ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
L'ergastolo e l'ordinamento penitenziario

Roberto Perotti, 2006

Ho sempre paura di essere soverchiato dalla routine carceraria. E' questa una macchina mostruosa che schiaccia e livella secondo una certa serie. Quando vedo agire e sento parlare uomini che sono da cinque, otto, dieci anni in carcere, e osservo le deformazioni psichiche che essi hanno subito, davvero rabbrividisco, e sono dubbioso nella previsione di me stesso. Penso che anche gli altri hanno pensato (non tutti ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e molecolare, si trovano cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati. (A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino 1965, p. 236, lettera 19 novembre 1928 a Giulia)

2.1. La legge 26 luglio 1975, n. 354

La legge del 1975 segna un fatto di grande importanza nell'evoluzione storica della dottrina penalistica, poiché per la prima volta la materia che attiene agli aspetti applicativi delle misure penali privative e limitative della libertà e alla condizione dei soggetti sottoposti all'esecuzione è regolata per legge. I regolamenti, che nell'Italia post-unitaria disciplinano il settore penitenziario, erano emessi, infatti, nell'ambito della relativa potestà dell'esecutivo ed avevano in parte carattere di esecuzione e in parte carattere di organizzazione; nessuno però aveva forza di legge.

La scelta di regolare con legge formale la materia del diritto penitenziario è dovuto al concorso di tre ragioni (1): la prima riguarda il riconoscimento dell'importanza degli istituti che attengono al complesso degli interventi diretti alla custodia e al recupero sociale degli autori di reato. Questo dimostra la raggiunta convinzione che l'insieme del sistema penale ha necessità di un 'supporto sociale' specificamente dedicato all'uomo, affinché si verifichino prospettive di successo: il 'supporto sociale' si attualizza tramite le metodologie che rientrano nel concetto di 'trattamento penitenziario'. La seconda ragione attiene alla necessità che, in coerenza con i principi del nostro ordinamento, le materie che coinvolgono i diritti soggettivi siano riservate alla regola della legge. La terza ragione è di carattere sistematico: il legislatore decide di raccogliere nel nucleo della materia penitenziaria, una serie di istituti che nella nostra tradizione rientrano nelle sfere del diritto penale sostanziale e di quello processuale.

La Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), è divisa in due titoli, relativi, rispettivamente al trattamento e all'organizzazione penitenziaria. Il titolo I è a sua volta suddiviso in sei capi, di cui i primi tre hanno per oggetto i principi direttivi, le condizioni generali e le modalità specifiche per il trattamento, il quarto il regime penitenziario, dove è contenuta la materia delle punizioni e delle ricompense, il quinto l'assistenza alle famiglie e post-penitenziaria, il sesto, infine, le misure alternative alla detenzione.

Nella Legge n. 354 del 1975 possono individuarsi diversi gruppi di norme: 1) quelle dedicate ai principi generali e alle modalità del trattamento inframurale del detenuto, 2) quelle inerenti al regime 'penitenziario', 3) quelle dedicate al trattamento extramurale, 4) quelle dedicate agli istituti penitenziari, 5) ed, infine, quelle in tema di uffici di sorveglianza.

2.1.1. Il trattamento: principi generali e modalità

I principi generali del trattamento sono ispirati da un lato alle indicazioni contenute nell'art. 27, terzo comma, della Costituzione e dall'altro ricalcano alcuni diritti costituzionali non incompatibili con lo stato di privazione della libertà. Quindi il trattamento penitenziario "deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona" (art. 1, primo comma); inoltre, nei confronti dei condannati e degli internati "deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi" (art. 1, sesto comma). Il secondo comma dell'art. 1 ("il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose") e l'art. 3 ("negli istituti penitenziari è assicurata ai detenuti e agli internati parità di condizioni di vita"), richiamano il principio costituzionale di uguaglianza.

L'art. 4 garantisce ai detenuti e agli internati la titolarità dei loro propri diritti ("i detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale"). Infine i detenuti e gli internati debbono essere chiamati con il loro nome (art. 1, quarto comma) e non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze di ordine e di disciplina (art. 1, terzo comma).

Nel capo II la Legge indica le condizioni materiali che costituiscono il presupposto per l'attuazione delle regole generali e particolari del trattamento. Negli artt. da 5 a 12 sono elencate le caratteristiche: degli edifici penitenziari, del vestiario e del corredo (è ammesso l'uso personale di oggetti che abbiano particolare valore morale o affettivo), dei servizi per assicurare l'igiene personale e il taglio periodico della barba e dei capelli (è precisato che il taglio della barba e dei capelli può essere imposto soltanto per ragioni igienico-sanitarie, art. 8 terzo comma). Per il servizio di alimentazione è prevista una commissione di controllo di rappresentanti di detenuti estratti a sorte mensilmente; inoltre particolare cura è riservata alle strutture per la permanenza all'aperto, al servizio sanitario, alle attrezzature per lo svolgimento delle attività lavorative, di istruzione scolastica e professionale, ricreative e culturali, compreso il servizio di biblioteca per la cui gestione è prevista la partecipazione di rappresentanti dei detenuti.

Le norme relative al trattamento delineano un quadro profondamente innovativo rispetto al Regolamento Rocco, il trattamento è ispirato al principio della 'individualizzazione' espresso dall'art. 13 primo comma: "il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto". Per raggiungere questo risultato, la legge prescrive l'osservazione scientifica della personalità all'inizio e nel corso dell'esecuzione della pena nei confronti dei condannati, al fine di rilevare eventuali carenze fisiopsichiche e altre cause di disadattamento sociale (art. 13 comma secondo). Gli sviluppi e i risultati del trattamento debbono poi essere seguiti e registrati nella cartella personale del detenuto.

Il programma individuale costituisce poi il presupposto per l'assegnazione del detenuto a singoli istituti penitenziari e alle sezioni di ciascuno di essi: l'art. 14 prevede, comunque, che debba essere assicurata la separazione degli imputati dai condannati ed internati, dei giovani al di sotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati all'arresto dai condannati alla reclusione. L'art. 42 prevede poi la possibilità di effettuare trasferimenti per motivi di sicurezza, di giustizia, di salute, di studio e familiari, ampliando così la disciplina dell'assegnazione dei detenuti ai vari istituti penitenziari.

Gli elementi del trattamento delineano una disciplina innovativa a norma dell'art. 15, il trattamento è attuato "avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti ed i rapporti con la famiglia". Le concrete modalità del trattamento sono definiti dal regolamento interno di ciascun istituto di pena (art. 16). Tra gli elementi del trattamento possiamo ricordare la "partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa" (art. 17) che si realizza con l'ingresso nell'istituto di pena di "tutti coloro che avendo concreto interesse per l'opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera". La disciplina va poi integrata con l'art. 27, secondo comma, che prevede, in materia di attività culturali, ricreative e sportive, l'istituzione di una commissione, abilitata a mantenere i contatti con il mondo esterno utili al reinserimento sociale.

In materia di colloqui, di corrispondenza e di accesso ai mezzi di informazione l'art. 18 ha eliminato le restrizioni del Regolamento Rocco: i colloqui sono sottoposti solo al controllo a vista e non auditivo, del personale di custodia; a titolo di ricompensa per la regolare condotta e per l'attiva partecipazione al trattamento rieducativo, possono essere concessi due ulteriori colloqui, oltre ai quattro mensili previsti dal Regolamento (2). Non sono previste limitazioni alla frequenza della corrispondenza epistolare, mentre i limiti a quella telefonica sono introdotti dal Regolamento, che disciplina anche il visto di controllo del direttore cui può essere assoggettata la corrispondenza, previo provvedimento motivato del magistrato di sorveglianza (art. 18, settimo - decimo comma; artt. 36 e 37 del Regolamento (3)). Non sono previste limitazioni per l'accesso ai mezzi di informazione: da un lato i detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di sé quotidiani, libri e periodici in libera vendita all'esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione (art. 18, sesto comma); dall'altro è loro concesso di usare un apparecchio radio personale, con l'unico limite di evitare il disturbo agli altri (art. 38 Regolamento (4)).

L'istruzione (art. 19) è curata mediante l'organizzazione di corsi della scuola dell'obbligo e di corsi di addestramento professionale; possono essere istituite anche scuole di istruzione secondaria di secondo grado ed è agevolato il compimento degli studi universitari. Più complessa è la disciplina del lavoro (artt. 20-25): il lavoro come detto non ha carattere afflittivo, è remunerato; organizzazione e metodi del lavoro "devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di fare acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale" (art. 20, quinto comma). A tal fine si prevede che la durata del lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti, sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale, le mercedi sono determinate in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi.

La religione è disciplinata dall'art. 26 nel rispetto dei principi di libertà sanciti dall'art. 19 della Costituzione; infine, tra gli elementi del trattamento rientrano le attività culturali, ricreative e sportive, disciplinate dall'art. 27.

2.1.2. Il regime penitenziario

Con il termine regime penitenziario viene disciplinato il sistema delle punizioni e delle ricompense. Le Legge contiene i principi generali della materia, mentre la descrizione delle singole infrazioni e dei comportamenti da valutare ai fini delle ricompense è demandata al Regolamento. Le principali modifiche al Regolamento Rocco sono le seguenti: il ricorso all'isolamento continuo è ammesso solo per ragioni sanitarie, ovvero durante l'esecuzione delle attività in comune o per ragioni istruttorie, su disposizione dell'autorità giudiziaria (art. 33); la perquisizione personale può essere disposta solo per motivi di sicurezza e deve essere eseguita nel pieno rispetto della personalità (art. 34); i detenuti hanno facoltà di rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa (art. 35); le infrazioni sono sottoposte al principio di legalità; i relativi addebiti devono essere previamente contestati e le sanzioni devono essere inflitte con provvedimento motivato (art. 38). Tra le sanzioni disciplinari, l'isolamento continuo è limitato alla durata massima di quindici giorni e non può essere eseguito senza la certificazione scritta del sanitario attestante che il soggetto può sopportarlo (art. 39), l'impiego della forza fisica è ammesso quando sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza o tentativi di evasione, o per vincere la resistenza anche passiva, agli ordini impartiti, l'uso dei mezzi di coercizione fisica è vietato per fini disciplinari ed è consentito solo nei casi espressamente previsti dal regolamento (art. 44).

Le sanzioni più lievi (richiamo del direttore e ammonizione) sono deliberate dal direttore; le tre più gravi (esclusione da attività ricreative e sportive per non più di dieci giorni, isolamento durante la permanenza all'aria aperta per non più di dieci giorni, esclusione dall'attività in comune per non più di quindici giorni) sono comminate dal consiglio di disciplina, composto dal direttore, dal sanitario e dall'educatore. Per quanto attiene alle ricompense, il semplice encomio è concesso dal direttore; l'agevolazione alla visita dei congiunti, la proposta di concessione delle misure alternative, della Grazia e della liberazione condizionale sono deliberate dal consiglio di disciplina. Ha spesso, anche impropriamente, natura disciplinare l'istituto dei trasferimenti (art. 42), se collegato ai "motivi di sicurezza".

2.1.3. Il trattamento extramurale

Il trattamento extramurale del detenuto si fonda essenzialmente sulle misure alternative alla detenzione (artt. 47 e ss.): considerate uno dei pilastri della riforma del 1975, le misure alternative si propongono di rompere la tradizionale indissolubilità del nesso tra pena carceraria e totale privazione della libertà; sotto questo profilo le misure alternative rientrano tra la serie di istituti volti a sviluppare i collegamenti tra carcere e società libera.

Si considerano in questo contesto, per omogeneità, le norme sui permessi (art. 30 e ss.) e sul lavoro all'esterno (art. 21), malgrado tali istituti - a differenza delle misure alternative - non alterino il rapporto alla detenzione (la 'rieducazione' è interpretata, infatti, nell'ottica di 'risocializzazione' del detenuto). I permessi, nell'originaria formulazione dell'art. 30, sono uno strumento per favorire i contatti con il mondo esterno: questi sono concessi in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente (primo comma), "per gravi ed accertati motivi" (secondo comma), tra i quali la magistratura di sorveglianza in sede di prima applicazione della legge fa rientrare, rifacendosi ai lavori parlamentari, anche le esigenze affettive, di lavoro e di istruzione del detenuto, specie in vista del reinserimento nella società libera. Il richiamo alle esigenze affettive ha, inoltre risolto il delicato problema dei rapporti sessuali, difficilmente risolvibile mediante l'ingresso di partners all'interno del carcere. L'art. 21 disciplina, poi, il lavoro all'aperto: in origine questo è visto unicamente come modalità del lavoro, senza che alcun tratto della sua organizzazione possa tradursi in una modifica di fatto del regime detentivo. Il secondo comma prevede, infatti, la possibilità per i lavoratori di essere scortati e che l'attività cui possano essere assegnati i detenuti è solo presso aziende agricole o industriali.

Il panorama delle misure alternative - prima del 1975 ristretto alla sola liberazione condizionale, disciplinata dal Codice penale del 1930- consiste in un discreto numero di strumenti più o meno afflittivi, rispondenti a diverse esigenze. L'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47) consente al condannato di espiare la pena nell'ambiente libero, mediante alcune prescrizioni volte a rieducarlo e ad impedirne la recidiva. La semilibertà (artt. 48 e ss.) viceversa non sottrae il detenuto al circuito penitenziario, ma gli consente soltanto di uscire dall'istituto mezza giornata, per svolgere attività socialmente utili. Dubbia è la qualificazione della liberazione anticipata (art. 54) come misura alternativa alla detenzione, nonostante la sua collocazione sistematica all'interno del capo VI: essa comporta soltanto uno sconto di pena, e quindi un rientro anticipato nella società, ma non incide sul normale svolgimento del rapporto punitivo.

E' possibile individuare la ratio delle misure alternative alla detenzione nel principio della finalità rieducativa della pena: in questo senso la Corte Costituzionale considera, inoltre, come un vero e proprio diritto del detenuto il veder periodicamente riesaminata la propria posizione al fine di verificare "se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo" (5). In quest'ottica le misure alternative alla detenzione rispondono alle finalità special-preventive della pena, ma questi obiettivi fondamentali della riforma del 1975 si sono scontrati con l'impossibilità di attuare la funzione rieducativa in un ambiente carcerario degradato dal sovraffollamento, dall'inadeguatezza delle strutture edilizie e dall'insufficienza del personale penitenziario.

2.1.4. Istituti penitenziari

Sono classificati in quattro categorie (art. 59), rispettivamente destinati alla custodia cautelare, all'esecuzione delle pene, all'esecuzione delle misure di sicurezza, all'osservazione. Gli istituti per l'esecuzione delle pene (art. 61) sono classificati in case d'arresto (per l'esecuzione della pena dell'arresto) e case di reclusione (per l'esecuzione della pena della reclusione). La distinzione non è rigida, poiché la stessa legge, tenendo presente le croniche carenze dell'edilizia penitenziaria e delle perduranti condizioni di sovraffollamento, prevede che per esigenze particolari i condannati alla pena della reclusione possano essere assegnati alle case di arresto (art. 61 comma terzo).

Gli istituti per le misure di sicurezza detentive (art. 62) si distinguono secondo i tipi di misure previste dal Codice penale in colonie agricole, case di lavoro, case di cura e di custodia, ospedali psichiatrici giudiziari. Istituti o sezioni speciali sono poi previste per i soggetti affetti da infermità o minorazioni fisiche o psichiche che li rendono non idonei ad essere sottoposti al regime degli istituti ordinari (art. 65).

2.1.5. Gli uffici di sorveglianza

Gli uffici di sorveglianza, rappresentano una delle più rilevanti novità della riforma del 1975. Ai giudici di sorveglianza sono, infatti, attribuite funzioni di controllo di legalità sul rispetto dei diritti dei detenuti; inoltre, il loro intervento assicura la completa giurisdizionalizzazione della fase dell'esecuzione penale.

Gli uffici di sorveglianza si compongono del Magistrato di sorveglianza (art. 69) e del Tribunale di sorveglianza (art. 70): gli artt. 69 e 70 individuano, poi, le specifiche competenze per materia del Magistrato e del Tribunale di sorveglianza. La competenza per territorio del giudice di sorveglianza è, invece, disciplinata nel Codice di procedura penale vigente, dove si rinvengono tutte le norme di procedura (6).

2.2. L'ergastolo e la nuova legge sull'ordinamento penitenziario

La riforma della liberazione condizionale del 1962 aveva evidenziato l'aspetto rieducativo di questo istituto e lo aveva reso al tempo stesso operante anche nei confronti dei condannati alla pena perpetua. Questi, come già detto, si trovavano a poter beneficiare degli stessi "stimoli a ravvedersi" riservati a tutti coloro che puniti per gravi reati, erano chiamati a scontare pene di lunga durata (7). L'ergastolo quindi non mostrava ad una parte rilevante della dottrina (8), autonomi profili di incostituzionalità; il problema costituzionale non era più tanto di rilevare una disparità, sempre con riferimento all'art. 27 comma terzo della Costituzione, tra i condannati a pene detentive temporanee da un lato e perpetue dall'altro, quanto di porre in luce, in via più generale, l'insufficiente attuazione, all'interno del sistema penitenziario, del principio di rieducatività della pena.

La legge 26 luglio 1975, n. 354 interruppe questa situazione di incertezza, individuando i profili del trattamento criminologico di cui furono finalmente definiti con chiarezza gli scopi e il contenuto. L'art. 1 previde, infatti, come detto, un trattamento "conforme ad umanità", rispettoso della "dignità della persona" e tendente al "reinserimento sociale" dei condannati e degli internati. Fu, quindi, rilevata in modo esplicito la "rieducazione in funzione sociale" cui si richiamava, facendo riferimento all'art. 27 terzo comma della Costituzione, sin dal 1950 la migliore dottrina (9) e soprattutto non potè più essere sostenuto che la rieducazione degli ergastolani dovesse mirare solo al miglioramento morale del condannato. La Legge del 1975, nonostante questi principi, secondo una parte importante della dottrina (10), si poneva in conflitto con l'art. 27 della Costituzione con riferimento all'istituto dell'ergastolo.

Il trattamento penitenziario, così come delineato dalla legge in oggetto e dal Regolamento di esecuzione, si articolava, in particolare rispetto ai condannati a pene detentive di lunga durata, in una gamma di "modalità" - previste al capo III del titolo I - e di "misure alternative alla detenzione" - disciplinate al capo VI del titolo I -, dirette entrambe alla realizzazione della riabilitazione del reo in una duplice prospettiva. Da una parte, infatti, tutte le modalità del trattamento si svolgevano durante l'esecuzione della pena detentiva: in particolare gli elementi del trattamento indicati all'art. 15 - istruzione, lavoro, religione, attività culturali, ricreative e sportive, contatti con il mondo esterno, rapporti con la famiglia - rappresentavano occasioni offerte al detenuto per attenuare gli effetti desocializzanti della pena detentiva e per prepararsi al reinserimento nella società dei liberi. Questi mezzi erano rivolti a tutti i detenuti che potevano accedervi, in linea di massima (11), senza essere sottoposti a particolari condizioni e quindi si può dire che il potenziamento della funzione rieducativa attraverso le modalità del nuovo trattamento era rivolto a tutti i reclusi, compresi gli ergastolani.

Dall'altra parte, le "misure alternative alla detenzione", introdotte dal nuovo Ordinamento penitenziario, pur avendo la medesima finalità rieducativa delle "modalità" del trattamento, tendevano a perseguirla con mezzi diversi. I "benefici" previsti al capo VI della Legge del 1975 miravano, in altre parole, a sollecitare il detenuto ad approfittare degli elementi del trattamento, affinché giungessero sia al progressivo miglioramento morale e al reinserimento sociale, sia al conseguimento di concrete utilità in rapporto alla condanna subita. In sintesi si può dire che l'interazione fra elementi del trattamento e i "benefici" determinava un potenziamento della funzione rieducativa. Tuttavia, e questo era il punto criticato maggiormente dalla dottrina, l'accesso ad alcune "misure alternative alla detenzione" era escluso per gli ergastolani: questa limitazione rappresentava, infatti, una deroga al finalismo rieducativo della pena.

Era necessario individuare le ragioni di questa esclusione, poiché in assenza di queste si sarebbe avuto un nuovo profilo di incostituzionalità della pena dell'ergastolo. La prima ragione che imponeva l'esclusione di alcune categorie di detenuti dal beneficio di determinati strumenti rieducativi era, come la definisce Bernardi (12), il "limite intrinseco" di alcuni istituti: per esempio un limite alla concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale era costituito dalla non eccessiva durata della pena detentiva inflitta (13). Un'ulteriore spiegazione alla preclusione degli strumenti rieducativi era la particolare finalità della norma: in questo senso ci si riferiva alla "teoria polifunzionale della pena" (14) che consentiva la compressione della funzione rieducativa della pena solo per finalità costituzionalmente rilevanti. I fini costituzionali, idonei a consentire limitazioni alla piena attuazione del fine rieducativo, erano: la funzione afflittivo-retributiva della pena (artt. 25 e 27 della Costituzione) e la funzione intimidativo-preventiva di difesa sociale (artt. 2 e 3, comma secondo, della Costituzione); non appariva quindi giustificabile la deroga all'istanza rieducativa per ragioni di allarme sociale, che spesso erano invocate a giustificazione delle norme discriminatorie per gli ergastolani, poiché non rivestivano dignità costituzionale. In conformità a queste considerazioni Bernardi ipotizzava la necessità di individuare un ordine di priorità all'interno degli scopi della sanzione nelle ipotesi in cui sorgesse un conflitto fra le differenti funzioni della pena ovvero di effettuare un giudizio di bilanciamento che consentisse di desumere la ragionevolezza delle soluzioni normative.

Passando ad esaminare le disposizioni di legge discriminatorie per i condannati alla pena perpetua, va innanzitutto osservato che l'art. 50 secondo comma dell'Ordinamento penitenziario non consentiva di ammettere al regime di semilibertà il condannato all'ergastolo, poiché il riferimento alla necessità che fosse scontata "metà della pena" presupponeva evidentemente una sanzione detentiva temporanea. La ratio di questa scelta non poteva essere la difesa sociale attinente alla pericolosità dei condannati all'ergastolo. Una presunzione di pericolosità sociale perpetua, infatti, era oltre che incostituzionale, smentita dal disposto dell'art. 176, terzo comma, del Codice penale. Ipotizzare, inoltre, a carico degli ergastolani una presunzione di pericolosità protratta per almeno vent'otto anni sarebbe stata errata poiché in contrasto con l'art. 21 dell'Ordinamento penitenziario, che consentiva (e consente anche oggi) per i condannati all'ergastolo l'assegnazione del lavoro all'esterno degli istituti di pena, al quale potevano recarsi anche senza la scorta. Si riteneva (15), quindi, che escludere la semilibertà a causa della pericolosità sociale fosse irragionevole poiché in contrasto con le finalità dell'istituto che era quella di incentivare la progressiva diminuzione della pericolosità attraverso il reinserimento 'graduato' nella società dei liberi.

In secondo luogo, si riteneva (16) che una tale soluzione normativa difficilmente poteva essere suggerita da preoccupazioni di allarme sociale: infatti, non poteva creare allarme sociale l'estensione dell'istituto della semilibertà agli ergastolani, per quanto questi fossero colpevoli di fatti gravissimi, poiché questi avrebbero già espiato una pena molto lunga, che avrebbe continuato a sussistere con modalità afflittive attenuate.

Un'altra finalità giustificatrice della preclusione per gli ergastolani della semilibertà poteva essere la funzione di prevenzione generale della pena dell'ergastolo: è da ammettere, infatti, che certi istituti, modificando radicalmente le modalità esecutive e l'immagine stessa della pena, potevano determinare una parziale caduta dell'effetto intimidativo. Questo effetto non doveva, però, comportare automaticamente la non-concessione della semilibertà: era necessario, infatti, bilanciare la funzione general-preventiva con la funzione rieducativa nella pena dell'ergastolo, poiché da una parte era irragionevole sacrificare la funzione rieducativa per giungere a risultati incerti sul piano della prevenzione generale, dall'altra era illogico precludere uno strumento potentemente rieducativo a soggetti che in ogni caso potevano essere ammessi alla liberazione condizionale.

L'ulteriore beneficio dal quale era escluso il condannato all'ergastolo, era l'istituto della "liberazione anticipata" o, più precisamente, della "riduzione di pena" (17), disciplinato dall'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario che prevedeva al primo comma: "al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione può essere concessa, ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una riduzione di pena di venti giorni per ciascun semestre di pena detentiva scontata"; mentre il quarto comma prevedeva che "nel computo della quantità di pena scontata per l'ammissione alla liberazione condizionale la parte di pena detratta ai sensi del presente articolo si considera come scontata".

La giurisprudenza della Corte di Cassazione si era espressa costantemente sull'argomento snaturandone la struttura e la finalità da un lato e limitandone l'operatività dall'altro. Sotto il primo aspetto la Corte di Cassazione, insistendo sull'inscindibile unicità del trattamento progressivo, aveva ritenuto che il dato rappresentato dalla "partecipazione all'opera di rieducazione" dovesse essere valutato, in linea di massima, globalmente e non suddiviso in periodi semestrali considerati isolatamente (18). Questo orientamento era criticato dalla maggioranza della dottrina (19), poiché riduceva gli aspetti innovativi e peculiari della liberazione anticipata e ne limitava l'efficacia rieducativa. Ancora più criticabile, poi, era l'interpretazione restrittiva della Suprema Corte, che aveva portato ad escludere i condannati all'ergastolo dalla possibilità di accedere alle riduzioni di pena al fine di anticipare, ai sensi dell'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario, il momento dell'ammissione alla liberazione condizionale (20).

Secondo Bernardi (21), le conclusioni della Corte di Cassazione non convincevano, poiché, a suo avviso, consideravano l'istituto delle riduzioni di pena "un di più" rispetto al trattamento rieducativo, disciplinato dall'art. 1 dell'Ordinamento penitenziario che poteva, quindi, essere escluso per particolari categorie di soggetti, per imprecisate ragioni di prevenzione generale e speciale. Bernardi criticava poi l'interpretazione della giurisprudenza poiché ricalcante la "logica dell'esclusione" di parte dei reclusi dalla fruizione degli strumenti a sfondo rieducativo, già accettata dal legislatore negli artt. 48 e 50 dell'Ordinamento penitenziario. Questa logica, ad avviso dell'autore, sottendeva la vecchia e radicata tendenza a considerare in chiave clemenziale gli istituti rieducativi, dai quali, quindi, si sarebbero potuti escludere "soggetti a priori immeritevoli". Conseguenza di tutto questo era che i condannati all'ergastolo ricevevano un trattamento rieducativo "gravemente mutilato e privato di quella 'progressività' presente nell'attuale ordinamento penitenziario" (22). Bernardi, quindi auspicava che, nonostante il clima di disillusione verso l'ideologia del trattamento, fosse estesa l'ammissione alla semilibertà e alle riduzioni di pena agli ergastolani, poiché non sussistevano ragioni che giustificassero una preclusione che impediva la partecipazione all'opera di rieducazione e il progresso verso la risocializzazione.

Vittorio Grevi si schierava in modo ancora più netto per l'estensione del beneficio della liberazione anticipata agli ergastolani (23). La sua tesi si fondava sulla constatazione che la liberazione anticipata producesse due ordini di effetti: 1- liberazione anticipata quale effetto delle riduzioni di pena (effetto diretto); 2- abbreviazione dei tempi di pena richiesti dalla legge in vista dell'ammissione alla liberazione condizionale (effetto indiretto), disciplinato espressamente dall'art. 54, quarto comma, dell'Ordinamento penitenziario. Il primo effetto non poteva realizzarsi, stante la perpetuità della pena dell'ergastolo, tuttavia, il secondo effetto poteva prodursi anche per il condannato alla pena dell'ergastolo, poiché l'art. 176 terzo comma del Codice penale prevedeva che il condannato potesse "essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia effettivamente scontato almeno vent'otto anni di pena". Dalla lettera dell'art. 54, inoltre, non si evinceva l'esclusione dei condannati all'ergastolo dalla liberazione anticipata: l'art. 54, infatti, faceva riferimento ai "condannati a pena detentiva" in generale (senza distinzione fra pena temporanea e pena perpetua); né l'esclusione poteva essere tratta dall'inciso che le riduzioni di pena dovevano servire per "un più efficace reinserimento nella società" del condannato, poiché questa preordinazione andava posta in riferimento ad ogni possibile conseguenza "liberatoria", compresa quindi la liberazione condizionale.

Era da rilevare poi, che qualora il legislatore avesse voluto escludere gli ergastolani dal beneficio di cui all'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario lo avrebbe previsto espressamente, come accadeva per l'affidamento in prova o la semilibertà o come accadeva nel testo originario dell'art. 54, quinto comma, poi abrogato dall'art. 5 della Legge 22 gennaio 1977, n. 1, dove era previsto un espresso divieto alla concessione della liberazione anticipata nei confronti dei condannati che avessero "precedentemente commesso un delitto della stessa indole" o che avessero subito una condanna "per i delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione". Il fatto, poi, che tale divieto fosse stato abolito dalla Legge n. 1 del 1977 dimostrava come il legislatore avesse ritenuto incompatibile con la fisionomia dell'istituto qualunque limite di natura oggettiva; quindi, sarebbe stato contrario allo spirito della legge, oltre che contro la sua lettera, un'interpretazione tendente all'esclusione del beneficio nei confronti dei condannati all'ergastolo (24).

La norma dell'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario disciplinava un istituto strumentale al sistema del trattamento dei condannati che era concepito con caratteristiche tali da renderlo lo strumento rieducativo più importante rispetto agli altri: attraverso questo, infatti, il condannato era stimolato a contribuire in prima persona al buon esito del suo trattamento. Dalla considerazione della centralità dell'istituto in esame nella gestione del "trattamento" dovevano discendere due conseguenze fondamentali: innanzitutto, anche per Vittorio Grevi, per quanto riguardava le cadenze temporali di applicabilità delle riduzioni di pena, vi doveva essere la valutazione del comportamento del condannato nel semestre cui si riferiva il relativo provvedimento (valutazione frazionata, in contrasto con il "giudizio finale espresso globalmente" sostenuto dalla Corte di cassazione (25)) e questo valeva in particolare per i condannati all'ergastolo, poiché la valutazione globale avrebbe comportato difficoltà circa il momento in cui il beneficio doveva essere applicato; questo momento avrebbe dovuto, infatti, individuarsi verso il termine finale della pena detentiva o meglio, verso il termine di maturazione del periodo di pena scontata necessario ai fini della liberazione condizionale, tuttavia in questo modo si sarebbe rischiato di non tenere conto di fenomeni incidenti sul corso dell'esecuzione penitenziaria (ad esempio, provvedimenti di indulto o di grazia parziale), col pericolo di sottrarre al condannato il godimento di una parte di riduzione che avrebbe meritato (26).

Il fatto, poi, che non fosse prevista nel testo definitivo della legge penitenziaria una norma che ammettesse gli ergastolani al beneficio della liberazione anticipata, così come non era prevista una disposizione che estendesse ai condannati all'ergastolo tutte le norme dettate per l'esecuzione della pena della reclusione, non doveva destare preoccupazioni poiché denotava la ritenuta superfluità da parte del legislatore di simili previsioni di fronte al testo dell'articolo concernente le riduzioni di pena.

L'estensione del beneficio della liberazione anticipata agli ergastolani era in linea con l'idea che nei confronti dei condannati all'ergastolo dovessero essere attuati i medesimi strumenti rieducativi previsti dalla legge in ordine ai condannati a pena detentiva temporanea, salve le eccezioni stabilite a causa dell'incompatibilità con la struttura della pena dell'ergastolo: ne derivava che anche per gli ergastolani, il trattamento penitenziario doveva essere finalizzato al reinserimento sociale. Se così non fosse stato, secondo Vittorio Grevi, la pena dell'ergastolo sarebbe stata incostituzionale per contrasto con l'art. 27 terzo comma della Costituzione. La conclusione era l'auspicio dell'estensione del beneficio della liberazione anticipata nei confronti degli ergastolani, ai fini della liberazione condizionale, poiché proprio il rapporto instaurato dal quarto comma dell'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario fra riduzioni di pena e liberazione condizionale valeva a dimostrare il collegamento funzionale tra i due istituti, togliendo credibilità alla tesi della Corte di Cassazione, secondo cui del primo non avrebbero potuto beneficiare tutti i condannati astrattamente ammessi ad usufruire del secondo.

L'altro argomento addotto dalla Cassazione contro il quale si scagliava la critica dei due autori citati, era quello imperniato sul rilievo che il terzo comma dell'art. 176 del Codice penale, nel prevedere l'ammissione alla liberazione condizionale del condannato all'ergastolo, la subordinava al presupposto che questi avesse "effettivamente scontato almeno vent'otto anni di pena". L'impiego dell'avverbio "effettivamente", ad avviso della Corte di Cassazione, usato soltanto per il caso dell'ergastolano dimostrava "inequivocabilmente che il periodo minimo di espiazione di vent'otto anni non poteva essere oggetto di alcuna riduzione", e ciò perché il legislatore avrebbe ritenuto "indispensabile tale periodo di espiazione-osservazione per l'eventuale reinserimento nella società del condannato all'ergastolo, data la capacità a delinquere dimostrata dal soggetto con la gravità del reato commesso" (27). Anche su questo punto Vittorio Grevi era categorico nella critica alla decisione della Suprema Corte: in primo luogo, egli affermava, il significato dato dal legislatore del 1962 all'avverbio "effettivamente", quale esso fosse, non poteva essere identico a quello dato dal legislatore del 1975, il quale poteva aver seguito un indirizzo diverso, nel senso di consentire l'ammissione dell'ergastolano alla liberazione anticipata qualora avesse dimostrato la "propria partecipazione all'opera di rieducazione". Ora, concludeva Grevi, poiché la medesima Corte di Cassazione aveva ammesso che le riduzioni di pena potessero essere utilizzate ai fini della liberazione condizionale, sia pure in un altro contesto, ma senza distinguere fra condannati all'ergastolo e condannati a pene detentive temporanee (28), si doveva ritenere modificato da questa decisione lo stesso art. 176 terzo comma, del Codice penale in funzione del computo dei periodi di riduzione di pena per l'ammissione alla liberazione condizionale dei condannati all'ergastolo. La soluzione diversa, che delineava un'ineguaglianza nel trattamento fra ergastolani ed altri detenuti condannati a pene temporanee, era, secondo l'autore, incostituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione e irragionevole nei confronti delle finalità attribuite dall'Ordinamento alle riduzioni di pena.

La legge del 1975 apportava ulteriori modifiche all'esecuzione dell'ergastolo: innanzitutto la disciplina dei permessi, prevista dall'art. 30 dell'Ordinamento penitenziario, pur con le modifiche immediatamente subite (29), si prefiggeva di consentire al detenuto il mantenimento dei contatti con la famiglia, tuttavia, questo istituto trovava un evidente limite in esigenze di difesa sociale, poiché lo stimolo ad evadere era più forte per un condannato a vita, spesso era concesso solo ad ergastolani, che per la loro età o per altre ragioni, fossero considerati così "desocializzati" da far ritenere improbabile una loro fuga. Anche l'istruzione, considerata una dei mezzi principali per il riadattamento nella società, non realizzava le sue potenzialità pienamente quando era impartita agli ergastolani, i quali erano meno motivati allo studio dato il lungo tempo necessario prima del rientro nella società dei liberi. Le stesse critiche potevano essere rivolte con riferimento "all'organizzazione" e ai "metodi" del lavoro penitenziario che, ai sensi del quinto comma dell'art. 20 "devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale": era evidente che, considerando il periodo minimo di detenzione dei condannati all'ergastolo nel 1975, l'unica preparazione professionale funzionalizzata al reinserimento sociale degli ergastolani "sarebbe quella che prepara a vivere da pensionati" (30). Il rischio era dunque che istruzione e lavoro finissero in pratica col divenire, con riferimento ai condannati all'ergastolo, strumenti per ottenere una mera "buona condotta" più finalizzata al mantenimento dell'ordine e della disciplina negli istituti di pena che alla rieducazione e al ravvedimento dei condannati.

Anche l'istituto della remissione del debito, disciplinato dagli artt. 56 dell'Ordinamento penitenziario (31) e 96 del Regolamento d'esecuzione (32) assumeva nei confronti dei condannati all'ergastolo una fisionomia distorta: il primo comma dell'art. 56 prevedeva, infatti, che "il debito per le spese del procedimento e di mantenimento è rimesso nei confronti dei condannati e degli internati che versino in disagiate condizioni economiche e si siano distinti per regolare condotta" e l'art. 96 primo comma, modificato dall'art. 9 del Decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1977 n. 339, prevedeva "la richiesta e la proposta di remissione del debito deve essere presentata nel mese che precede la dimissione e, comunque, non oltre i tre mesi successivi". Era evidente che lo stimolo ad impegnarsi in una condotta positiva per accedere al beneficio era infinitamente minore per un condannato all'ergastolo, il quale "eventualmente" poteva essere ammesso alla liberazione condizionale e comunque solo dopo molti anni.

Un elemento positivo e di progresso attuato dalla Legge del 1975, nel quadro del generale abbandono del principio delle tipologie legali in favore del trattamento rieducativo, era l'abolizione degli "ergastoli" nei quali scontavano la pena i condannati a pena perpetua ai sensi degli artt. 23 e 24 del Regolamento del 1931. Questa importante innovazione era, però, sminuita dall'istituzione con il Decreto Ministeriale 4 maggio 1977, dei "carceri di massima sicurezza", nati come reazione all'allarme sociale dovuto alla spinta emotiva dei fatti di criminalità organizzata e di terrorismo che in quegli anni caratterizzavano la storia d'Italia. Questi istituti penitenziari, che rispondevano ad esigenze non solo di individualizzazione del trattamento, ma anche di ordine e di sicurezza, proponevano nuovamente, una popolazione carceraria "selezionata" cui applicare - per di più senza apposita pronuncia del giudice- un regime carcerario e un trattamento rieducativo differenziato, mediante limitazioni che spesso eccedevano le esigenze di ordine e di sicurezza. Era superfluo, poi, che tali istituti di sicurezza accogliessero una parte dei condannati all'ergastolo, poiché anche questo dato non eliminava il problema.

La Legge n. 354 del 1975 sull'Ordinamento penitenziario, istitutiva del trattamento risocializzativo individualizzato, si rilevava lacunosa e contraddittoria per i condannati alla pena dell'ergastolo. L'estensione agli ergastolani delle modalità del trattamento non era sufficiente per il raggiungimento degli effetti rieducativi, poiché queste spesso, come detto, determinavano nei confronti dei condannati all'ergastolo effetti anomali e/o attenuati. L'esclusione dei condannati alla pena dell'ergastolo dai benefici di cui al capo VI della Legge del 1975 determinava l'impossibilità di realizzare un trattamento 'progressivo' completo per coloro che ne avessero assolutamente bisogno e rendeva più difficile il reinserimento nella società. L'esclusione dai benefici di cui al capo VI della legge in esame, delineava, cioè, la liberazione condizionale come strumento per far terminare in libertà la vecchiaia e la vita, ma impediva che l'ergastolano "potesse rifarsi una vita". Per queste ragioni, alcuni tra i più importanti autori della nostra dottrina penalistica e filosofica auspicavano l'estensione alla pena perpetua di tutti gli strumenti rieducativi creati dalla scienza penalistica e l'abbandono degli aspetti inutilmente afflittivi e desocializzanti.

Tavola IX. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1975-1979, situazione a fine anno) (33)
Anni Numero complessivo Maschi Femmine
1975 436 404 32
1976 387 358 40
1977 356 327 36
1978 342 316 26
1979 334 - -

2.3. Il referendum del 1981

Negli anni successivi ai progetti di riforma del Codice penale del 1971-73 (che, come detto, prevedevano l'abolizione della pena dell'ergastolo), la rivalutazione della funzione di prevenzione generale, operata anche sotto lo stimolo di tensioni sociali spesso emotive e irrazionali dovute alle esplosioni di criminalità comune e politica, portò ad un tentativo di proliferazione di ipotesi delittuose sanzionate con la comminatoria dell'ergastolo, che poteva essere giustificata solo parzialmente alla luce del clima 'di emergenza' di quegli anni. Nel Decreto Legge 21 marzo 1978, n. 59 la pena dell'ergastolo era prevista persino per il caso di morte non voluta, purché conseguente al sequestro, di persona sequestrata a scopo di estorsione o di eversione. Tale norma, in seguito, fu modificata in sede di conversione in legge, mantenendo l'ergastolo per l'assassinio doloso della vittima e sostituendo negli altri casi la pena di 30 anni di reclusione. La medesima vicenda si ripeteva - con riguardo all'ipotesi di attentato terroristico all'incolumità personale, seguito da morte - nel passaggio dal Decreto Legge 15 dicembre 1979 n. 625 (che all'art. 2, primo comma, disciplinava il nuovo reato di "Attentato per finalità terroristiche" e al quarto comma prevedeva la pena dell'ergastolo "se dai fatti di cui ai commi precedenti" derivava la morte della persona) alla legge di conversione 15 febbraio 1980, n. 15 (che previde 30 anni di reclusione). La correzione parlamentare, in entrambi i casi, dell'originario rigorismo del Governo lasciava trasparire quanto era evidente l'effetto dell'ergastolo sul sistema generale delle pene: il richiamo costante all'ergastolo nella legislazione d'emergenza denotava il ruolo dato a questa pena, che era pensata come strumento di intimidazione allargata, di là di ogni verifica o prognosi razionale d'efficacia e con tendenza ad essere applicata oltre l'area dei 'delitti capitali' per i quali soltanto la pena dell'ergastolo poteva essere sentita 'proporzionata' (34).

Nel 1980, nel clima descritto sopra, iniziava la campagna per la raccolta delle firme per l'indizione di un referendum popolare che sancisse o no l'abolizione della pena perpetua. Quest'iniziativa riscuoteva da una parte il consenso della dottrina: in particolare si aveva l'adesione anche di molti esponenti del mondo cattolico, molto più attento alle esigenze della persona e della tutela della sua dignità (anche se detenuta) rispetto al passato (la teoria retribuzionista, vale a dire la pena come castigo per il 'male' commesso era sempre stata l'idea-guida dei giuristi cattolici, a partire dal caposcuola Bettiol (35)). Dall'altra parte, iniziava invece, una campagna a favore del ripristino della pena di morte, anche e soprattutto alla luce dei gravissimi episodi di criminalità politica e comune che insanguinavano il nostro paese e colpivano, anche negli aspetti deteriori, l'opinione pubblica (36). L'iniziativa per il ripristino della pena di morte prendeva avvio, in particolare, dal gruppo neofascista MSI che cercava di legittimarsi di fronte alla Costituzione, chiedendo la dichiarazione dello stato di guerra interna come risposta 'all'emergenza' scaturita dalla lotta al terrorismo. La richiesta di ripristino della pena di morte, ufficializzata tramite la petizione sponsorizzata dal MSI, denotava una domanda di sicurezza da parte dei cittadini italiani che desideravano certamente una risposta decisa nei confronti della criminalità (non solo politica) che imperversava, ma rappresentava anche una risposta allo spettacolo di inefficienza e non affidabilità dell'azione del Governo e delle Istituzioni.

In questo scenario, il referendum fu dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale (37), ma né Governo, né Parlamento legiferarono in modo da evitare la consultazione popolare, come accade anche oggi nelle più svariate occasioni. La proposta di abolire l'ergastolo era troppo impopolare e, infatti, il 17 e 18 maggio del 1981, giorni del referendum, tre quarti degli elettori manifestarono la volontà di mantenere l'ergastolo nel nostro Codice penale.

2.4. La legge 689 del 1981 recante "Modifiche al sistema penale"

Nel processo di lenta ma progressiva eliminazione degli aspetti inutilmente inumani, afflittivi e desocializzanti della pena dell'ergastolo si deve ricordare l'art. 119 della Legge 24 novembre 1981, n. 689, recante "Modifiche al sistema penale" che, rinnovando il secondo comma dell'art. 32 del Codice penale, ha abolito la pena accessoria consistente nella perdita per l'ergastolano della capacità di testare e nella nullità del testamento da lui fatto prima della condanna. E' evidente come con tale disposizione si sia voluto eliminare un'ulteriore barriera posta tra il condannato e la società esterna che era in contrasto con una moderna concezione della pena, contribuendo inoltre a rafforzare, in coloro che erano ammessi alla liberazione condizionale, il senso di estraneità con l'ambiente nel quale dovevano reinserirsi.

La legge recante "Modifiche al sistema penale" ha rivisto, inoltre, la pena accessoria della "perdita o sospensione dell'esercizio della patria potestà o dell'autorità maritale", armonizzandone il testo con la disciplina del diritto di famiglia, secondo la riforma del 1975. Così il legislatore ha sostituito il riferimento alla "patria potestà" con quello alla "potestà dei genitori" ed ha abrogato il riferimento all'autorità maritale definitivamente eliminata dalla riforma del diritto di famiglia, che ha fissato il diverso principio della parità giuridica tra i coniugi. Statuisce, infatti, l'art. 34 del Codice penale: "La legge determina i casi nei quali la condanna importa la decadenza dalla potestà dei genitori. La decadenza dalla potestà dei genitori importa anche la privazione di ogni diritto che al genitore spetti sui beni del figlio, in forza della potestà di cui al titolo IX del libro I del Codice civile". Il contenuto della nuova pena accessoria continua, però, a riflettere quello della vecchia disciplina: si tratta, in sostanza, della privazione della capacità di esercitare i diritti e i doveri che la legge ricollega alla posizione del genitore.

La Legge n. 689 del 1981, pur avendo abolito, tramite l'art. 119, uno dei residui aspetti di 'quella morte civile' propria delle passate legislazioni, non sembra poter andare esente da critiche, non avendo apportato al primo comma dell'art. 32 del Codice penale modifiche tali da facilitarne l'interpretazione. Anche oggi, infatti, l'interpretazione che si può trarre dall'inciso "il condannato all'ergastolo è in stato di interdizione legale" è che l'ergastolano risulta interdetto al compimento di tutti gli atti di natura patrimoniale anche dopo aver ottenuto la liberazione condizionale: viene così preclusa ogni speranza di positivo reinserimento sociale (38). Non si deve sottovalutare in ogni modo il progresso realizzato tramite la Legge in esame: l'esito negativo del referendum, che si era tenuto solo pochi mesi prima, con la riconferma, a larghissima maggioranza, della pena dell'ergastolo, impedì al legislatore un intervento deciso volto alla soppressione dell'ergastolo e alla sua sostituzione con 'pene più umane' e conformi al dettato costituzionale.

2.5. La sentenza della Corte Costituzionale n. 274 del 1983

Con la sentenza n. 274 del 1983 (39) la Corte costituzionale - chiamata a pronunciarsi sul problema dell'esclusione dei condannati all'ergastolo dalla fruizione della liberazione anticipata e della semilibertà - giunse, per un verso, ad una declaratoria di illegittimità parziale della vigente disciplina e per un altro verso, ad una pronuncia di inammissibilità.

Per quanto riguarda la dichiarazione di inammissibilità della questione di illegittimità costituzionale dell'art. 50 della Legge 354 del 1975, occorre premettere che il giudice a quo (40) aveva preso le mosse dalla constatazione dell'impossibilità, derivante dal complesso delle norme che disciplinavano la semilibertà, di applicare la misura ai condannati all'ergastolo. In particolare la Magistratura di Sorveglianza di Firenze aveva dubitato che il mancato coordinamento dell'ergastolo con la riforma penitenziaria, presentasse aspetti di illegittimità costituzionale nei casi in cui istituti previsti per la generalità dei soggetti sottoposti ad altre pene detentive, non fossero estesi agli ergastolani e aveva rilevato come, pur non essendovi inconciliabilità sul piano logico tra semilibertà ed ergastolo, dovesse constatarsi che, allo stato della legislazione, il condannato a pena perpetua non poteva esservi ammesso e ciò non per il disposto di un'esplicita norma, ma come conseguenza, peraltro insuperabile in via interpretativa, della necessità di raggiungere la metà della pena ed era ovvio come tale termine minimo non fosse in alcun modo ipotizzabile con riguardo all'ergastolo. Fatte queste considerazioni, la Sezione di Sorveglianza di Firenze aveva ritenuto, però, che l'esclusione dei condannati alla pena dell'ergastolo dal beneficio della semilibertà non fosse conforme alla normativa costituzionale e aveva sollecitato l'intervento della Corte Costituzionale, sotto il profilo di una possibile violazione dell'art. 27 comma terzo della Costituzione, dal quale, secondo la stessa giurisprudenza della Corte richiamata dal giudice a quo, "sorge il diritto del condannato a che verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva sia riesaminato al fine di accertare se, in effetti, la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente il suo fine rieducativo" (41).

La Corte dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici fiorentini dopo che il giudice a quo, pur essendosi limitato nel dispositivo a chiedere la declaratoria d'illegittimità dell'art. 50 "in quanto non prevede l'applicabilità del beneficio della semilibertà ai condannati all'ergastolo" nel corso della motivazione aveva parlato di "integrazione di legge", volta a consentire l'ammissione al beneficio in parola con "l'inserimento di condizioni temporali particolari ovviamente diverse da quelle previste dalla legge e applicabili alle sole pene temporanee". A questa richiesta la Corte obiettò che "il giudice a quo sostanzialmente chiede che la dichiarazione d'illegittimità costituzionale si concreti in un'integrazione della norma, determinando quanta parte della pena dovrebbe essere stata espiata dal condannato all'ergastolo perché possa essere presa in considerazione la sua ammissione alla semilibertà", ma "provvedere su una siffatta domanda implicherebbe una scelta discrezionale che eccede i poteri di questa Corte".

La sentenza 274 del 1983 riveste poi un'importanza notevole per la declaratoria d'illegittimità costituzionale formulata nei confronti dell'art. 54 della Legge 354 del 1975, "nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all'ergastolo la riduzione di pena ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l'ammissione alla liberazione condizionale". In tal modo diventa un positivo dato normativo l'operatività, almeno entro certi limiti, nei confronti degli ergastolani, del beneficio di cui all'art. 54 della legge penitenziaria, che fino a questo momento era riconosciuta soltanto dalla dottrina più avanzata, e non priva di seguito nella giurisprudenza di merito, ma sempre puntualmente disattesa dalla Corte di Cassazione (42). Com'è noto, l'art. 54 della Legge 354 del 1975, oltre a disporre che al condannato a pena detentiva - il quale avesse dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione - poteva essere concessa una riduzione di pena di 20 giorni per ciascun semestre scontato, prevedeva al quarto comma che la parte di pena così detratta si considerasse come scontata ai fini del computo della quantità di pena da scontare per l'ammissione alla liberazione condizionale. La concessione del beneficio veniva pertanto ad operare, come la dottrina aveva rilevato (43) e come la Corte costituzionale ribadì, "su due distinti piani non necessariamente connessi": da una parte, conseguenza diretta della riduzione di pena era la liberazione anticipata; dall'altra si aveva l'ammissione "anticipata" alla liberazione condizionale, in quanto si raggiungevano prima i periodi minimi di detenzione a tal fine richiesti dall'art. 176 del Codice penale.

Le Sezioni di sorveglianza, chiamate ad applicare l'articolo in questione, avevano escluso fin dall'inizio la possibilità di liberazione anticipata per il condannato alla pena dell'ergastolo; ma avevano concesso il beneficio al limitato fine di cui all'art. 54: la ratio di questa scelta si trovava nella dizione letterale sia del primo comma dell'articolo stesso - che individuava nel condannato a pena detentiva genericamente il destinatario del beneficio - sia del quarto comma, che operava il raccordo del beneficio in questione con la liberazione condizionale, che era ammessa per l'ergastolano (44). A questa interpretazione si era opposta costantemente la Corte di Cassazione, come ricordato in precedenza, sulla base di altri riscontri letterali di non minore spessore (45).

Le numerose osservazioni avanzate dalla dottrina e dai giudici di merito non avevano determinato un cambio nell'orientamento della Corte di Cassazione, che pur riconoscendo come "vero e reale" il contrasto tra il principio dell'individualizzazione del trattamento penitenziario stabilito dall'art. 1 della Legge 354 del 1975 e la preclusione che si veniva a determinare nei confronti degli ergastolani, aveva affermato che la causa del contrasto era da rinvenire non tanto nell'inapplicabilità dell'art. 54 all'ergastolano, quanto nella pena dell'ergastolo che "in sé e per sé considerata può apparire incompatibile, proprio in vista della sua natura perpetua, con le prospettive di reinserimento nella società civile": si veniva, però, a riproporre così il tema dell'illegittimità costituzionale della pena dell'ergastolo, già affrontato e risolto dalla Corte Costituzionale "con una dichiarazione di irrilevanza dei medesimi argomenti adottati nella sede presente" (46). A questo punto alcuni giudici di merito, posti nella necessità di adeguarsi all'interpretazione adottata dalla Corte di Cassazione - la quale costantemente aveva annullato le ordinanze di concessione del beneficio di cui all'art. 54 della legge penitenziaria - avevano sollevato questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 54, solo o in combinato con l'art. 176 del Codice penale, in relazione agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto escludeva l'applicabilità della concessione del beneficio della riduzione di pena ai condannati all'ergastolo, sia pure al solo fine di abbreviare il periodo minimo di detenzione richiesto per l'ammissione alla liberazione condizionale (47).

La Corte Costituzionale, rilevata la fondatezza degli argomenti addotti a fondamento dell'interpretazione accolta dalla Corte di Cassazione, prese le mosse dall'affermazione di quest'ultima, per la quale l'inapplicabilità dell'art. 54 agli ergastolani sarebbe stata frutto di una precisa scelta di politica criminale, per affermare che "le scelte del legislatore non si sottraggono al sindacato di questa Corte, inteso a verificarne la compatibilità con i precetti della Costituzione". La Corte, poi, interpretò l'istituto introdotto con l'art. 54 della Legge n. 354 del 1975 alla stregua dell'interpretazione fattane dai giudici a quibus e dalla dottrina dominante: la riduzione di pena - con i sui due effetti operanti sia ai fini della liberazione anticipata sia della liberazione condizionale- aveva costituito un momento di quel trattamento rieducativo individualizzato tendente al reinserimento sociale dei detenuti che l'art. 1 della Legge n. 354 del 1975, in armonia con l'art. 27 della Costituzione, aveva posto alla base del nuovo Ordinamento penitenziario e si era inserito, inoltre, tra le misure volte a promuovere la "collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento", come previsto dall'art. 13 della Legge n. 354 del 1975.

Fatta questa premessa, due sono le argomentazioni su cui la Corte fondò la sua decisione: in primo luogo si pose in rilievo che il vigente Ordinamento penitenziario, "in attuazione del precetto del 3º comma dell'art. 27 della Costituzione", perseguiva la finalità del reinserimento sociale "per tutti i condannati a pena detentiva, ivi compresi gli ergastolani"; in secondo luogo, si evidenziò l'abrogazione, a causa dell'art. 5 della Legge 12 gennaio 1977, n. 1, del divieto (disciplinato dall'art. 54 ultimo comma) di concedere il beneficio della riduzione di pena ai condannati per determinati delitti di particolare gravità (48). Di particolare interesse è il primo argomento, riguardo al quale la Corte insistette sulla "recuperabilità sociale del condannato all'ergastolo", già sottolineata dalla sentenza n. 264 del 1974. Ora la Corte, richiamando anche la relazione al Disegno di Legge che fornisce la base alla Legge 1634 del 1962, ribadì "la svolta di evidente rilievo" segnata nella nostra legislazione penale dall'estensione dell'istituto della liberazione condizionale a favore degli ergastolani, per trarne la conclusione che i condannati all'ergastolo "pur non potendo venire ammessi alla liberazione anticipata (essendo l'ergastolo per definizione una pena senza una scadenza che sia possibile anticipare) devono poter ugualmente fruire, verificandosene ovviamente i presupposti, della riduzione della pena prevista dall'art. 54 ai soli fini dell'applicazione del 3º comma dell'art. 176 del Codice penale".

2.5.1. Le reazioni della dottrina alla sentenza costituzionale n. 274 del 1983

Le reazioni alla sentenza furono numerose: Elena Bernardi (49) riconobbe "l'arditezza della declaratoria d'illegittimità parziale dell'art. 54 della Legge 354 del 1975", tuttavia rilevò con amarezza come la Corte, con questa sentenza, avesse riaffermato la tesi della compatibilità di principio tra finalità rieducativa di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione e la pena dell'ergastolo, allontanando così le prospettive di una sua abolizione. L'autrice osservò, inoltre, come la Corte Costituzionale con la sentenza n. 274 del 1983 avesse colto l'occasione per riaffermare l'incidenza dell'art. 27 della Costituzione anche sulla pena dell'ergastolo, traendone importanti conseguenze; ma, dai limiti in cui l'art. 54 della Legge 354 del 1975 era stato dichiarato illegittimo e dalla pronuncia di inammissibilità concernente l'art. 50 della stessa legge, ricavò pure che, per quanto concerneva gli ergastolani, la finalità del reinserimento sociale era perseguita solo nei limiti consentiti dalla disciplina della liberazione condizionale.

Un importante ed articolato commento alla sentenza in esame fu, poi, quello proposto dal magistrato Elvio Fassone (50). Egli ritenne che questa pronuncia valesse "più di quello che esprime", infatti, il dato rilevante che emergeva era la possibilità di scorgere nella decisione della Corte un'indicazione di politica penitenziaria che travalicava il dato giuridico; il fulcro centrale era la codificazione di un "patto penitenziario": "non vi è una pena costituzionale se ad essa non inerisce un'offerta di relazioni ambientali idonee a sollecitare il detenuto a collaborare attivamente alla sua rieducazione" (51).

L'analisi del magistrato prende le mosse dalla dimostrazione delle ragioni per le quali la Corte non poteva giungere ad una sentenza interpretativa di rigetto, anziché ad un'affermazione di illegittimità della norma. Per capire questo era da premettere, come detto, che la Cassazione aveva sempre negato l'applicabilità dell'art. 54 della legge penitenziaria al condannato all'ergastolo, facendo leva sul dettato dell'art. 176, terzo comma, del Codice penale il quale prevedeva che il condannato all'ergastolo potesse essere ammesso alla liberazione condizionale soltanto quando avesse scontato effettivamente almeno vent'otto anni di pena. Contraria a questa giurisprudenza era la dottrina che fondava le proprie convinzioni su due tesi:

  1. il dato letterale non era risolutivo per la sua assenza di significato concreto;
  2. le considerazioni di ordine storico e sistematico non permettevano di escludere l'ergastolano dal beneficio, sia pure ai soli effetti della liberazione condizionale (52).

Secondo la dottrina citata, il requisito dell'effettiva espiazione poteva avere un senso unicamente allorché l'ergastolo fosse tramutato in una pena detentiva temporanea per mezzo di indulto o grazia parziale. La dottrina in questo caso prospettava un'alternativa: in caso di commutazione dell'ergastolo in un numero di anni pari o inferiore a venticinque, questo livello di pena si poneva prima dei vent'otto anni di pena necessari per essere ammessi alla liberazione condizionale e quindi il requisito dell'effettività perdeva di significato. Se la commutazione dell'ergastolo era in una pena detentiva superiore a vent'otto anni, l'accesso alla liberazione condizionale conseguiva all'espiazione di vent'otto anni. L'autore criticò la soluzione prospettata dalla dottrina: in primo luogo "effettivamente scontato" doveva essere inteso nel senso che qualsiasi forma di detenzione giovava a formare il livello minimo di pena espiata (53). In secondo luogo l'avverbio "effettivamente" aveva il significato di sottrarre l'ergastolano al cumulo dei benefici, quando essi oltrepassassero una soglia ritenuta espressiva di un'insufficiente garanzia di ravvedimento. La dottrina, poi, riteneva che l'art. 54 della legge penitenziaria modificasse l'art. 176, terzo comma, in virtù del principio lex posterior specialis derogat priori generali: Fassone, però, contestò questa soluzione poiché non ritenne incompatibile la norma dell'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario con l'art. 176 del Codice penale. Per questi motivi l'autore ritenne che non si potesse giungere ad una sentenza interpretativa di rigetto.

Elvio Fassone individuò tre punti salienti negli argomenti che avevano giustificato la declaratoria di illegittimità costituzionale:

  1. rivendicazione delle competenze: la Corte, costatato l'insuperabilità del dato normativo, lo aveva interpretato come una manifestazione di volontà politica che ricadeva nel proprio potere di sindacato;
  2. L'art. 27 terzo comma della Costituzione (e l'Ordinamento penitenziario che ne deve essere attuazione) perseguiva il fine del reinserimento sociale di tutti i condannati a pena detentiva e perciò anche dei condannati all'ergastolo. La prospettiva della riduzione di pena (sia pure ai soli fini di anticipare l'ammissione al giudizio sulla liberazione condizionale) sollecitava il condannato a collaborare con l'opera di rieducazione. Tale collaborazione era essenziale per il trattamento rieducativo, inerente alla "pena costituzionale". Ne discendeva che la prospettiva premiale non poteva essere sottratta ad alcun tipo di pena e nemmeno alla pena perpetua.
  3. L'eliminazione, per opera della Legge 12 giugno 1977 n. 1, dei divieti di applicazione del beneficio di cui all'art. 54 della Legge 354 del 1975 per determinati reati aveva provocato l'universalità degli effetti prodotti da tale istituto (almeno il secondo, cioè l'anticipazione del termine di ammissibilità alla liberazione condizionale).

L'autore elogiò la sentenza:

Se è la 'possibilità di acquisire una riduzione della pena' quella che 'incentiva e stimola nel soggetto la sua attiva collaborazione all'opera di rieducazione' (è la Corte a dirlo), l'ergastolano non ottiene molto di più di quanto non avesse già: il punto cruciale della sua vicenda resta un beneficio eventuale, che non diventa più certo per il solo fatto di essere un po' anticipato quanto ad ammissibilità astratta.

Poiché l'argomento viene usato dalla Corte per dimostrare la violazione dell'art. 3 della Costituzione non è arduo osservare che il preteso allineamento di disciplina resta parziale ed incompleto, nonostante lo sforzo compiuto dalla Corte.

Se ciò è esatto, ne discende un corollario interessante. Il vero «colpevole» di incostituzionalità non è tanto l'art. 54 ord. penit. (nella parte in cui non si estende all'ergastolo), ma l'istituto dell'ergastolo (nella parte in cui non recepisce il meccanismo incentivante) (54).

Secondo Fassone quindi, la Corte Costituzionale aveva compiuto un passo enorme dalla precedente pronuncia "retorica" che aveva dichiarato costituzionale la pena dell'ergastolo sulla base della "teoria polifunzionale della pena" (55). A questo punto l'autore si chiese perché la Corte avesse emesso questa decisione. La Corte, disse il magistrato, aveva fatto spesso riferimento alla "collaborazione" nel senso indicato dall'art. 13 dell'Ordinamento penitenziario: poiché la liberazione condizionale era un beneficio che matura solo eventualmente e solo dopo molto tempo, a differenza della riduzione di pena che poteva essere concessa semestre dopo semestre (e in questo inciso Fassone vedeva l'implicita adesione al principio della "valutazione frazionata" dei semestri di liberazione anticipata), la Corte aveva ritenuto quella insufficiente a realizzare la "collaborazione" in un percorso, qual era quello carcerario complesso e pieno di ostacoli, che si presentavano in modo più frequente nei confronti di un ergastolano, il quale era costretto per più lungo tempo all'interno di un carcere e poteva sentire in modo inferiore lo stimolo alla collaborazione se l'unico sbocco di questa era la liberazione condizionale. Con questa decisione, secondo l'autore, la Corte aveva posto l'accento sulla funzione di strumento di governo che può assumere la liberazione anticipata: di fronte ai numerosi episodi di omicidi da parte di ergastolani, "che non hanno più nulla da perdere" e che "agiscono come killer indifferenti e spietati", l'aumentare il divario tra le prospettive che competono a chi accetta le regole dell'istituzione e chi le rifiuta serviva a fronteggiare il fenomeno e ad abbassare la linea dello scontro.

Dalla sentenza, quindi, è esaltato l'istituto della liberazione condizionale quale strumento di valutazione "della partecipazione del condannato all'opera di rieducazione" in funzione del "sicuro ravvedimento" che consente di fruire del beneficio. La liberazione diviene il perno della vicenda espiativa (la decisione in esame ha il significato di anticipare il momento in cui poterne usufruire) e l'istituto-principe per affrontare i più gravi problemi di prevenzione generale e di difesa sociale. La Corte, tuttavia, non ha inteso espandere in modo arbitrario la fruibilità dei benefici, ampliando con questo l'utilizzazione 'clemenziale' dei benefici e "abbassando il carico di pressione penale sui consociati", ma ha perseguito l'obiettivo di istituire una sorta di "premialità progressiva" consistente nell'attenuazione della pena in parallelo all'acquisizione del senso di solidarietà sociale in capo al condannato.

L'autore si chiese poi qual era il rapporto fra liberazione anticipata e liberazione condizionale a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale e se era possibile il rifiuto della seconda al condannato che avesse usufruito sempre della prima; a seguito della sentenza in esame, affermò Fassone, l'istituto della liberazione anticipata assumeva nei confronti dell'ergastolo valenze psicologiche: "il giudizio 'sulla partecipazione all'opera di rieducazione' diventa in sostanza un semplice placet all'anticipazione dell'altro vero giudizio, quello, risolutivo, che seguirà fra molti anni" (56). La liberazione condizionale, quindi, chiedendo uno sforzo positivo notevole (adempimento delle obbligazioni civili, perdono dell'offeso o dei suoi congiunti) ha delle differenze che la rendono inconfondibile e non paragonabile alla liberazione anticipata. Fassone criticò, però, l'espansione dei "contenuti positivi" della pena poiché, se da un lato erano una garanzia verso la degenerazione indulgenziale nella concessione dei benefici, dall'altro nascondeva "la 'messa in mora' dell'amministrazione penitenziaria in ordine alla carenza di strutture, alla pochezza degli operatori, all'inesistenza di quelle offerte di trattamento, che dovrebbero rendere migliore la partecipazione del condannato all'opera di rieducazione" (57).

Fassone analizzò anche le innovazioni apportate dalla sentenza in tema di isolamento dell'ergastolano, riproponendo la questione della legittimità costituzionale dell'isolamento: l'abolizione dell'isolamento dell'ergastolano, disse il magistrato, è contraria al sistema sanzionatorio all'interno del carcere, poiché rende indifferente l'ergastolano a qualsiasi condanna ulteriore ed è antitetico al principio della "governabilità del carcere" espresso dalla stessa sentenza in esame. La soluzione corretta, secondo Fassone, era quella prospettata dalla Corte nella sentenza in esame: "non è l'isolamento a peccare di lesa Costituzione, ma l'isolamento attuato con modalità che non consentano al condannato alcuna offerta di trattamento rieducativo, né alcuno stimolo alla sua collaborazione" (58). Quindi la sentenza della Corte Costituzionale impone di interpretare gli artt. 72 del Codice penale e 33 dell'Ordinamento penitenziario nel senso di non vietare al condannato in isolamento ogni contatto con operatori penitenziari, educatori, esperti dell'osservazione e del trattamento, o possibilità di lettura, di corrispondenza o colloquio. La Corte costituzionale designa "una pena costituzionale" in cui il punto centrale è la collaborazione del condannato al punto che ogni chiusura dei canali, attraverso i quali possa essere realizzata questa collaborazione, deve essere considerata illegittima.

Le considerazioni sull'isolamento degli ergastolani servono da spunto per una serie di riflessioni sul fenomeno (diffuso in quegli anni) degli istituti a "maggior indice di sicurezza" e sui riflessi su questi della sentenza n. 274 del 1983. La più importante conseguenza scaturita dalla sentenza in esame è l'illegittimità di un eventuale Decreto ministeriale che, in applicazione dell'art. 90 dell'Ordinamento penitenziario, sospendesse l'applicabilità della liberazione anticipata, sia pure per un tempo limitato. L'ulteriore importante conseguenza è l'illegittimità (59) di Decreti ministeriali che vietino la vita in comune, le offerte di trattamento, la possibilità di leggere e di studiare e la possibilità di rapporti sociali con i compagni e con i familiari.

Fassone concluse il suo lungo intervento con alcune considerazioni sulla pronuncia di inammissibilità dell'eccezione sull'inapplicabilità all'ergastolano della semilibertà. In primo luogo secondo l'autore, la Corte avrebbe potuto legiferare sull'argomento della semilibertà, com'era avvenuto in altre occasioni (60); in secondo luogo, l'ordinamento non era privo di indicazioni al riguardo dell'individuazione della quantità di pena scontata necessaria per l'accesso degli ergastolani alla semilibertà: Fassone afferma che, poiché l'ergastolano poteva essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato vent'otto anni di pena, avrebbe potuto essere ammesso alla semilibertà dopo aver scontato sedici anni e sei mesi di pena (61).

Un ulteriore commento positivo della sentenza arrivò da Vittorio Grevi (62), uno dei principali sostenitori della necessità di estendere il beneficio delle riduzioni di pena ai condannati all'ergastolo. Secondo l'autore, la Corte Costituzionale aveva ritenuto costituzionalmente illegittima la "norma reale" che il consolidato orientamento della Cassazione aveva dedotto dal testo dell'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario, nel senso di escludere il beneficio delle riduzioni di pena agli ergastolani, ai fini dell'anticipazione della concessione della liberazione condizionale in quanto ai "detti fini è espressamente richiesto dalla legge che il condannato all'ergastolo abbia effettivamente scontato, sulla pena perpetua almeno vent'otto anni di reclusione" (63). L'autore, innanzitutto, rilevò un profilo di ingiustificata disuguaglianza a danno dei condannati all'ergastolo nella circostanza rappresentata dalla concessione delle riduzioni di pena ad opera delle Sezioni di sorveglianza, le cui ordinanze erano divenute esecutive per il mancato esperimento del ricorso in Cassazione da parte degli organi del Pubblico ministero; rispetto a coloro che si vedevano negato il beneficio a causa o del ricorso in Cassazione da parte dei Pubblici ministeri ovvero direttamente dalla sezione di sorveglianza che aderiva alla linea giurisprudenziale della Cassazione. Conseguenza di questo era anche l'interesse degli ergastolani ad ottenere il trasferimento presso un istituto di pena collocato nel distretto di una sezione di sorveglianza ritenuta 'favorevole' da un simile punto di vista, attesa la regola di competenza territoriale sancita dal terzo comma dell'art. 71 dell'Ordinamento penitenziario. L'esistenza di questo 'privilegio' era stata la ragione che aveva spinto la dottrina, gli operatori penitenziari, la magistratura di sorveglianza e ovviamente gli ergastolani (64), ad auspicare un intervento legislativo (che, però, in quel momento era ancora lontano da venire) che portasse all'estensione del beneficio delle riduzioni di pena ai condannati all'ergastolo.

L'analisi di Vittorio Grevi è incentrata sulla critica alla giurisprudenza della Corte di Cassazione la cui interpretazione restrittiva dell'art. 54 era contraria alle direttive fondamentali della riforma penitenziaria del 1975 e prima ancora ai principi costituzionali che avevano ispirato le direttive stesse. In particolare l'autore criticò il coordinamento fatto dalla Corte di Cassazione fra la norma dell'art. 176, terzo comma, del Codice penale e la norma dell'art. 54 quarto comma dell'Ordinamento penitenziario, secondo la quale la prima doveva interpretarsi come prevalente sulla seconda, in quanto lex specialis rispetto ad una previsione di carattere generale: secondo l'autore questa posizione era contraria palesemente allo spirito della Legge del 1975, così come risultava dai lavori preparatori della riforma penitenziaria che escludevano, come detto, che il legislatore nel dettare la norma dell'art. 54 avesse voluto disciplinare un istituto non applicabile ai condannati all'ergastolo, nemmeno sotto il particolare profilo della liberazione condizionale (65). Tali indicazioni deponevano, invece, per l'opposta tesi, cioè a favore dell'operatività della norma suddetta anche nei confronti degli ergastolani.

La sentenza della Corte costituzionale, estendendo la possibilità di fruire delle riduzioni di pena agli ergastolani ai fini della concessione della liberazione condizionale, aveva aderito, secondo Grevi, alle argomentazioni della dottrina, che aveva configurato le riduzioni di pena come:

Strumento di incentivazione e di stimolo di condotte del condannato che - concentrandosi sulla sua 'partecipazione' al trattamento rieducativo - contribuiscono funzionalmente, semestre per semestre, al conseguimento dell'obiettivo finale rappresentato dal sicuro 'ravvedimento' (66).

Vittorio Grevi rilevò l'importanza del collegamento fatto dalla Corte Costituzionale fra l'istituto della liberazione anticipata e quello della liberazione condizionale, poiché, a suo avviso, aveva imposto la necessità dell'estensione del beneficio delle riduzioni di pena agli ergastolani. Egli ravvisò, infatti, un parallelismo fra la vicenda della liberazione condizionale estesa per mezzo della Legge del 1962 agli ergastolani ed indicata quale strumento rieducativo 'necessario' per considerare costituzionale la pena dell'ergastolo dalla sentenza costituzionale del 1974 e la vicenda della liberazione anticipata: la Corte, secondo l'autore, non aveva ravvisato ragioni politico-legislative idonee a far ritenere "ragionevole" la disciplina discriminatoria nei confronti degli ergastolani e per questo aveva dichiarato illegittima la norma dell'art. 54 quarto comma dell'Ordinamento penitenziario così come interpretato dalla Cassazione.

Anche Vittorio Grevi ritenne che conseguenza "fisiologica" della sentenza era la possibilità per gli ergastolani d chiedere le riduzioni di pena con riferimento all'intera porzione di pena già espiata e questo indipendentemente dall'indirizzo giurisprudenziale che aveva configurato le riduzioni di pena come un beneficio da concedersi soltanto sulla base di "un giudizio finale espresso globalmente" circa la "partecipazione effettiva al trattamento" (67) del condannato. Grevi calcolò che un condannato all'ergastolo al quale fossero riconosciute tutte le riduzioni di pena, a partire dal primo semestre dell'esecuzione penitenziaria, poteva essere ammesso alla liberazione condizionale dopo venticinque anni e novantacinque giorni di pena.

Il giudizio finale di Grevi sulla sentenza in esame fu di apprezzamento poiché era espressione della volontà di adeguamento della pena ai principi costituzionali e poteva essere fonte di futuri interventi della stessa Corte Costituzionale nell'ambito delle possibili "alternative" alla naturale perpetuità della pena dell'ergastolo; l'autore, per questi motivi fu molto critico con i commenti pessimistici sulla sentenza in esame (68).

Vittorio Grevi, nel commentare la sentenza nella parte in cui aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 50 dell'ordinamento penitenziario, riconobbe che il giudice a quo aveva forse chiesto "troppo", tuttavia, a suo avviso, la Corte avrebbe potuto entrare nel merito della scelta legislativa di escludere "indirettamente" gli ergastolani dal beneficio della semilibertà, anziché pronunciare una dichiarazione di inammissibilità (69). L'autore, infatti, ritenne che, valutata la questione di legittimità sotto il profilo dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, se l'esito del giudizio fosse stato nel senso della fondatezza della questione, sarebbe spettato al legislatore ordinario l'onere di colmare la lacuna aperta. In conclusione, sotto questo punto, la decisione della Corte non fu ritenuta ineccepibile poiché aveva violato il principio di economia processuale: era, infatti, possibile che la questione fosse riproposta senza la richiesta di una "integrazione di legge", imponendo così alla Corte una decisione nel merito (70).

2.6. La legge 10 ottobre 1986, n. 663

Negli anni successivi al 1975 l'impianto su cui si basa la legge di riforma dell'Ordinamento penitenziario, entra in crisi: le carenze delle strutture materiali e personali dell'organizzazione penitenziaria e la popolazione carceraria, da sempre superiore a livelli ottimali per l'attuazione della riforma, impediscono la concretizzazione dell'obiettivo della Legge 354 del 1975, che è quello di realizzare la funzione di prevenzione speciale della pena, attraverso l'osservazione e il trattamento individuale dei detenuti in vista del loro recupero sociale. A questi fattori è necessario aggiungere l'esplosione della criminalità comune organizzata e del terrorismo che determinano una situazione di emergenza che incide anche nel contesto carcerario. Le conseguenze sono rappresentate a livello amministrativo dalla costante applicazione dell'originario art. 90 della Legge 354/1975, dall'istituzione degli istituti penitenziari di "massima sicurezza", allo scopo di ospitarvi i detenuti maggiormente pericolosi e dai provvedimenti diretti a coordinare il servizio di sicurezza esterna degli istituti penitenziari, affidandolo ad un ufficiale generale dei carabinieri (Decreto Ministeriale 4 maggio 1977); a livello legislativo, invece, il segno più evidente è rappresentato dalla Legge 20 luglio 1977, n. 450, in materia di restrizione del regime dei permessi.

A partire dagli anni 1982-1983, pur essendo ormai venuta meno l'emergenza del terrorismo, si diffonde un crescente scetticismo sulla possibilità di realizzazione di seri programmi di trattamento e di recupero sociale dei detenuti, all'interno di carceri super affollati e privi di risorse: una vasta corrente dottrinaria critica aspramente l'ideologia del trattamento intramurario (71).

In questo clima, l'amministrazione penitenziaria è impegnata nel tentativo di rendere più governabile il carcere mediante una consistente riduzione del numero dei detenuti e rilanciando le parti della riforma del 1975 che privilegiano i rapporti con la società libera e il reinserimento sociale del detenuto: si prevede, infatti, un graduale ridimensionamento delle aree carcerarie di massima sicurezza e una riduzione dei detenuti sottoposti al regime più rigoroso.

La Legge 10 ottobre 1986, n. 663 (recante "Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure di sicurezza"), riflette la situazione creatasi nella società nel decennio precedente e tenta di fornire una risposta alle contrastanti esigenze della sicurezza (interna ed esterna) degli istituti di pena e quella della progressiva proiezione del trattamento individualizzato oltre le mura penitenziarie. La riforma si fonda, infatti, su due pilastri precisi e ben distinti (72). Il primo è quello della decarcerizzazione, ispirata dall'aspirazione ad una maggiore apertura del carcere verso l'esterno e dalla necessità di dare una risposta all'esigenza di sfoltimento della popolazione carceraria: si prevede, da una parte, l'allargamento delle opportunità di uscita temporanea dal carcere per i detenuti (lavoro all'esterno, permessi premio, semilibertà), dall'altra l'allargamento delle opportunità di esenzione in tutto o in parte, dell'esecuzione penitenziaria stessa (casi particolari di affidamento in prova "senza osservazione" e di semilibertà "senza espiazione", detenzione domiciliare ab origine) ovvero della "uscita anticipata dal carcere" (affidamento in prova, detenzione domiciliare "residuale", liberazione anticipata, liberazione condizionale).

Il secondo pilastro della Legge n. 663 del 1986 è, invece, collegato ad esigenze di ordine e di sicurezza interna agli istituti e mira alla "neutralizzazione" dei detenuti più pericolosi: si prevede, infatti, il regime particolare di sorveglianza, sostanzialmente commisurato a parametri di "pericolosità penitenziaria" dei detenuti stessi.

I due pilastri della riforma trovano la loro ratio ideologica nel criterio fondamentale della diversificazione del trattamento secondo la personalità di ciascun soggetto e s'inserisce coerentemente nello sviluppo del principio del trattamento individualizzato, già affermato in termini espliciti dalla Legge del 1975 (art. 1 comma sesto). Le conseguenze negative della riforma sono, invece, rappresentate dal contrasto creato tra il potenziamento delle misure alternative e il sistema sanzionatorio da un lato e l'ordinamento penitenziario dall'altro (73). Nel primo caso si ha una contrarietà nei confronti del principio di certezza, prevedibilità ed uniformità della sanzione detentiva; nel secondo caso è da rilevare che i rapidissimi mutamenti intervenuti nella composizione della popolazione carceraria, hanno di fatto reso inapplicabili le misure alternative nei confronti di intere categorie di detenuti: si pensi ai detenuti per reati di terrorismo e per reati di stampo mafioso, ovvero ai tossicodipendenti e agli extracomunitari, che rappresentano insieme quasi il 50% della popolazione carceraria.

2.6.1. I contenuti della legge 663 del 1986

La Legge 10 ottobre 1986, n. 663, introduce una serie di rilevanti modifiche dell'Ordinamento penitenziario, ispirate, come detto, all'intento di realizzare una maggiore 'umanizzazione' della pena. In questa direzione va interpretata l'introduzione dei nuovi istituti dei permessi-premio e della detenzione domiciliare; l'inserimento con modifiche nell'Ordinamento penitenziario dell'istituto dell'affidamento 'particolare'; le modifiche agli istituti dell'affidamento 'ordinario', della semilibertà e della liberazione anticipata e molti altri interventi di minor rilievo.

I permessi premio (art. 30-ter) affiancano i permessi per gravi motivi, sono destinati a soddisfare interessi affettivi, culturali e di lavoro del detenuto e favoriscono in genere un primo 'approccio' del condannato con la società libera dopo il reato. La detenzione domiciliare (art. 47-ter) consente l'espiazione della pena nella propria abitazione ovvero in luogo di cura, nel caso di donne incinta, persone gravemente ammalate, persone anziane inabili, detenuti giovani che abbiano particolari esigenze, ecc.: è una misura alternativa che s'ispira a principi 'umanitari' ed è priva di una valenza 'rieducativa' (74). L'affidamento 'particolare' (art. 47-bis) è una misura alternativa ad hoc per tossicodipendenti ed alcooldipendenti, a carattere prevalentemente 'terapeutico' ed intesa a favorirne il recupero (oggi, tale istituto è, peraltro, regolato dal testo unico delle leggi in materia di sostanze stupefacenti, all'art. 94). In materia di affidamento 'ordinario' sono state eliminate le restrizioni alla fruizione del beneficio da parte dei condannati per gravi delitti; è ridotto il periodo di osservazione in istituto (da tre ad un mese); si crea la possibilità di ottenere il beneficio anche senza osservazione in istituto, "dalla libertà", qualora i dati relativi al comportamento tenuto dal soggetto (dopo un periodo di custodia cautelare oppure anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare in virtù della sentenza n. 569 del 1989 della Corte Costituzionale) consentano egualmente al giudice di formulare una prognosi positiva. Per quanto riguarda la semilibertà, la Legge amplia l'ambito di applicazione, prevedendo la possibilità di concessione prima della metà pena ed in alternativa all'affidamento qualora i risultati dell'osservazione in istituto lo consentano; possono inoltre ottenerla "dalla libertà" i condannati per reati di lieve entità e dopo venti anni gli ergastolani. In materia di liberazione anticipata è aumentata la riduzione di pena (da venti a quarantacinque giorni) e si chiarisce che la valutazione della partecipazione all'opera di rieducazione non deve essere "globale", ma "frazionata", cioè semestre per semestre.

Il decisivo ampliamento dell'ambito di applicazione dei benefici penitenziari attuato dalla Legge n. 663 del 1986 è 'bilanciato', come già ricordato, da una serie di interventi che vanno nell'opposta direzione di un maggior rigore nella disciplina all'interno degli istituti di pena e nel settore dei benefici stessi. Si allude in particolare alla normativa in materia di regime di sorveglianza particolare (artt. 14-bis e ss.) e di situazioni di emergenza (art. 41-bis primo comma), alla scomputabilità del periodo di permesso o licenza in caso di violazioni delle prescrizioni (art. 53- bis), al nuovo potere di sospensione cautelare della misura alternativa attribuito al Magistrato di sorveglianza (art. 51-ter).

2.6.2. Le innovazioni al regime penale e penitenziario dell'ergastolo

La legge 10 ottobre 1986, n. 663 incide in modo profondo e decisivo sul regime penale e penitenziario dei condannati all'ergastolo, al punto che una gran parte della dottrina, a seguito della sua entrata in vigore, parla di una vera e propria abolizione della pena dell'ergastolo.

In realtà la caratteristica della perpetuità della pena dell'ergastolo non è messa in discussione, data la permanente configurazione legislativa dell'ergastolo come pena di regola "perpetua" (art. 22 del Codice penale); tuttavia, la previsione della possibilità di accesso ai "benefici" ammessi dalla legge da parte dei condannati all'ergastolo - sulla base della giusta premessa che anche a loro debba venire offerta ogni possibile chanche di risocializzazione - ha trasformato la caratteristica della perpetuità da assoluta quantomeno in previsione tendenziale.

Questo provvedimento legislativo riconosce ai condannati all'ergastolo una posizione non discriminata riguardo alle opportunità di trattamento previste per i condannati a pene detentive temporanee ed è coerente con i principi sanciti dagli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione che impongono di attuare nei confronti di tutti i condannati, indipendentemente dalla durata della pena e compresi quindi i condannati all'ergastolo, l'esigenza dell'umanizzazione e la finalità rieducativa della pena.

La disciplina prevista dalla Legge n. 663 del 1986 è sicuramente influenzata dal contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 274 del 1983, che incide in modo particolare con riferimento al tema in esame: s'impone, infatti, la rimozione di ogni ostacolo circa l'applicabilità agli ergastolani delle riduzioni di pena previste dall'allora vigente art. 54 della Legge 354 del 1975, ma soprattutto, si fornisce alcuni indirizzi di politica legislativa, direttamente desumibili dal testo costituzionale, per quanto attiene ai rapporti tra pena dell'ergastolo e misure premiali previste dall'Ordinamento penitenziario. Sulla base delle indicazioni contenute in questa sentenza, il legislatore del 1986 delinea "una sorta di trama parallela per quanto riguarda la regolamentazione" (75) dell'accesso dei condannati all'ergastolo ai benefici che la legge 354 del 1975 prefigura nei confronti degli altri condannati a pene detentive: più precisamente, la Legge si preoccupa di dettare alcune specifiche disposizioni, legate alla natura "perpetua" della pena, dirette a definire i presupposti oggettivi per l'ammissione dei condannati all'ergastolo alle dette misure.

Le modifiche apportate della Legge del 1986 riguardano:

  • i permessi premio (art. 30-ter, comma quarto), ai quali gli ergastolani possono accedervi dopo l'espiazione di almeno dieci anni di pena;
  • la semilibertà (art. 50 comma quinto), che può essere fruita dagli ergastolani dopo aver scontato almeno venti anni di pena. L'eliminazione del limite prima esistente all'applicazione della semilibertà nei confronti dell'ergastolano è di gran rilievo; come detto, si trattava di limite implicito, derivante dal fatto che l'ammissione alla semilibertà presupponeva in ogni caso l'espiazione di almeno metà della pena: l'eliminazione di questo limite non poteva essere ottenuta con un intervento semplicemente ablatorio o negativo, ma con un'espressa previsione in positivo che trova posto nell'attuale quinto comma dell'art. 50 (76), dove è detto che l'ergastolano può essere ammesso alla semilibertà "dopo aver espiato almeno venti anni di pena". Sotto un profilo sostanziale è ipotizzabile che l'esclusione della semilibertà per gli ergastolani, sia dovuta alle caratteristiche essenziali della pena dell'ergastolo, diversa dalle altre a causa della sua estrema gravità, tale da comportare l'esclusione di qualunque 'apertura' risocializzativa. La concedibilità della semilibertà agli ergastolani - è affermato da Francesco Palazzo (77) - ha trasformato la fisionomia stessa della pena perpetua, tuttavia è giusto ricordare che questo processo di trasformazione e di erosione dell'ergastolo inizia già nel 1962, con la legge che consente all'ergastolano la concedibilità della liberazione condizionale e, in effetti, non è più possibile, dopo questa legge, mantenere una così "palese distorsione sistematica" (78) tra concedibilità della liberazione condizionale e divieto della semilibertà per gli ergastolani.
  • La liberazione condizionale (art. 176 del Codice penale), il cui limite per accedervi è abbassato da vent'otto a ventisei anni. Questa modifica (apportata dall'art. 28 della Legge in esame) si colloca all'interno dell'importante processo evolutivo tendente al progressivo affievolimento del carattere "perpetuo" della pena dell'ergastolo, in attuazione del principio costituzionale che impone il finalismo rieducativo della pena (79): si deve ricordare che l'art. 176 del Codice penale, nella sua formulazione originaria, non consentiva di ammettere il condannato all'ergastolo alla liberazione condizionale, il che è reso possibile solo con la Legge 25 novembre 1962, n. 1634. L'esistenza di questa possibilità ha poi un peso decisivo nella sentenza costituzionale n. 264 del 1974, con la quale si ammette la legittimità costituzionale dell'art. 22 del Codice penale. La successiva sentenza costituzionale n. 274 del 1983 riconosce l'applicabilità delle riduzioni di pena per i condannati all'ergastolo. La novella penitenziaria del 1986 s'inserisce in questa prospettiva evolutiva, anticipando ancora il momento nel quale il condannato all'ergastolo può essere ammesso a fruire della liberazione condizionale; si offre, quindi, al condannato all'ergastolo una significativa "possibilità di reinserimento sociale" e si individua anche per tale categoria di detenuti una progressione nel trattamento penitenziario (permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale). Anche sotto questo profilo quindi si attenuano le caratteristiche della pena dell'ergastolo configgenti con il principio di cui all'art. 27 terzo comma della Costituzione (80).
  • La liberazione anticipata (art. 54, comma quarto), che può essere utilizzata dagli ergastolani ai fini del computo della pena necessaria per poter accedere alla liberazione condizionale (e questo a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 274 del 1983) e ai fini del corrispondente computo relativo ai permessi premio e alla semilibertà. Grazie all'espressa previsione legislativa del possibile accesso agli stessi ergastolani agli istituti predetti e considerato l'abbassamento a ventisei anni del limite di pena da scontare ai fini della liberazione condizionale, ritiene Giovanni Fiandaca, "è oggi a maggior ragione sostenibile che la pena dell'ergastolo ha ormai perso in concreto il carattere della perpetuità" (81).

Nel 1986, quindi, la reale "consistenza afflittiva" dell'ergastolo deve essere soppesata tenendo conto di tutti gli istituti risocializzativi che possono innestarsi su di esso: non solo i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale, che già di per sé realizzano un sistema perfettamente progressivo dalla detenzione ordinaria alla libertà piena; ma anche la fruibilità delle riduzioni di pena da parte dell'ergastolano, con conseguente anticipazione dei termini di fruibilità di tutti gli istituti prima ricordati. Nonostante questo, l'ergastolo continua ad esistere nel nostro ordinamento e quindi non è esatto sostenere che il legislatore del 1986 ha completamente scavalcato le indicazioni, favorevoli all'ergastolo, desumibili dall'esito del referendum abrogativo del 1981. Anzi, è forse possibile dire, come sostiene Francesco Palazzo (82), che la riforma del 1986 realizza un interessante equilibrio tra l'orientamento dell'opinione pubblica, sempre emotivamente incline alle massime pene e la tendenza - costituzionalmente fondata- verso l'umanizzazione delle pene, le cui tappe sono costituite dall'abolizione della pena di morte e in prospettiva della pena perpetua.

Tavola X. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1981-1990, situazione a fine anno) (83)
Anni Numero complessivo
1981 318
1982 207
1983 226
1984 225
1985 242
1986 247
1987 220
1988 275
1989 300
1990 308

2.7. Il quadro dei benefici e delle misure alternative alla detenzione

2.7.1. I permessi premio. Nozione, finalità e natura dell'istituto

Il permesso premio costituisce lo strumento mediante il quale si può consentire alla persona stabilmente privata della libertà di trascorrere un breve periodo di tempo nell'ambiente libero, con determinate cautele e con l'obbligo di rientro spontaneo nell'istituto penitenziario alla scadenza del termine (84).

Varie sono state le valutazioni inerenti alla natura dell'istituto dei permessi premio. In dottrina, Fausto Giunta valorizza la ratio premiale della concessione, quale ricompensa per la condotta regolare, ponendone in secondo piano la funzione special-preventiva (85). Alessandro Margara rileva, invece, come i nuovi permessi rispondano ad un'esigenza special-preventiva, svolgendo una funzione rieducativa e contrapponendosi alle misure che rispondono solo alla finalità di umanizzazione della pena; afferma, infatti, Margara che alla base dei permessi premio vi è l'idea di porre il condannato "dinanzi alle proprie responsabilità, mettendolo nelle condizioni di abbandonare o ribadire le proprie vecchie scelte" (86). Concorde con Margara è Luca Tampieri il quale attribuisce all'istituto in esame natura risocializzativa e special-preventiva, pur criticando la funzione premiale che essi assumono, anche a causa della qualificazione di "premio" fatta dal legislatore (87). Infine, vi sono altri autori che, criticando la mancanza di chiarezza della legge, ritengono che la ratio dei permessi premio non sia premiale, ma sia strumentale all'ottenimento della 'regolarità' e della 'correttezza' dei detenuti (88).

In giurisprudenza, la Corte costituzionale indica una concezione "plurifunzionale" del permesso premio rilevando che tale istituto:

Oltre che incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, in funzione, appunto del premio previsto, è esso stesso strumento di rieducazione, consentendo un iniziale reinserimento del condannato nella società, essendo per altro l'istituto condizionato all'assenza di particolare pericolosità sociale, in conseguenza della c.d. 'regolare condotta', ossia, secondo l'art. 30-ter, 8º co., della manifestazione, durante la detenzione, di costante senso di responsabilità e di correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzative degli istituti e nelle eventuali attività lavorative e culturali. (89)

2.7.1.1. La disciplina giuridica dei permessi premio: il problema dell'isolamento diurno

Il permesso premio previsto dall'art. 30-ter dell'Ordinamento penitenziario può essere concesso ai condannati alla pena dell'ergastolo, dopo l'espiazione di almeno dieci anni di pena (90). E' opportuno ricordare che, al fine della maturazione dei termini di espiazione di pena previsti per la concessione dei permessi premio, si considera come scontata la parte di pena detratta per concessione della liberazione anticipata (art. 54 dell'Ordinamento penitenziario) (91). Nei confronti di soggetti che, durante l'espiazione della pena o delle misure restrittive, hanno riportato condanna o sono imputati per delitto colposo commesso durante l'espiazione della pena, la concessione è ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto (art. 30-ter, quinto comma, dell'Ordinamento penitenziario). La lunghezza del periodo di sospensione dell'ammissibilità del beneficio indica chiaramente che la norma da un lato ha come destinatari i condannati a lunghe pene detentive, dall'altro sembra diretta ad incentivare il più possibile comportamenti corretti e rispettosi della legge, dato i molti reati che sono commessi all'interno degli istituti. Questa seconda caratteristica appare, però, troppo "punitiva" poiché porta a dare rilievo a qualsiasi delitto doloso per il quale il soggetto è imputato, con il risultato che la sospensione dei permessi può riguardare soggetti che hanno commesso fatti di modesta gravità, sui quali l'accertamento può non giungere in tempi brevi (92).

E' da ricordare, infine, la grande rilevanza del disposto dell'art. 53-bis, comma primo, dell'Ordinamento penitenziario secondo il quale: "Il tempo trascorso dal detenuto o dall'internato in permesso o in licenza è computato ad ogni effetto nella durata delle misure restrittive della libertà personale, salvi i casi di mancato rientro o di gravi comportamenti da cui risulta che il soggetto non si è dimostrato meritevole del beneficio". In questi casi il tempo stesso è escluso dal computo della pena con decreto motivato del magistrato di sorveglianza.

Sono stati prospettati dubbi sulla possibilità di fruire dei permessi premio da parte di condannati alla pena dell'ergastolo, che, avendo già scontato il periodo minimo di detenzione (pari a dieci anni), sono ancora soggetti all'isolamento diurno (93). E' da premettere che tale situazione è da considerarsi eccezionale: si può verificare, infatti, solo in caso di condanna che diviene definitiva successivavamente a quella che commina la pena dell'ergastolo (per esempio in caso di condanna definitiva per un reato commesso durante l'esecuzione). Si deve ricordare che, secondo la Corte di Cassazione, la misura dell'isolamento diurno, da considerarsi "sanzione per i delitti concorrenti con quello per cui viene inflitto l'ergastolo", deve trovare immediata esecuzione non appena la sentenza di condanna diviene irrevocabile, al pari della pena dell'ergastolo con questa inflitta. La Corte di Cassazione, nell'enunciare tale principio, ha anche affermato che la mancata previsione legislativa di un termine per l'esecuzione dell'isolamento diurno non contrasta con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiché il carattere afflittivo della misura è compatibile con la funzione rieducativa della pena, dal momento che, in costanza di isolamento, si ha solo attenuazione, ma non soppressione del trattamento penitenziario (94). La fruizione di permessi premio ex art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario è, a nostro avviso, compatibile con la misura dell'isolamento diurno poiché le norme che lo disciplinano non fanno riferimento ad un possibile contrasto tra la sanzione e il beneficio penitenziario: né l'art. 30-ter dell'Ordinamento penitenziario, né l'art. 73, comma quarto, del Regolamento di esecuzione, infatti, prevedono tale divieto (95). A livello giurisprudenziale la citata sentenza della Cassazione riconosce la possibilità solo di un'attenuazione del trattamento penitenziario e non di una sua soppressione, come già aveva disposto la Corte costituzionale (96). La citata circolare del 2002 (97), rileva, infine, la necessità di una tempestiva esecuzione della sanzione dell'isolamento diurno, ma non fa riferimento ad alcuna incompatibilità. Si deve ritenere, quindi, che un provvedimento di rigetto di un'istanza di permesso premio ex art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario, motivato sulla incompatibilità con la misura dell'isolamento diurno, sia reclamabile al Tribunale di sorveglianza, poiché non vi sono dubbi che i permessi premio siano strumenti del trattamento che non possono essere soppressi per questo motivo (98).

2.7.2. L'ergastolo e la semilibertà

Il quinto comma del nuovo art. 50, che recita: "il condannato all'ergastolo può essere ammesso al regime di semilibertà dopo aver espiato almeno venti anni di pena", è sicuramente una delle disposizioni più importanti da un punto di vista sia 'tecnico', sia 'ideologico' dell'intera legge n. 663 del 1986 (99). Essa introduce nell'istituto un grande elemento di flessibilità; rappresenta, come detto in precedenza, una delle innovazioni auspicate dalla dottrina ed è, infine, una fra quelle di maggiore impatto sull'opinione pubblica. In seguito all'entrata in vigore della legge di riforma penitenziaria, i mass-media riportarono, infatti, titoli preoccupanti: "L'ergastolo non esiste più" (100), "Nasce il carcere con lo sconto. Scompare in pratica la figura dell'ergastolo" (101), in cui è scritto:

Il carcere a vita non esiste più: lo ha cancellato nei fatti la nuova riforma penitenziaria con una serie di istituti che ne hanno determinato l'abrogazione sostanziale che non era riuscita nemmeno all'iniziativa referendaria di qualche anno fa.

La semilibertà, che consente all'ergastolano di "essere detenuto di notte e libero cittadino di giorno", fu sicuramente il contributo più consistente al diffondersi di tale opinione nel grande pubblico. Con l'estensione della possibilità di fruire del regime di semilibertà da parte dei condannati alla pena dell'ergastolo, tuttavia, il legislatore modificò profondamente l'ordinamento penitenziario al fine di attuare pienamente il principio contenuto nell'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Nella Relazione della Commissione giustizia si affermò, infatti:

Il mantenimento dell'esclusione apparirebbe del tutto privo di senso, solo che si consideri come, già secondo la legislazione vigente, il condannato all'ergastolo può comunque beneficiare della più favorevole misura della liberazione condizionale. Nel sistema che si propone, viceversa, la semilibertà, potendo essere concessa prima della liberazione condizionale potrebbe essere utilmente impiegata proprio come momento preparatorio della stessa liberazione nell'ottica del cosiddetto trattamento progressivo (102).

E' da ricordare, poi, che nel corso dei lavori della Commissione giustizia del Senato, si ridusse il limite di pena da scontare per essere ammessi al beneficio, dagli originali venti anni (103), fino a diciotto. In seguito, però, fu accolta, il 29 aprile 1986, la proposta del Senatore Gallo (formulata in sede referente il 17 aprile 1986) che riportò agli originari venti anni di pena espiata, il limite entro il quale il condannato all'ergastolo poteva (e può adesso) beneficiare della semilibertà.

L'estensione della fruibilità del regime di semilibertà deve essere letto con tutte le innovazioni apportate alla disciplina dell'ergastolo dalla legge n. 663 del 1986, che, come detto, estende la fruibilità dei permessi premio agli ergastolani, riduce da vent'otto a ventisei anni il periodo di pena che occorre aver scontato per essere ammessi alla liberazione condizionale e, infine, estende ai condannati all'ergastolo i benefici delle riduzioni di pena. Da questi dati emerge con chiarezza che la legge 663/1986 rappresenta il punto di arrivo di tutta una serie di interventi a livello legislativo, giurisprudenziale e della dottrina, tesi ad umanizzare e a finalizzare in senso rieducativo la pena dell'ergastolo, o, addirittura, ad abolirlo, poiché in contrasto con la Costituzione.

Gli interventi legislativi trasformano la pena dell'ergastolo nella pena "dotata dei più evidenti connotati e dei più ampi margini di flessibilità in sede esecutiva", come afferma Guido Casaroli (104). L'ergastolo, in altre parole, si configura come unico caso di razionale collegamento tra le diverse misure alternative, secondo una corretta e reale logica di 'progressione del trattamento'. Si consente una costante verifica del processo di rieducazione del condannato verso la finalità del suo reinserimento sociale, cui fa da riscontro la possibilità di una contestuale fruibilità di benefici sempre più ampi. E', infatti, possibile individuare una progressiva sequenza premiale che mette in rapporto "regolarità della condotta" - "partecipazione all'opera di rieducazione" - "progressi compiuti nel corso del trattamento" - "comportamento che faccia ritenere sicuro il ravvedimento" con i permessi premio, la liberazione anticipata, la semilibertà e la liberazione condizionale (105). In particolare, è assegnato alla semilibertà un ruolo preparatorio e una funzione propedeutica al ritorno in libertà (sia pur vigilata ed assistita), fornendo alla successiva libertà condizionale una base solida di valutazione del detenuto che ha già sperimentato la vita sociale, sia pure sottoposto ai vincoli della semilibertà.

Da un punto di vista generale, è poi da aggiungere che l'estensione del beneficio della semilibertà ai condannati all'ergastolo fece esclamare, ad una parte della dottrina, che la pena dell'ergastolo era bandita dal nostro ordinamento, sostituita da una sentenza penale "indeterminata" (106). Contraria a questa tesi rimase una parte considerevole della dottrina, che rilevò con assoluta precisione e partecipazione come, invece, continuasse ad esistere, nel nostro ordinamento, la pena dell'ergastolo (107).

2.7.2.1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 403 del 1993

Una possibile ipotesi di discriminazione nella disciplina dell'ergastolo è quella che si viene a creare tra condannato all'ergastolo che mantiene in carcere un condotta irreprensibile ed altri che, invece, commettono reati anche in regime di carcerazione. E' da ricordare, prima di tutto, che gli artt. 72 e 80 del Codice penale, relativi al concorso dei reati ed al cumulo delle pene, prevedono che colui il quale commette più delitti, uno dei quali comporti l'ergastolo, è assoggettato a tale pena con l'addizionale dell'isolamento diurno (variabile secondo la gravità degli illeciti commessi) e tale regime sanzionatorio opera anche in caso di commissione di reati dopo la sentenza di condanna all'ergastolo. L'art. 50, comma quinto della legge 26 luglio 1975 n. 354 dispone che anche "il condannato all'ergastolo può essere ammesso alla semilibertà dopo aver espiato almeno venti anni di pena", senza differenziare i detenuti che hanno mantenuto in carcere una condotta irreprensibile ed altri che hanno commesso reati durante la carcerazione. Dalla normativa penale, secondo il Tribunale di sorveglianza di Torino (108), si evince la previsione di un identico regime, ai fini della semilibertà, fra ergastolani che hanno tenuto buona condotta ed ergastolani che hanno continuato a delinquere.

La Corte costituzionale investita della questione di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma quinto, della legge n. 354 del 1975, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, poiché quell'articolo, per i condannati all'ergastolo, subordina l'ammissione alla semilibertà all'avvenuta espiazione di venti anni di reclusione, anche nel caso in cui il condannato abbia riportato condanne per reati commessi durante lo stato di detenzione, ha dichiarato inammissibile le questione con la sentenza n. 403 del 1993, esprimendosi, però, in due direzioni.

Sul merito della questione la Corte ha censurato il regime vigente, riconoscendo: "l'indubbia diversità di situazioni ravvisabile tra condannati all'ergastolo che tengono un'irreprensibile condotta ...e condannati alla stessa pena che nel corso dell'esecuzione pongono in essere fatti di rilevanza penale" (109). Il giudice costituzionale, poi, ha osservato che la caducazione dell'art. 50, quinto comma, non è la soluzione univoca che possa "rimuovere la situazione di privilegio ai fini dell'accesso al beneficio della semilibertà del condannato all'ergastolo che continui a delinquere"; infatti:

la riconduzione a ragionevolezza del regime censurato potrebbe realizzarsi attraverso interventi legislativi di diversa complessità sulla sola normativa penitenziaria ovvero sulla normativa penitenziaria e la normativa sostanziale insieme, così da stabilire un periodo anche determinato, ma in base a canoni conformi a ragionevolezza entro il quale la intervenuta commissione di reati possa spostare il giorno di decorrenza dell'ammissione al beneficio (110).

Il giudice costituzionale ha sottolineato, inoltre, la differenza di regime intercorrente fra concorso di reati che comportano, tutti, pene temporanee e concorso degli stessi che comportino, almeno uno di essi, la pena dell'ergastolo, disciplinati rispettivamente dagli artt. 73 e 72 del Codice penale e ha affermato che: "non è possibile istituire una disciplina assolutamente simmetrica, operando il diverso criterio non solo quantitativo, ma anche qualitativo fissato dall'art. 72 dello stesso codice" (111).

La sentenza termina con la constatazione di come non sia individuabile una soluzione costituzionalmente obbligata, quindi "provvedere ad una domanda di tal genere implicherebbe conseguentemente una scelta discrezionale che eccede dai poteri di questa Corte, rientrando nell'esclusiva competenza del legislatore" (112).

La decisione della Corte costituzionale sollevò la reazione critica di Gladio Gemma, il quale approvò pienamente la censura mossa al trattamento indifferenziato dei condannati all'ergastolo che avessero commesso un reato durante l'espiazione della pena, ma dissentì nettamente dalla decisione di inammissibilità emanata dalla Corte per due ragioni: la prima, poiché riteneva che le decisioni di inammissibilità per difetto di potere non dovessero essere pronunciate, ma "devono essere bandite dalla giurisprudenza costituzionale" (113); la seconda, poiché secondo l'autore la questione prospettata doveva essere risolta con una sentenza di accoglimento. Circa questo secondo profilo, l'autore mosse tre obiezioni alla decisione della Corte:

  1. Il principio che deve orientare l'interprete in materia di concorso di reati, è quello del cumulo materiale, che deve essere applicato anche all'ipotesi prevista dall'art. 50, comma quinto, della legge n. 354 del 1975.
  2. L'applicazione del cumulo materiale alla pena dell'ergastolo, comporta che l'ergastolano che commette un reato durante l'espiazione della pena può essere posto in semilibertà dopo aver scontato venti anni più la metà della pena infertagli dalla sentenza di condanna successiva a quella che ha pronunciato l'ergastolo.
  3. L'unica modifica ragionevole è quella dell'art. 50, comma quinto, della legge 354 del 1975, poiché è questa la norma che determina la lacuna nell'ordinamento.

Per Gemma, quindi, l'unica soluzione possibile, in caso di concorso di reati e di pene, e di misure sostitutive, è l'applicabilità del cumulo dei periodi espiati o da espiare in caso di commissione di una pluralità di reati, prima o durante la reclusione.

2.7.2.2. L'interpretazione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione è intervenuta in due occasioni al fine di chiarire uno degli aspetti più controversi della disciplina della semilibertà: il problema del presupposto della pena espiata (che, come detto, per i condannati all'ergastolo è venti anni) necessaria affinché il condannato possa accedere alla misura alternativa. La Suprema Corte, con la prima decisione, ha statuito che il limite di almeno venti anni di pena espiata, previsto dall'art. 50, quinto comma, dell'ordinamento penitenziario come condizione per l'ammissibilità del condannato all'ergastolo al regime di semilibertà, non è suscettibile di riduzione per effetto di indulto, poiché questo istituto non ha la finalità di anticipare il passaggio da una determinata forma di espiazione ad un'altra meno afflittiva (114). Questa decisione conferma un orientamento costante della Cassazione, che ha sempre negato l'applicabilità degli effetti dell'indulto alla pena dell'ergastolo, ribadendo in ogni occasione che la "specifica connotazione di pena perpetua" è incompatibile con cause estintive che presuppongono una pena temporanea.

La seconda decisione chiarisce il problema dell'inizio dell'esecuzione della pena dell'eragstolo, nel caso in cui questa sia cumulata con altre condanne a pena tempoarea: la Corte di Cassazione ha, infatti, statuito che ai fini di stabilire se ricorre la condizione di cui all'art. 50, comma quinto, dell'ordinamento penitenziario, secondo cui "il condannato all'ergastolo può essere ammesso al regime di semilibertà dopo aver espiato almeno venti anni di pena", qualora la pena dell'ergastolo sia inclusa in un provvedimento di unificazione di pene concorrenti insieme a pene temporanee già in parte scontate, non può tenersi conto delle pene espiate prima della commissione del reato per cui è stata inflitta la pena dell'ergastolo (115).

Con questa decisione la Corte ha evitato che si creasse una situazione di vantaggio a favore del condannato all'ergastolo che abbia riportato in precedenza condanne a pene detentive in corso di espiazione rispetto al condannato a tale pena, prima incensurato. Deve, inoltre, considerarsi che l'art. 657 del Codice di procedura penale (che disciplina la fungibilità delle pene), al comma quattro dispone che "in ogni caso sono computate soltanto la custodia cautelare subita e le pene espiate dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinante la pena da eseguire": tale norma risponde al principio secondo cui l'esecuzione della pena non può mai precedere la commissione del reato, perché altrimenti avrebbe l'effetto di incoraggiare anziché frenare la commssione di reati. La Suprema Corte ha, quindi, ritenuto che questo principio debba essere applicato anche quando si tratti di determinare se il condannato abbia già espiato la quantità di pena necessaria per l'ammissione alla semilibertà.

2.7.3. La liberazione anticipata

La novella penitenziaria del 1986 apporta significative innovazioni all'istituto delle riduzioni di pena, volte principalmente a potenziarne ed estenderne l'efficacia (116). La liberazione anticipata non può essere considerata una misura alternativa alla detenzione, benché sia collocata sistematicamente nel Capo VI (intitolato "Misure alternative alla detenzione") della legge sull'ordinamento penitenziario (117). La liberazione anticipata, infatti, consiste in una riduzione della pena che realizza il risultato di anticipare il termine finale del periodo di detenzione (118). La nuova formulazione dell'art. 54, ultimo comma, dell'ordinamento penitenziario riconosce, però, anche un secondo effetto "indiretto" della liberazione anticipata (119): la possibilità di computere come pena espiata la parte di pena abbuonata (120). Questa nuova formulazione dell'ultimo comma dell'art. 54 contribuisce a valorizzare la natura di strumento di progressione nel trattamento delle riduzioni di pena: la possibilità di utilizzare le riduzioni di pena ai fini della concessione dei permessi premio e soprattutto, ai fini dell'ammissione al regime di semilibertà, contribuisce ad accentuare la funzione incentivante dell'istituto che dovrebbe esercitare la sua influenza positiva su tutta la durata della detenzione, favorendo, cioè, una progressione nel trattamento rieducativo (121) attraverso la concessione delle prime riduzioni di pena, l'ammissione al regime di semilibertà e l'ulteriore acquisizione di riduzioni di pena sino allo sbocco conclusivo della liberazione condizionale.

2.7.3.1. La valutazione semestrale

Prima della riforma del 1986, la giurisprudenza della Corte di cassazione, in contrasto con il prevalente orientamento delle sezioni di sorveglianza e della dottrina, aveva sostenuto il principio della globalità della valutazione del comportamento del detenuto al fine della concessione della liberazione anticipata. Questa impostazione comportava l'adozione di un unico provvedimento, da compiersi nella parte terminale della pena, contenente un giudizio globale del periodo di detenzione ed era, com'è evidente lesiva nei confronti dell'ergastolano (122).

Con la legge n. 663 del 1986 si specifica con chiarezza che la detrazione deve essere riferita ad ogni singolo semestre di pena scontata. Si codifica, così, il principio di "semestralizzazione" o "atomistico" che deve essere inteso come:

Potere dovere del giudice di esprimere la valutazione positiva o negativa sulla richiesta di liberazione anticipata in relazione a ciascuno dei semestri di pena scontata, siano detti semestri valutati con separati provvedimenti, siano fatti oggetto di unica ordinanza, in ogni caso con facoltà di adottare decisioni diverse per i vari semestri (123).

2.7.3.2. La presunzione di avvenuta espiazione

Il quarto comma dell'art. 54 della legge penitenziaria, che "si applica anche ai condannati all'ergastolo", dispone che: "agli effetti del computo di pena che occorre aver espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale, la parte di pena detratta ai sensi del comma 1, si considera come scontata".

Questa "presunzione di avvenuta espiazione della pena" (124) si riconnette al significato e alle finalità della liberazione anticipata che incentiva la partecipazione all'opera di rieducazione. In concreto, per la concessione dei benefici connessi alla condizione dell'avvenuta espiazione di una determinata quantità di pena in termini assoluti (è il caso del condannato all'ergastolo), "i giorni di liberazione anticipata si considerano come pena espiata" (125). Questa presunzione non si applica nei confronti dei condannati per i delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289-bis del Codice penale) e di sequestro a scopo di rapina o di estorsione (art. 630 del Codice penale), qualora sia stata cagionata la morte del sequestrato: il quarto comma dell'art 58-quater dell'Ordinamento penitenziario, inserito con la legge n. 203 del 1991, prevede, infatti, la necessità della effettiva espiazione di almeno ventisei anni di pena, nel caso dell'ergastolo, al fine della concessione dei benefici penitenziari specificati nell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario (assegnazione al lavoro all'esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione).

SCHEMA DEGLI EFFETTI DELLA PRESUNZIONE DI ESPIAZIONE (126)
(art. 54 dell'ordinamento penitenziario)
Pena in espiazione Permessi premio Regime di semilibertà Liberazione condizionale
(1) (2) (1) (2) (1) (2)
Ergastolo anni 10 anni 8 anni 20 anni 16 anni 26 anni 21
  1. Entità della pena da espiare in astratto per dettato normativo.
  2. Entità della pena da espiare in concerto nell'ipotesi di integrale concessione della riduzione di pena per liberazione anticipata.

N.B.- La tabella non riflette gli inasprimenti dei presupposti per la concessione introdotti dalla legge 203/1991.

2.7.3.3. Liberazione anticipata ed ergastolo nell'interpretazione della giurisprudenza

La giurisprudenza della Corte di Cassazione, in contrasto con numerose sezioni di sorveglianza, aveva sotenuto l'inapplicabilità dell'art. 54, ultimo comma, dell'ordinamento penitenziario ai condannati all'ergastolo facendo leva sul carattere "perpetuo" della pena dell'ergastolo, affermato nell'art. 22 e sulla formulazione letterale dell'art. 176, comma terzo, del Codice penale, che subordinava l'ammissione alla liberazione condizionale del condannato all'ergastolo all'avere "effettivamente" scontato ventotto anni di pena. La Corte costituzionale, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 54 dell'ordinamento penitenziario, con la sentenza n. 274 del 1983 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 54 dell'ordinamento penitenziario "nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all'ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l'ammissione alla liberazione condizionale" (127). L'ultimo comma dell'art. 54 dell'ordinamento penitenziario, nella nuova formulazione, prevede adesso ed esplicitamente l'applicazione delle riduzioni di pena anche ai condannati all'ergastolo.

La Corte di Cassazione ha, poi, rigettato la richiesta di estendere gli effetti dell'indulto contentuo nell'art. 1 del Decreto del Presidente della Repubblica 2 dicembre 1990, n. 394, alla pena dell'ergastolo. La Corte ha rilevato che la caratteristica di perpetuità di questa pena è incompatibile con tutte quelle cause estintive della pena che presuppongono, ai fini della loro applicazione, una durata definita nel tempo; ha, inoltre, escluso che la possibilità per l'ergastolano, al pari degli altri condannati a pene detentive, di ricorrere agli istituti della liberazione condizionale (art. 176, terzo comma, del Codice penale) e della liberazione anticipata (art. 54 dell'ordinamento penitenziario), permetta di concludere diversamente, poiché in relazione a tali benefici, secondo la Suprema Corte, non si è derogato al principio dell'inscindibilità dell'ergastolo, né si è eliminato il carattere perpetuo di esso, ma si è solo affermato che, dopo un certo periodo di detenzione, "anche il condannato all'ergastolo può fruire di quei benefici se ha dato prova, con la sua condotta, di ravvedimento, ovvero ha dimostrato attivo interesse all'opera di rieducazione" (128).

2.7.4. La liberazione condizionale e l'ergastolo

La liberazione condizionale, disciplinata dagli art. 176 e 177 del Codice penale, con le modifiche apportate dalle leggi n. 1634 del 1962 e n. 663 del 1986 e sotto il profilo processuale dalla legge n. 6 del 1975, comporta la sospensione dell'esecuzione della pena per un certo tempo, trascorso il quale senza che il condannato liberato abbia commesso un altro reato la pena si estingue (129).

La liberazione condizionale storicamente nasce nelle colonie inglesi dell'Australia, meta dei delinquenti condannati alla deportazione. Al fine di soddisfare le esigenze della colonizzazione, il Governatore poteva concedere ai detenuti di buona condotta il permesso di essere assunti e stipendiati dai coloni; permesso che poteva essere revocato qualora i liberati avessero dato motivo di lagnanza. In Italia è introdotta dal Codice Zanardelli, con la finalità di combattere la recidiva attraverso la liberazione anticipata del condannato che aveva dato prova di sicuro ravvedimento ed era applicabile alle pene di lunga durata. Il codice del 1930, fondendo l'istituto sulla buona condotta, tornò alla vecchia concezione penitenziaria della liberazione condizionale come premio al buon detenuto, a prescindere dalla sua effettiva risocializzazione. Con la legge n. 1634 del 1962 si ritornò al presupposto del ravvedimento del soggetto e si estese l'istituto ai condannati all'ergastolo. Dopo la legge n. 354 del 1975, che introduce le misure alternative alla detenzione, la liberazione condizionale, in quanto strumento atto a determinare la prosecuzione della pena in un regime di libertà vigilata, che si contrappone alla condizione di detenuto, deve essere considerata una misura alternativa alla detenzione. Per i condannati all'ergastolo, la liberazione condizionale, costituisce, l'ultima e definitiva misura che ne favorisce la risocializzazione.

L'art. 28 della legge n. 663 del 1986 ha realizzato una delle più importanti ed incisive modifiche del sistema dell'Ordinamento penitenziario. La norma ha avuto un iter parlamentare complesso: essa, infatti, non era prevista nell'originario disegno di legge recante "Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario" presentato in Senato il 19 luglio 1983. L'emendamento aggiuntivo, destinato a modificare l'art. 176 del Codice penale, fu introdotto nel disegno di legge solo il 17 aprile 1986 per opera della Commissione giustizia del Senato, che lo approvò il successivo 5 giugno: in esso, risultava, dato particolare, che la modifica di cui all'art. 28 riguardava il secondo comma, anziché il terzo, come avrebbe dovuto essere, dell'art. 176. Trasferito il disegno di legge alla Camera, furono presentati diversi emendamenti e proposti articoli aggiuntivi all'art. 28 (tra cui l'art. 28-bis che recava l'eloquente rubrica "Abolizione della pena dell'ergastolo"), che, però, furono respinti tutti nella seduta del 11 settembre 1986, quando la Camera approvò il testo elaborato dal Senato. In questa sede, il successivo 25 settembre, fu approvata definitivamente la norma, limitandosi a correggerne il testo introduttivo, sostituendo le parole "Il secondo comma" con "Il terzo comma" dell'art. 176 del Codice penale "è sostituito".

La diminuzione quantitiva del limite di pena da scontare dai condannati all'ergastolo per essere ammessi alla liberazione anticipata (ventisei anni) è l'innovazione più appariscente, tuttavia, è l'eliminazione dell'avverbio "effettivamente", riferito alla pena scontata dall'ergastolano prima dell'ammissione alla liberazione condizionale, contenuto nel terzo comma dell'art. 176 del Codice penale, la modifica qualitativamente più rilevante: infatti, la necessità che in forza del tenore letterale della legge, la pena venisse effettivamente scontata aveva rappresentato, fino alla sentenza costituzionale n. 274 del 1983 (130), l'ostacolo insuperabile, prospettato dalla giurisprudenza (131) e criticato dalla dottrina (132), alla detraibilità delle riduzioni ex art. 54 dell'ordinamento penitenziario ai fini del computo della quantità di pena richiesta per la concessione della liberazione condizionale. Il legislatore del 1986, estesa anche agli ergastolani la fruibilità di tutti gli istituti previsti dall'ordinamento per il trattamento e la rieducazione dei condannati, ha cancellato dal nuovo testo dell'art. 176, terzo comma, del Codice penale, questo dato letterale che aveva impedito il godimento di alcuni dei benefici da parte dei condannati alla pena perpetua, realizzando una rilevante sintonia normativa.

E' evidente che il legislatore, anziché procedere all'abolizione della pena perpetua per le conseguenze che avrebbe avuto in seno all'opinione pubblica, ha preferito percorrere la strada, meno pericolosa, della riforma e dell'estensione dei benefici penitenziari ai condannati alla pena dell'ergastolo, per migliorarne le condizioni di vita.

2.7.4.1. Interdizione legale

La Corte costituzionale ha dichiarato l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 27 e 4 della Costituzione, dell'art. 32 del Codice penale nella parte in cui non prevede la sospensione dello stato di interdizione legale per il condannato che fruisca della liberazione condizionale (133). La Corte ha ritenuto costituzionalmente legittimo l'automatismo fra la concessione del beneficio e la pena accessoria dell'interdizione legale, poiché non sussiste incompatibilità. Sul presupposto che i diversi rapporti giuridici di esecuzione, relativi alle distinte conseguenze penali della condanna, hanno - di regola - autonomo svolgimento e possono essere, quindi, regolati diversamente dal legislatore, la Corte ha precisato che se durante l'interdizione legale, subita dal condannato nel corso della detenzione, quest'ultimo ha potuto offrire prove del suo ravvedimento, "non si riesce ad intendere perché la stessa interdizione dovrebbe ostacolare la prova ulteriore di conferma del ravvedimento".

2.7.4.2. La sentenza n. 161 del 1997 della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 161 del 1997 (134), ha dichiato l'incostituzionalità dell'art. 177, primo comma, del Codice penale, "nella parte in cui non prevede che il condannato all'ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio, ove ne sussistano i relativi presupposti", perché in caso contrario, come si legge nella motivazione della sentenza, il mantenimento di questa preclusione assoluta sarebbe corrisposto, per l'ergastolano, ad una sua permanente esclusione dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, in palese contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, efficace anche nei confronti degli ergastolani. La decisione in esame tocca, dunque, uno degli argomenti più controversi dell'ordinamento penale italiano: quello della legittimità dell'ergastolo e della sua concreta perpetuità.

Punto di partenza della decisione in esame è la precedente sentenza costituzionale n. 270 del 1993 (135), nella quale i giudici della Consulta, pur avendo rilevato l'esistenza di alcuni profili di dubbia costituzionalità, avevano dichiarato inammissibile la questione prospettatale, con riguardo alla possibilità, per i condannati all'ergastolo, di computare il periodo trascorso in libertà vigilata della determinazione della pena residua, perché "la manipolazione normativa richiesta dal giudice" avrebbe implicato "soluzioni non costituzionalmente obbligate, ma scelte discrezionali riservate al legislatore". La Corte tuttavia, aveva riconosciuto che le argomentazioni svolte nella sentenza n. 282 del 1989 (136) andavano ripetute anche "nei confronti del condannato all'ergastolo, altrimenti a costui sarebbe riservato un trattamento di maggior rigore rispetto al condannato a pena temporanea"; inoltre, la Corte, pur facendo riferimento "all'ulteriore pesantissimo aggravio per il condannato di non poter usufruire una seconda volta della liberazione condizionale" che il giudice a quo aveva prospettato nell'ordinanza di remissione, ne aveva escluso la rilevanza, poiché tale problema eccedeva il thema decidendum circoscritto, unicamente, all'ambito di rideterminazione della pena residua. I giudici della Consulta, quindi, di fronte alla questione di legittimità costituzionale, ne avevano dichiarato l'inammissibilità, per motivi di rilevanza e per non invadere la discrezionalità del legislatore.

In conformità a queste premesse, la Corte, con la sentenza in esame, ha affermato che:

Se la liberazione condizionale è l'unico istituto che con la sua esistenza nell'ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque, con la Costituzione, la pena dell'ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio di uno o più esperimenti negativi fosse totalmente preclusa in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale.

Passando ora ad evidenziare le implicite valenze della sentenza n. 161 del 1997 sulla tematica generale dell'ergastolo, si può rilevare come essa si ponga in una prospettiva di continuità rispetto all'orientamento moderato seguito dalla Corte costituzionale in proposito (si pensi alla sentenza n. 274 del 1974 o alla sentenza n. 282 del 1989). La sentenza introduce un nuovo strumento di natura premiale, e quindi soltanto eventuale, (nella fattispecie: la possibilità per gli ergastolani di poter essere riammessi alla liberazione condizionale nonostante ne sia intervenuta la revoca) che comunque il soggetto deve in qualche modo 'ri-meritare', senza, però, intervenire esplicitamente sulla necessità di eliminazione dell'ergastolo dal nostro ordinamento penale. Stefania Sartarelli commenta la sentenza rilevando che:

Risulta evidente pertanto il tentativo di mitigare la posizione di chi si trovi nella condizione di condannato a pena perpetua (la quale ontologicamente parlando rimane tale) al fine di renderla di fatto non più 'a vita' e, di conseguenza, più aderente al principio della finalità rieducativa della pena, ma senza assumere una posizione più decisiva sull'argomento che non sia quella di continuare a mantenere sempre e comunque l'ergastolo nel nostro ordinamento (137).

L'autrice ritiene che la Corte costituzionale non è la sede adatta per giungere ad una declaratoria d'illegittimità costituzionale dell'ergastolo (anche se ci si aspetterebbe un segnale verso il "superamento definitivo della pena perpetua"), tuttavia auspica che quest'obiettivo sia raggiunto, insieme con una riforma di tutte le sanzioni detentive, nel più breve tempo possibile.

Concorda con Stefania Sartarelli, anche il commento di Andrea Longo, per il quale:

Postulare una simile correlazione tra ergastolo e liberazione condizionale dovrebbe, probabilmente, condurre a decisioni ben più radicali di quella adottata dalla Corte ma la compatibilità della pena perpetua con le istanze proprie di uno stato liberale è certamente questione troppo delicata e controversa perché possa essere risolta unicamente dai giudici della Consulta; rimane, tuttavia, dubbia la possibilità di conciliare le esigenze rieducative che la pena dovrebbe soddisfare ai sensi dell'art. 27, 3º comma, Cost., con una punizione che cela una valenza ferocemente retributiva (138).

In definitiva si può sostenere che i meccanismi derogatori alla natura perpetua dell'ergastolo intervenuti negli ultimi quarant'anni sono valsi a renderne meno crudele l'esecuzione, ma resta l'intrinseco carattere disumano di una pena che "non può avere mai fine se non con la fine della vita" (139). Questo è l'aspetto più inquietante del paradosso costituzionale di legittimare l'ergastolo in virtù della sua possibile non perpetuità (140): l'astratta probabilità che, invece, il condannato rimanga in carcere per tutta la vita.

2.7.4.3. Liberazione condizionale ed ergastolo nell'interpretazione della giurisprudenza di legittimità

La Corte di Cassazione, in merito all'istanza del ricorrente, condannato alla pena dell'ergastolo, che chiedeva l'applicazione dell'indulto disciplinato dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1990 ha respinto la richiesta, in quanto la pena detentiva perpetua non è condonabile "in parte", cioè, non può subire la detrazione di un periodo predeterminato, poiché la durata complessiva, essendo stabilita fino alla morte del condannato, non è determinabile a priori: essa può solo essere condonata "in tutto" oppure commutata in un'altra specie di pena stabilita dalla legge. Nessuno di detti effetti è previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1990 il quale, dunque, non ha riguardo alla pena dell'ergastolo (141). L'orientamento della Cassazione è stato quindi costante nel negare la fruibilità dell'indulto disciplinato dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1990 ai condannati all'ergastolo.

Uno dei problemi interpretativi più complessi riguarda il caso di revoca, ex art. 177 del Codice penale, della liberazione condizionale concessa ad un condannato alla pena dell'ergastolo: in particolare, il dubbio è concernente il ricalcolo del periodo di pena da scontare necessario per poter fruire nuovamente del beneficio. La Corte di Cassazione ha statuito che in caso di revoca della liberazione condizionale a seguito di condanna per un altro reato, il giudice di sorveglianza non può sostituire, in contrasto con il giudicato, alla pena dell'ergastolo altra pena detentiva, tenendo conto del periodo di liberazione, rideterminando la pena detentiva ancora da espiare (142).

In tema di liberazione condizionale, la Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito il problema dell'inizio dell'esecuzione della pena ai fini della concessione della liberazione condizionale: qualora, infatti, la pena dell'ergastolo sia inclusa in un provvedimento di cumulo con pene temporanee già in parte scontate, ai fini dell'applicazione dell'istituto non può tenersi conto delle pene espiate prima della commissione del reato per il quale è stato inflitto l'ergastolo (143).

La Corte di cassazione ha emesso anche numerose sentenze aventi ad oggetto i requisiti necessari per la concessione della liberazione condizionale ex art. 176 del Codice penale, vale a dire il sicuro ravvedimento del reo, desunto dal comportamento tenuto dal medesimo durante l'esecuzione della pena, e l'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato non dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempierle. In tale contesto si inserisce la sentenza n. 16446 del 2005 della Corte di Cassazione (144), con la quale si è pronunciata in ordine ad un provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Napoli che aveva concesso la liberazione condizionale ad un condannato all'ergastolo per gravi delitti di terrorismo (strage, omicidio, banda armata, ecc.), ritenendo sussistenti i requisiti contemplati dall'art. 176 del Codice penale. Secondo i giudici di sorveglianza, infatti, i dati (regolare condotta durante l'esecuzione, lo svolgimento di un lavoro, di attività di volontariato e l'invio di una lettera ai familiari della vittima dell'omicidio da lui commesso) facevano desumere il ravvedimento del reo; per quanto concerne, invece, l'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato poteva ritenersi sufficiente l'autocertificazione con cui il reo rappresentava che il reddito mensile non gli avrebbe consentito di provvedere ad un'eventuale offerta risarcitoria. La Suprema Corte, però, non ha condiviso le argomentazioni del giudice di prima istanza ed ha annullato con rinvio il provvedimento impugnato. La Corte ha prima premesso che in tema di liberazione condizionale devono essere valutate le manifestazioni di effettivo interessamento del condannato per la situazione morale e materiale delle persone offese dal reato e i tentativi fatti per attenuare i danni derivanti dalla condotta criminale; ha, poi, aggiunto che non è sufficiente la regolare condotta del condannato, ma occorre la prova di una fattiva e convinta adesione del medesimo all'opera di rieducazione, desumibile:

Da fatti positivi che rilevino l'evolversi della personalità del soggetto verso modelli di vita socialmente adeguati e ciò anche con riguardo al pentimento e alla riprovazione per il delitto commesso e la fattiva volontà dell'autore del reato di eliminarne le conseguenze dannose anche e soprattutto con suo sacrificio.

La conclusione è che, ai fini della concessione della liberazione condizionale, non è sufficiente lo svolgimento da parte del condannato di un'attività lavorativa o di volontariato, non potendo evitare il Tribunale di sorveglianza di "valutare la condizione del ravvedimento anche alla stregua del pentimento e dell'elisione delle conseguenze dannose del reato" (145), disponendo d'ufficio di tutti gli strumenti previsti dal combinato disposto degli artt. 678 e 666, comma quinto, del Codice di procedura penale (146).

Le statuizioni contenute nella pronuncia in esame rispecchiano l'orientamento prevalente all'interno della giurisprudenza di legittimità e recepito dalla Corte costituzionale (147), la quale ha individuato un nesso inscindibile tra risarcimento del danno e ravvedimento del reo, stabilendo che quest'ultimo non consiste soltanto in una condotta negativa (astensione dalla commissione di altri reati), ma anche in una condotta positiva, dimostrativa dell'abbandono delle scelte criminali, che si sostanzia in primo luogo nell'adempimento delle obbligazioni civili sorte dal reato e, nel caso in cui il condannato non abbia mezzi adeguati, l'indice del ravvedimento deve essere tratto dalle manifestazioni di effettivo interessamento del condannato stesso per la situazione morale e materiale delle persone offese e dai tentativi fatti, nei limiti delle sue possibilità, per attenuare, se non riparare interamente, i danni provocati (148).

La sentenza della Cassazione n. 16446, ha, inoltre, rilevanza poiché subordina la concessione della liberazione condizionale al "profondo pentimento morale del reo". Pentimento del reo significa, secondo un orientamento costante dei giudici della nomofilachia, condanna assoluta della propria condotta criminale, quale giudizio meditato e sofferto scaturente da un profondo e sincero pentimento (149). L'equivalenza ravvedimento/pentimento, ad avviso di una parte della dottrina (150), richiama, però, la teoria dell'emenda del reo - secondo cui la pena deve tendere verso la redenzione morale, il ravvedimento spirituale della persona - ed è in contrasto con la teoria polifunzionale della pena, accolta dalla Costituzione, nell'ambito della quale l'idea della retribuzione mantiene un ruolo centrale per assicurare una pena determinata e proporzionata al reato, mentre la rieducazione ha la finalità di far aderire il condannato alle regole di convivenza civile ed il rispetto (anche formale) delle leggi penali (151). L'inevitabile conseguenza dell'identificazione del sicuro ravvedimento nel pentimento interiore per il reato commesso è che la liberazione condizionale non dovrebbe essere concessa a quei condannati che si ostinano a proclamare la propria innocenza, malgrado il giudicato penale di condanna (152).

La sentenza in esame, inoltre, appare poco coerente con gli attuali orientamenti di politica criminale, i quali, muovendo dalla crisi dell'ideologia del trattamento rieducativo, tendono a riavvicinare l'esecuzione penale al cosiddetto "modello del fatto" (153), incentrato sul paradigma dell'oggettività, che postula maggiore attenzione per la tipologia di delitto commesso e per la recidiva (154). Si deve prendere atto, infine, che sul requisito del "sicuro ravvedimento" del reo esiste un orientamento interpretativo contrastante: in particolare, con sentenza n. 196 del 2005 (155), la Corte di cassazione si è espressa nel senso che il ravvedimento va verificato non postulando la necessità di una modifica ideologica e psicologica della personalità del condannato, ma soltanto quella di una seria ed affidabile prognosi di pragmatica conformità della sua futura condotta al quadro normativo con il quale egli si è posto in conflitto, per cui non può attribuirsi valore di per sé ostativo alla mancanza di abiure verbali o riconoscimenti di colpe ed errori. Tra le due opzioni interpretative riportate è preferibile la tesi che esclude la necessità del pentimento morale del reo per la concessione del beneficio della liberazione condizionale ex art. 176 del Codice penale (156). E' auspicabile, infine, un intervento delle sezioni unite della Suprema Corte che ponga fine al contrasto giurisprudenziale, al fine, soprattutto, di evitare provvedimenti giurisdizionali che si risolvono in una disparità di trattamento (157).

2.8. Il condannato quale soggetto attivo dell'esecuzione penitenziaria

La legge del 1986 prevede ipotesi eccezionali in cui è riconosciuto al magistrato di sorveglianza un potere di intervento provvisorio sull'esecuzione delle misure alternative, che gli consente l'adeguamento delle stesse alla sopravvenienza di fatti nuovi rispetto al quadro iniziale: sono disposizioni che rispondono allo scopo di fronteggiare le difficoltà pratiche soprattutto in rapporto al prevedibile pericolo di fuga del condannato, ma anche ad una precisa ratio sanzionatoria di fronte a condotte ritenute inconciliabili con i presupposti soggettivi della misura applicata. La disposizione dell'art. 51-ter, per esempio, disciplina il fenomeno della sospensione cautelativa dell'affidamento, della detenzione domiciliare o della semilibertà nel caso in cui la persona assoggettata ad una di queste misure ponga in essere comportamenti tali da determinare la revoca della stessa, senza che sia possibile addivenire in tempi brevi alla pronuncia del relativo provvedimento da parte del tribunale competente. Corrisponde alla detta ratio sanzionatoria anche il nuovo art. 53- bis, che prevede l'esclusione da parte del magistrato di sorveglianza, nel caso di mancato rientro ovvero di altri gravi comportamenti "non meritevoli", della regola secondo cui il periodo di tempo trascorso dal detenuto o dall'internato in permesso o in licenza deve essere, per ogni effetto computato nella durata della corrispondente misura restrittiva.

Il meccanismo dell'art. 53 crea una situazione particolare, poiché attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di operare una sorta di refomatio in peius della condanna pronunciata nel processo di cognizione, poiché l'esclusione dal computo nella durata della pena dei periodi di permesso o di licenza finisce per risolversi in un corrispondente aumento della misura di pena detentiva da espiare. Si tratta, dunque, di un'ipotesi di incremento del quantum della pena determinato dalla condotta del condannato nella fase esecutiva; ma questa fattispecie sottolinea il rilievo attribuito alla "meritevolezza" del comportamento del condannato, quale parametro rimesso alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza ai fini delle valutazioni circa il computo, come pena, del periodo di permesso o di licenza.

A parte queste ipotesi eccezionali, però, tutto il sistema di misure alternative alla detenzione previsto alla legge penitenziaria è indirizzato nel senso di attribuire al comportamento del condannato un ruolo centrale nella fase dell'esecuzione, allo scopo di 'abbassare' la soglia della pena detentiva irrogata in sede di cognizione attraverso le misure dirette ad erodere la durata della stessa. La ratio di questo fenomeno di 'flessibilità' della pena deve essere ricercata sicuramente nelle esigenze di deflazione carceraria; ma anche nella volontà di responsabilizzare il condannato, affinché il suo comportamento abbia un ruolo centrale nella fase dell'esecuzione e quindi della rieducazione. Il condannato, infatti, tramite gli strumenti di trattamento ammessi dall'Ordinamento penitenziario, ha l'opportunità di influire sulle modalità di espiazione della pena detentiva, allo scopo di evitare il rischio della desocializzazione e di agevolare la prospettiva del proprio reinserimento sociale.

Il porre il condannato al centro dell'esperienza penitenziaria è il merito della Legge 663 del 1986; Vittorio Grevi ricorda, infatti, che:

La diretta responsabilizzazione del condannato in ordine agli esiti del trattamento e, quindi, in ordine al progressivo itinerario del proprio recupero sociale è la prospettiva più moderna di attuazione del principio consacrato dall'art. 27 terzo comma della Costituzione (158).

Note

1. G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, IV edizione, Giuffrè editore, Milano 1987, pp. 5 e ss.

2. Poi aumentati a sei dall'art. 37, comma ottavo, del Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, inerente al "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative ed eliminative della libertà".

3. Oggi artt. 38 e 39 del 'Regolamento di esecuzione' di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230.

4. Art. 40 del 'Regolamento di esecuzione' di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230.

5. Corte Costituzionale, 4 luglio 1974, n. 204, in "Giurisprudenza costituzionale", 1974, II, p. 1707.

6. A questo proposito occorre ricordare che il procedimento di sorveglianza è stato interamente 'giurisdizionalizzato', con la previsione dell'assistenza necessaria del difensore, del contraddittorio e della ricorribilità per Cassazione del provvedimento.

7. E' da rilevare come siano diversi gli effetti del ravvedimento, a seconda che la liberazione condizionale sia concessa al condannato a pena detentiva temporanea oppure perpetua. Mentre, infatti, per il primo ciò che in concreto muta è il momento della liberazione, per il secondo è in gioco la liberazione stessa in alternativa alla detenzione protratta fino alla morte. Sotto questo profilo si può dire che la liberazione condizionale eserciti uno"stimolo a ravvedersi" più intenso nei confronti dell'ergastolano, perché la mancata concessione a questi di tale istituto esclude il reinserimento nella società dei liberi.

8. Tra gli altri Bernardi A., Ergastolo: verso un'effettiva pluridimensionalità della pena perpetua?, in "Archivio Giuridico Serafini, 1984, pp. 391 ss.

9. Carnelutti F., La pena dell'ergastolo è costituzionale?, in "Rivista di diritto processuale", 1956, I, p. 2; Nuvolone P., Norme penali e principi costituzionali, in "Giurisprudenza costituzionale", 1956, II, p. 1253.

10. Bernardi A., cit.; V. Grevi, Riduzione di pena e liberazione condizionale per i condannati all'ergastolo, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1978, p. 60 e ss.; Pighi, Trattamento progressivo in semilibertà e pena dell'ergastolo, in "Rassegna di studi penitenziari e criminologici", 1982, p. 697 ss.

11. Il regime dei permessi di cui agli artt. 30 e 30-bis dell'Ordinamento penitenziario era, in questo momento, sottoposto a precise condizioni a seguito delle Leggi 12 gennaio 1977, n. 1 e 20 luglio 1977, n. 450 e dall'art. 61 del Regolamento di esecuzione, modificato dall'art. 4 del Decreto Presidente della Repubblica 24 maggio 1977, n. 339.

12. Bernardi A., cit., p. 428.

13. In questo caso l'eslusione di alcune categorie di detenuti dal beneficio (e in particolare i condannati all'ergastolo) dello strumento rieducativo è legittimo, poiché questo strumento è ideato in funzione del tipo e della durata della pena e risulta, quindi, inadeguato per i condannati all'ergastolo a causa della natura e della durata di questa pena.

14. La teoria polifunzionale della pena fu espressa dalla citata sentenza della Corte Costituzionale 22 novembre 1974, n. 264.

15. Bernardi A., cit.

16. Bernardi A., cit.

17. Di Gennaro, Riduzione di pena e liberazione anticipata, in "Giustizia penale", 1977, III, c. 602, osservava che "l'art. 54 della Legge n. 354 del 1975 impropriamente intitolato 'liberazione anticipata' disciplina in effetti, l'istituto della 'riduzione di pena'. La liberazione anticipata non rappresenta, infatti, l'essenza dell'istituto ma più precisamente il suo effetto".

18. Cassazione 25 gennaio 1980, in "Cassazione penale. Massimario annuale", p. 651; Cassazione, 27 settembre 1979, Ivi, 1980, p. 1452. La Suprema Corte ha affermato, Cassazione, 21 novembre 1980, Ivi, 1982, p. 156: "Ai fini della riduzione di pena per liberazione anticipata, mentre è inammissibile una valutazione frazionata per semestri, perché inconciliabile con la continuità dell'opera di trattamento svolta dagli operatori penitenziari nei confronti del soggetto; è invece possibile una valutazione separata di periodi distinti di carcerazione, tra i quali sussista interruzione con inizio di una nuova attività di trattamento e, come tali, suscettibili di apprezzamento autonomo".

19. In questo senso, Di Gennaro, cit., c. 603 e ss.; Di Gennaro, Bonomo, Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, IV edizione, Milano, Giuffrè 1987, p. 305 e ss.; Grevi, cit., p. 70 e ss.; Cesaris, I tempi delle riduzioni di pena: valutazione frazionata per semestri o valutazione unitaria "globale"?, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1980, p. 596 e ss.

20. Cassazione, 24 maggio 1977, in "Giustizia penale", 1977, II, c. 553, per cui "è di tutta evidenza che la liberazione anticipata non può essere concessa al condannato all'ergastolo, ad una pena cioè che per la sua natura perpetua non può subire una riduzione nei termini previsti da detto istituto"; Cassazione, 6 dicembre 1977, Ivi, 1978, II, c. 77: "La liberazione anticipata non può essere concessa ai condannati all'ergastolo, trattandosi di pena non suscettibile, per sua natura, di alcuna riduzione. Di conseguenza, non è nemmeno possibile l'utilizzazione delle diminuzioni di pena, che l'applicazione dell'istituto comporterebbe, al più limitato fine di rendere di minore durata il periodo di detenzione necessario per essere ammessi al beneficio della liberazione condizionale, giacché esso, per espressa previsione legislativa, deve essere effettivamente scontato".

21. Bernardi A., cit., pp. 438 e ss.

22. Ivi, p. 420.

23. V. Grevi, cit. E' da rilevare, tuttavia, che l'autore si esprimeva negativamente sull'ammissione degli ergastolani alla semilibertà, poiché, a suo avviso, "non è possibile concepire la metà di una pena indeterminata".

24. Da notare che nel disegno di legge presentato al Senato dal Senatore Galante Garrone il 10 settembre 1976 (Senato della Repubblica, VII Legislatura, disegno di legge recante "Abrogazione di alcune norme della legge 26 luglio 1975 n. 354 sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", stampato n. 137) si proponeva l'abrogazione dell'ultimo comma dell'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario, come conseguenza dell'abrogazione dell'art. 47 secondo comma e quindi dell'art. 48 terzo comma dell'Ordinamento penitenziario. Tuttavia l'abrogazione dell'ultimo comma dell'art. 54 era approvata in sede di Commissione giustizia, a seguito di un emendamento del Senatore Gozzini - ispirato alle proposte del Senatore Galante Garrone- e su parere favorevole sia del relatore Senatore De Carolis, sia del Sottosegretario Onorevole Dell'Andro: Senato della Repubblica. Sedute delle Commissioni (Giustizia). Resoconto sommario, 17 novembre 1976, p. 5.

25. In particolare, Cassazione, 5 aprile 1977, in "Giustizia penale", 1977, III, c. 414 e ss.

26. Di Gennaro, cit., c. 605.

27. Cassazione, 24 maggio 1977, cit.

28. Cassazione, 5 aprile 1977, cit.; Di Gennaro, cit.

29. Il testo dell'art. 30 della Legge 26 luglio 1975, n. 354 era modificato, come noto, dalla Legge 12 gennaio 1977, n. 1 e dalla Legge 20 luglio 1977, n. 450.

30. A. Bernardi, cit., p. 443.

31. L'art. 56 dell'ordinamento penitenziario è stato abrogato dall'art. 299, comma primo, del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. Si veda ora l'art. 6 del medesimo provvedimento.

32. Oggi art. 106 del Regolamento di esecuzione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230.

33. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

34. Pulitanò D., Ergastolo e pena di morte, in "Democrazia e diritto", 1981, p. 155 e ss., riteneva che all'istituto dell'ergastolo venisse, così, sottratta una sua peculiare funzione: quella di evidenziare, attraverso il rapporto delitto-pena, un giudizio di disvalore, indicando la "gravità massima di alcune (ed esse sole!) condotte criminose, la cui quantitas criminis deve risultare tanto dal particolare bene giuridico offeso quanto dell'intenso grado di colpevolezza". Conseguenza di questo eccessivo ricorso in "chiave di intimidazione allargata" alla pena perpetua, privata, inoltre, degli "stimoli alla rieducazione", poteva essere, secondo Pulitanò, la creazione da parte del giudice di "artificiosi meccanismi compensatori (quali ad esempio, la 'voluta' individuazione di circostanze attenuanti)", sia al fine di proporzionare la pena all'effettivo disvalore del fatto commesso, sia, in chiave special-preventiva, di comminare una pena detentiva priva degli aspetti desocializzanti peculiari dell'ergastolo.

35. Bettiol G., Sul diritto penale del'atteggiamento interiore, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1971, pp. 1 e ss.; Bettiol G., Sulle massime pene: morte ed ergastolo, in "Rivista italiana diritto penale", 1956, pp. 555 e ss.

36. Un sondaggio Doxa del 1977, parlava del 51% degli intervistati favorevoli alla pena di morte, anche se dalla serie dei sondaggi non sembrava ricavarsi un trend univoco, complessivamente discendente (nel 1949 i favorevoli alla pena di morte sarebbero stati il 64%; nel 1953, il 46%; nel 1975, il 58%). Fonte "La Repubblica, 6 febbraio 1981.

37. La richiesta di referendum popolare fu dichiarata ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 23 del 1981, in "Foro italiano", 1981, I, p. 920 e ss., sulla quale Nuvolone esprisse le sue perplessità in La Corte costituzionale e i referendum, in "Indice penale", 1981, p. 127, in base al rilievo che "le norme relative all'ergastolo furono già dichiarate legittime dalla corte che ebbe a riconoscere come principio costituzionale anche quello della prevenzione mediante intimidazione".

38. Bernardi A., Ergastolo: verso un'effettiva pluridimensionalità della pena perpetua?, in "Archivio Giuridico Serafini, 1984, p. 449.

39. Corte Costituzionale, sentenza 27 settembre 1983, n. 274, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1984, I, p. 799, con nota di Fassone, Riduzioni di pena ed ergastolo: un contributo all'individuazione della «pena costituzionale»; pubblicata anche in "Legislazione penale", 1984, p. 86.

40. Sezione di Sorveglianza di Firenze, Ordinanza 26 novembre 1980, Presidente Margara, ricorrente Lutzu, in "Rassegna penitenziaria e criminologica", 1982, p. 709, con nota di G. Pighi, Trattamento progressivo in semilibertà e pena dell'ergastolo.

41. Corte Costituzionale sentenza 4 luglio 1974 n. 204, in "Giurisprudenza costituzionale", 1974, II, p. 1707.

42. Cassazione 24 maggio 1977, in "Giustizia penale", 1977, II, c. 553; Cassazione 6 dicembre 1977, Ivi, 1978, II, c. 77; Cassazione 17 gennaio 1978, Ivi, 1978, II, c. 142; Cassazione 23 gennaio 1979, Ivi, 1979, II, c. 386.

43. V. Grevi, Sulla configurabilità di una liberazione condizionale «anticipata» per i condannati all'ergastolo, in "Foro italiano", 1984, I, c. 18.

44. In questo senso le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale: Sezione di sorveglianza della Corte d'Appello di Palermo 1º gennaio 1978, in "Giurisprudenza costituzionale", 1979, II, p. 299; Sezione di sorveglianza della Corte d'Appello di Firenze 28 ottobre 1981, Ivi, 1982, II, p. 1505; Sezione di sorveglianza della Corte d'Appello di Bologna 17 giugno 1982, Ivi, 1982, II, p. 1890.

45. Si veda § 2.3.

46. Cassazione 23 gennaio 1979, cit.

47. In particolare si era soffermata sul contrasto col solo art. 3 della Costituzione la Sezione di Sorveglianza della Corte d'Appello di Bologna; sul contrasto col solo art. 27 della Costituzione si era fondata l'ordinanza della Sezione di Sorveglianza della Corte d'Appello di Firenze, mentre la violazione di entrambe le norme era sostenuta dalla Sezione di Sorveglianza della Corte d'Appello di Palermo.

48. Si tratta dei reati indicati nell'art. 47, comma secondo della legge n. 354 del 1975, cui l'art. 54 quinto comma faceva rinvio: la condanna per tali reati determinava anche l'esclusione dall'affidamento in prova e dalla semilibertà. E' da ricordare che la Corte Costituzionale si pronunciò in proposito, dichiarando infondate le questioni proposte con sentenza 2 luglio 1980 n. 107, in "Giurisprudenza costituzionale", 1980, I, 1001, con nota di F.C. Palazzo, Prevenzione generale ed allarme sociale nella questione dei limiti alle misure alternative, p. 1726.

49. E. Bernardi, Ergastolo, semilibertà, liberazione anticipata, in "Legislazione penale", 1984, p. 126.

50. E. Fassone, Riduzioni di pena ed ergastolo: un contributo all'individuazione della «pena costituzionale», in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1984, I, p. 799.

51. Ivi, p. 801.

52. La Corte Costituzionale ha, secondo Fassone, respinto queste considerazioni, avallando l'interpretazione della Cassazione.

53. Quindi dovevano essere incluse anche quelle forme di privazione della libertà personale che non si sarebbero potute valorizzare ai sensi di legge: per esempio la prigionia militare sfociata in una condanna all'ergastolo.

54. E. Fassone, cit., p. 809.

55. Corte Costituzionale, sentenza 22 novembre 1974 n. 264, cit.

56. E. Fassone, cit., p. 822.

57. Ibid. Contrario alla tesi di Fassone è Giovanni Esposito, Ergastolo e liberazione condizionale, in "Archivio penale", 1984, p. 164, il quale ritiene che la decisione della Corte "sconvolge" il sistema, poiché, secondo l'autore, da quel momento l'espressione "può essere ammesso" di cui al terzo comma dell'art. 176 del Codice penale, deve essere inteso come "viene ammesso" per l'ergastolano di "buona condotta" che ha scontato vent'otto anni di pena. L'autore ritiene, in altre parole, che la Corte finisce per equiparare l'ergastolo, qualora vi sia "buona condotta", ad una pena temporanea di vent'otto anni.

58. E. Fassone, cit., p. 824.

59. L'autore si pone in questo caso il problema di individuare quali sono i modi per dedurre l'illegittimità di Decreti di quel tenore e cita due esempi: l'Ufficio di sorveglianza presso il Tribunale di Avellino, in data 11 dicembre 1982, solleva eccezione di illegittimità costituzionale in ordine all'art. 90 dell'Ordinamento penitenziario, in "Foro italiano", 1983, II, c. 473; il magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Milano, invece, disapplica direttamente le disposizioni della Casa circondariale, conseguenti al Decreto ministeriale 22 dicembre 1982 e ordina il ripristino delle condizioni di trattamento previste per le generalità dei detenuti (ordine di servizio 24 gennaio 1983, in "Foro italiano", 1983, II, c. 473).

60. Corte Costituzionale 10 luglio 1974, n. 225, in "Giurisprudenza costituzionale", 1974, II, p. 1775, in materia di riserva allo Stato del monopolio dei servizi di radiotelevisione via cavo: in tale decisione la Corte descrive analiticamente i requisiti minimi che la legge di monopolio deve contenere per giustificare la riserva a favore dello Stato.

61. La somma è il risultato delle riduzioni di pena fruite dagli ergastolani calcolate in rapporto alla liberazione condizionale e semilibertà per la pena temporanea massima, che è di trenta anni. Aderisce a questa interpretazione anche Giorgio Pighi, cit., il quale prevede il medesimo termine di sedici anni e sei mesi di pena per l'accesso degli ergastolani alla semilibertà.

62. V. Grevi, Sulla configurabilità di una liberazione condizionale «anticipata» per i condannati all'ergastolo, in "Foro italiano", 1984, I, c. 19.

63. Cassazione 23 gennaio 1979, cit.

64. In particolare Lettera aperta al presidente Pertini, da parte degli ergastolani detenuti a Porto Azzurro, in "La grande promessa", 1978, fascicolo 8-9, supplemento 3.

65. In particolare è possibile ricordare la Relazione del Ministro guardasigilli Reale sul disegno di legge concernente "Ordinamento penitenziario e prevenzione della delinquenza minorile", approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 14 dicembre 1965 e presentato al Senato in data 16 gennaio 1966 (in "Rassegna di studi penitenziari", 1966, II, pp. 83 e ss.), dove l'istituto della liberazione anticipata è presentato come "un'assoluta novità per la nostra tradizione", inserita "nel quadro del sistema inteso a mobilitare le energie volitive e suscitare adesione e partecipazione dei soggetti all'azione rieducativa svolta nei loro confronti". In secondo luogo la Relazione del Ministro guardasigilli Gonella sul disegno di legge concernente "Ordinamento penitenziario" presentato al Senato il 28 ottobre 1968, in cui i lineamenti e le finalità dell'istituto della liberazione anticipata risultano esattamente corrispondenti a quelli già evidenziati nella Relazione del guardasigilli Reale.

66. Grevi, cit., c. 26.

67. Cassazione, 5 aprile 1977, cit.

68. I. Mereu, Uno specchietto per l'ergastolano, "Il Sole - 24 Ore" del 9 novembre 1983, per il quale la sentenza è "una decisione che lascia immutate le cose nella loro sostanza, anzi le peggiora".

69. Grevi, cit., c. 27.

70. Ibid.

71. La crisi dell'ideologia della rieducazione prende avvio negli anni successivi al 1974, quando si ha un'inversione di tendenza nel campo della teoria e della prassi della pena: entra in crisi, infatti, la teoria della rieducazione e sono rivalutate le esigenze di prevenzione generale e speciale. Le cause di quest'inversione di tendenza sono numerose. Innanzitutto è da ricordare, come detto, che a partire dal 1975 prende avvio la produzione legislativa denominata "legislazione di emergenza": il rafforzamento penale in risposta ai gravi fenomeni criminosi si limita, però, a privilegiare una terapia d'urgenza affidata all'inasprimento della sanzione punitiva e ne esalta, per finalità politiche, le valenze simbolico-espressive, nel senso che il destinatario del messaggio della minaccia di pene più rigorose è l'opinione pubblica, scossa e allarmata dai fatti di criminalità. Un ulteriore fattore della decadenza dell'ideologia rieducativa è la contemporanea crisi del Welfare State che si riflette sul sistema punitivo e rieducativo. Con riguardo alla situazione italiana è, però, da rilevare che l'inadeguatezza dei servizi assistenziali che dovrebbero fare da supporto ai trattamenti in libertà, ha finito per accentuarne la funzione "di controllo" a discapito di quella finalizzata ad un efficace rientro in società. Per questo motivo non si può dire che in Italia la crisi del Welfare State incida nettamente sulla decadenza dell'ideologia rieducativa. Gli attacchi all'ideologia rieducativa vengono poi anche "dall'interno": a partire dagli anni sessanta dello scorso secolo, infatti, negli Stati Uniti e nei paesi scandinavi (paesi che più si spingono nell'alimentare il 'mito' dello 'stato di benessere') si levano reazioni di critica e di opposizione al principio della prevenzione speciale. Le motivazioni sono fondate su dati statistici che dimostrano l'inefficacia del trattamento rieducativo; concorrono con questi anche il mutamento di atteggiamento dell'opinione pubblica e dell'intellighenzia liberale americana, contraria a che certe prassi rieducative minaccino i diritti costituzionali. L'impressione che si trae da questo movimento di critica, rivolto all'ideologia rieducativa è che si sia adagiata al mutato orientamento dell'opinione pubblica che chiede 'ordine e legalità' ed abbia fornito la giustificazione intellettuale per politiche rivolte alla repressione e al contenimento degli emarginati (che sia cioè "un problema di democrazia reale"): i dati dimostrano, infatti, che i condannati sottoposti a trattamento in istituti di cosiddetta terapia sociale danno migliore prova di condotta legale rispetto ai corrispondenti gruppi di raffronto non 'trattati' in questi istituti. In realtà sia nel sistema americano sia nel sistema svedese è mancata un'applicazione generalizzata delle più moderne tecniche di trattamento: ne deriva che una gran quantità di detenuti è rimasta estranea a qualsiasi forma di trattamento e questa circostanza, se trascurata "porta a falsare l'interpretazione dei dati statistici relativi all'intero sistema penitenziario". In conclusione manca la giustificazione "scientifica" per un presunto abbandono dell'ideologia del trattamento motivato da presunti insuccessi della prevenzione speciale risocializzatrice. Fiandaca G., Commento all'art 27, 3º comma della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di Giuseppe Branca, Zanichelli, Bologna 1991, p. 258 e ss.

72. V. Grevi (a cura di), L'ordinamento penitenziario dopo la riforma (L. 10 ottobre 1986 n. 663), Edizioni Cedam, Padova 1988.

73. Ibid.

74. Grazie all'intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 215 del 1990) del beneficio della detenzione domiciliare può oggi fruirne anche il padre, qualora la madre sia deceduta, ovvero altrimenti impossibilitata ad accudire ai figli.

75. V. Grevi (a cura di), L'ordinamento penitenziario dopo la riforma (L. 10 ottobre 1986 n. 663), Edizioni Cedam, Padova 1988, p. 39.

76. E' questa la ragione per cui la Corte Costituzionale, nella sentenza 21 settembre 1983, n. 274, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1984, p. 799 e ss., ritiene di dichiarare inammissibile la questione della non concedibilità della semilibertà all'ergastolano.

77. F. Palazzo, La nuova disciplina della semilibertà: perfezionamento tecnico e potenziamento funzionale di un "buon" istituto, in V. Grevi (a cura di) L'ordinamento penitenziario dopo la riforma (L. 10 ottobre 1986 n. 663), Edizioni Cedam, Padova 1988, p. 238.

78. Presutti, Commento all'art. 14 L. 10 ottobre 1986, n. 663, in "Legislazione penale", 1987, pp. 176 e ss.

79. G. La Greca, Commento all'art. 28 L. 10 ottobre 1986, n. 663, in "Legislazione penale", 1987, pp. 232 e ss.

80. Si deve ricordare, infine, che l'art. 29 della Legge n. 663 del 1986 abroga interamente la Legge 12 febbraio 1965, n. 6. In particolare è abrogato l'art. 4 che prevede limiti di tempo per la riproposizione dell'istanza di liberazione condizionale dopo il diniego (non prima di tre mesi dal rigetto, che divengono diciotto per il condannato all'ergastolo, salvo che il diniego sia dovuto a motivo diverso dalla mancanza del ravvedimento). L'abrogazione di questa disposizione - afferma La Greca - appare coerente con l'accentuazione di strumento del trattamento, che ha assunto la liberazione condizionale.

81. G. Fiandaca, Commento all'art. 18 L. 10 ottobre 1986, n. 663, in "Legislazione penale", 1987, pp. 204.

82. F. Palazzo, cit.

83. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

84. Canepa M., Marcheselli A., Merlo S., Lezioni di diritto penitenziario, Giuffrè editore, Milano 2002, p. 97.

85. Giunta F., Commento art. 9, Legge 10 ottobre 1986, n. 663, in "Legislazione penale", 1987, p. 136.

86. Margara A., La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una scommessa contro il carcere, in "Questione giustizia", 1986, p. 530.

87. Tampieri L., I permessi premio e le norme in materia di permessi e licenze, in Flora G. (cura di), Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario - L. 10 ottobre 1986, n. 663, cit., p. 161.

88. G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, IV edizione, Giuffrè editore, Milano 1987, p. 206.

89. Corte Costituzionale, 30 luglio 1997, n. 296.

90. Il magistrato di sorveglianza, per la concessione dei permessi premio, deve accertare la sussistenza di tre requisiti:

  1. Che il condannato abbia tenuto regolare condotta: la condotta si considera regolare quando il soggetto, durante la detenzione, ha manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali (art. 30-ter, comma ottavo). Decisivo per l'accertamento di questa prima condizione, è il parere, obbligatorio, ma non vincolante, del direttore dell'istituto penitenziario, che si avvale del gruppo di osservazione e trattamento.
  2. Che il condannato non risulti socialmente pericoloso. Per l'accertamento di questo requisito sono acquisiti il certificato penale dell'interessato, copia della sentenza di condanna e soprattutto sono raccolte informazioni dagli organi di polizia del luogo di abituale dimora dell'interessato: le informazioni devono riguardare la condizione attuale del soggetto in rapporto all'ambiente in cui questi chiede di essere inserito. La sottoposizione al regime di sorveglianza particolare prevista dall'art. 14-bis opera in senso sfavorevole al permesso con riferimento al requisito della regolare condotta e della pericolosità sociale.
  3. Che il permesso consenta di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. Deve essere accertata sempre la fondatezza del motivo addotto, anche tramite richiesta di informazioni adeguate. Poiché il provvedimento di concessione del permesso premio assume la forma giuridica del decreto motivato, il magistrato di sorveglianza dovrà dare conto, nella motivazione, della sussistenza di tutti e tre i requisiti voluti dalla legge.

La durata complessiva della concessione non può superare i quarantacinque giorni nell'ambito di ciascun anno di espiazione di pena. Il singolo permesso non può avere durata superiore ai quindici giorni.

91. La Cassazione, a proposito delle diverse condizioni necessarie per l'applicazione dei due istituti, ha stabilito che: "Mentre la concessione dei permessi premio è condizionata unicamente alla regolare condotta tenuta dal condannato ed alla sua non particolare pericolosità sociale, per l'ammissione al beneficio della liberazione anticipata si esige non solo una condotta regolare, ma anche la prova della partecipazione del condannato all'opera di rieducazione, desumibile dalle circostanze indicate esemplificativamente nell'art. 94 del regolamento approvato con d.p.r. 431/1976. Ne consegue che legittimamente viene respinta la richiesta di ammissione alla liberazione anticipata avanzata da detenuto già ammesso a fruire dei permessi premio". (Cassazione, 20 marzo 1989, in "Cassazione penale", 1990, p. 981). In seguito la Suprema Corte ha stabilito che: "L'osservazione del condannato ai fini della liberazione anticipata non è limitata ai periodi di stretta detenzione ed è applicabile anche ai periodi in cui il soggetto usufruisce di permessi premio dato che la prova di partecipazione all'opera di rieducazione deve essere data anche per periodi trascorsi al di fuori delle strutture penitenziarie". (Cassazione penale, sezione I, 11 maggio 1990, Minniti).

92. Margara A., La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una scommessa contro il carcere, in "Questione giustizia", 1986, p. 254.

93. In particolare si veda: Ufficio di sorveglianza di Firenze, Decreto del Magistrato di sorveglianza n. 2871/05, inedito, dov'era rigettata l'istanza di permesso premio presentato da un detenuto condannato alla pena dell'ergastolo che aveva espiato oltre dieci anni di reclusione, poiché "dalla posizione giuridica in atti risulta che è tutt'ora in atto nei suoi confronti l'isolamento diurno, pertanto non è opportuno autorizzare la sua partecipazione all'incontro".

94. Cassazione penale, sezione I, 21 marzo 2000, Natoli, in "La giustizia penale", 2001, II, c. 195. In senso conforme sulla natura di sanzione penale autonoma e non già di mera modalità di esecuzione della pena dell'ergastolo si veda: Cassazione, 24 febbraio 1993, Asero, in "Cassazione penale", 1994, 2696, p. 1663, in cui è stata ritenuta la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 72 del Codice penale in relazione agli artt. 3, comma primo, e 27 della Costuituzione, aderendo a quanto già affermato da Corte costituzionale n. 115 del 22 dicembre 1964, citata in motivazione e pubblicata in "Giurisprudenza costituzionale", 1964, p. 1179. Per ulteriori riferimenti si veda anche Cassazione 24 giugno 1993, Mosella, in "Cassazione penale", 1994, p. 2428; Cassazione 28 febbraio 1980, D'Angelo, in "Cassazione penale", 1982, p. 217 con nota critica di Martini, Ergastolo ed isolamento continuo: l'art. 72 C.p. tra abrogazione e incostituzionalità, cit., sulla questione della mancata abrogazione di questa norma ad opera dell'art. 33 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, poiché quest'ultima non riguarda il sistema sanzionatorio, ma il regime di trattamento carcerario.

95. Si riporta il comma quarto dell'art. 73 del Regolamento di esecuzione, da cui si desume pacificamente che il condannato all'ergastolo sottoposto alla misura dell'isolamento diurno può essere ammesso al lavoro all'aperto ex art. 21 dell'ordinamento penitenziario: "L'isolamento diurno nei confronti dei condannati all'ergastolo non esclude l'ammissione degli stessi alle attività lavorative, nonché di istruzione e formazione diverse dai normali corsi scolastici, ed alle funzioni religiose".

96. Corte Costituzionale, sentenza 27 settembre 1983, n. 274, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1984, I, p. 799, con nota di Fassone, Riduzioni di pena ed ergastolo: un contributo all'individuazione della «pena costituzionale», cit.

97. Circolare Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, 14 maggio 2002. "Isolamento diurno", cit.

98. Si veda Corte Costituzionale, 30 luglio 1997, n. 296., cit. Si veda anche: Zappa G., Il permesso premiale: analisi dell'istituto e profili operativi, in "Rassegna penitenziaria e criminologica", 1988, p. 1.

99. L'art. 48, comma primo, dell'Ordinamento penitenziario recita: "Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dell'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale". L'art. 50, comma quarto, dell'ordinamento penitenziario, prevede: "L'ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società". L'indagine del Tribunale di sorveglianza deve essere rivolta a due elementi distinti tra loro, ma integrantesi nella valutazione finale:

  1. Un primo, consistente nell'apprezzamento dei progressi compiuti nel corso del trattamento.
  2. Un secondo, consistente nell'indagine diretta a valutare la sussistenza delle condizioni per il reinserimento graduale del condannato.

100. "La Repubblica", 4 novembre 1986, p. 1.

101. "Corriere della sera", 4 novembre 1986, p. 1.

102. Relazione della Commissione giustizia del Senato, comunicata alla Presidenza il 29 maggio 1986, p. 8.

103. Disegni di legge d'iniziativa dei Senatori Gozzini, Napoleoni e altri ("Modifiche alla l. 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario"), comunicati alla Presidenza il 21 gennaio e il 19 luglio 1983.

104. Casaroli G., La semilibertà, in Flora G. (cura di), Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario - L. 10 ottobre 1986, n. 663, cit., p. 324.

105. Alcuni autori evidenziano il difetto di coordinamento fra liberazione anticipata e semilibertà, che mette in discussione la successione logico-razionale fra le misure premiali. Tra questi: Casaroli, La semilibertà, cit.; Palazzo F., La nuova disciplina della semilibertà: perfezionamento tecnico e potenziamento funzionale di un «buon» istituto, in Grevi V. (a cura di), L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, Padova 1988, Cedam, p. 238.

106. Casaroli, La semilibertà, cit., p. 326.

107. Palazzo F., La nuova disciplina della semilibertà: perfezionamento tecnico e potenziamento funzionale di un «buon» istituto, cit., Ferrajoli, Ergastolo e diritti fondamentali, in "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 79.

108. Tribunale di sorveglianza di Torino, ordinanza 5 gennaio 1993, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, n. 13 del 24 marzo 1993, 1ª serie speciale.

109. Corte costituzionale sentenza 5 novembre 1993, n. 403, in "Giurisprudenza costituzionale", 1993, p. 3354, con nota di Gemma G., Ergastolo e semilibertà: un'altra decisione di inammissibilità, cattivo surrogato di una mancata decisione di accoglimento.

110. Corte costituzionale sentenza 5 novembre 1993, n. 403, cit., p. 3354.

111. Ibid.

112. Ibid.

113. Gemma G., Ergastolo e semilibertà: un'altra decisione di inammissibilità, cattivo surrogato di una mancata decisione di accoglimento, cit. p. 3364, l'autore basa la propria affermazione in conformità a spunti derivanti da una consistente dottrina e giurisprudenza costituzionale.

114. Cassazione penale, sezione I, 8 luglio 1993, n. 2443 (c.c. 21 maggio 1993), P.M. in proc. Settimo.

115. Cassazione penale, sezione I, 5 luglio 1994, n. 2338 (c.c. 18 maggio 1994), Scordo.

116. Si veda in dottrina Fiandaca, Commento all'art. 18 L. 10 ottobre 1986, n. 663, in "Legislazione penale", 1987, pp. 199; Grasso G., Nuove prospettive in tema di riduzioni di pena e liberazione condizionale, in Grevi V. (a cura), L'ordinamento penitenziario dopo la riforma (L. 10 ottobre 1986 n. 663), Cedam, Padova 1988.

117. Canepa M., Marcheselli A., Merlo S., Lezioni di diritto penitenziario, Giuffrè editore, Milano 2002, p. 150.

118. L'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario definisce la liberazione anticipata come "una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata" che è concessa "al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione", allo scopo:

  1. del riconoscimento di tale partecipazione,
  2. del suo più efficace reinserimento nella società.

I parametri che sono valutati per la concessione del beneficio, sono: la diligenza e la puntualità nell'osservanza delle prescrizioni, l'assiduità nello svolgimento dell'eventuale attività lavorativa o di studio, l'impegno nella cura della prole o nel mantenere i contatti con i presidi sanitari territoriali.

119. Riconosce l'effetto indiretto Grevi V., Riduzioni di pena e liberazione condizionale per i condannati all'ergastolo, cit.

120. Grasso G., Nuove prospettive in tema di riduzioni di pena e liberazione condizionale, cit., p. 275.

121. Pighi, Trattamento progressivo in semilibertà e pena dell'ergastolo, in "Rassegna di studi penitenziari e criminologici", 1982, p. 697 ss.

122. Si veda Grevi V., Riduzioni di pena e liberazione condizionale per i condannati all'ergastolo, cit.

123. Canepa M., Marcheselli A., Merlo S., Lezioni di diritto penitenziario, Giuffrè editore, Milano 2002, p. 153.

124. Canepa M., Marcheselli A., Merlo S., Lezioni di diritto penitenziario, cit., p. 154.

125. Ivi, p. 155.

126. Ibid.

127. Corte costituzionale, 21 settembre 1983, n. 274, cit., si veda supra § 2.5.

128. Cassazione penale, sezione V, 4 settembre 1993, n. 2594 (c.c. 7 luglio 1993), Chinellato.

129. Per la concessione del beneficio occorre:

  1. Che il condannato sottoposto a pena detentiva abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
  2. Che sia decorso il tempo di espiazione prescritto. L'art. 176, comma terzo, dispone che il condannato alla pena dell'ergastolo può essere ammesso al beneficio quando abbia scontato almeno ventisei anni.
  3. Che sia effettuato il risarcimento del danno. La concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato salvo che il condannato dimostri di essere nell'impossibilità di adempiere.

In caso di mancata concessione per difetto del requisito del ravvedimento, la richiesta non può essere riproposta prima di sei mesi dal giorno in cui è divenuto irrevocabile il provvedimento di rigetto (art. 682, comma secondo, del Codice di procedura penale). Nel caso di concessione, il liberato condizionalmente è sottoposto, a cura del magistrato di sorveglianza, alle prescrizioni proprie del regime di libertà vigilata, ai sensi degli artt. 177 e 230, n. 2, del Codice penale. La sottoposizione a tale regime ha la durata di cinque anni per i condannati alla pena dell'ergastolo. Decorsi cinque anni dalla data del provvedimento, se si tratta di condanna all'ergastolo, la pena rimane estinta e sono revocate le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo (art. 177, secondo comma, del Codice penale). La declaratoria di estinzione della pena per esito favorevole della liberazione condizionale è di competenza del Tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo di residenza del liberato. Mantovani F., Diritto Penale (Parte generale), Terza edizione, Cedam 1992, Padova, p. 843.

130. Corte costituzionale, 21 settembre 1983, n. 274, cit.

131. Cassazione 24 maggio 1977, cit.; Cassazione 6 dicembre 1977, cit.; Cassazione 17 gennaio 1978, cit.; Cassazione 23 gennaio 1979, cit.

132. Grevi V., Sulla configurabilità di una liberazione condizionale «anticipata» per i condannati all'ergastolo, cit.

133. Corte Costituzionale, sentenza 14 luglio 1986, n. 183, in Cassazione penale", 1986, p. 1511.

134. Corte Costituzionale, sentenza 4 giugno 1997, n. 161, in "Giurisprudenza italiana", 1999, I, pp. 121 e ss., con nota di Longo A., Brevi osservazioni sui rapporti tra ergastolo e liberazione condizionale suggerite dalla sentenza n. 161/97. Il giudizio di legittimità costituzionale è promosso con ordinanza emessa il 6 febbraio 1996 dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, pubblicata in "Gazzetta ufficiale", n. 28, Serie speciale, 1996.

135. Corte Costituzionale, sentenza 4 giugno 1993, n. 270, in "Giurisprudenza costituzionale", 1993, p. 1912.

136. Corte Costituzionale, sentenza 25 maggio 1989, n. 282, cit.

137. Sartarelli S., La Corte costituzionale tra valorizzazione della finalità rieducativa della pena nella disciplina della liberazione condizionale e mantenimento dell'ergastolo: una contradictio in terminis ancora irrisolta. (In particolare riflessioni sulla sentenza n. 161/1997), in "Cassazione penale", 2001, II, p. 1356.

138. Longo A., Brevi osservazioni sui rapporti tra ergastolo e liberazione condizionale suggerite dalla sentenza n. 161/97, cit., p. 122.

139. Gallo E., Significato della pena dell'ergastolo. Aspetti costituzionali, in "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 76.

140. Luigi Ferrajoli, Ergastolo e diritti fondamentali, "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 79.

141. Cassazione penale, sezione I, 4 marzo 1993, n. 44 (c.c. 12 gennaio 1993), Pau.

142. Cassazione, sezione I, 24 ottobre 2003, De Rosa, in Ced Cassazione, rv. 227314 (m).

143. Cassazione penale, sezione I, 4 maggio 2004, n. 20981 (c.c. 20 marzo 2004), Giglio.

144. Cassazione penale, sezione I, 2 maggio 2005, (u.p. 9 marzo 2005), n. 16446, in "Diritto penale e processo", n. 2, 2006, pp. 207 e ss., con commento di Morrone A.

145. I giudici della Cassazione hanno, in particolare, ritenuto che la verifica dell'insussistenza dei mezzi per adempiere all'obbligazione civile derivante dal reato non può essere limitata, in presenza di diversi elementi indicativi di una concreta capacità economica, all'autocertificazione "reddituale" del reo, ma "la prognosi di sicuro ravvedimento non può prescindere dal comportamento tenuto dal condannato nella vita sociale e lavorativa, anche con riguardo ad eventuali atti positivi o riprovevoli commessi durante il regime di semilibertà, e dal sacrificio personale del reo, il quale si deve attivare in concreto con interessamento per la situazione materiale e morale delle persone offese dal reato, al fine di elidere ed attenuare le conseguenze del danno arrecato mediante il reato".

146. Si tratta della documentazione riguardante l'osservazione scientifica della personalità, della consulenza dei tecnici del trattamento e di altri documenti o informazioni richiesti dal giudice alle autorità competenti.

147. Corte costituzionale, 17 maggio 2001, n. 138, in "Giurisprudenza italiana", 2001, p. 2211.

148. La Corte costituzionale ritiene che l'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato rientra tra i doveri di solidarietà sociale che l'art. 2 della Costituzione definisce "inderogabili".

149. Cassazione, sezione I, 15 ottobre 1990, Adolfo, in "Cassazione penale", 1992, p. 1504.

150. Si veda Morrone, cit., p. 211.

151. Autorevole dottrina ha evidenziato come il concetto di rieducazione accolto dalla Costituzione non possa essere identificato con il pentimento, l'emenda morale, spirituale, astrattamente possibile con qualsiasi pena ed in qualsiasi condizione carceraria, ma debba essere inteso come concetto di relazione, rapportabile alla vita sociale e che presuppone un ritorno del soggetto nella comunità, e quindi come sinonimo di risocializzazione. Mantovani F. Diritto penale, Parte generale, Cedam, Padova 1992, p. 756.

152. Morrone, cit., p. 212.

153. Ibid.

154. Indice del ritorno al "modello del fatto" è la tendenza della magistratura di sorveglianza ad ancorare la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione a dati oggettivi (gravità del reato commesso, comportamento del detenuto conforme alle regole penitenziarie, informazione dell'autorità di pubblica sicurezza su eventuali collegamenti del soggetto con la criminalità organizzata, ecc.), in luogo dell'indagine sull'evoluzione della personalità del condannato.

155. Cassazione, sezione I, 11 gennaio 2005, n. 196, in "Rivista penale", 2005, p. 691.

156. Morrone, cit., p. 213.

157. A livello pratico sono state analizzate due ordinanze del Tribunale di sorveglianza di Firenze: la n. 302/2004 e la n. 4629/2004, entrambi inedite, che si riferiscono ad un'istanza di liberazione condizionale presentata dal medesimo detenuto condannato alla pena dell'ergastolo, inflitta per vari delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione. Le ordinanze sono interessanti poiché chiariscono uno dei punti interpretativi di maggior dubbio riguardante la liberazione condizionale: il requisito del "ravvedimento". Con l'ordinanza n. 302/2004 il Tribunale di Sorveglianza rigetta l'istanza dell'interessato, poiché a suo avviso e diversamente dal G.O.T., non appariva ancora raggiunta la prova del ravvedimento (definito in questo atto come "un'evoluzione della personalità tale da implicare il ripudio delle pregresse scelte devianti"): il percorso evolutivo dell'interessato, infatti, era "suscettibile di ulteriori tappe e perfezionamenti, specificamente in punto di revisione critica del passato e di consolidamento di una progettualità rivolta al futuro, emergendo ancora delle resistenze psicologiche del soggetto a misurarsi compiutamente con il suo passato, per quanto ingombrante, e ad esprimere un distacco convinto e non solo formale dalla sue scelte pregresse, (...), tenuto conto altresì della gravità dei reati di cui si è reso responsabile". Non apparirono, invece, rilevanti per il collegio le segnalazioni della D.I.GO.S., poiché i contatti riferiti non indicavano collegamenti attuali con ambienti della criminalità organizzata ed eversiva. Con l'ordinanza n. 4629, il Tribunale di Sorveglianza accoglie l'istanza di liberazione condizionale dell'interessato poiché la valutazione oggettiva degli elementi acquisiti attraverso l'istruttoria svolta induce a ritenere sussitente il requisito del ravvedimento inteso, "con riguardo al delinquente per ideologia, nell'ambito di un ordinamento giuridico pluralista e di ispirazione liberal-democratica, non tanto come abbadono dell'ideologiaoggetto delle prorpie concvinzioni, quanto piuttosto come intergrale ed irrevocabile rièpudio della violenza come strumento per affermare la prioa ideologia e quindi come piena accettazione di tuti gli altri orientamenti politci, culutarli e filosofici presenti nella società ed in particolare di quelli che si pèrifilano diametralemnte opposti all'ideologia cui ha adertito il condannato". Il collegio fa anche riferimento all'art. 49 della Costituzione e aggiunge che il ravvedimento deve essere inteso "come definitivo ripudio della violenza come strumento di lotta politca e quindi come comprensione del disvalore dei fatti criminosi commessi con il conseguente distacco dal proprio passato connotato dall'appartenenza ad un'organizzazione terroristica". Il Procaratore generale della Repubblica di Fitenze ha fatto ricorso in Cassazione, che con sentenza del 18 magggio 2005, ha confermato la concessione del beneficio, rigettando il ricorso.

158. V. Grevi, cit., p. 45.