva comportato la necessità di affrontare la "questione penitenziaria" in modo antitetico rispetto alla novella del 1986 (14). Vale la pena di aggiungere che le critiche alla riforma del 1986, che in un certo senso contribuirono all'epilogo rappresentato dalla normativa restrittiva del 1991-92, non giunsero solo da chi aveva posto in primo piano le esigenze di difesa sociale, ma anche da parte di chi, pur esprimendo forti perplessità per l'ampia discrezionalità della magistratura di sorveglianza, aveva giudicato favorevolmente l'introduzione delle misure alternative (15). In conformità a queste premesse si criticava l'ampia possibilità di ricalibrare la pena in executivis e si era ritenuto necessario un intervento legislativo sulle troppo alte pene edittali previste nel nostro ordinamento (16), che avrebbe limitato il treatment model (17) collegato all'esistenza di pene troppo severe, infatti:

Una volta che la pena inflitta con la sentenza di condanna rifletta equamente il disvalore del fatto-reato, verrebbe meno qualsiasi giustificazione - soprattutto alla luce degli inconvenienti che ne derivano - per farle apportare empirici correttivi ad opera della magistratura di sorveglianza (18).

Il primo intervento legislativo antitetico allo spirito della riforma del 1986 è rappresentato dalla legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), il cui art. 13 introduceva un comma aggiuntivo (comma 1-bis) all'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario, che disciplina l'istituto del permesso premio (19). Con questo nuovo comma, il problema della criminalità organizzata incominciò ad essere oggetto di attenzione da parte del legislatore (20), ma soprattutto si delineò, anche se in modo ancora incompiuto, l'indirizzo che sarà organicamente sviluppato in seguito: in altre parole, si introduce un regime probatorio differenziato rispetto a quello uniformemente previsto, sino a questo momento nel nostro ordinamento penitenziario (21). Nel comma 1-bis dell'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario si stabiliva, infatti, che qualora la condanna in esecuzione fosse stata pronunciata per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 del Codice penale), oppure per reati di criminalità organizzata, nonché reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, ai fini della concessione del permesso premio, "devono esser acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata".

Si deve ricordare poi, il disegno di legge governativo - presentato il primo marzo 1990- recante "Disposizioni concernenti nuove misure per la lotta alla criminalità ed ai sequestri di persona" (22), il quale ampliava gli inasprimenti della legge penitenziaria non solo ai permessi premio, ma anche a tutte le altre misure rieducative. Anche se il disegno di legge non divenne legge, la sua importanza è notevole: gran parte delle soluzioni adottate, infatti, diverrà oggetto dei successivi interventi legislativi.

3.1.2. Le innovazioni alla normativa penitenziaria introdotte dai decreti del 1991-1992

La legge 12 luglio 1991, n. 203, la quale converte con modificazioni il decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, introduce i "Provvedimenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa" (23). In particolare il primo comma dell'art. 1 del decreto n. 152/1991 introduce nell'ordinamento penitenziario l'art. 4-bis che costituisce la "norma simbolo" del nuovo orientamento legislativo (24), il comma terzo dello stesso articolo disegna, invece, una nuova disciplina dei permessi premio di cui all'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario, mentre i commi secondo e quarto prevedono un inasprimento dei termini per accedere, rispettivamente all'assegnazione al lavoro all'esterno e al regime di semilibertà. L'art. 1 introduce, inoltre, nell'ambito della legge penitenziaria, l'art 58-ter, concernente le "persone che collaborano con la giustizia" (comma 5) e l'art 58-quater, che prevede alcuni divieti temporali assoluti di concessione di benefici penitenziari (comma 6); il settimo comma dell'art 1, infine, sancisce l'abrogazione del secondo comma dell'art 47-ter dell'ordinamento penitenziario che aveva introdotto nell'ordinamento penitenziario il concetto di 'criminalità organizzata'. L'art 2 del decreto in esame estende l'operatività di queste norme anche all'istituto della liberazione condizionale, mentre il conclusivo art. 4 contiene le disposizioni transitorie e finali, regolanti l'applicazione nel tempo delle nuove norme penitenziarie.

Il decreto legge n. 152 del 1991 si caratterizza, in definitiva, per una completa inversione di rotta rispetto ai principi ispiratori della "legge Gozzini" e per un ritorno, viceversa, all'identificazione di determinati "reati ostativi", come nella disciplina del 1975; ma soprattutto perché individua una particolare tipologia di reati e di autori in relazione ai quali è dettata una disciplina trattamentale particolare, con l'introduzione di un "presunzione di pressoché assoluta 'pericolosità sociale' in capo ai condannati per determinati delitti" (25).

L'ordinamento penitenziario è ulteriormente riformato attraverso il successivo decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modificazioni in legge 7 agosto 1992 n. 356, il quale contiene espressamente le "Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa". Il titolo IV di questo provvedimento è dedicato alle norme in materia penitenziaria, mentre l'art 13 (contenuto nel capo III) detta la disciplina del "collaboratore a rischio", colui, cioè, che viene ammesso allo speciale programma di protezione. Il titolo IV del decreto si compone di numerosi articoli di cui sono da menzionare: l'art. 14 che aggiunge i commi 5, 6, 7 all'art 58-quater dell'ordinamento penitenziario, inasprendo i tempi dei divieti assoluti di accesso ai benefici penitenziari in capo a determinati soggetti; l'art 15 che aggiunge il comma 3-bis all'art 4-bis dell'ordinamento penitenziario; l'art. 19 che, infine, immette il comma 2 nell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario (che comporta l'assoggettamento del detenuto ad un regime speciale di particolare rigore, allo scopo di vietare che egli possa dal carcere mantenere contatti ed impartire ordini dall'esterno), riproponendo, in modo riveduto e corretto, così il "famigerato" (26) art. 90, che la legge n. 663 del 1986 aveva eliminato dall'ordinamento penitenziario.

Il decreto legge n. 306, che porta a compimento il nuovo orientamento del legislatore in materia penitenziaria, comporta, ad avviso di una parte rilevante della dottrina, "uno stravolgimento potenziale di notevoli proporzioni dell'intero ordinamento penitenziario" (27), poiché "i circuiti trattamentali si moltiplicano e la loro alternatività alla pena detentiva risulta ora commisurata soprattutto alla quantità e alla qualità della collaborazione prestata" (28).

3.1.2.1. L'art. 4-bis della legge penitenziaria

L'art. 4-bis, come detto 'norma simbolo' della riforma penitenziaria del 1991/92, è stato introdotto dal primo comma dell'art. 1 del decreto legge n. 152 del 1991, è stato poi riformulato attraverso l'art. 15 del decreto n. 306 del 1992 e ulteriormente modificato dalla legge di conversione n. 356 dello stesso anno; in seguito, è stato ritoccato dal decreto legge 14 giugno 1993 n. 187, convertito, con modificazioni, nella legge12 agosto 1993 ed infine è stato sostituito dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279. E' da rilevare preliminarmente, che la centralità dell'art. 4-bis è sottolineata dallo stesso legislatore del 1991, che ha inserito il suddetto articolo nel capo della legge penitenziaria dedicato ai "principi direttivi" (capo I titolo I) in modo da "controbilanciare" l'impostazione delle altre disposizioni programmatiche contenute nello stesso capo (29).

Procedendo all'analisi dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario si può rilevare che il primo comma di questo articolo contempla due distinte fasce di reati di particolare gravità, ai cui autori deve essere applicata la normativa restrittiva. Alla prima fascia appartengono:

  • delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza;
  • delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis associazione di tipo mafioso ovvero al fine di agevolare l'attività di associazioni di tipo mafioso (art. 416-bis del Codice penale);
  • associazione di tipo mafioso (art. 416-bis);
  • sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (art. 630 del Codice penale);
  • delitti di cui agli articoli 600, 601, 602 del Codice penale;
  • associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater del testo unico approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43);
  • associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Alla seconda fascia appartengono:

  • omicidio (art. 575 del Codice penale);
  • rapina aggravata (art. 628, terzo comma, del Codice penale);
  • estorsione aggravata (art. 629, comma secondo, del Codice penale);
  • contrabbando di tabacchi lavorati esteri, aggravato ai sensi dell'art. 291-ter del testo unico approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 23b gennaio 1973, n. 43;
  • associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la personalità individuale (art. 600 e ss. del Codice penale);
  • associazione a delinquere finalizzata a commettere i delitti contro la libertà sessuale di cui agli articoli 609-bis, 609-quater, 609-octies del Codice penale;
  • produzione e traffico, in quantità ingente, di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 73 aggravato ai sensi del comma secondo dell'art. 80 del testo unico n. 309 del 1990);
  • violazioni concernenti l'immigrazione previste dall'articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

La ragione della bipartizione è stata fatta risalire al motivo che i delitti ricompresi nel primo elenco sono stati considerati "di certa riferibilità al crimine organizzato", diversamente da quelli considerati nel secondo elenco, sicuramente molto gravi, "ma non direttamente riferibili a quel tipo di delinquenza" (30).

A seconda dell'appartenenza del delitto all'una o all'altra delle due categorie dell'art. 4-bis, comma primo, dell'ordinamento penitenziario, è stato congegnato un diverso tipo di verifica da effettuare in merito alla pericolosità sociale del condannato (31). In base, infatti, alle previsioni contenute nell'originario dettato del primo comma dell'art. 4-bis - anche se è bene precisare che si tratta di una disciplina in parte ancora vigente - si è stabilito che, mentre la condanna per uno dei delitti elencati nella seconda fascia consente la concessione di una misura rieducativa (lavoro all'esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione di cui al capo VI della legge n. 354 del 1975, fatta eccezione per la liberazione anticipata) subordinatamente alla condizione che non vi siano "elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva"; nell'ipotesi di condanna per taluno dei delitti ricompresi nella prima fascia si richiedeva, in origine, come condictio sine qua non, l'acquisizione di "elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva".

L'introduzione nell'ordinamento penitenziario di questo regime probatorio provocò la risposta critica di dottrina e giurisprudenza di merito che accusarono il legislatore di aver dato vita ad una probatio diabolica, una prova cioè di tipo negativo consistente, per l'appunto, nel dimostrare l'estraneità nei confronti di un collegamento che si presumeva tuttora esistente (32). I magistrati di sorveglianza evidenziarono, inoltre, l'evidente contrasto con le norme costituzionali di cui agli artt. 3 (principio di eguaglianza), 24 comma secondo (diritto di difesa) e 27 comma terzo (finalità rieducativa della pena) (33). La riforma operata con il successivo decreto n. 306 del 1992 è, però, andata in una direzione opposta rispetto alle critiche ricordate, dettando una disciplina ancora più rigida e afflittiva nei confronti dei summenzionati condannati: l'accesso ai benefici penitenziari è ora completamente negato sul presupposto assoluto di un attuale collegamento con la criminalità organizzata. L'unica possibilità che consente a questi detenuti di rendere inoperante il divieto è rappresentata dall'offerta della collaborazione con la giustizia disciplinata attraverso l'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario, introdotto anch'esso dal decreto n. 152 del 1991. La legge di conversione n. 356 del 1992 in seguito, accogliendo solo alcune delle critiche sollevate dalla dottrina, ha introdotto piccoli correttivi a questa disciplina restrittiva, che una parte della dottrina ha ritenuto inadeguati (34): per i detenuti condannati per uno dei delitti contemplati nella prima parte del primo comma dell'art. 4-bis, ai quali sia stata applicata una delle circostanze attenuanti di cui agli articoli 62 n. 6 del Codice penale (risarcimento del danno, consentito anche dopo la sentenza di condanna), 114 (attenuante della "minima partecipazione") ovvero 116, comma secondo, del Codice penale (reato più grave di quello voluto) e che abbiano offerto una collaborazione oggettivamente irrilevante, è ripristinata in sostanza la precedente, originaria normativa, per cui essi potranno accedere ai benefici penitenziari soltanto quando siano stati acquisiti elementi tali da escludere ancora una volta, l'attualità di collegamenti con la delinquenza organizzata. L'art. 15, secondo comma, del decreto 306 del 1992, modificato dalla legge di conversione, prevedeva, inoltre, una disciplina dall'efficacia espressamente retroattiva (35), secondo la quale nei casi in cui l'autorità di polizia avesse individuato nei confronti dei condannati per i reati di cui al primo periodo del primo comma dell'art. 4-bis e già ammessi alla fruizione dei benefici penitenziari, la mancanza delle condizioni per l'applicazione dell'art. 58-ter, avrebbe dovuto darne comunicazione al Tribunale di sorveglianza, che accertata l'effettiva insussistenza, avrebbe revocato la misura precedentemente concessa. Questa disposizione, è da aggiungere, è stata oggetto di un intervento additivo ad opera di una sentenza della Corte costituzionale (36) che ha contestato che la mancata collaborazione di un condannato - la cui pericolosità sociale sia già stata esclusa dalla magistratura di sorveglianza al momento della concessione della misura rieducativa - possa essere considerata un indice univoco di inidoneità al trattamento ed ha concluso che l'irragionevolezza della previsione legislativa può essere scongiurata solo alla condizione di subordinare il ripristino del regime detentivo ordinario alla ricorrenza del requisito dell'accertata sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (37).

3.1.2.2. L'accertamento delle condizioni restrittive

L'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario dispone che il magistrato o il tribunale di sorveglianza in relazione ai reati contenuti nella prima parte dell'articolo stesso, devono rivolgersi al comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica (38) "competente in relazione al luogo di detenzione del condannato" per acquisire dettagliate informazioni sul richiedente, prima di autorizzare l'assegnazione al lavoro all'esterno o di concedere i permessi premio o le misure alternative alla detenzione di cui al capo VI della legge 354 del 1975.

In relazione ai reati descritti nella seconda parte dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, le informazioni devono esser acquisite dal Questore ai sensi del comma terzo dell'art. 4-bis, inserito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296 (39).

La segnalazione da parte delle procure antimafia dell'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sostituisce le informazioni del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica e del questore e preclude in assoluto la concessione di benefici (art. 4-bis, ultimo comma, aggiunto dall'art. 15 del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356). Relativamente a questo specifico profilo, va ricordata la posizione uniformemente critica della dottrina, la quale ha parlato di un inaccettabile potere di veto, implicante un corrispondente azzeramento dell'autonomia decisionale della magistratura di sorveglianza. (40)

E' da ricordare che l'istituto della collaborazione con la giustizia è stato ridimensionato dall'intervento della Corte costituzionale (sentenze n. 357 del 1994 e 68 del 1995) che, per armonizzarlo con il principio della funzione rieducativa della pena, ha creato la categoria della collaborazione "inesigibile", ricomprendente a sua volta le due figure della collaborazione "irrilevante" e della collaborazione "impossibile". Si è così escluso dal divieto di accesso ai benefici coloro che, pur essendo stati condannati per reati cosiddetti "ostativi", o perché la loro partecipazione al fatto è stata di limitata rilevanza ovvero perché tutti i complici sono stati catturati e condannati, non possono materialmente prestare alcuna collaborazione (41).

3.1.2.3. L'accesso posticipato alle misure extramurarie

Oltre a quanto prescritto dall'art 4-bis dell'ordinamento penitenziario in ordine all'accertamento della pericolosità sociale, altre norme, contestualmente introdotte, perseguono l'identico obiettivo di differenziare in executis la posizione degli autori di reati, ritenuti di particolare gravità.

Riguardo ai condannati ex art. 4-bis, comma primo, dell'ordinamento penitenziario sono stati innalzati i limiti di pena necessari per l'ammissione al lavoro all'esterno, generalmente concedibile ab initio (nel caso di condanna all'ergastolo è prescritto che debbano essere espiati almeno dieci anni di reclusione per essere ammessi al lavoro all'esterno (42)) ed è stata aumentata la frazione di pena da espiare per la concessione dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale (43).

Le previsioni appena ricordate hanno, tuttavia, un ambito di operatività più circoscritto rispetto a quello dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario: diversamente da questa norma, infatti, le stesse possono trovare applicazione solo nei confronti di chi sia stato condannato per un delitto commesso successivamente all'entrata in vigore del decreto legge che le ha istituite (44). E' da ricordare poi che, mentre l'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario si applica, senza eccezioni, a chiunque sia stato condannato per taluno dei delitti risultanti dal primo comma della suddetta disposizione, gli inasprimenti temporali diretti a procrastinare la fruibilità delle misure rieducative non operano qualora -prima o dopo la condanna- sia stata posta in essere una delle due condotte descritte dall'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario (45), per cui il condannato "collaborante", fatta eccezione per gli accertamenti imposti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, è sottoposto alla disciplina per la generalità dei condannati.

Le condotte di collaborazione sono accertate dalla magistratura di sorveglianza (46) assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata presentata la collaborazione (art. 58-ter, comma secondo, dell'ordinamento penitenziario) (47).

3.1.2.4. La nuova disciplina dei permessi premio

Il comma primo dell'art. 30-ter dell'Ordinamento penitenziario, nel suo dettato originario, richiedeva, tra le condizioni per poter usufruire dei permessi premio "una non particolare pericolosità sociale" dei condannati: queste parole sono state sostituite con l'inciso "socialmente pericolosi" dall'art. 1, terzo comma, del Decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella Legge 12 luglio 1991, n. 203.

L'inserimento dell'inciso "socialmente pericolosi" comporta notevoli ripercussioni sull'intero sistema: la pericolosità sociale, infatti, è insita, in sostanza, in ogni soggetto autore di un reato del quale risulta palese il disvalore sociale e, quindi, in ogni soggetto condannato alla pena dell'ergastolo. L'atteggiamento del legislatore si può spiegare solo alla luce dell'allarme sociale conseguente ad alcuni eclatanti casi di mancati rientri, i quali hanno consigliato un irrigidimento delle condizioni ammissive ai permessi premio, senza tuttavia tenere conto dei risvolti che una tale riformata normativa ha nei confronti del programma trattamentale nel suo complesso, in riferimento al quale, per espressa dizione normativa, proprio l'esperienza dei permessi premio costituisce un'irrinunciabile parte integrante.

La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 4-bis, primo comma, dell'Ordinamento penale, come sostituito dall'art. 15, primo comma, del Decreto legge n. 356 del 1992, nella parte in cui prevede che la concessione di ulteriori permessi premio sia negata nei confronti dei condannati per i delitti indicati nel primo periodo del primo comma dello stesso art. 4-bis, che non si trovino nelle condizioni per l'applicazione dell'art. 58-ter, dell'ordinamento penitenziario, anche quando essi ne abbiano già fruito in precedenza e non sia stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (48).

In caso di cumulo giuridico della pena perpetua dell'ergastolo (per un reato incluso nella seconda parte del primo comma dell'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario), con ulteriore condanna alla reclusione per un reato compreso nella prima parte del primo comma dell'art. 4-bis, è possibile commutare la pena della reclusione in isolamento diurno e in funzione della commutazione, il condannato può, di fatto, risultare ammissibile ai benefici dell'Ordinamento penitenziario, avendo "scontato la parte di pena in concreto riferibile al delitto ostativo ex art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario" (49). Si può vedere, a conferma di quanto detto, il decreto, emesso in data 11 agosto 2005 dal Magistrato di Sorveglianza di Firenze, in cui si dichiara il recluso implicitamente ammissibile all'istituto dei permessi premio in virtù del provvedimento di commutazione della reclusione in isolamento diurno, una volta scontato questo. Con successiva decisione del 13 ottobre 2005, il Tribunale di Sorveglianza di Firenze (50), nel definire il reclamo proposto dal condannato sul provvedimento emesso dal Giudice di Firenze (51), ha confermato, di fatto, l'ammissibilità del condannato all'istituto dei permessi premio una volta terminata la pena dell'isolamento diurno, sul presupposto logico che l'interessato, da quella data in poi, si troverà a scontare solo la pena dell'ergastolo per un delitto non ostativo ai sensi dell'art. 4-bis, primo comma, prima parte, dell'Ordinamento penitenziario.

E' ricordare, infatti, che secondo la Corte di cassazione (52), in conformità alla sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale, n. 361 del 1994, si deve ritenere che, nel caso di soggetto sottoposto ad esecuzione di pene cumulate, delle quali alcune soltanto siano state inflitte per delitti che comportano, ai sensi dell'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario, esclusione o limitazione di misure alternative alla detenzione, il cumulo possa essere sciolto ai fini della determinazione del momento in cui, considerata come avvenuta l'espiazione delle pene relative a quei delitti, l'esclusione o la limitazione non debbano più operare. Diversamente, infatti, si verrebbe a far dipendere l'applicazione di un trattamento deteriore dalla sola eventualità, del tutto casuale, di un rapporto esecutivo unico in luogo di più rapporti scaturenti dall'esecuzione di singole condanne, con l'ulteriore incongruenza che, nel caso di cumulo giuridico, questo concepito soltanto per temperare l'asprezza del cumulo materiale, verrebbe a tradursi in un danno per l'interessato.

3.1.2.5. Le preclusioni legali concernenti le misure rieducative (art. 58-quater dell'ordinamento penitenziario)

L'irrigidimento dell'ordinamento penitenziario nei confronti dei condannati "socialmente pericolosi" (53) (tra i quali numerosi sono coloro che scontano la pena dell'ergastolo) è stato attuato anche introducendo l'art. 58-quater, i cui primi quattro commi sono il prodotto del decreto legge n. 152 del 1991, mentre i seguenti tre commi sono stati aggiunti dal decreto 8 giugno 1992, n. 356 (54).

I primi tre commi dell'art 58-quater dell'ordinamento penitenziario delineano una preclusione di durata triennale, nei confronti di chi abbia realizzato una condotta punibile ex art. 385 (55) del Codice penale, o la revoca, per deviazioni comportamentali, dell'affidamento in prova "rieducativo", della detenzione domiciliare e della semilibertà (56) e produce i suoi effetti con riferimento ad una serie di misure tassativamente elencate (assegnazione al lavoro all'esterno, permessi premio, affidamento in prova "rieducativo", detenzione domiciliare, semilibertà) (57).

L'art. 58-quater, comma quarto (inserito dall'art. 1, comma 6, della legge 203 del 1991) statuisce, inoltre, che - in relazione a fatti posti in essere successivamente al 13 maggio 1991 (58) - i condannati per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289-bis del Codice penale) e per sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (art. 630 del Codice penale) che abbiano cagionato la morte del sequestrato (59), possono fruire delle misure di trattamento extramurario, menzionate nell'art. 4-bis, comma primo, dell'ordinamento penitenziario, dopo avere espiato almeno i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell'ergastolo, almeno ventisei anni.

Non può non sfuggire la durezza di una simile previsione, la quale come ha rilevato Della Casa:

E' troppo draconiana nel negare qualsiasi rilevanza agli eventuali cambiamenti che, specie in relazione a lunghi periodi di detenzione, possono intervenire nella personalità di un condannato, sia pure autore di un reato gravissimo (60).

Costituiscono corollari della rigidità della regola, l'impossibilità di abbreviare, in concreto, la durata del divieto e l'ingiustificato livellamento (quanto alla soglia temporale di accesso) delle varie misure rieducative, in contrasto con i postulati della logica trattamentale (61). Per ciò che riguarda il primo profilo è da ricordare che il legislatore ha espressamente previsto che il quantum di pena, da scontare in regime chiuso, sia "effettivamente" espiato: e' evidente che, con l'uso di tale avverbio, si è inteso, principalmente escludere l'incidenza dell'effetto "indiretto" (62) della liberazione anticipata, indicato con la formula "presunzione di avvenuta espiazione" (art. 54, comma quarto, dell'ordinamento penitenziario) (63).

Il disposto del quarto comma dell'art. 58-quater dell'ordinamento penitenziario, per il fatto di allineare alla stessa elevata quota di espiazione della pena il presupposto per la concessione di benefici penitenziari aventi finalità diverse ha sollevato, inoltre, notevoli dubbi di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27, comma terzo, della Costituzione (64).

Il legislatore del 1992, come detto, è intervenuto sull'art 58-quater dell'ordinamento penitenziario, aggiungendo ulteriori tre commi che disciplinano due fattispecie preclusive, operanti nei soli confronti di condannati ex art. 4-bis, comma primo, dell'ordinamento penitenziario: si è previsto, infatti, il divieto di concessione dei benefici e l'obbligo di revoca dei benefici concessi qualora si proceda o sia pronunziata condanna nei confronti di condannato che commetta un delitto doloso, "punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni", commesso nel corso di evasione (art. 385 del Codice penale) ovvero durante lo svolgimento del lavoro all'esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione.

3.1.2.6. La sospensione delle normali regole del trattamento penitenziario

L'art. 19 del decreto legge n. 306 del 1992, varato successivamente ad un gravissimo delitto di strage (65), ha inserito nell'art. 41-bis, il comma 2 che è apparso, come detto, ad una parte della dottrina una riproposizione dell'art. 90, la cui abrogazione aveva costituito uno degli aspetti più qualificanti della riforma del 1986 (66). L'art. 29 del decreto del 1992 aveva stabilito, poi, che le disposizioni previste dall'art. 19 avrebbero avuto efficacia fino allo scadere di tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto: tale termine è stato più volte prorogato (67), fino all'emanazione della legge 23 dicembre 2002, n. 279, il cui art. 29 ha abrogato l'art. 29 del Decreto legge n. 306 del 1992 rendendo, così, definitivo il regime penitenziario previsto dall'art. 41-bis dell'Ordinamento penitenziario. L'art. 2 della Legge n. 279 del 2002 ha, inoltre, sostituito i commi dal secondo al secondo sexies dell'originaria disposizione dell'art. 41-bis, introducendo una disciplina organica dell'istituto (68). Il primo comma dell'art. 41-bis prevede, quindi, che:

In casi eccezionali di rivolta o di gravi situazioni di emergenza, il Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve esser motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.

Al secondo comma dell'art. 41-bis, si afferma, invece:

Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis, in relazione ai quali vi siano elementi tale da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l'associazione di cui al periodo precedente.

Il secondo comma bis prevede, poi, che i provvedimenti di cui all'art. 41-bis, secondo comma, siano adottati con decreto motivato del Ministro della giustizia: nella motivazione del decreto, il Ministro deve chiarire la necessità delle restrizioni con riferimento al grado di pericolosità sociale del detenuto in rapporto ai legami con la criminalità organizzata e al suo ruolo all'interno dell'organizzazione criminale. Il provvedimento restrittivo può avere una durata non inferiore ad un anno e non superiore ai due anni, ma può essere prorogato "per periodi successivi, ciascuno pari ad un anno".

Il secondo comma ter disciplina il caso in cui vengano meno le condizioni che hanno determinato l'adozione del provvedimento restrittivo, in questi casi: "Il Ministro della giustizia procede, anche d'ufficio, alla revoca con decreto motivato". I commi dal secondo quinques al secondo sexies, disciplinano, infine, il regime d'impugnabilità del provvedimento emesso dal Ministro.

Il potere del Guardasigilli di sospensione dell'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti nella normativa penitenziaria, è costituzionalmente corretto, quando non viola le disposizioni costituzionali poste a garanzia di diritti non affievolibili per atto amministrativo o a garanzia della giurisdizione (art. 101 della Costituzione) (69).

La Corte costituzionale, pur non dichiarando costituzionalmente illegittima la norma, ha delimitato, la sfera di applicazione dell'art. 41-bis, comma secondo, dell'ordinamento penitenziario, stabilendo che l'Amministrazione penitenziaria può adottare provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione della pena solo se non eccedono il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna e rispettando il divieto di ogni violenza fisica e morale (art. 13, comma quarto), di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27, terzo comma) e il diritto di difesa (art. 24) (70).

3.1.2.7. L'ergastolo e la normativa restrittiva del 1991/92 e successive modificazioni

Le attuali norme dell'Ordinamento penitenziario, compresa la riforma in peius dell'art. 41-bis attuata con la Legge n. 279 del 2002, hanno riformato in senso peggiorativo la normativa penitenziaria del 1986, non solo per quanto concerne l'aspetto trattamentale dei detenuti, ma anche in relazione all'intero sistema penitenziario, i cui fondamentali principi ispiratori finiscono per essere stravolti (71). Attraverso le nuove norme in materia penitenziaria, la pena riacquista, infatti, una nuova identità retributiva e diviene afflittiva e punitiva, mentre un trattamento alternativo è riservato non a chi abbia mostrato rilevanti e positivi progressi nel corso del programma di recupero e risocializzazione in fase esecutiva, ma nei confronti di coloro che collaborano con la giustizia: i cosiddetti "super-pentiti" (72) della mafia e delle altre organizzazioni malavitose. In particolare emerge il ripudio del principio di una pena rieducativa e risocializzante, così come sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione e la sempre più marcata differenziazione dei detenuti e dei circuiti trattamentali. Occorre tenere in considerazione, comunque, che il legislatore si è preoccupato maggiormente dei risultati da ottenere nella lotta alla criminalità organizzata che non dei mezzi usati per il loro conseguimento.

Sono stati evidenziati, in relazione al primo comma dell'art. 4-bis alcuni contrasti con il terzo comma dell'art. 27 della Costituzione: si è sostenuto (73), infatti, che in tale contesto la pena smarrisce la sua finalità rieducativa poiché il percorso alternativo non è prerogativa di coloro che mostrano confortanti risultati nel corso del programma di trattamento ma soltanto di quanti optano per l'offerta di "collaborazione" di cui all'art. 58-ter dell'Ordinamento penitenziario.

La sospensione delle normali regole del trattamento penitenziario, poi, disciplinata dall'art. 41-bis, secondo comma, dell'Ordinamento penitenziario fa esclusivo riferimento ai condannati per delitti indicati nel comma primo dell'art. 4-bis e, a differenza dell'art. 90, oggi abrogato, non individua carceri speciali, ma detenuti speciali (74), nei confronti dei quali, sussistendo gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, può dunque trovare applicazione la sospensione delle normali regole di trattamento: si è sostenuto, in questo caso, che la norma, poiché fa riferimento agli stessi condannati nei confronti dei quali valgono i divieti di concessione dei benefici penitenziari, ha carattere propagandistico e di chiusura più che un effettivo impatto sull'Ordinamento penitenziario (75).

I decreti legge del 1991/92, approvati dal Parlamento a furor di popolo sotto la spinta emotiva delle stragi Falcone e Borsellino, e le norme successive hanno ridotto fortemente l'applicabilità delle misure alternative ed hanno espresso una concezione della pena caratterizzata dalla retributività. L'attaccamento all'ergastolo, in questa situazione, è una forma particolarmente evidente della scelta contro la pena rieducativa a favore della pena retributiva. Si deve ricordare, però, che la pena della reclusione a vita, secondo la Corte suprema (76), è costituzionalmente legittima solo perché una legge del 1962 prevedeva che dopo vent'otto anni di galera scontata il condannato all'ergastolo potesse uscire in libertà condizionata. La legge n. 663 del 1986 ha abbassato questo termine a ventisei anni: il condannato all'ergastolo che tiene una condotta regolare, può ottenere, alla scadenza prevista, la libertà condizionale e permettere così il "mantenimento dell'ergastolo nel nostro ordinamento" (77).

La questione dell'ergastolo - il carcere privo di senso se non quello della vendetta sociale - è, quindi, una "deviazione ideologica" (78) delle questioni della giustizia penale: l'abolizione di questa pena, per questo motivo, deve essere risolta nell'ambito di una revisione generale del sistema penale, poiché l'esperienza dimostra che un'abolizione isolata, senza una contemporanea riforma organica del Codice penale, crea squilibri non sanabili. Si deve ricordare, infatti, che la Camera votò nel 1989, un ordine del giorno che invitava il Governo a sopprimere l'ergastolo, ma il Governo non ha mai fatto nulla; in precedenza, il corpo elettorale respinse il referendum sull'abrogazione dell'ergastolo a schiacciante maggioranza, rendendo così vano, il movimento parlamentare tendente all'abrogazione (79).

Abolire l'ergastolo significa riconfermare la scelta del costituente a favore della pena rieducativa, per cui la persona che esce a fine pena non è più, almeno tendenzialmente, la stessa che la pena meritò. La normativa restrittiva in tema di accesso alle misure alternative alla detenzione impone, in definitiva, la necessità di riproporre la questione del senso e del fine della pena, che confluisca in una riforma del Codice penale, dal quale deve essere bandita la pena dell'ergastolo.

Tavola XI. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1991-1996, situazione a fine anno) (80)
Anni Numero complessivo
1991 314
1992 360
1993 380
1994 396
1995 379
1996 501

3.2. L'ergastolo e i progetti di riforma del Codice penale degli anni novanta

A partire dalla fine degli anni '80 si cominciò a sentire, nuovamente, la necessità di una riforma del Codice penale, a causa dell'evidente divergenza che si era creata tra questo e il nuovo Codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1988. Nel 1988, il guardasigilli Giuliano Vassalli procedette alla nomina di una commissione, presieduta dal professor Antonio Pagliaro, cui affidò il compito di elaborare uno Schema di legge delega per un nuovo Codice penale, da consegnare all'iniziativa parlamentare del Governo che avrebbe dovuto recepire l'elaborato in un disegno di legge delega (81). La Commissione Pagliaro preparò rapidamente uno schema di legge delega comprensivo sia della parte generale sia della parte speciale. La pubblicazione e la circolazione dello schema avvenne, però, in un secondo momento, ad opera del successivo Guardasigilli Giovanni Conso. Il Progetto del 1992 - nonostante i suggerimenti della dottrina in tal senso - manteneva la pena dell'ergastolo per i delinquenti adulti.

Nel 1996 il Comitato per la riforma del codice penale, istituito presso la Commissione giustizia del Senato, elaborò un progetto di legge (82), di cui fu primo firmatario il Senatore Roland Riz, sostenitore da sempre dell'abolizione della pena dell'ergastolo (83). Il Progetto Riz, che riguardava la parte generale e conteneva una relazione per la parte speciale (84), prevedeva l'abolizione della pena dell'ergastolo. Il Progetto approvato dal Senato nel 1996 (85) non è stato, però, attuato a causa dello scioglimento anticipato delle Camere.

Una nuova commissione, infine, presieduta dal professor Carlo Federico Grosso, fu incaricata nell'ottobre del 1998 dal ministro della giustizia Giovanni Maria Flick, di procedere all'elaborazione della riforma del Codice penale (86): per quanto riguarda la pena dell'ergastolo, la Commissione Grosso, confermò l'abolizione dell'ergastolo che era sostituito con una reclusione cosiddetta "speciale" da venticinque a trent'anni. La Commissione Grosso per la riforma del Codice penale, il 22 luglio del 2000, licenziò il progetto di articolato sulla parte generale indicando nella "configurazione di un Codice penale fortemente caratterizzato dall'impronta garantista della tradizione liberal-democratica" l'obiettivo fondamentale cui era stato ispirato il proprio lavoro (87). Il nuovo Governo non ha utilizzato questo lavoro che aveva ottenuto consensi qualificati e ha conferito al dottor Nordio l'incarico di predisporre un nuovo testo di Codice penale.

La proposta di abolire l'ergastolo è stata più volte avanzata in Parlamento, dalla promulgazione della Costituzione fino all'ultimo progetto di riforma organica del Codice penale ad opera della Commissione Grosso. Per comprendere le ragioni dei fallimenti dei vari tentativi di abolizione della pena dell'ergastolo è necessario ricordare che essa, come detto, ha natura alternativa rispetto alla pena di morte ed è prevista per delitti che per la loro efferatezza, provocano una reazione così profonda da produrre una richiesta di neutralizzazione del colpevole: è questa la considerazione che sostiene l'orientamento favorevole al mantenimento di questo tipo di pena (88). Nella percezione comune la pena dell'ergastolo rappresenta la "giusta punizione" per chi viola il "patto sociale minimo" (89): in questi casi non risulta possibile commisurare la pena al delitto commesso e non resta che la soluzione estrema dell'esclusione totale dalla società del colpevole.

E' possibile individuare due "correnti" fra i sostenitori della necessità della pena dell'ergastolo: i primi (90) ritengono che vi siano dei comportamenti delittuosi estremi (in passato sanzionati con la pena di morte), di fronte ai quali la società deve porre al riacquisto della libertà la condizione di recupero del colpevole, il cui effettivo soddisfacimento deve essere verificato in concreto e non invece presunto sulla base del semplice decorso del tempo. Il mantenimento dell'ergastolo corrisponde, quindi, al convincimento che vi sono delitti il cui prezzo è incommensurabile, ma il cui debito può essere rimesso quando il debitore dimostri nel corso dell'esecuzione di meritare il proprio riscatto. I secondi (91) ritengono, invece, che sarebbe un gravissimo errore per il legislatore decretare l'abolizione della pena dell'ergastolo, poiché è irrogato per tutti quei delitti efferati che scuotono fortemente l'opinione pubblica, destando notevole allarme sociale. L'abolizione della pena perpetua può, inoltre, far perdere la fiducia del cittadino nello Stato cosiddetto "di diritto" e dal quale non si riterrà più garantito nella sua vita e nei suoi beni. E' necessario, secondo questi autori, che la pena abbia uno scopo "esclusivamente retributivo" affinché ognuno paghi "integralmente" per il delitto commesso. La pena, infine, soltanto "sulla carta" tende alla rieducazione del condannato, ma nella realtà questo scopo si è rilevato una vera utopia: per questo sarebbe giunto "il momento di cancellare l'illusione dell'art. 27 della Costituzione" (92).

La condizione dell'ergastolano, nonostante le opere di importanti autori, la cui fine pena viene indicata nei registri della matricola del carcere con la terribile parola "mai", deve essere considerata e non può essere sottaciuta alla nostra coscienza. E' ingiusto, infatti, continuare a negare la possibilità di un futuro a chi abbia dimostrato, durante gli anni dell'esecuzione della pena di essere pronto al reinserimento nella società, sia per un principio generale di umanità e sia per il fine "rieducativo" cui deve tendere la pena, secondo quanto previsto dalla Costituzione. Nella situazione attuale, nonostante le difficoltà generali, l'ammissione degli ergastolani ad un sistema di esecuzione delle pene simile a quelle degli altri condannati, con la possibilità di accesso ai benefici e alle misure alternative fino alla liberazione condizionale, costituisce una realtà concreta. E' possibile riconoscere che il problema si restringe in pratica a pochi individui, essendo la maggior parte degli ergastolani liberata (o ammessa a rapporti con l'esterno del carcere): tuttavia, proprio l'esistenza di pochi individui che scontano integralmente questa tremenda pena, pone giustificati dubbi di legittimità costituzionale. Il principio del finalismo rieducativo della pena, sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, come tutti principi della Carta costituzionale, devono essere costantemente confermati e rafforzati, in considerazione anche della celebrazione del sessantesimo anno di vita di questo straordinario documento.

3.3. La sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 2003

L'ergastolo, abbiamo detto, in virtù delle provvidenze occorse negli ultimi quaranta anni è una pena solo tendenzialmente perpetua, tuttavia la normativa restrittiva introdotta dalla riforma del 1991/92 comporta notevoli limitazioni alla concessione delle misure alternative ai detenuti condannati per uno dei reati contenuti nell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario: per le persone condannate all'ergastolo per i reati contenuti nell'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario questo significa nessuna liberazione condizionale, se non collaborano con la giustizia. La Corte costituzionale con la sentenza n. 135 del 2003 ha, infatti, precisato che solamente attraverso questa forma di cooperazione la persona detenuta può dimostrare di essere uscita dal circuito della criminalità organizzata e si può, quindi, esprimere con certezza il suo ravvedimento.

La sentenza della Corte costituzionale in esame si inserisce nel contesto particolarmente delicato dei rapporti tra liberazione condizionale prevista dall'art. 176 del Codice penale e la pena dell'ergastolo. E' noto, infatti, che la possibilità di concedere la liberazione condizionale ai condannati all'ergastolo - introdotta dall'art. 2 della Legge 25 novembre 1962, n. 1634 e confermata dall'art. 28 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 - consentendo l'effettivo reinserimento di tali soggetti nel consorzio civile, ha reso compatibile con il quadro costituzionale la sanzione perpetua contemplata dall'art. 22 del Codice penale (93). La perpetuità dell'ergastolo è venuta progressivamente ad attenuarsi nella fase dell'esecuzione penale, a seguito delle norme citate e di alcune significative pronunce della Corte costituzionale (94), cosicché anche l'ergastolano può nutrire una fondata aspettativa di reinserimento sociale e la pena può perseguire la finalità rieducativa sancita dall'art. 27, comma terzo, della Costituzione.

La sentenza in commento ha nelle pronunce 4 giugno 1997, n. 161 e 20 luglio 2001, n. 273 (95) i propri antecendenti naturali. In particolare, con la pronuncia del 1997, i giudici delle leggi hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 177, comma 1, ultimo periodo, del Codice penale, nella parte in cui non prevedeva che il condannato all'ergastolo, al quale fosse stata revocata la liberazione condizionale, potesse fruire nuovamente del beneficio, ricorrendone i relativi presupposti (96). Nell'occasione, la Corte ha evidenziato come il divieto contemplato dal citato art. 177 del Codice penale, se applicato ai condannati all'ergastolo, costituisca una causa di esclusione permanente ed assoluta di tali soggetti dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, non conforme al dettato costituzionale. A tale situazione è stato equiparato, dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, il divieto di concessione della liberazione condizionale al detenuto ergastolano che collabora con la giustizia.

La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze traeva origine dalla constatazione che la preclusione contenuta nell'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario, negando al condannato all'ergastolo che non collabora con la giustizia l'accesso alla liberazione condizionale, rendeva in concreto perpetua la sanzione penale, con conseguente violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, perché al soggetto non rimaneva alcuna prospettiva di decarcerizzazione e di effettivo reinserimento sociale (97). Il caso prospettato dal giudice a quo riguardava, infatti, un detenuto che era stato condannato alla pena dell'ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione e, prima che entrasse in vigore la legge n. 203 del 1991, aveva usufruito di permessi premio. In seguito non erano stati più concessi questi vantaggi premiali, per le diverse condizioni richieste dalla nuova disciplina legislativa (98) ed anche perché nel 1993 il detenuto si era reso responsabile di un'estorsione. Per tale episodio veniva applicata un'ulteriore sanzione di anni due e mesi sei di reclusione. Dopo aver scontato complessivamente ventisei anni di carcere veniva presentata la domanda per ottenere la liberazione condizionale. In tale occasione l'amministrazione penitenziaria accertava che non erano mai stati chiariti gli episodi criminosi collegati alla violazione dell'art. 630 del Codice penale e, pertanto, non poteva essere considerato sufficientemente definito il cammino di rieducazione e di reinserimento nella società (99). L'organo remittente rilevava che l'articolo 4-bis, comma primo, dell'Ordinamento penitenziario ostacolava l'ammissione alla liberazione condizionale per i soggetti che non collaboravano, a norma dell'art. 58-ter dell'Ordinamento penitenziario e, di conseguenza, veniva resa perpetua la sanzione penale.

L'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario ha da sempre posto il problema del bilanciamento, all'interno della "concezione polifunzionale" della pena recepita dal nostro ordinamento giuridico, delle istanze di difesa sociale con quelle della rieducazione del reo. Introdotto dall'art. 1 del Decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, per contrastare la criminalità organizzata, l'art. 4-bis - così come modificato nel tempo (100) ed in ultimo dalla Legge 23 dicembre 2002, n. 279, stabilisce che i condannati per delitti legati alla criminalità organizzata o al terrorismo, per reati associativi finalizzati al traffico di stupefacenti o al contrabbando di tabacchi esteri, per sequestro di persona a scopo di estorsione o per riduzione in schiavitù, tratta e commercio di esseri umani, possono accedere ai benefici penitenziari o alle misure alternative alla detenzione solo a condizione che collaborino con la giustizia. In relazione a questi delitti, la collaborazione con la giustizia - consistente, ai sensi dell'art. 58-ter dell'Ordinamento penitenziario, nell'evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nell'aiutare concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati - assume, quindi, la connotazione di presupposto di ammissibilità ai benefici penitenziari, in quanto si risolve in una condotta qualificata idonea a rimuovere la preclusione contemplata nella prima parte del comma 1 dell'art. 4-bis (101). Nella nuova formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 279 del 2002, che ha recepito il contenuto delle sentenze della Consulta 27 luglio 1994, n. 357, e 1º marzo 1995, n. 68, l'art. 4-bis consente l'applicazione dei benefici penitenziari nei confronti dei condannati per i delitti ostativi sopra citati, quando la limitata partecipazione al fatto criminoso ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità rende comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia.

Il giudice delle leggi ha ritenuto non sussistere violazione del principio di irretroattività della legge penale contenuta nell'articolo 25, comma secondo, della Costituzione, perché la liberazione condizionale non è una norma incriminatrice e coincide sempre con il ravvedimento sociale: secondo la Corte vengono solamente cambiati i parametri di valutazione. La collaborazione con la giustizia è elevata ad elemento indispensabile per valutare la carenza della pericolosità sociale e per verificare i risultati del percorso riabilitativo del detenuto: è ribadito il concetto già affermato in occasione della sentenza n. 273 del 2001 - richiamata dal provvedimento - secondo il quale l'atteggiamento non collaborativo, posto in essere dal condannato in ragione di una libera scelta, "è valutato come indice legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e quindi, della mancanza del sicuro ravvedimento del condannato". Il carattere essenziale nella libertà di scelta nel collaborare o meno con la giustizia era stato, inoltre, già evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza 23 marzo 1999, n. 89, anch'essa richiamata nella pronuncia, dove si afferma che il legame tra collaborazione e astratta possibilità di fruire delle misure alternative alla detenzione e, in generale, dei benefici penitenziari, ha senso solo se si versi in ipotesi di collaborazione oggettivamente esigibile: il comportamento richiesto dalla norma quale condizione per l'applicazione delle misure alternative deve essere frutto di una libera scelta dell'interessato e, quindi, essere in sé "possibile".

E' stato poi ribadito dalla Corte costituzionale che le preclusioni per ottenere il beneficio della liberazione condizionale, così come per tutte le altre misure alternative alla detenzione, non sono una conseguenza diretta che deriva da una disposizione legislativa, com'è avvenuto con la dichiarazione d'illegittimità dell'art. 177, comma primo, del Codice penale, ma rappresentano una libera scelta del condannato di non voler cooperare con la giustizia, ogni volta che ne ha la possibilità. Pertanto, è una posizione giuridica, quella dell'ergastolano, che non esclude in modo assoluto l'ammissione alla liberazione condizionale, dato che all'individuo viene comunque fornito lo strumento per uscire da questa situazione.

La Corte costituzionale, quindi, ha ritenuto non contrastante con la Costituzione l'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario nella parte in cui rende necessario il requisito della collaborazione con la giustizia ai fini della concessione della liberazione condizionale al condannato all'ergastolo. L'elencazione dei delitti contenuti nell'articolo 4-bis dell'Ordinamento penitenziario costituisce, infatti, una previsione basata sulla presunzione che un soggetto condannato per specifici reati deve essere sempre giudicato socialmente pericoloso. Non può, quindi, il detenuto essere considerato meritevole di accedere ai benefici penitenziari se non collabora a norma dell'art. 58-ter dell'Ordinamento penitenziario.

La sentenza n. 135 del 2003 si pone in una linea di continuità con i precedenti orientamenti della Consulta in materia di liberazione condizionale, all'interno dei quali assume rilevanza, ai fini del reinserimento sociale del reo, la collaborazione oggettivamente esigibile con la giustizia, come strumento idoneo a rimuovere la preclusione operante ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1, prima parte. In questa sentenza si allude anche al concetto di "esigibilità oggettiva" che sta a significare che fino a quando il carattere perpetuo dell'ergastolo sarà conseguenza di un comportamento del condannato che pur trovandosi nelle condizioni per poter dare un apporto significativo all'accertamento di fatti e delle responsabilità penali, decida di non collaborare con la giustizia, non potrà ritenersi in alcun modo violato il principio del finalismo rieducativo della pena, poiché resta la possibilità di una successiva modifica della condotta del reo, idonea a superare il divieto sancito dall'art. 4 -bis.

3.3.1. Commento

La Corte costituzionale ha sempre espresso, con numerose sentenze, il convincimento che per disporre la liberazione condizionale e le misure alternative alla detenzione, si debba sempre collaborare con la giustizia. Non si può, però, non sottolineare che, per le persone condannate all'ergastolo, si può configurare un'esclusione permanente ed assoluta dal procedimento di rieducazione, con conseguente violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione (102). Impedendo l'ammissione al beneficio si finisce, infatti, per rendere perpetua la detenzione, poiché si svuotano i vantaggi premiali collegati al meccanismo dell'art. 176 del Codice penale che è l'unico istituto che non rende la pena dell'ergastolo in contrasto con il principio di reinserimento sociale che deve avere la sanzione punitiva (103).

L'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario ha subordinato la concessione dei benefici al requisito, di carattere processuale (104), della cooperazione con la giustizia. Una persona che non ha aiutato gli organi inquirenti a cercare la verità, durante il processo può, in sede di esecuzione della pena, subire un'ulteriore sanzione, poiché non gli è concesso di usufruire della liberazione condizionale, per i medesimi episodi per i quali è stato condannato. Si è giunti, quindi, ad un'esclusione generalizzata dei benefici penitenziari, per determinate tipologie di delitti, senza che possa avere alcuna influenza il comportamento del detenuto nel corso dell'esecuzione della sanzione penale. Il condannato all'ergastolo, però, è escluso anche da un reinserimento nella società: per questo motivo si dovrebbe, perlomeno, consentire all'individuo, condannato all'ergastolo, di poter utilizzare la liberazione condizionale ordinaria (105).

Un ulteriore motivo di critica della pronuncia è legato al fatto che non è stata tenuta nella giusta considerazione dalla Corte costituzionale il fatto che il reo deve sempre sapere quali sono le conseguenze penali cui andrà incontro quando decide di delinquere, come il quantum di pena stabilito per la violazione della norma incriminatrice (106). I benefici penitenziari, anche se si pongono come antagonisti alla sanzione penale, perché hanno un carattere premiale, incidono sul trattamento sanzionatorio nella fase esecutiva: un loro irrigidimento, pertanto, comporta un automatico inasprimento del regime carcerario che non può lasciare indifferente l'individuo.

La sentenza n. 135 del 2003 conferma, inoltre, la nuova funzione della liberazione condizionale, che, da istituto di natura clemenziale, utile al mantenimento della disciplina all'interno degli istituti carcerari, è diventata strumento del trattamento del condannato, con una sostanziale assimilazione alle misure alternative e agli altri benefici previsti dall'Ordinamento penitenziario (107). Più precisamente la liberazione condizionale si inserisce all'interno di un sistema dell'esecuzione penale ispirato al principio della progressione del trattamento rieducativo come misura di decarcerizzazione idonea a consentire il reinserimento sociale di quelle persone condannate a pene detentive di media o lunga durata che abbiano dato prova di ravvedimento (108).

Il presupposto del "sicuro ravvedimento", necessario per la concessione della liberazione condizionale ai sensi dell'art. 176 del Codice penale, comporta oggi un giudizio prognostico favorevole, che, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 273 del 2001, non può prescindere dalla verifica della mancanza dei collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, in assenza della quale non potrebbe ipotizzarsi il venir meno della pericolosità del condannato e un esito positivo del percorso del recupero sociale. Il legislatore del 1992, ha previsto, infatti, che l'uscita dal circuito della criminalità organizzata e, quindi il sicuro ravvedimento del reo rilevante ai fini della concessione della liberazione condizionale è dimostrabile solamente alla presenza della condotta collaborativa contemplata dall'art. 58-ter dell'Ordinamento penitenziario. Ne consegue che la mancata collaborazione è ostativa all'ammissione alla liberazione condizionale, a prescindere dall'evoluzione positiva del condannato nel processo di risocializzazione.

L'attribuzione di una rilevanza preminente alla collaborazione con la giustizia sembra, inoltre, sminuire il valore del "sicuro ravvedimento" del reo previsto dall'art. 176 del Codice penale (109). La locuzione "sicuro ravvedimento" si ricollega, infatti, alla concezione della funzione special-preventiva della pena, che richiede un esame penetrante ed articolato della personalità del condannato, non limitato alla verifica della condotta conforme alle regole penali, penitenziarie e sociali, ma comprensivo dell'analisi dell'intero processo di recupero sociale, con particolare riferimento al percorso di revisione critica delle scelte criminali effettuate nel passato (110). Tale impostazione aderisce però, a quel modello "correzionale" di trattamento penitenziario - incentrato sulla modificazione della personalità del reo a fini risocializzativi e recepito dalla riforma penitenziaria del 1975 - che ormai da tempo vive una crisi profonda, speculare all'espansione anche in Europa degli indirizzi di politica criminale aderenti al "neo-classicismo" (111) e soppiantato dal modello cosiddetto"disciplinare", fondato su un rapporto di tipo sinallagmatico, ossia sullo scambio tra determinati comportamenti e la modifica della pena. L'attuale sistema penitenziario italiano, infatti, tende, più che a promuovere un atteggiamento di modificazione della personalità del condannato, ad indurre quest'ultimo a tenere comportamenti esteriori conformi alle regole giuridiche e sociali, in vista di un determinato risultato rappresentato dalla modifica della pena originariamente inflitta, conseguentemente all'applicazione dei benefici penitenziari e delle misure alternative (112). Risulta, di conseguenza, coerente all'attuale sistema dell'esecuzione penale creare una "cinghia di trasmissione", con riferimento a delitti di particolare allarme sociale, fra la concessione dei benefici penitenziari - e in particolare, della liberazione condizionale - e il requisito della collaborazione (esigibile) con la giustizia.

La mancata collaborazione della persona, per i reati indicati dall'articolo 4-bis dell'Ordinamento penitenziario, dovrebbe, però, assumere un valore determinante solo quando è accompagnata dall'esistenza di elementi che facciano ritenere ancora sussistente i collegamenti con le organizzazioni criminali e non dovrebbe avere alcun'importanza quando non illustra la realtà dei fatti. Il requisito richiesto dall'articolo 58-ter dell'Ordinamento penitenziario è uno strumento di politica criminale e non un indice che individua la tipologia di trattamento da osservare per rieducare un soggetto. Non dovrebbe essere interpretato, ogni volta che non si voglia collaborare con la giustizia, come se sussistessero sempre collegamenti con le associazioni mafiose, come ha statuito la Corte costituzionale (113). E' comunque inaccettabile che una responsabilità penale, sia pure per un evento particolarmente grave, non possa venire meno davanti ad un reinserimento e ad un recupero sociale che si è manifestato in modo certo e sicuro nel corso di oltre ventisei anni di detenzione. E', quindi, un errore collegare la premialità alla cooperazione. La creazione di un sistema alternativo, valido soprattutto per i condannati alla pena dell'ergastolo, che mantenesse l'ordinario procedimento dell'art. 176 del Codice penale per ottenere i benefici penitenziari, servirebbe anche ad evitare che la liberazione condizionale possa diventare una merce di scambio per ricevere informazioni utili sull'accertamento dei reati (114). In questo modo, poi, non si circoscriverebbero nemmeno i poteri e le funzioni della magistratura di sorveglianza perché potrà espletare i controlli sul percorso riabilitativo, senza valutare gli altri aspetti indicati dall'articolo 4-bis dell'Ordinamento penitenziario. La questione di incostituzionalità che era stata sollevata riguardava, infatti, l'inconciliabilità tra liberazione condizionale e la collaborazione che dovrebbe manifestare il detenuto, poiché il giudice a quo considerava oramai concluso il procedimento di reinserimento sociale previsto dalla disciplina tradizionale.

La decisione della Corte costituzionale dimostra che l'ergastolo, giacché pena perpetua, esiste nel nostro ordinamento penale, ma soprattutto certifica l'abbandono della concezione "positiva" della pena e il ritorno ad una visione della pena come strumento di difesa sociale e di eliminazione di determinate categorie di soggetti dalla società: la realtà quindi supera il paradosso, denunciato da Luigi Ferrajoli, di una pena perpetua legittimata in quanto non perpetua. L'esistenza, anche di un solo caso in cui l'ergastolo comporta una sanzione detentiva a vita, dovrebbe smuovere le coscienze civili del Paese affinché sia ripreso il cammino verso l'abolizione di una pena che per sua natura è sempre eliminativa e quindi contraria al finalismo rieducativo della pena. Stupisce che, a quasi tre anni, non si sia levato un movimento di opinione pubblica, supportata dal contributo di intellettuali, esperti della materia e dalle donne e dagli uomini della politica, ai quali spetta la responsabilità delle scelte, finalizzato all'abolizione della pena perpetua e al rilancio dei principi contenuti nell'art. 27, terzo comma, della Costituzione.

3.4. La legge 5 dicembre 2005, n. 251

La novella del 2005 (Modifiche al Codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), approvata dal Parlamento dopo asprissime polemiche, è intervenuta anche sull'esecuzione della pena dell'ergastolo. L'art. 1, comma primo, della legge in esame ha inserito l'art. 30-quater (Concessione dei permessi premio ai recidivi) che prevede che in caso di recidiva ex art. 99, quarto comma, del Codice penale, il condannato alla pena dell'ergastolo possa ottenere il beneficio dopo l'espiazione di non oltre quindici anni di pena (115). Il comma 1 dell'art. 58-quater dell'Ordinamento penitenziario è stato, poi, sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005 e adesso il divieto di concessione di benefici opera nei confronti di tutti i condannati (senza più il richiamo ai condannati per reati ex art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario) qualora siano riconosciuti colpevoli di una condotta punibile a norma dell'art. 385 del Codice penale (116).

La legge n. 251 del 2005 è ispirata a logiche di marcata difesa sociale: si privilegia la prevenzione-generale con la criminalizzazione del recidivo. La XIV Legislatura si è caratterizzata per un abbandono del problema del carcere: questo è rilevato anche dalla contrarietà di alcuni partiti a provvedimenti di clemenza, nonostante gli interventi del Capo dello Stato e del Papa. La stampa, a conoscenza del grave sovraffollamento, ha parlato di "carceri-lager", definizione sicuramente eccessiva, ma è innegabile che le condizioni delle carceri italiane siano inaccettabili e indegne di un paese civile, poiché violano precise norme di legge: il trattamento rieducativo, infatti, diviene impossibile e si sopprimono i diritti fondamentali della persona. Questa situazione, infine, si ripercuote in modo negativo sui condannati all'ergastolo, i quali, invece, necessitano delle migliori condizioni possibili affinché il processo di rieducazione, attuato all'interno dell'istituto di pena consenta loro il reinserimento nella società, che, è bene ricordare, è il motivo per cui la pena dell'ergastolo è stata considerata costituzionalmente legittima.

Tavola XII - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 2001-2005, situazione a fine anno) (117)
Anni Numero complessivo Donne
2001 868 34
2002 990 35
2003 1068 33
2004 1161 31
2005 1224 27

Note

1. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», in Grevi V. (a cura di), L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994, p. 73, dove si rinviene un'ampia analisi delle circostanze che hanno condotto alla decretazione poi convertita. Si veda anche Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, in "Dei delitti e delle pene", 1992, III, p. 123. Per una critica degli interventi legislativi: Mosconi G., La controriforma carceraria, in "Dei delitti e delle pene", 1991, II, p. 143.

2. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 74. Mosconi G., La controriforma carceraria, cit., pp. 150 e ss., ritiene che vi siano almeno due elementi di continuità tra la legislazione del 1991-1992 e la legge Gozzini: la logica premiale e disciplinare dei benefici che viene enfatizzata per i cosiddetti "collaboratori di giustizia" e la diffidenza verso la capacità rieducativa del carcere.

3. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 75.

4. Il 19 luglio 1992, mentre la Seconda Commissione (Giustizia) del Senato aveva da poco iniziato l'esame del decreto legge n. 306 del 1992, è stato consumato a Palermo, l'attentato a Paolo Borsellino. Tra le immediate ripercussioni del delitto va ricordato il proposito del Governo di pervenire ad una veloce conversione del decreto legge, il quale, infatti, è stato definitivamente ratificato dal Senato il 6 agosto 1992.

5. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 76.

6. Fassone-Basile-Tuccillo, La riforma penitenziaria, Napoli, 1987, pp. 82 e ss.

7. Daga, Prime osservazioni sull'applicazione della legge n. 663/1986, in "Questione giustizia", 1987, p. 638.

8. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 77.

9. Amato N., La riforma penitenziaria in Italia, in "Legislazione e giustizia", 1988, p. 7.

10. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 80.

11. Si pensi all'art 442, comma secondo, del Codice di procedura penale (modificato più volte), che prevede la sostituzione della reclusione di anni trenta alla pena dell'ergastolo ovvero dell'ergastolo alla pena dell'ergastolo con l'isolamento diurno nel caso di condanna a seguito di giudizio abbreviato.

12. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 82.

13. Per un'analisi di questi episodi si veda Relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 1990 svolta dal procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, in "Documenti giustizia", 1-2, 1991, p. 172.

14. Per l'opinione che si sia avuto, invece, continuità con la legge Gozzini si veda Mosconi G., La controriforma carceraria, cit.

15. Ferrajoli L., Diritto e ragione, Bari, 1989, p. 140.

16. Luigi Ferrajoli, Quattro proposte di riforma delle pene, in Borrè G e Palombarini G., a cura di, Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, FrancoAngeli, Milano 1998.

17. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 86.

18. Ibid.

19. Il 1-bis dell'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario è stato soppresso dall'art 1, terzo comma del Decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991. Relativamente alla nuova formulazione dell'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario si veda Di Gennaro-Bonomo-Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, IV edizione, Milano, 1991, p. 629.

20. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 87.

21. Nell'ordinamento penitenziario francese, nel quale si verificano gli stessi problemi, si preferisce optare per la soluzione del période de sureté, vigente a partire dal 1978, per il quale si configura, in via legislativa, una rilevante frazione di pena inflitta, come intangibile, cioè sottratta a qualsiasi attenuazione apportabile nel corso della fase esecutiva. Per maggiori dettagli si veda Della Casa F., Esecuzione e giurisdizione nelle esperienze franco-italiane, Milano, 1988, p. 177.

22. Per il testo integrale e per un commento si veda "Documenti giustizia", n. 4, 1990, pp. 245 e ss. e Galasso, Nuove misure contro i sequestri di persona, Ivi, pp. 99 e ss.

23. Si deve ricordare che tre precedenti e simili decreti legge (il n. 324 del 13 novembre 1990, il n. 5 del 12 gennaio 1991, il n. 76 del 13 marzo 1991), non erano giunti alla conversione in legge.

24. Per approfondimenti sul nuovo orientamento legislativo si veda Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, in "Dei delitti e delle pene", III, 1992, p. 123.

25. Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, cit., p. 130.

26. Ibid.

27. Ivi, p. 131.

28. Ibid.

29. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 92.

30. Relativamente a questa distinzione, si veda Relazione al disegno di legge presentato al Senato il 13 maggio 1991, in Senato della Repubblica X Legislatura. Disegni di legge e relazioni, stampato n. 2808, p. 3.

31. Si è così parlato di sistema di cosiddetto "doppio binario", alludendosi al risultato dell'operazione legislativa compiuta, che è stato quello di dar vita ad uno ius singulare per alcuni condannati discriminati per via della tipologia del reato commesso. Si veda: Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit.; Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, cit.; Mosconi G., La controriforma carceraria, cit.

32. In dottrina si veda: Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, V edizione, Giuffrè editore, Milano 1999; Esposito, Le nuove norme in materia penitenziaria, in "Archivio penale", 1992, p. 490; Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, cit., p. 133, Mosconi G., La controriforma carceraria, cit., p. 145, secondo il quale il vero obiettivo del legislatore è stato quello di escludere una determinata fascia di condannati dall'accesso alle varie forme di trattamento extracarcerario.

33. Circa i profili di illegittimità costituzionale, si veda: con riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, Tribunale di sorveglianza di Perugia, 13 febbraio 1992, Colavito, in Gazzetta ufficiale, 8 luglio 1992, Prima serie speciale, n. 29, p. 60; con riferimento agli artt. 24, comma secondo, e 27, comma terzo, della Costituzione, Tribunale di sorveglianza di Campobasso, 1º aprile 1992, Caglione, in Gazzetta ufficiale, 10 giugno 1992, Prima serie speciale, n. 25, p. 41.

34. Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, cit., p. 133, Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè editore, Milano 2004, p. 488.

35. Con riferimento a situazioni del tipo di quella descritta, una parte della dottrina è ricorsa alla nozione di "iperretroattività". Si veda: Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, IX edizione, Padova, 1975, p. 366; Paladin, Appunti sul principio di irretroattività delle leggi, in "Foro amministrativo", 1959, I, p. 950.

36. Corte costituzionale, sentenza 8 luglio 1993 n. 306, in Gazzetta ufficiale 14 luglio 1993, 1ª serie speciale, n. 29, p. 11.

37. La Corte costituzionale ha, invece, escluso che la norma in esame comporti un'eccessiva discrezionalità degli organi di polizia e violi, di conseguenza, le prerogative della magistratura di sorveglianza. Quanto poi alle numerose censure incentrate sull'art. 25, comma secondo, della Costituzione, la Corte si è astenuta dall'entrare nel merito della questione, rilevando che le ordinanze di rimessione non contenevano "i riferimenti idonei a precisare quale fosse la legge applicabile in ciascuno dei predetti momenti".

38. In base all'art. 20 della legge 1º aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza), il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica è istituito presso la prefettura ed è composto dal prefetto, che lo presiede, dal questore e dai comandanti provinciali dell'Arma dei Carabinieri e del corpo della Guardia di finanza. Per maggiori dettagli si veda: Fiorio, Una nuova ingerenza dell'esecutivo nell'esecuzione penale: il caso dei comitati provinciali per l'ordine e la sicurezza pubblica, in "Il giusto processo", 1992, p. 171 e ss.

39. La legge 13 agosto 1993, n. 296 (Nuove misure in tema di trattamento penitenziario, nonché sull'espulsione dei cittadini stranieri) ha convertito il decreto legge 14 giugno 1993, n. 187, che perseguiva l'obiettivo primario di attenuare la pressione della popolazione detenuta sulle strutture carcerarie. E' da ricordare che furono moltissime le modifiche apportate in sede di conversione, per approfondimenti si veda: Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 140 e ss.

40. In particolare Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 134; Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 498; Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, cit., p. 140.

41. Per approfondimenti si veda Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 483 e ss.

42. Si noti che, a differenza di quanto si verifica in tema di permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale, il termine suddetto non è riducibile in seguito all'avvenuta concessione della liberazione anticipata, risultando escluso il lavoro all'esterno dall'ambito di operatività dell'art. 54, comma quarto, dell'ordinamento penitenziario. Si può notare l'irridigimento della disciplina della pena dell'ergastolo da questa disposizione considerando che il lavoro all'esterno costituisce, oltre che strumento rieducativo, anche strumento idoneo ad evitare che si verifichi nel condannato quella forma di "desocializzazione" legata a lunghi periodi di detenzione, che può anche comprendere, come non è infrequente nel caso del condannato all'ergastolo anche un periodo di isolamento diurno. Per approfondimenti si veda: Cattedra A., Venga E., Cattedra M., Notarella sull'ergastolo, in "Rivista penale", 1981; Resta, Questioni di consenso, in "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, dove sono contenute numerose osservazioni sul tempo nell'ergastolo.

43. Relativamente ai condannati ex art. 4-bis, comma primo, dell'ordinamento penitenziario, le innovazioni sono: circa i permessi premio, la frazione di pena da espiare viene aumentata, da un quarto alla metà, fermo restando che è comunque sufficiente l'espiazione di dieci anni di pena (art. 30-ter, comma quarto, lettera c, dell'ordinamento penitenziario); con riferimento alla semilibertà, il quantum di pena viene portato, dalla metà, a due terzi, senza che sia contemplata alcuna deroga per le pene non superiori a tre anni (art. 50, comma secondo, dell'ordinamento penitenziario). In tema di liberazione condizionale, si stabilisce che, fatta eccezione per la liberazione condizionale "speciale" regolata dall'art. 8 della legge 29 maggio 1982, n. 304 e salvi "gli ulteriori requisiti e gli altri limiti di pena" di cui all'art. 176 del Codice penale, il condannato deve aver scontato almeno due terzi della pena inflitta. Per approfondimenti si veda: Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 496 e ss.; Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 107.

44. Decreto legge 12 maggio 1991, n. 152.

45. L'art. 58-ter, comma primo, dell'ordinamento penitenziario prevede l'ipotesi di "coloro che si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori" e in alternativa, quella di chi ha aiutato "concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati".

46. L'art. 58-ter fa riferimento al tribunale di sorveglianza: contra Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 485, i quali ritengono che l'art. 58-ter, comma secondo, dell'ordinamento penitenziario, debba essere letto come se il legislatore si fosse genericamente riferito alla magistratura di sorveglianza.

47. Per i problemi di carattere interpretativo suscitati dall'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario, si veda: Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 109; Sammarco A. A., La collaborazione con la giustizia nella legge penitenziaria, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 3/1994, pp. 871 e ss.

48. Corte costituzionale, sentenza 14 dicembre 1995, n. 504, in "Foro italiano", 1996, I, p. 396.

49. Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Ordinanza n. 4467/2005 del 13 ottobre 2005, inedita.

50. Ibid.

51. Il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha confermato il provvedimento di rigetto del permesso premio richiesto dal condannato alla pena dell'ergastolo, giustificando nel merito la propria decisione poiché il "Direttore dell'istituto ha espresso parere negativo sull'istanza di permesso premio in oggetto, osservando testualmente che 'il programma di trattamento non prevede ancora aperture all'esterno'".

52. Cassazione penale, sezione I, 12 maggio 1999, n. 2529 (c.c. 26 marzo 1999), Parisi, in "Rivista penale", 1999, p. 669.

53. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 111.

54. Della Casa ha parlato anche di articolo a "formazione progressiva", Ibid.

55. Si ritiene che rientrino nella previsione legislativa tutte quelle condotte (artt. 30, comma terzo; 30-ter, comma sesto; 47-ter comma ottavo, 51, comma terzo dell'ordinamento penitenziario e art. 385, comma terzo, del Codice penale) che consentono al condannato di sottrarsi all'esecuzione della pena, a prescindere dalla loro riconducibilità alla figura dell'evasione 'propria' regolata dall'art. 385 comma primo del Codice penale (in questo senso, Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 111). Occorre sottolineare che l'inasprimento del presupposto per il beneficio in relazione all'attuazione di una condotta riferibile al reato di evasione opera indipendentemente dall'intervento di definitiva pronunzia per il delitto stesso; si veda: Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 498.

56. La giurisprudenza ha inteso tale limitazione estesa ai condannati per ogni sorta di delitto e non solo per quelli di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario. Cassazione penale, sezioni I, 30 settembre 1996, Diofebo, in Ced Cassazione, rv 205704.

57. Il divieto di concessione triennale opera dal momento in cui è ripresa l'esecuzione della pena o dal giorno del provvedimento di revoca della misura alternativa (art. 58-quater, comma terzo, dell'ordinamento penitenziario). Per approfondimenti si veda: Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 498.

58. Art. 4, comma primo del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203.

59. E' da ritenere che l'ambito di operatività dell'art. 58-quater dell'ordinamento penitenziario debba essere circoscritto alle ipotesi criminose di cui all'art. 289-bis, comma terzo, e 630, comma terzo (che comminano la pena dell'ergastolo), del Codice penale, con esclusione di quelle in cui la morte del sequestrato si configuri "quale conseguenza non voluta dal reo". Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 114.

60. Ibid.

61. Ibid.

62. Grevi, Sulla configurabilità di una liberazione condizionale «anticipata» per i condannati all'ergastolo, in "Foro italiano", 1984, I, c. 18.

63. Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 499.

64. Ibid.

65. Quello consumato a Capaci il 23 maggio 1992, nel quale persero la vita il direttore dell'ufficio "Affari penali" del Ministero della giustizia, Giovanni Falcone, la moglie e i tre agenti della scorta.

66. Della Casa F., Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., p. 116; Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, cit., p. 130.

67. L'art. 1 della legge 16 febbraio 1995, n. 36, prorogava il termine di applicazione dell'art. 41 bis O. P. fino al 31 dicembre 1999, in seguito la legge 26 novembre 1999, n. 446, prorogava al 31 dicembre 2000, infine il decreto legge 341/2000, convertito nella legge 19 gennaio 2001, n. 4, prorogava al 31 dicembre 2002.

68. Si deve ricordare che il comma 2-bis dell'art. 41-bis era stato introdotto dall'art. 4 della legge 7 gennaio 1998, n. 11. Si veda anche l'art. 4, secondo comma, della legge n. 279 del 2002 che prevede: "I provvedimenti, emessi dal Ministro della giustizia ai sensi dell'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge, conservano efficacia fino alla scadenza in essi prevista anche se successiva alla predetta data".

69. Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 202.

70. Corte costituzionale, 23 novembre 1993, n. 410, in "Cassazione penale", 1994, p. 2867.

71. Guazzaloca B., Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, cit. 125.

72. Ivi, p. 126.

73. Ivi, p. 136.

74. Ivi, p. 145.

75. Ibid.

76. Corte costituzionale, sentenza 24 giugno 1974, n. 264, cit.

77. Gozzini M., Questione ergastolo, una deviazione ideologica, in "Il ponte", 1998, 2, p. 6.

78. Ivi, p. 7.

79. Luigi Ferrajoli nel corso del Convegno dal titolo Fine pena: mai! (atti pubblicati in "Dei delitti e delle pene", 1992, 2, da pag. 61 a 87) promosso dall'Associazione Antigone e patrocinato dalla Presidenza della Camera dei deputati, che si tenne a Roma il 20 febbraio 1992, propose la costituzione di un Comitato per l'abolizione dell'ergastolo, a cui avrebbero dovuto partecipare i 290 parlamentari che avevano votato l'ordine del giorno, più i penalisti e gli intellettuali favorevoli all'abolizione.

80. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

81. Per un esame completo del Progetto Pagliaro si veda: Palazzo F., Papa M., Lezioni di diritto penale comparato, Giappichelli, Torino 2000, pp. 201 e ss.

82. Disegno di legge n. 2038 presentato alla Commissione giustizia del Senato, nella XII legislatura.

83. Riz R., Lineamenti di diritto penale: parte generale, Cedam, Padova 2002, p. 407.

84. Il testo può essere letto in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1995, p. 927.

85. Senato della Repubblica. XII legislatura. Assemblea, 17 gennaio 1996, verbale aula.

86. Si veda: Palazzo F., Papa M., Lezioni di diritto penale comparato, cit., pp. 215 e ss.

87. "Alcune indicazioni della Commissione Grosso apparivano particolarmente apprezzabili. In primo luogo il sistema delle pene, con il superamento della centralità della pena carceraria e la valorizzazione delle sanzioni alternative (in quanto più efficaci) e con la riduzione dei livelli edittali delle pene, oltre all'abolizione dell'ergastolo". Corleone F., Quale riforma della giustizia.

88. Breda R., La proposta di abolire l'ergastolo, in "Diritto penale e processo", 1998, n. 12, p. 1552.

89. Ibid.

90. Breda R., La proposta di abolire l'ergastolo, cit. p. 1554, per il quale il mantenimento della pena dell'ergastolo, così com'è strutturata oggi, corrisponde anche alla difesa della riforma penitenziaria e al ruolo decisivo svolto da operatori penitenziari e magistrati di sorveglianza. La necessità di un ridimensionamento della discrezionalità della magistratura di sorveglianza è sostenuta da molti autori: si vedano i saggi di Luigi Ferrajoli e Guido Neppi Modona in Borrè G e Palombarini G. (a cura di), Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, FrancoAngeli, Milano 1998; Diritto e ragione, Bari, 1989.

91. Li Vecchi R., Abolizione dell'ergastolo e criminalizzazione delle persone giuridiche: i due passi falsi che il legislatore non deve fare, in "Rivista penale", 2001, p. 223 e ss.

92. Ivi, p. 225.

93. In tal senso Corte Costituzionale, 24 giugno 1974, n. 264, cit.

94. Corte costituzionale, 21 settembre 1983, n. 274, cit., che ha esteso al condannato all'ergastolo la possibilità di beneficiare della liberazione anticipata di cui all'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario.

95. Sentenza pubblicata in "Diritto penale processo", 2001, p. 1229.

96. Si riporta il teso dell'art. 177, comma primo, del Codice penale: Nei confronti del condannato ammesso alla liberazione condizionale resta sospesa l'esecuzione della misura di sicurezza detentiva cui il condannato stesso sia stato sottoposto con la sentenza di condanna o con un provvedimento successivo. La liberazione condizionale è revocata, se la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole, ovvero trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata, disposta a termini dell'art. 230 n. 2. In tal caso, il tempo trascorso in libertà condizionale non è computato nella durata della pena e il condannato non può essere riammesso alla liberazione condizionale". Quest'ultima parte della norma è stata, però, dichiarata costituzionalmente illegittima - Corte costituzionale 25 maggio 1989, n. 282 - nella parte in cui non consente al Tribunale d sorveglianza, in caso di revoca del beneficio, di determinare la pena detentiva ancora da espiare, tendendo conto del tempo trascorso in libertà condizionale nonché delle restrizioni di libertà subite dal condannato e del suo comportamento tenuto durante tale periodo.

97. Tribunale di sorveglianza di Firenze, 6 marzo 2002, n. 502, in "Gazzetta ufficiale", 27 novembre 2002, n. 47.

98. Prima dell'entrata in vigore del Decreto legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, non aveva, infatti, raggiunto quel grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto che la Corte costituzionale ha ritenuto essenziale per escludere l'applicazione dell'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario. Corte costituzionale, 30 dicembre 1997, n. 445, in "Foro italiano", 1998, I, p. 207.

99. Veniva rilevato che il condannato poteva "dire assai di più di quanto non ha detto". Ivi.

100. Decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; Decreto legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4; Legge 19 marzo 2001, n. 92.

101. Corte costituzionale 23 marzo 1999, n. 89, in "Diritto penale e processo", 1999, p. 556.

102. Cremonesi L., La Consulta "stoppa" la rieducazione, in "Diritto e giustizia", 2003, n. 19, p. 14.

103. Corte costituzionale, sentenza 24 giugno 1974, n. 264, cit.

104. Sammarco A. A., La collaborazione con la giustizia nella legge penitenziaria, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 3/1994, pp. 871 e ss.

105. Cremonesi L., La Consulta "stoppa" la rieducazione, cit., p. 15.

106. Cremonesi L., La Consulta "stoppa" la rieducazione, cit., p. 15.

107. Relativamente al mutamento della fisionomia della liberazione condizionale si veda Sartarelli S., La Corte costituzionale tra valorizzazione della finalità rieducativa della pena nella disciplina della liberazione condizionale e mantenimento dell'ergastolo: una contradictio in terminis ancora irrisolta. (In particolare riflessioni sulla sentenza n. 161/1997), in "Cassazione penale", 2001, II, p. 1356.

108. Pighi, Trattamento progressivo in semilibertà e pena dell'ergastolo, in "Rassegna di studi penitenziari e criminologici", 1982, p. 697 ss.

109. Morrone A., Liberazione condizionale e limiti posti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, in "Diritto penale e processo", 2003, 11, p. 1353.

110. Si veda Mantovani F., Diritto penale (parte generale), III ed., Cedam 1992, Padova; dello stesso autore.

111. Si tratta del movimento criminologico, sviluppatosi dapprima nei paesi di common law ed in quelli scandinavi, che, partendo dagli scarsi risultati ottenuti dalla politica penale incentrata sul trattamento risocializzativo, nonché dall'esigenza di ridurre la spesa pubblica nei settori assistenziali, ritorna ad una concezione della pena di tipo retributivo, cui consegue una riduzione delle misure alternative alla detenzione, l'introduzione di sanzioni rigidamente prefissate e l'inasprimento delle sanzioni nei confronti dei delinquenti più pericolosi e recidivi. Sull'argomento si veda Wacquant, L., Parola d'ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano 2000; dello stesso autore si veda anche: Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politiche penali, Ombre corte, Verona 2002. Si veda anche: Fiandaca G., Commento all'art 27, 3º comma della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di Giuseppe Branca, Zanichelli, Bologna 1991, p. 258 e ss.

112. Morrone A., Liberazione condizionale e limiti posti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, cit., p. 1356.

113. Corte costituzionale sentenza n. 306 del 1993. Si veda per approfondimenti Cremonesi L., La Consulta "stoppa" la rieducazione, cit., p. 15.

114. La circostanza che lo stretto legame, sancito dall'art. 4-bis dell'Ordinamento penitenziario, tra collaborazione con la giustizia ed accesso alle misure premiali costringa il condannato a porre in essere comportamenti di delazione, a fronte della minaccia di un trattamento punitivo deteriore e differenziato rispetto a quello riservato ai detenuti "comuni", è stata esclusa dalla Corte costituzionale, la quale con sentenza 17 febbraio 1994, n. 39, ha precisato che la collaborazione richiesta dalla norma citata non può qualificarsi come "costrizione", in quanto il condannato è libero di scegliere se collaborare o meno con l'autorità giudiziaria e comunque "la condizione di condannato per delitti di criminalità organizzata non è certo comparabile con quella del comune cittadino".

115. Si deve ritenere che in virtù di un'interpretazione estensiva della sentenza della Corte costituzionale n. 306 del 1993, questa disciplina restrittiva non si papplica al condannto che già fruisce dei permessi premio. Si veda: Corte costituzionale, sentenza 8 luglio 1993 n. 306, in Gazzetta ufficiale 14 luglio 1993, 1ª serie speciale, n. 29, p. 11.

116. La legge n. 251 del 2005 pone anche seri problemi interpretativi riguardanti la retroattività (o irretroattività) delle norme penitenziarie più sfavorevoli disciplinate dalla legge in esame. Sono state sollevate due questioni interpretative dal dottor Massimo Niro, giudice del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. In primo luogo ci si è chiesto se il principio di irretroattività della legge penale (di cui all'art. 25, comma secondo, della Costituzione) sia circoscritto alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché la specie e la durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito anche alle norme che disciplinano le modalità di espiazione della pena detentiva. Tale questione, così precisamente formulata nella sentenza della Corte costituzionale 5-20 luglio 2001, n. 273, secondo la prospettazione che era stata data dal giudice a quo (Tribunale di Sorveglianza di Sassari), non è stata poi decisa dalla stessa sentenza ed è quindi rimasta "impregiudicata", poiché la Corte non si è pronunciata, almeno espressamente, sulla sfera di applicazione del principio di irretroattività appena menzionata (si veda, sul punto, le persuasive considerazioni contenute nell'ordinanza 29 dicembre 2005 del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale del comma 7-bis dell'art. 58-quater, comma aggiunto dall'art. 7 della 251/2005). La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha sempre escluso dall'ambito di applicazione del principio costituzionale richiamato le nome inerenti alle modalità di esecuzione della pena e all'applicazione dei benefici penitenziari, ma questo orientamento non pare convincente, essendo invero fondato su "affermazioni apodittiche e tralatizie della Corte di cassazione che riflettono una vecchia e superata concezione dell'esecuzione penale" (così Nicola Mazzamuto, nel contributo inviato alla mailing-list dei magistrati di sorveglianza, il 9 gennaio 2006), e potendosi desumere la natura sostanziale delle norme attinenti all'esecuzione della pena dal complesso degli interventi della Corte costituzionale in materia di ordinamento penitenziario. Anche la dottrina ha ravvisato nel restrittivo orientamento della giurisprudenza di legittimità "una considerazione indubbiamente formalistica del concetto di legge penale che, peraltro, ben potrebbe essere superata sulla scorta di un'auspicabile riflessione critica sui precedenti richiamati, riflessione a sua volta favorita, per certi versi, dalla stessa struttura del comma 2 dell'art. 10, dove l'operatività dell'art. 2 del Codice penale pare essere riferita senza distinzione alcuna alle norme della ex Cirielli, ragionevolmente sul presupposto della loro appartenenza alla legge penale" (così Enrico Marzaduri, nel commento alla disciplina transitoria della legge 251/2005 pubblicato in "Guida al diritto", dossier gennaio 2006, pag. 88-89).

Ci si è poi chiesti se la disciplina transitoria di cui all'art. 10, comma 2, della legge 251/2005, porti argomenti alla tesi della retroattività delle norme penitenziarie più sfavorevoli ovvero alla tesi opposta dell'irretroattività. A questo riguardo, il dato testuale della norma ("Ferme restando le disposizioni dell'articolo 2 del Codice penale quanto alle altre norme della presente legge...") "sarebbe mal fatto ove si intenda riferirlo alle modifiche inerenti i benefici penitenziari; si sa che, incidendo su modalità di esecuzione carceraria e agendo nella fase post iudicatum, l'orientamento prevalente esclude che le statuizioni sopravvenute ricadano nell'orbita dell'articolo 25, comma secondo, della Costituzione o dell'articolo 2, comma terzo, del Codice penale" (così Adolfo Scalfati nel commento in "Guida al diritto", cit., pag. 42). Il dottor Massino Niro, tuttavia, ritiene che il rinvio all'art. 2 del Codice penale possa essere interpretato in senso non letterale, leggendolo in riferimento al principio costituzionale dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, "dato che diversamente opinando si avrebbe la vanificazione dello stesso rinvio, giacché le norme penitenziarie esplicano i loro effetti post iudicatum" (come ben rileva Nicola Mazzamuto, contributo cit.). Dunque, secondo il magistrato, "malgrado l'evidente 'oscurità' della disposizione in esame, dalla stessa potrebbe anche argomentarsi il principio di non retroattività delle norme penitenziarie più sfavorevoli, da applicarsi quindi ai soli reati successivi all'entrata in vigore della legge, sempre che si risolva la prima questione sopra accennata nel senso della natura penale sostanziale delle norme in questione; tale conclusione, non agevole e non univoca in sede interpretativa, avrebbe però il vantaggio di essere conforme alla giurisprudenza costituzionale già richiamata e di evitare iniquità in sede applicativa, abbastanza inevitabili aderendo alla tesi opposta".

117. I dati sono reperibili sul sito del Ministero della giustizia.