ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
La disciplina giuridica dell'ergastolo

Roberto Perotti, 2006

Sento una noia, un rincrescimento, una stizza che io stesso non so comprendere né spiegare. Lo studio mi disgusta, il far niente mi pesa, il conversare coi compagni mi dispiace, e non vorrei udirli parlare, non vorrei vederli; aborrisco tutti e me stesso, e tutto quello che è, che fu, che sarà. Da prima io era un uomo di buona pasta, ora sono di pasta di cantaridi per nulla mi adiro, vo sulle furie: mi sono renduto grave a tutti, insopportabile a me stesso. Oh! Se potessi gettare su questa carta gli affanni che ho chiusi nel petto, se sapessi che queste carte non saranno lette da nessuno, io scriverei parole di dolore grande, scoprirei piaghe profonde che mi vanno sino all'anima.

Io non sono più un uomo, ma la centesima parte di un uomo: il corpo è grave e stanco, nel capo non ho più lume, ma una tenebra oscurissima, nel cuore molti squarci profondi e dolorosi che mi fanno male assai

Non son chi fui, di me perì gran parte
Questo che avanza è sol languore e pianto.

Questo volevano: e l'hanno ottenuto: spegnermi l'intelletto, avvelenarmi il cuore distruggere quel poco di buono che io avevo, e rimanermi il cattivo e il bestiale. Oh, ed io posso amare gli uomini? E sono uomo io più? M'avete imbestialito, e volete che vi ami? Mi avete ucciso l'intelletto, mi avete spento questo caro lume della vita, e volete che vi ami? Va, io non vi aborrisco, ma vi disprezzo. Siamo tutti una mistura sozza di moltissima sciocchezza, di alquanta malizia, e di poche goccioline di senno: tutti, non ne eccettuo neppure quei gran savi che ti spaccano le più belle e tonde sentenze come se fosser melloni, e te le mostrano tenendole alte tra le mani, e gridando: ecco il senno, ecco il vero. Sapete che cosa è il vero? Il vero è quel punto, quel corpo, che non si sa se sia scuro o luminoso, mobile o immobile, se esista o non esista, intorno al quale dicono gli astronomi che giri il sole del nostro sistema planetario, e gli altri soli che sono negli spazi interminabili dell'universo. Io l'ho cercato, e non l'ho trovato: io l'ho amato e son rimasto deluso e addolorato. Foss'egli il dolore? Foss'egli la morte? Oh! dovrò saperlo una volta.

Che cosa ho scritto? Io nol so, né voglio rileggerlo, so che sto male assai, e che una cupa, malinconia mi fa borrire me stesso e tutte le cose, gli uomini che mi stanno intorno. Capisco che sono ammalato: che questa stizza, che quest'ira bestiale e sciocca mi passerà fra pochi dì: ma finché dura, so io che sento dentro, e che scuri pensieri mi si attraversano biechi per la mente!

(L. Settembrini, Ricordanze dalla mia vita, p. 153 a cura di R. Bertacchi, La Nuova Italia, Firenze, 1965, Ergastolo di Santo Stefano, 1 febbraio 1855).

1.1. Premessa storica

L'ergastolo, come dice la sua stessa etimologia (1), è un residuato dei lavori forzati. La parola è venuta alla luce con questo significato: ergastolo, infatti, deriva storicamente dalla denominazione del luogo dove erano rinchiusi per la notte gli schiavi o i detenuti per debiti, addetti al lavoro dei campi (la radice greca "ergazomai", lavorare, lo spiega) (2).

L'ergastulum per i romani non era un laboratorio, come il greco έργαστήριου, da cui il nome deriva con mutamento di suffisso, ma un luogo di lavoro forzato dove un privato proprietario teneva, in catene, quegli schiavi che, a suo arbitrio, egli giudicava incorreggibili. La pena dell'ergastolo, in seguito, non è menzionata nelle fonti per lungo tempo: il Medioevo non conobbe condanne ai lavori forzati, soprattutto perché mancava un'efficiente organizzazione statale a cui potessero tornare utili. Si cominciò, però, nel Medioevo e più precisamente nella Chiesa medievale a dare alla parola un significato diverso, quello di carcere a cui conferivano una nota di particolare rigore, la segregazione perpetua e non il lavoro, ma l'ozio forzato. Con questo significato la parola si può leggere in alcune fonti canoniche, come un canone del Concilio di Toledo del 675 (3) e uno del Concilio di Trebur del 895 (4): per il primo i sacerdoti che avevano emesso o eseguito condanne a morte o a mutilazione, per il secondo i religiosi o le religiose che erano venuti meno al voto di castità, erano rinchiusi in "ergastula" a far penitenza delle loro colpe "vita natural durante", avendo per unico conforto quello di potersi accostare alla comunione in punto di morte.

Nel XV e XVI secolo, le condanne ai lavori forzati tornarono in uso prima nella forma di condanna al remo e alle galere e i criminalisti dell'epoca assimilarono queste pene all'antica damnatio ad metalla, per le similitudini riscontrate. In età moderna il campo di applicazione di questa specie di pena fu di nuovo ampliato e si riparlò di "lavori forzati" e di ergastolo (secolo XVIII) per indicare il luogo di pena, lo stabilimento destinato alla reclusione e ai lavori di pubblica utilità. In questo senso parlava più volte di "ergastolo" la Constitutio criminalis Theresiania del 1768 (art. 7), mentre l'ergastolo di Pizzighettone, istituito nel 1782, fu oggetto di due interessanti consulte di Cesare Beccaria (5).

Può senz'altro affermarsi che l'ergastolo, inteso nell'accezione di pena perpetua, fu estraneo, in generale, alla concezione romana e a quella germanica, per le quali il carcere serviva di regola soltanto come custodia e restò a lungo una peculiarità del regime penitenziale della Chiesa. Lo dice nella sua Pratica Criminalis, Giulio Chiari (1525-1575), giudice milanese:

La pena del carcere perpetuo non è in uso presso i laici, loro avevano mezzi più sbrigativi: la mannaia, la forca, lo squarciamento, l'attanagliamento con cesoie infuocate nelle diverse parti del corpo e, per i delitti minori, l'amputazione di una mano o di entrambe per il furto, il taglio della lingua per la bestemmia, l'esposizione in berlina, ecc., queste erano le pene normali. L'ergastolo, invece, come segregazione perpetua, a pane e acqua, in qualche convento sperduto, era una specialità che la Chiesa usava allorché non riteneva necessario condannare un eretico al rogo (6).

L'impiego della pena dell'ergastolo da parte della Chiesa aveva la finalità di recuperare il condannato peccatore attraverso l'utilizzo di "medicine forti", quali "l'isolamento perpetuo" con una motivazione che lasciava, però, sempre viva la speranza di una futura liberazione, conquistata attraverso l'espiazione, il pentimento, il perdono ottenuto.

Nei secoli del rinascimento giuridico e del diritto comune l'uso del carcere come pena costituì, per gli ordinamenti secolari, un'eccezione. I casi di carcere perpetuo erano ancora più rari: i giureconsulti li consideravano fuori dell'ordinario, eccetto che per il diritto canonico, e aggiungevano che la condanna di un uomo libero al carcere a vita sarebbe equivalsa ad una sua riduzione in schiavitù. Esempi di carcere a vita se ne trovano pochissimi negli statuti e nelle altre legislazioni particolari italiane: questi esempi sparsi in testi di città e di epoche assai disparate (dal Duecento in poi), si riferivano per lo più a delitti sessuali, a delitti politici o ad altri delitti che, per ragioni contingenti, apparivano meritevoli di punizione più rigorosa. Questo orientamento ostile alla pena del carcere a vita non era, però, un fenomeno solo italiano ma anche europeo: infatti, anche se erano molte le condanne all'ergastolo che erano eseguite, ciò dipendeva più dall'esercizio di un potere arbitrario che dall'irrogazione di quelle regolarmente previste dalle leggi e applicate dai tribunali. Alcuni giureconsulti dell'antico regime, affermarono che la pena del carcere perpetuo non andava eseguita nelle prigioni vere e proprie, ma in fortezze o castelli e per le donne in determinati conventi, in modo da salvare il principio romano della prigione destinata esclusivamente alla custodia (7).

Tra il Settecento e l'Ottocento la forte spinta dei riformatori in favore dell'abolizione della pena di morte fece in modo che si considerasse il carcere a vita come la più grave delle pene da sostituire a quella capitale e che venissero meno le antiche riserve avanzate dai giureconsulti per motivi di principio. Il termine passò in questo periodo ad indicare anche la pena, Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, nella sua riforma criminale del 30 novembre 1786 (art. 53), affermò:

Dovendo i Rei dei capitali, e gravi Delitti rimanere in vita per compensare le loro opere malvagie con delle utili, ordiniamo che alla abolita pena di morte sia sostituita come ultimo supplizio per gli Uomini la pena dei Lavori Pubblici a vita, e per le Donne dell'Ergastolo parimenti a vita" (8).

Cesare Beccaria, com'è noto, affermò nel Dei delitti e delle pene che l'ergastolo poteva essere adottato dal legislatore come una pena sostitutiva della pena di morte, perché più efficace in quanto più lunga e dolorosa da scontare. L'ergastolo, disse Beccaria, è più crudele della morte perché è più molesto, più duro, più lungo da scontare, con l'ergastolo la pena viene rateizzata nel tempo e non condensata in un momento come la morte: è proprio questa perpetuità la sua forza ammonitrice ed esemplare. Il terrore della morte può essere attenuato ed addolcito dalla religione, la pena dell'ergastolo impegna per tutta la vita: l'esempio è doloroso per chi lo subisce ed esemplare per quanti stanno a guardare (9).

1.2. La pena perpetua dalla Rivoluzione francese al Codice Rocco

La pena dell'ergastolo, modernamente concepito, si affermò in epoca illuminista, con la piena realizzazione della pena detentiva. La pena perpetua s'inserì nella maggior parte degli ordinamenti del tempo tra la pena di morte e le pene temporanee, con l'eccezione storica rappresentata dal Codice penale francese del 28 settembre 1791, che aveva abolito le pene perpetue, perché aberranti, e all'art. 8 aveva previsto subito dopo la pena di morte, la pena dei ferri fino a ventiquattro anni. La ragione di questa eccezione era vista nel fatto che le sanzioni penali, almeno per la parte più sensibile della dottrina del tempo, non dovevano limitarsi a "retribuire" ed intimidire, ma dovevano possedere anche i caratteri dell'umanità e dell'idoneità ad emendare il reo; caratteri che, a giudizio di molti, risultavano addirittura più estranei alla pena perpetua che a quella capitale (10). Ogni sanzione, al di là dei fini della pena concepita in astratto, finiva, però, in concreto col privilegiare, anche in modo esclusivo, il momento retributivo e general-preventivo, ed a restringere la prevenzione speciale alla neutralizzazione e, per le sanzioni temporanee, all'intimidazione per le sofferenze patite. Le pene perpetue rispondevano pienamente a questa logica: il carattere eliminativo di queste pene sia nella forma "alternativa" di lavori forzati (11) o di deportazioni a vita (12), secondo quanto stabilito dal codice francese del 12 febbraio 1810, sia che venissero scontate in regime di ergastolo (13), secondo le "leggi penali del Codice pel Regno delle due sicilie" del 1819, infatti, consentivano di prescindere da ogni contenuto correzionalista. La dottrina più attenta rilevava, sin da allora, la natura desocializzante e diseducativa di queste sanzioni e avanzava proposte di riforma volte ad ottenere, in sede legislativa, la creazione di un istituto che rispondesse ai fini assolti dall'attuale liberazione condizionale (14). I tempi, però, non erano ancora maturi perché tali proposte riuscissero a modificare le legislazioni allora vigenti: nel secolo XIX, quindi, nella massima parte degli ordinamenti, i condannati a pena perpetua che avessero tenuto una buona condotta potevano riacquistare la libertà unicamente attraverso la Grazia (15).

Le pene a vita erano destinate a segregare per sempre coloro che, a causa dei gravi delitti commessi, erano considerati incorreggibili: risultavano, quindi, prive di una dimensione emendativo-rieducativa. Le teorie dell'espiazione e della retribuzione morale e i seguaci della teoria dell'emenda, tuttavia, arrivavano alle stesse conclusioni: la segregazione, il silenzio, il lavoro coatto, anche se protratti per tutta la vita del condannato dovevano essere giudicati strumenti idonei ad ottenere la rieducazione interiore del reo. In questo modo si legittimava la pena perpetua e si nascondeva l'inidoneità di questa a favorire il recupero, anche solo interiore, del reo. Si delineò, quindi, nella quasi totalità degli ordinamenti, una sanzione perpetua che era presentata come adeguata sia ad assolvere funzioni di prevenzione generale e di retribuzione, sia ad ottenere, in forza delle proprie modalità di esecuzione (16), l'emenda del reo.

L'ergastolo, in forza di un consenso quasi unanime e mentre continua la polemica sulla pena capitale, è sempre presente nei progetti di Codice penale italiano (17). E' sintomatico che nei progetti di codice penale italiano della seconda metà del XIX secolo si escludesse sempre espressamente per i condannati a vita, "nell'interesse della pubblica sicurezza", l'applicabilità di quella liberazione condizionale che, già adottata da alcune legislazioni, cominciava allora a farsi strada nel nostro ordinamento (18).

Le ragioni del consenso di cui gode l'istituto dell'ergastolo nel periodo a cavallo del XIX e XX secolo sono facilmente individuabili: l'abolizione della pena capitale operata dal Codice del 1889, esigeva che la pena destinata a sostituirla svolgesse la propria funzione retributiva e general-preventiva in modo certo. Alcuni poi continuavano ad attribuire alla rigida solitudine un benefico influsso d'emenda, mentre da più parti la segregazione veniva considerata un utile freno all'ulteriore corruzione dei reclusi. Non si deve dimenticare che per la dottrina italiana del tempo, la correzione del reo restava un fine solo "accessorio della pena" (19).

L'istituto dell'ergastolo sorto da queste premesse e disciplinato dal Codice del 1889 è il prodotto di una civiltà che, abolita la pena di morte, vuole una pena severa, destinata a quei soggetti ritenuti in linea di massima incorreggibili da una dottrina per la quale comunque la prevenzione speciale rappresenta solo una funzione secondaria della pena.

1.2.1. L'ergastolo e il Codice Zanardelli

Il Codice Zanardelli disciplinava all'art. 11 la pena dell'ergastolo, che era pena perpetua caratterizzata da un periodo di sette anni di segregazione cellulare continua con l'obbligo del lavoro, scontato il quale il condannato era sottoposto all'isolamento notturno. L'ergastolo era pena perpetua senza possibilità di conversione in pena temporanea, salvo per Grazia. Si scontava in stabilimenti speciali denominati "ergastoli". Il Codice unico del 1889 prevedeva i seguenti casi di applicazione dell'ergastolo: attentato contro l'integrità, l'indipendenza o l'unità dello Stato (art. 104); macchinazioni dirette a promuovere ostilità o guerre contro lo Stato italiano, ovvero a favorire le operazioni militari di uno Stato in guerra con lo Stato italiano, con intento raggiunto (art. 106); attentato contro il Re, la Regina, il Principe ereditario, o il reggente durante la reggenza (art. 117); parricidio (art. 366, n. 1); omicidio con premetidazione (art. 336, n. 2); omicidio per solo impulso di brutale malvagità, ovvero con gravi sevizie (art. 366, n. 5); omicidio col mezzo dell'incendio, inondazione, sommersone o altro dei delitti contro l'incolumità pubblica (art. 366, n. 4); omicidio per preparare, facilitare o consumare un altro reato, benché questo non sia avvenuto (art. 366, n. 5); omicidio commesso immediatamente dopo un altro reato, per assicurarne il profitto o per non essersi potuto conseguire l'intento propostosi ovvero per occultare il reato o sopprimere le tracce o le prove, o altrimenti per procurare l'impunità a sé o ad altri (art. 366, n. 6).

La condanna all'ergastolo, per il Codice Zanardelli, comportava le seguenti conseguenze giuridiche: a) la pubblicazione speciale della sentenza di condanna (articolo 43); b) l'interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 31); c) l'interdizione legale, la perdita della patria potestà, dell'autorità maritale, della capacità di testare e la nullità del testamento fatto prima della condanna (articolo 33).

1.2.1.1. L'ergastolo e il Regolamento carcerario del 1891

Il regolamento carcerario del 1891 classificava fra gli stabilimenti ordinari di pena, gli ergastoli (art. 3), inoltre prevedeva che questi stabilimenti di pena ordinari fossero a sistema di segregazione cellulare continua (art. 10) e fossero affidati a Direzioni speciali (art. 16), le donne scontavano la pena dell'ergastolo in stabilimenti speciali (art. 239) (20).

Il condannato all'ergastolo, appena giungeva allo stabilimento, era sottoposto alla visita medica, dopo la quale gli erano tagliati i capelli, gli era rasa la barba e gli era fatto indossare l'abito dello stabilimento (art. 228). Il vestiario, uguale per tutti i condannati, si componeva di pantaloni e giacca o camicia a righe irregolari color bianco e marrone, cravatta marrone e berretto. Il colore della prima fascia del berretto e del colletto della giacca o della camicia per gli uomini, quello delle cuffie per le donne e quello delle stoffe per i numeri di matricola, serviva di distintivo per le pene ed era nero per i condannati all'ergastolo.

Gli ergastolani, dopo il periodo di segregazione continua, potevano andare al passeggio in comune, durante il quale dovevano osservare la regola del silenzio e camminare in fila uno dopo l'altro alla distanza che veniva loro ordinata. Non potevano né uscire dalla fila, né fermarsi o sedersi senza avere ottenuto il permesso dagli agenti di custodia; tale permesso doveva essere chiesto alzando la mano (art. 247). I condannati all'ergastolo non potevano essere addetti ai servizi domestici prima di avere scontato venti anni di pena (art. 279). Il prezzo integrale del lavoro da loro compiuto si divideva in decimi ed erano loro assegnati 3/10 a titolo di gratificazione (art. 287). Durante il periodo della segregazione cellulare continua, potevano avere un colloquio l'anno e, compiuto questo periodo, ne potevano avere uno ogni sei mesi (art. 305); potevano scrivere una lettera ogni quattro mesi (art. 317).

Terminato di scontare il periodo di segregazione cellulare continua e passati quindi alla segregazione notturna, i condannati all'ergastolo, come gli altri detenuti erano divisi in tre classi: di prova, ordinaria e di merito, distinte le une dalle altre per mezzo di un galloncino colorato (giallo, verde o bianco) cucito nella manica (art. 367). Nella classe di prova dovevano rimanere otto anni o sedici se recidivi (art. 378); quando passavano alla classe di merito ed avevano scontato non meno di venti anni di pena, potevano essere proposti per la grazia (art. 387). Potevano essere proposti anche prima quei condannati che avessero compiuto azioni coraggiose o prestato servizi lodevoli (art. 388).

I condannati, che, dopo avere scontato la massima pena disciplinare, avevano commesso gravi mancanze (art. 344 e 459), erano rinchiusi in una casa di rigore. I condannati all'ergastolo non potevano esservi trasferiti se non dopo scontato il periodo della segregazione cellulare continua. In queste case di rigore i condannati erano divisi in tre classi: di punizione, di prova e di riabilitazione. Nelle prime due erano sottoposti alla segregazione cellulare continua con obbligo del lavoro. Nella classe di prova gli ergastolani non potevano scrivere che una lettera ogni sei mesi e fare acquisto di sopravvitto solo due giorni la settimana non spendendo più di venti centesimi alla volta.

Al di fuori di queste restrizioni speciali, i condannati all'ergastolo erano soggetti alle norme disciplinari e al trattamento comune a tutti i detenuti, disciplinati dal Regolamento del 1891.

Tavola I. - Imputati condannati alla pena dell'ergastolo (anni 1887-1904 situazione a fine anno) (21)
Anni Cifre effettive Per 100 condannati
1887 349 0,11
1888 297 0,09
1889 316 0,09
1890 (22) 98 0,03
1891 124 0,04
1892 108 0,03
1893 116 0,03
1894 119 0,03
1895 141 0,04
1896 124 0,03
1897 124 0,03
1898 125 0,03
1899 143 0,03
1900 110 0,03
1901 98 0,03
1902 109 0,03
1903 98 0,02
1904 76 0,02
Tavola II. - Detenuti condannati all'ergastolo (dal 1895 al 31 dicembre 1903)
Anni Uomini Donne
1895 3414 134
1897 3260 112
1898 3124 109
1900 2942 104
1901 2745 105
1902 2647 102
1903 2586 103

1.2.2. L'ergastolo e il Codice penale Rocco

L'avvento del Codice del 1930 determinò alcune espressive innovazioni nel regime di esecuzione dell'ergastolo. Il ripristino della pena di morte per i delitti più gravi contro la personalità dello Stato e la vita dei cittadini, con il conseguente inasprimento delle funzioni retributiva e general-preventiva, consentirono, infatti, al legislatore fascista di "ammorbidire" taluni aspetti del trattamento riservato ai condannati alla pena perpetua: in particolare il codice del 1930 soppresse l'isolamento diurno e dispose - per il condannato all'ergastolo che avesse scontato almeno tre anni di pena - l'ammissione al lavoro all'aperto. Il carattere di perpetuità dell'ergastolo, risultava, tuttavia, ulteriormente rafforzato, come rilevava Saltelli:

Ove si consideri che, se per necessità di difesa sociale si è riconosciuto allo Stato il diritto di togliere la vita al reo, a maggior ragione gli si deve riconoscere il diritto di poter privare in perpetuo della libertà a coloro che ne hanno gravemente abusato (23).

Si consideri inoltre che la giustificazione teorica dell'ergastolo è l'attuazione dei fini di prevenzione generale e speciale, poiché: "La funzione di rieducazione e di emenda del colpevole non costituisce lo scopo essenziale della pena" (24).

1.2.2.1. L'ergastolo e il Regolamento Rocco

Gli artt. 248 e 250, del Regolamento penitenziario di cui al Regio Decreto n. 787 del 1931 avevano, infine, riformato il precedente ordinamento carcerario, disponendo miglioramenti nelle modalità dell'esecuzione della pena perpetua (25). Gli stabilimenti nei quali si scontava la pena perpetua erano, sempre, gli 'ergastoli' che avevano carattere di stabilimenti di pena ordinari (artt. 23 e 24 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena). La pena era scontata negli stabilimenti speciali denominati "Ergastoli per delinquenti abituali, professionali o per tendenza", qualora si fosse trattato di condannati che fossero stati dichiarati tali (art. 24 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena). Il condannato sottoposto all'isolamento continuo doveva essere frequentemente visitato dal direttore, dal medico e dal cappellano (art. 205 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena). Se il condannato era colpito da infermità psichica e non fosse applicabile l'art. 148 del Codice penale o la norma contenuta nell'art. 106 del Regolamento (26), l'isolamento poteva essere sospeso per ordine della Direzione generale degli stabilimenti di prevenzione (art. 206 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena) (27); ovvero poteva essere escluso o ridotto tramite Grazia, perché in tal modo veniva condonata 'parzialmente' la pena (art. 174 del Codice penale). Questo condono, in sostanza, equivaleva al condono delle pene concorrenti che determinavano l'isolamento continuo (art. 184 del Codice penale).

Terminato l'eventuale periodo di segregazione cellulare continua, il condannato all'ergastolo era ammesso di diritto alla vita in comune, a meno che dovesse essere assegnato, per misura disciplinare, con ordine di servizio del giudice di sorveglianza, a "una casa di punizione", nella quale era assoggettato ad un primo periodo di isolamento continuo, che normalmente non poteva superare tre mesi: se il condannato persisteva nella sua condotta riprovevole, l'isolamento era continuato e il giudice di sorveglianza poteva ordinare il trasferimento del condannato ad una "casa di rigore", o ad una casa per "minorati fisici o psichici" ovvero ad un manicomio giudiziale (artt. 232, 233, 234 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena). Solo l'istituto della Grazia poteva estinguere o commutare la pena perpetua, l'art. 201 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena stabiliva, infatti, che: "Il condannato all'ergastolo, dopo aver scontato venti anni di pena, può essere proposto per la concessione della Grazia quando, per la condotta tenuta e per le prove date di attaccamento al lavoro, sia giudicato meritevole di particolare attenzione".

I condannati all'ergastolo potevano avere colloqui una sola volta il mese, anziché ogni quindici giorni od ogni settimana, come invece per le altre pene detentive; la corrispondenza era loro permessa due volte il mese, anziché una o due volte la settimana (artt. 101 e 104 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena).

Tavola III. - Imputati condannati alla pena dell'ergastolo (anni 1926-1930, 1938-1941, 1947, situazione a fine anno) (28)
ANNI Cifre effettive Per 100 condannati
1926 49 0,01
1927 63 0,01
1928 80 0,01
1929 38 0,01
1930 57 0,01
1938 83 -
1947 112 -
Tavola IV. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1927-1931, 1947, 1949, situazione a fine anno) (29)
ANNI Cifre effettive Per 100 condannati Maschi Femmine
1927 855 4 838 17
1928 799 3,5 781 18
1929 851 3,5 831 20
1930 817 3,7 801 16
1931 773 3,3 775 20
1947 969 - 965 4
1949 1028 - 946 82

1.3. La disciplina attuale

La pena dell'ergastolo è la sanzione penale più grave prevista dall'ordinamento giuridico ed è la forma più grave della pena carceraria, consistendo, secondo la legislazione italiana vigente, nella carcerazione perpetua del reo in uno stabilimento carcerario. La perpetuità, infatti, è il carattere fondamentale di questa pena. L'art. 17 del Codice penale, enumera le pene principali e comprende al n. 2, l'ergastolo. Il successivo art. 22 stabilisce: "La pena dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno. Il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro all'aperto" (30).

Questa pena non ha limiti di durata, ma può essere sostituita dalla reclusione da venti a ventiquattro anni quando ricorre una causa di diminuzione (art. 65, n. 2 del Codice penale) o dieci anni se concorrono più di tali cause (art. 67, n. 2 del Codice penale) (31). Va poi aggiunto che si è ritenuto che l'imputato potesse eliminare il pericolo dell'ergastolo con l'istanza di giudizio abbreviato nel caso di consenso del Pubblico ministero (artt. 438 - 442 n. 2 del Codice di procedura penale), ma la Corte costituzionale, con la sentenza 22 aprile 1991, n. 176, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 442, comma secondo, ultimo periodo del Codice di procedura penale (32). In seguito è intervenuto il legislatore che con l'art. 7, secondo comma, della Legge 19 gennaio 2001, n. 4 ha modificato il secondo comma dell'art. 442 del Codice di procedura penale nel senso che nel giudizio abbreviato, nel caso di concorso di reati o di reato continuato, persiste la pena dell'ergastolo, ma è escluso l'isolamento diurno. Alla semplice pena dell'ergastolo (senza isolamento), invece, resta sostituita la reclusione di anni 30 (art. 30 primo comma lettera b della Legge 16 dicembre 1999, n. 479).

La pena dell'ergastolo è comminata dal Codice penale per singoli reati (tenuto conto delle modificazioni legislative sopravvenute) nei seguenti casi:

  1. Art. 242, primo comma (Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano): cittadino che porta le armi contro lo Stato o presta servizio nelle forze armate di uno Stato in guerra contro lo Stato italiano;
  2. Art. 243, secondo comma (Intelligenze con lo straniero): intelligenze con lo straniero a scopo di guerra, quando si verifichino ostilità diverse dalla guerra;
  3. Art. 244, primo comma (Atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al rischio di guerra): atti ostili verso uno Stato estero quando abbiano cagionato la guerra;
  4. Art. 258, secondo comma (Spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione): spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione ed è commesso nell'interesse di uno Stato in guerra con quello italiano;
  5. Art. 261, terzo e quarto comma (Rivelazione di segreti di Stato): rivelazione di segreti di Stato, se il colpevole abbia agito a scopo di spionaggio politico-militare;
  6. Art. 265, terzo comma (Disfattismo politico): disfattismo politico a seguito di intelligenze con il nemico;
  7. Art. 268 (Parificazione degli Stati alleati);
  8. Art. 276 (Attentato contro il Presidente della Repubblica): attentato contro la vita, l'incolumità o la libertà personale del Presidente della Repubblica;
  9. Art. 280, quarto comma (Attentato per finalità terroristiche o di eversione): attentato alla vita per finalità di terrorismo o di eversione da cui deriva la morte della persona;
  10. Art. 284, primo comma (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato): promuovimento di un'insurrezione armata contro i poteri dello Stato;
  11. Art. 286, primo comma (Guerra civile): fatti diretti a suscitare la guerra civile;
  12. Art. 287, terzo comma (Usurpazione di potere politico o comando militare): usurpazione di potere politico o di comando militare commesso in tempo di guerra;
  13. Art. 289-bis, terzo comma (Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione): sequestro di una persona per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico da cui deriva la morte voluta della persona sequestrata;
  14. Art. 295 (Attentato contro i Capi di Stati esteri);
  15. Art. 422, secondo comma (Strage): strage con morte di una sola persona;
  16. Art. 438 (Epidemia): cagionata epidemia;
  17. Art. 439, secondo comma (Avvelanamento di acque o di sostanze alimentari): avvelenamento di acque o sostanze alimentari seguito dalla morte di una sola persona;
  18. Art. 577, primo comma (Altre circostanze aggravanti. Ergastolo): omicidio dell'ascendente o del discendente, o commesso con sostanze venefiche ovvero con un altro mezzo insidioso, o con premeditazione, o per motivi abbietti o futili, o avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone;
  19. Art. 630, terzo comma (Sequestro di persona a scopo di estorsione): sequestro di persona allo scopo di conseguire un ingiusto profitto da cui deriva la morte voluta della persona sequestrata.

Per tali reati non è mai applicabile la norma contenuta nell'art. 157 c.p. che regola la prescrizione del reato.

Per effetto dell'art. 1 del Decreto Legge Luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 224, l'ergastolo è la pena applicabile in tutti i casi in cui il Codice penale commina la pena di morte. Molti reati punibili con l'ergastolo erano poi previsti dai codici penali militari: tale pena è stata sostituita a quella di morte comminata dal Codice penale militare di pace dall'art. 1 del Decreto Legislativo 22 gennaio 1948, n. 21; l'art. 1 della Legge 13 ottobre 1994, n. 589 ha disposto, infine, che, per i delitti previsti dal Codice penale militare di guerra e dalle Leggi militari di guerra, la pena di morte è abolita ed è sostituita dalla pena massima prevista dal Codice penale.

La Corte costituzionale, con la sentenza 28 aprile 1994, n. 168 (33), dopo che una prima decisione ha dichiarato inammissibile la relativa questione (sentenza 6 aprile 1993, n. 140 (34)) invece ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 17 e 22 del Codice penale, in riferimento agli artt. 27 terzo comma e 31 secondo comma della Costituzione, nella parte in cui non è esclusa l'applicabilità della pena dell'ergastolo al minore imputabile, pur salvandola ancora volta (35) da censure di incostituzionalità per la generalità dei condannati maggiorenni in considerazione dei numerosi benefici a favore dei detenuti che scontano la pena dell'ergastolo attualmente previsti dal sistema penitenziario (36).

Questioni particolari concernono le regole di applicazione della pena dell'ergastolo e dell'isolamento diurno, in caso di concorso di reati, disciplinati dagli articoli 72 e 73 del Codice penale. L'art. 72 prevede: "Al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa la pena dell'ergastolo, si applica la detta pena con l'isolamento diurno da sei mesi a tre anni. Nel caso di concorso di un delitto che importa la pena dell'ergastolo, con uno o più delitti che importano pene detentive temporanee per un tempo complessivo superiore a cinque anni, si applica la pena dell'ergastolo con l'isolamento diurno per un periodo da due a diciotto mesi. L'ergastolano condannato all'isolamento diurno partecipa all'attività lavorativa". In genere, quindi, oltre che nel caso di concorso di delitti per ciascuno dei quali sia prevista la pena dell'ergastolo, l'isolamento diurno va applicato anche quando un reato punito con l'ergastolo concorra con uno o più delitti per i quali sia irrogabile una pena complessiva superiore a cinque anni. L'isolamento diurno, previsto dall'art. 72, non è una modalità di vita o di disciplina carceraria, ma costituisce una sanzione penale per i delitti concorrenti con quelli dell'ergastolo, poiché afferisce alla genesi del rapporto esecutivo. In questo senso si deve escludere, pertanto, che l'art. 72 sia stato abrogato dall'art. 33 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, che non tocca il sistema sanzionatorio, ma riguarda il regime del trattamento carcerario (37). L'isolamento diurno, essendo una sanzione penale, non può mai essere applicato in sede di formazione di cumulo dal pubblico ministero, ma deve essere applicato e determinato dal giudice di cognizione, ovvero, quando si sia in sede esecutiva, dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 80 del Codice penale. L'isolamento diurno previsto dall'art. 72 non può essere considerato una misura contraria al senso di umanità ed incompatibile con l'art. 27 della Costituzione, poiché il condannato sottoposto a detta misura può comunque far vita in comune, partecipando alle attività lavorative (38). Secondo la prevalente dottrina, ove la pena dell'ergastolo concorra con l'arresto, quest'ultima rimane inapplicata, in quanto l'art. 72 prevede soltanto il concorso con le pene comminate per i delitti e non quelle comminate per le contravvenzioni (39).

Nella determinazione della misura concreta dell'isolamento diurno tra il minimo e il massimo previsto, il giudice procede alla stregua dei principi generali relativi all'esercizio del potere discrezionale contenuti nell'art. 133 del Codice penale.

A livello amministrativo rileva una circolare del Dipartimento amministrazione penitenziaria del 2002 (40) in cui sono indicati i criteri di esecuzione di questa "sanzione penale" che consegue per delitti concorrenti con quello punito con l'ergastolo. Questa Circolare va ad abrogare la precedente interpretazione dell'art. 33 dell'Ordinamento penitenziario contenuta in una nota del febbraio del 1988 (41) che imponeva la certificazione scritta del sanitario, attestante la capacità di sopportarlo da parte del condannato. Con questa Circolare si dispone, invece, che "eventuali necessità risultanti devono essere valutate dal tribunale di sorveglianza attraverso lo strumento del differimento o della sospensione della pena dell'isolamento", poiché le Amministrazioni penitenziarie devono applicare "con assoluta tempestività" l'isolamento diurno sin dal momento in cui ha inizio l'esecuzione penale.

L'orientamento della Cassazione è sempre stato univoco sul problema dell'inizio dell'esecuzione della pena dell'ergastolo. L'inizio dell'espiazione dell'ergastolo, ha ritenuto la Cassazione, non può essere anticipato ad una data anteriore a quella del reato per cui è stato inflitto l'ergastolo ovvero a quella del primo atto privativo della libertà subito dopo che il reato è stato commesso. Il colpevole, infatti, si diceva, non può trovarsi avvantaggiato dal concorso di altre condanne a pene temporanee per reati commessi prima di quello punito con l'ergastolo e le pene temporanee residue per i reati commessi in precedenza conservano rilievo solo ai fini dell'eventuale applicazione o espansione dell'isolamento diurno, mentre, per ragioni di continenza, non hanno idoneità ad incidere sulla maturazione dei requisiti temporali per l'ammissione dei condannati all'ergastolo ai benefici previsti dalla legge (42). In seguito questo orientamento è stato ribadito: nel caso di cumulo di pene detentive temporanee con la pena dell'ergastolo, la decorrenza di quest'ultima è sempre quella della data di inizio della carcerazione per il reato per il quale è stato inflitto l'ergastolo sia che l'ergastolo sia stato inflitto per reato commesso durante l'espiazione delle pene temporanee, sia che le pene temporanee siano state inflitte per reati commessi durante l'espiazione dell'ergastolo. Qualora, invece, debbano cumularsi due ergastoli, il secondo dei quali inflitto per delitto commesso durante l'espiazione del primo, la pena unificata ai sensi dell'art. 72 decorre dalla data di carcerazione per il nuovo reato, perché l'ergastolo inflitto per il successivo reato copre e assorbe il precedente (43).

In una pronuncia successiva, la Corte di Cassazione ha affermato, inoltre, che nel caso di provvedimento di cumulo in cui sia presente la pena dell'ergastolo, il condannato ha interesse a far rettificare, chiedendone la retrodatazione, l'inizio della sua espiazione, poiché, pur trattandosi di pena perpetua, la sua anticipazione consente l'accesso anticipato alla liberazione condizionale e ai benefici previsti dall'ordinamento penitenziario (44). Con questa sentenza il giudice della nomofilichia non ha cambiato orientamento sul problema dell'inizio dell'esecuzione della pena dell'ergastolo, come si evince dalla parte motiva della sentenza. Il fatto si riferisce, infatti, ad un detenuto che era stato tratto in arresto il 27 aprile 1981 ed era rimasto in carcere fino al 1987 per reati diversi da quelli oggetto della successiva sentenza di condanna (con la quale gli fu poi inflitta la pena dell'ergastolo). In relazione a quei diversi reati il Tribunale di sorveglianza gli aveva concesso la liberazione condizionale. Il 30 aprile 1988 il ricorrente era stato, poi, arrestato per altri reati (per i quali avrebbe riportato poi la pena dell'ergastolo con sentenza 17 giugno 1992 della Corte d'assise di Catania, in giudicato il 31 gennaio 1996), e quindi il Tribunale di sorveglianza, con ordinanza 15 giugno 1988, revocava la liberazione condizionale. I delitti di cui alla sentenza di condanna alla pena dell'ergastolo (omicidio, detenzione e porto di armi, occultamento di cadavere) risalivano al 16 ottobre 1980 e ad essi si univa, anche, il delitto di associazione di stampo mafioso ex art. 416 bis, comma primo, del Codice penale: la pena dell'ergastolo, tuttavia, aveva assorbito le pene detentive temporanee per gli altri reati satelliti, compreso il reato permanente, ex art. 72 del Codice penale. Dunque, nel caso in esame, l'inizio dell'espiazione della pena dell'ergastolo poteva senz'altro avvenire nella data del 27 aprile 1981, trattandosi del primo atto privativo della libertà dopo la commissione del delitto di omicidio (avvenuto, come si è visto, il 16 ottobre 1980).

Alla presenza di una pena dell'ergastolo, le pene detentive temporanee - salvo che non intervenga una causa estintiva - perdono ogni rilevanza (ad eccezione dell'isolamento diurno) e, ad ogni effetto, ha efficacia esclusivamente la pena dell'ergastolo, senza alcuna possibilità di far rivivere, per desumere conseguenze in mala partem, le singole pene temporanee. Qualora, infatti, si sia proceduto al cumulo delle pene che il condannato deve espiare, s'instaura un unico rapporto esecutivo e le singole pene ricomprese nel cumulo, materiale o giuridico, perdono ogni autonomia ed ha rilievo la pena unica da espiare, restando in essa assorbite e neutralizzate quelle inflitte per i vari reati con la stessa sentenza o con una pluralità di sentenze (45).

Il cumulo disciplinato dall'art. 72 secondo comma del Codice penale prescinde totalmente dalla natura dei reati accertati e dall'unicità del disegno criminoso, quindi è illegittimo il rigetto della richiesta di cumulo della pena dell'ergastolo con altre pene detentive temporanee motivata dall'eterogeneità delle violazioni commesse e dal notevole intervallo intercorso tra esse (46).

L'art. 73 del Codice penale, il cui titolo è: "Concorso di reati che importano pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa specie", al secondo comma prevede: "Quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica l'ergastolo" (47). Il secondo comma dell'art. 73 disciplina, quindi, il concorso di pene consistenti in (due o) più reclusioni da ventiquattro anni o superiori. Presupposti sono dunque (due o) più delitti che (in concreto) importino una pena di tale durata: il giudice dichiara la pena incorsa per ciascuno dei delitti, ma applica l'ergastolo. In questo caso si ha un concorso di pene che sfocia in una pena di specie diversa, vale a dire in una 'sostituzione di pena'. La ratio di questa norma è quella di evitare che le pene più elevate costituiscano per il condannato "una specie di viatico alla delinquenza iterata" (48), ma la soluzione non ha convinto e, infatti, Romano così commenta la disposizione:

La soluzione per un verso appare eccessiva (l'ergastolo è qualitativamente diverso e può essere in ipotesi ancor più lungamente afflittivo di due pene detentive pur lunghissime), per l'altro è inefficace (perché due reclusioni da ventiquattro in su? E tre reclusioni da ventitre perché devono allora sottostare al limite dei trent'anni dell'art. 78, co. 1º? (49)

La Corte di Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 73 sollevata sul rilievo che tale norma contrasterebbe con i principi di legalità della pena e del fine rieducativo cui la stessa deve tendere, garantiti dagli artt. 25, comma secondo, e 27, comma terzo, della Costituzione. La Suprema Corte ha, infatti, rilevato che non vi è contrasto con il principio di legalità poiché la pena legale non è soltanto quella prevista per le singole fattispecie penali, bensì quella risultante dall'applicazione delle varie disposizioni di legge che attraverso meccanismi diversi - quale tra gli altri, il cumulo giuridico - incidono sul trattamento sanzionatorio. Ha poi dichiarato insussistente la violazione del disposto dell'art. 27 della Costituzione, che deriverebbe dal fatto che la comminazione della pena perpetua renderebbe impossibile la rieducazione del condannato, poiché:

Nel nostro ordinamento non vige il principio dell'inderogabilità dell'integrale attuazione della pena, così anche i condannati all'ergastolo, trascorso un periodo di tempo di non molto superiore a quelli previsti per coloro che siano in espiazione delle pene temporanee di più lunga durata, hanno diritto a che, verificandosi le condizioni poste dalle norme sull'ordinamento penitenziario, si valuti se la quantità di pena già espiata abbia positivamente assolto al suo fine rieducativo, con la rinuncia condizionata o definitiva, da parte dello Stato alla sua ulteriore pretesa punitiva (50).

La pena dell'ergastolo e la sua rispondenza alle varie possibili finalità e giustificazioni della pena avevano, nella configurazione originariamente datane dal legislatore del 1930, un indubbio carattere eliminativo. Nell'attuale configurazione l'ergastolo è indubbiamente sanzione prevalentemente ispirata, oltre che alla gravità del reato o dei reati commessi (come risulta anche dagli stessi criteri adottati negli artt. 72 ss. del Codice penale) anche alla prognosi di quasi certa irrecuperabilità dell'autore dei fatti di reato.

1.3.1. L'esecuzione della pena dell'ergastolo

Il regime attuale dell'ergastolo deriva da rilevanti modifiche introdotte nell'ordinamento con la Legge 25 novembre 1962 n. 1634. Tale legge oltre ad abrogare il 3º e 4º comma dell'art. 22 (che si occupavano dell'esecuzione dell'ergastolo in una colonia o in un possedimento d'oltremare), ha mutato il 2º comma della versione originaria dell'art. 22, ammettendo l'ergastolano al lavoro all'aperto fin dall'inizio (mentre prima poteva esserlo soltanto decorsi tre anni). Inoltre, la Legge 1634 del 1962 ha innovato la disciplina della liberazione condizionale, ammettendovi il condannato all'ergastolo, quando abbia effettivamente scontato vent'otto anni di pena (art. 176, terzo comma, poi ridotti a ventisei anni con l'art. 28 della legge 10 ottobre 1986, n. 663).

Ulteriori importanti temperamenti del rigore esecutivo dell'ergastolo sono stati introdotti, poi, con la Legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario. Con tale legge, sono stati innanzitutto, aboliti gli istituti penitenziari distinti in cui tale pena era scontata: i condannati sono ora assegnati a normali "case di reclusione" (art. 59 e 61 della Legge 354 e 101 quinto comma del Regolamento di esecuzione Decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000). Anche per i condannati dai tribunali militari la pena dell'ergastolo si esegue nei modi comuni previa degradazione (art. 63, n. 2 del Codice penale militare di pace). L'isolamento notturno, menzionato dagli art. 22, 23, 25 del Codice penale si ritiene soppresso per l'ergastolo (come del resto per la reclusione e l'arresto) in virtù dell'art 6, 2º comma della Legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario, per il quale i locali destinati al "pernottamento" consistono in camere "a più posti"; l'isolamento diurno, come pena, è invece ammesso dal codice penale soltanto nei casi di concorso di pene (51), a norma degli artt. 72 e 80 del Codice penale e per un periodo da due mesi a tre anni. Inoltre la Legge n. 354 del 1975, ha ribadito l'obbligo del lavoro, presente anch'esso negli art. 22, 23 e 25, per tutti i condannati a pena detentiva (art. 20, 3 comma della Legge 354), ma - anche per il rilievo conferito al lavoro penitenziario dalle cosiddette Regole minime per il trattamento dei detenuti, di cui alla risoluzione O.N.U. 30 agosto 1955 e Consiglio d'Europa 19 gennaio 1973 - ne è stato sottolineato il carattere non afflittivo e remunerato (art. 20, secondo comma, della Legge 354).

Infine l'art. 14 della Legge 10 ottobre 1986 n. 663 ha poi previsto la possibilità di includere l'ergastolano nel regime di semilibertà dopo l'espiazione di almeno venti anni di pena (così l'art. 50, quinto comma dell'ordinamento penitenziario novellato); mentre l'art. 18 della Legge 10 ottobre 1986 n. 663 ha espressamente consentito di riferire all'ergastolano, quando dia prova di partecipare all'opera di riadattamento sociale, la detrazione di pena per ciascun semestre di pena detentiva scontata, in particolare al fine dell'anticipazione della liberazione condizionale rispetto al termine minimo fissato dall'art. 176 del Codice penale (sostituito dall'art. 28 della Legge n. 663 del 1986) (52). L'art. 9 della Legge 663 del 1986 ha poi introdotto l'art 30-ter dell'ordinamento penitenziario che consente dopo dieci anni di reclusione - eventualmente ridotti di un quarto per l'attribuzione del beneficio della liberazione condizionale - l'ammissione per i condannati all'ergastolo ai permessi premio per non più di quarantacinque giorni l'anno. E poiché ai sensi del nuovo art. 53-bis (53) dell'ordinamento penitenziario, la durata dei permessi può valere ad ogni effetto come pena scontata, è oggi possibile che un ergastolano sia posto in semilibertà dopo 15 anni, avendo già usufruito di 225 giorni di permesso e sia liberato condizionalmente dopo 19 anni e sei mesi, avendo già usufruito di 428 giorni di permesso.

1.3.2. Cause estintive

La pena dell'ergastolo, inflitta mediante sentenza di condanna divenuta irrevocabile (ai sensi dell'art. 576 del Codice di procedura penale), è imprescrittibile (ex art. 172 del Codice penale). Il potere-dovere di eseguire la pena dell'ergastolo può estinguersi soltanto per la morte del condannato, ovvero per grazia o indulto.

Per quanto riguarda l'indulto, la pena dell'ergastolo, siccome pena detentiva perpetua, non è condonabile in parte, ma soltanto, per eventuale volontà del legislatore, in toto, ovvero, sempre per la medesima volontà, convertibile in pena di altra specie (54). Il condono parziale non può applicarsi al limitato scopo dell'anticipata maturazione dei periodi di pena espiata necessari per l'accesso a taluni benefici penitenziari, perché questi hanno come presupposto, oltre che una precedente espiazione, la partecipazione del condannato all'opera di rieducazione, da cui l'indulto prescinde completamente (55).

Se l'estinzione avviene per amnistia, indulto o grazia e al colpevole fu inflitta anche una pena detentiva temporanea per un reato concorrente, tale pena è eseguita per intero. Se il condannato ha, invece, già interamente subito l'isolamento diurno, al quale sia stato sottoposto a norma degli artt. 72 e 80 del Codice penale, la pena per il reato concorrente è ridotta alla metà ed è estinta se il condannato è stato detenuto per oltre trent'anni (art. 184 prima parte del Codice penale). Sempre nel caso di concorso di reati, se invece della pena dell'ergastolo, l'amnistia, l'indulto o la grazia hanno estinto la pena detentiva temporanea concorrente, al condannato all'ergastolo non si applica l'isolamento continuo stabilito negli articoli 72 e 80 del Codice penale e se la pena detentiva temporanea fu soltanto abbreviata, il periodo di isolamento continuo può essere ridotto fino a tre mesi ex art. 184 del Codice penale.

Estinta la pena dell'ergastolo per effetto di amnistia, indulto o grazia, il condannato è sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per un tempo non inferiore a tre anni (art. 210, ultimo comma del Codice penale).

Il condannato all'ergastolo, quando abbia effettivamente scontato almeno ventisei anni di pena, detratti eventualmente i giorni di liberazione anticipata, può essere ammesso alla liberazione condizionale (art. 176, comma terzo, come sostituito dall'art. 28 della Legge 10 ottobre 1986, n. 663).

1.3.3. Le pene accessorie

La condanna all'ergastolo importa sempre l'interdizione perpetua dai pubblici uffici (disciplinata dall'art. 28 del Codice penale), anche se non si tratti di delinquente abituale, professionale o per tendenza (art. 29 del Codice penale). Alla condanna all'ergastolo conseguono in ogni caso: l'interdizione legale (56) e la perdita della potestà dei genitori (art. 32, 1º e 2º comma); la degradazione, se il condannato è un ufficiale (art 28 del Codice penale militare di pace).

Ogni sentenza di condanna all'ergastolo importa, infine, la pena accessoria della pubblicazione della sentenza stessa, mediante affissione, nel Comune dove è stata pronunciata, in quello nel quale il delitto fu commesso e in quello in cui il condannato aveva l'ultima residenza. La sentenza di condanna deve inoltre essere pubblicata, per una sola volta, in uno o più giornali designati dal giudice. La pubblicazione è fatta per estratto salvo che il giudice disponga la pubblicazione per intero; essa è eseguita d'ufficio e a spese del condannato (art. 36 del Codice penale; artt. 536 e 694 del Codice di procedura penale).

1.4. L'ergastolo e la Costituzione

La pena dell'ergastolo, per la sua estrema importanza, ha determinato fin dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, un intenso dibattito, tanto in sede parlamentare che dottrinale, con riflessi giurisprudenziali sull'opportunità politica e sull'ammissibilità giuridica della stessa nell'ambito dell'ordinamento costituzionale vigente. In particolare per quanto attiene all'ammissibilità giuridica, l'attenzione si è incentrata sulla questione della compatibilità della pena dell'ergastolo, 'perpetua' per definizione, con i principi sanciti dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, secondo il quale "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Prima di ogni indagine sul valore di questa norma, occorre rilevare che essa ha avuto un'importanza fondamentale per il suo carattere profondamente innovatore, poiché con essa per la prima volta nel nostro ordinamento positivo si è assegnato in forma espressa alla pena un compito rieducativo nei confronti della generalità dei condannati, innovando quindi il Codice penale Rocco del 1930, il quale prevedeva il riadattamento soltanto per coloro che avessero riportato una pena diminuita e per i minori, stabilendo per i primi "qualora occorra anche un regime di cura" (art. 141 del Codice penale, abrogato dall'art. 89 della Legge 26 luglio 1975, n. 54) e per i secondi un sistema di esecuzione che avesse come fine anche la loro "rieducazione morale" (art. 142 del Codice penale, abrogato dall'art. 89 della Legge 26 luglio 1975 n. 54) (57).

Il problema della compatibilità dell'ergastolo con la Costituzione fu sollevato, d'altronde, già in sede di Assemblea costituente, nella discussione che si svolse per l'approvazione di quello che divenne poi l'art. 27 della Costituzione. Tale discussione ebbe un obiettivo soprattutto etico e sociale volto a rimuovere dal regime carcerario del nostro paese quanto in esso potesse essere ancora contrario al senso umano e lesivo della dignità individuale. Tuttavia, anche se tutti avvertirono la necessità di risolvere il problema, già allora si formarono correnti di pensiero antagoniste. E' appena il caso di ricordare che, nel periodo in cui si svolsero i lavori della Costituente, il dibattito sulle funzioni della pena fondamentalmente ruotava intorno ai contrapposti postulati della Scuola classica e della Scuola positiva (58): essendo questo il retroterra culturale, molti Costituenti furono preoccupati che un'esplicita presa di posizione (costituzionale) sullo scopo della pena avrebbe potuto alla fine tradursi nel riconoscimento del primato di una delle due scuole tradizionalmente in conflitto. Occorre, infine, ricordare che il dato storico che offrì ragione e materia alla discussione del problema fu l'esperienza personale del carcere sofferto durante il fascismo da alcuni uomini politici dei partiti da esso avversati. Disse l'Onorevole Terracini nell'adunanza del 25 gennaio 1947:

Basterebbe visitare una casa penale per costatare che le persone rinchiuse, dopo venti anni, sono completamente abbrutite. Prolungata per tanto tempo, la pena detentiva porta a questo processo di trasformazione (59).

Nel discutere il terzo comma dell'art. 21 del progetto formulato dalla Prima Sottocommissione, in cui si diceva "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", gli Onorevoli Terracini e Nobile sostennero in via di principio che la questione dello scopo della pena, pur riguardando il codice, doveva essere risolta espressamente anche nella carta statutaria e proposero di sostituire la disposizione suddetta, in cui la funzione rieducativa assumeva un ruolo preminente con:

Le pene e la esecuzione non possono essere lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società. Le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di 15 anni (60).

In sede plenaria il contrasto delle idee si riprodusse in termini più netti e più accesi. Qui l'Onorevole Bettiol, pur riconoscendo nobilissimo il principio della tendenza rieducativa della pena sostenuta dagli Onorevoli Terracini e Nobile, espresse la sua contrarietà ad accoglierlo nel testo della Costituzione osservando che esso avrebbe potuto determinare "pericolosi equivoci" di interpretazione circa l'adozione dell'una o dell'altra teoria delle scuole in contrasto. Egli riconobbe l'opportunità di imprimere un carattere più umano all'esecuzione penale nel senso che questa non dovesse arrivare a degradare l'individuo, ma senza che ciò implicasse l'accoglimento del concetto rieducativo della pena. Analoga nella sua sostanza fu la posizione, di ispirazione liberale, assunta dall'Onorevole Crispo nella seduta del 26 marzo 1947, il quale manifestò il suo dissenso all'accoglimento del principio:

Benedetto Croce nel suo libro Etica e Politica ha scritto esser del tutto vano discutere sul carattere utilitario e morale delle leggi e di questa o quella legge. Il che è anche a dirsi della pena: deterritio o emendatio? Quando ci si pone il quesito se la pena possa o debba avere un contenuto moralistico si può rispondere affermativamente, ma tale affermazione non deve essere contenuta nella Costituzione (61).

Ancora più esplicito fu il contrasto contro l'accoglimento del principio rieducativo della pena dell'Onorevole Leone, il quale (nella seduta del 27 marzo 1947) dopo aver preliminarmente sostenuto che la Commissione con la formula adottata neppure "aveva tentato di risolvere il problema della funzione della pena", dichiarò:

Io qui riaffermo la mia concezione conseguente alla concezione cristiano sociale, che la pena ha un duplice fine: la conservazione dell'ordine etico vigente nella società, funzione preventiva, e la restituzione dell'ordine violato, funzione vendicativa e satisfattoria. L'emenda per noi è un fine complementare della pena ed è un fine che nella concezione cristiana si radica nella carità, mentre il fine principale si riallaccia alla giustizia su cui si fonda una ordinata convivenza civile (62).

Nella stessa seduta l'Onorevole Trimarchi manifestò analogo dissenso e motivò la sua posizione osservando che la formulazione adottata avrebbe potuto prestarsi nel futuro ad un'interpretazione di carattere restrittivo poiché inseriva nel nostro sistema penale la teoria positivistica della pena, non rispondente alle varie finalità di essa:

La pena non ha come solo fine quello dell'emenda poiché vi sono altri fini quali quello della giustizia, della prevenzione generale, i quali esigono che le pene siano giuste ed agiscano come contro spinta al delitto, mentre se si ritiene esclusivo il fine dell'emenda noi creeremmo uno strumento di pena che piuttosto che agire come controspinta al delitto potrebbe agire come spinta al delitto (63).

Il Trimarchi sostenne, perciò, che la formulazione dell'articolo dovesse essere più esplicata nell'esprimere che il fine rieducativo non escludeva gli altri, sembrando dalla dizione letterale che unico fine dovesse essere invece quello dell'emenda.

L'Onorevole Basile si espresse, invece, in favore del principio:

Fu criticata nella seduta del 29-3-1947 la norma dell'art. 21 sulla pena. Ma noi non possiamo ricondurre la pena alla penitenza, il delitto al peccato. Le due grandi correnti del pensiero scientifico mostrano che il risultato della vita pratica è sempre una diagonale. Anche nel dissidio tra le scuole di filosofia i metafisici trascendentali, a poco a poco, senza saperlo, assimilano i risultati della scienza sperimentale positiva. Per noi la pena deve essere rieducazione, non espiazione, non castigo. Ed io plaudo all'art. 21 anche se la dolorosa esperienza della recidiva ci dice che non tutti i colpevoli sono emendabili. Ma ci sono sempre o ci possono essere anche tra questi coloro che si salvino, che si rialzino con il rimorso e con la terapia incitatrice e risanatrice del lavoro... E bisogna abolire il concetto di pena, per il minore a cui si innesta il virus della criminalità condannandolo al contagio con i peggiori (64).

Nella seduta del 15 aprile del 1947 l'Onorevole Leone, dopo aver insistito sul fatto che la commissione non aveva voluto prendere posizione sul problema della rieducazione, ma esprimere soltanto il principio che "nell'esecuzione della pena lo Stato si assume l'impegno di facilitare il processo di rieducazione di recupero morale del delinquente" presentò con l'Onorevole Bettiol il seguente emendamento:

Sostituire il terzo comma col seguente: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino il processo di rieducazione morale del condannato (65).

Nell'illustrare tali concetti l'Onorevole Leone qualificò la funzione rieducativa come "fine collaterale dell'esecuzione penale". Concetti analoghi in favore dell'emendamento predetto svolsero gli Onorevoli Bettiol e Moro. L'Onorevole Tupini nella stessa seduta dichiarò, invece, di non poter condividere le preoccupazioni di scuola che si erano manifestate nel corso della discussione e sostenne la necessità di approvare l'art. 21 del progetto nel modo in cui era stato formulato. Messo ai voti l'art. 21 fu approvato dalla maggioranza nella seduta del 15 aprile 1947; tuttavia, durante il coordinamento finale il Comitato di redazione ritenne opportuno attenuare l'apparenza positivistica della dizione invertendo nel testo dell'art. 21 l'ordine dei concetti ponendo prima il divieto dei trattamenti inumani e poi l'esigenza rieducativa del condannato (66).

I punti salienti del dibattito sopra ricordati attestano, dunque, che il principio della tendenza rieducativa della pena non ebbe facile ingresso nella nuova Costituzione, ma incontrò una grande opposizione. Questo è dovuto non alla volontà dichiarata di evitare una presa di posizione sul problema, bensì a quella di conservare alla pena il suo carattere tradizionale che era quella di "restituzione dell'ordine violato attraverso la funzione vendicativa e satisfattoria", sostenendo che la rieducazione e l'emenda del condannato rappresentassero soltanto un fine collaterale e secondario dell'esecuzione penale (67). Nessuna parola, poi, fu aggiunta sulla legittimità costituzionale dell'ergastolo: il clima storico del 1948 è purtroppo mutato, l'abolizione della pena di morte appariva addirittura ad una parte della dottrina giuridica e politica come prematura, per cui il problema della (legittimità della) pena perpetua alla luce della nuova Carta costituzionale non fu neppure sfiorato, né dalla Costituente, né durante gli anni successivi. Fu delegata all'ordinamento positivo la stessa disciplina dell'esecuzione della massima pena (come quella delle pene temporanee), per questo il problema sembrava rinviato sine die.

I contrasti all'interno della Commissione per la Costituente fra coloro che concepivano la pena in chiave prevalentemente retributiva o, all'opposto, rieducativa, ebbero come risultato una formulazione definitiva nel terzo comma dell'art. 27 che, combinato con l'art. 25 della Costituzione, pose in modo inequivocabile i principi di afflittività, di umanizzazione e di finalismo rieducativo della pena. Talune delle pene previste dal codice del 1930 dovevano, dunque, essere abolite o riplasmate alla luce dei principi insiti nella norma costituzionale. Restava tuttavia aperto il problema dell'eterogeneità delle funzioni della pena e della loro reale conciliabilità. In particolare se fino allora la pena perpetua si armonizzava con la concezione etico-retributiva propria della Scuola classica, non poteva dirsi in contrasto, per altro verso, nemmeno con le teorie di stampo positivista che, pur ponendo in risalto la funzione rieducativa della pena, finivano con l'ammettere il ristretto scopo di neutralizzazione della sanzione penale qualora fosse postulata l'incorreggibilità del condannato. Ma, nel momento in cui la Costituzione stessa assegnava alle pene il fine di rieducare il colpevole attraverso un trattamento non contrario al senso di umanità, l'ergastolo era posto, per la prima volta, di fronte ad un'alternativa che non poteva essere delusa: o questo, attraverso le modifiche delle modalità di trattamento (68), riusciva ad armonizzarsi anche con la funzione rieducativa, oppure era destinato ad essere cancellato dal nostro ordinamento, perché in contrasto con i principi costituzionali (69).

Di fronte a tale dilemma, una parte della dottrina tentò il salvataggio della pena perpetua, ritenuta indispensabile per ragioni di retribuzione e di prevenzione generale con una duplice operazione. In primo luogo si cercò di limitare la portata del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, attribuendogli il carattere di semplice "istanza" che ne avrebbe evidenziato la natura di norma programmatica (70). Tale tesi tuttavia non portò lontano, perché la più autorevole dottrina sottolineò l'efficacia precettiva immediata delle norme programmatiche che, come quella in questione, non fossero generiche ed avessero quindi un contenuto univoco (71). Ed anche la giurisprudenza finì col riconoscere che l'illegittimità costituzionale di una norma potesse derivare dalla sua inconciliabilità con le norme programmatiche quando esse, per la loro concretezza, vincolassero immediatamente il legislatore (72).

In secondo luogo si cercò di salvare la costituzionalità della pena perpetua, dimostrando la compatibilità dell'ergastolo con l'istanza rieducativa attraverso un recupero di tesi già collaudate. Si disse, infatti, seguendo uno schema logico caratteristico della dottrina degli anni precedenti, che anche questo istituto potesse "tendere alla rieducazione", purché essa sia intesa come "rieducazione interiore" (73). Tale rieducazione, che coincideva con il concetto di emenda, era raggiunta attraverso la pena-redenzione (74) che doveva essere espiata, consentendo così al reo di "pagare il suo debito verso la società offesa" (75).

Questo ragionamento, che poteva rendere labile la linea di demarcazione fra pena rieducativa e pena retributiva (poiché "solo una sanzione 'corrispettiva' alla gravità del reato fa sì che il debito verso la società fosse pagato" (76)), che finiva per restringere le funzioni di prevenzione speciale indicate nel terzo comma dell'art. 27 della Costituzione e che considerava compito e fine delle discipline giuridiche quell'emendamento morale già un secolo prima considerato estraneo al diritto dalla Scuola retribuzionista (77), è fatto propria dalla Corte di Cassazione. Essa, infatti, dichiarò manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 22 del Codice penale che prevedeva (e prevede anche oggi) la pena dell'ergastolo (78).

Tavola V. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1951-1956, situazione a fine anno) (79)
Anni Numero complessivo
1951 1019
1952 1127
1953 968
1954 1005
1955 952
1956 952

1.4.1. Il problema della cosiddetta "pena fissa"

Un ulteriore profilo di possibile illegittimità costituzionale dell'ergastolo è rappresentato dalla sua natura di "pena fissa", rimasto, per la verità, un po' oscurato dal tradizionale polarizzarsi dell'attenzione della dottrina sull'aspetto della funzione rieducativa della pena (80). Invero, l'applicazione dell'ergastolo nel nostro ordinamento è rigidamente imposta dalle relative comminatorie 'autonome' (ad esempio art. 422 del Codice penale) o 'circostanziate' (ad esempio artt. 576 e 577 del Codice penale): in questi casi, infatti, la scelta per un diverso tipo di pena detentiva (temporanea o perpetua) non è consentita all'interno degli spazi discrezionali di cui all'art. 133 del Codice penale, ma può derivare soltanto dal 'gioco' delle circostanze. Per di più la legislazione 'speciale' determina per i reati "commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico" ipotesi in cui l'applicazione della pena non può essere esclusa nemmeno attraverso il bilanciamento delle circostanze (81). Per queste ragioni la pena fissa non consente quella commisurazione, che è alla base del principio di "proporzionalità della pena", al fatto e alla responsabilità e quindi dell'individualizzazione della sanzione: ne deriva che si prospetta ancora una volta un contrasto con l'art. 27, terzo comma della Costituzione. Ettore Gallo ha affermato in proposito:

Non può tendere, infatti, alla rieducazione una pena che, essendo fissa, e non potendo, come tale, essere adeguata sia al fatto che alla personalità del reo, induce nel condannato sentimenti reattivi di rancore nei confronti dell'ordinamento e sentimenti di ribellione alla sanzione, che paralizzano ogni possibilità di risocializzazione (82).

Ferrajoli, dal canto suo, così si è espresso sul tema:

La pena dell'ergastolo contraddice il principio di giurisdizionalità delle pene, il quale esclude pene fisse, non graduabili sulla base della valutazione del caso concreto. Essa è una pena per sua natura iniqua perché non graduabile, equitativamente dal giudice, non attenuabile sulla base dei concreti, singolari e irripetibili connotati del fatto, la cui valutazione forma uno dei momenti essenziali della giurisdizione. L'astratta predeterminazione legale del tipo di reato punito con l'ergastolo non toglie infatti che ogni reato è diverso dall'altro e che è precisamente nell'individuazione e nella comprensione dei suoi specifici connotati che risiede l'equità penale, che forma una dimensione essenziale del giudizio penale (83).

La Corte Costituzionale nel 1963 (84) ha affrontato per la prima volta il problema della legittimità costituzionale delle pene pecuniarie fisse, con una decisione che ha rappresentato un punto di riferimento per le delibazioni successive. In questa sentenza la Corte, ribaltando le tesi svolte nell'ordinanza di rinvio (85), ha affermato la legittimità delle pene fisse basandosi su due argomenti. Da un lato, infatti, si è negato che l'art. 27 (primo e terzo comma) della Costituzione imponga esigenze di "personalizzazione" dell'illecito penale e di "individualizzazione" della pena, tali da rendere illegittime le sanzioni fisse. Dall'altro lato, però, si è negato che le pene "fisse" siano nel nostro ordinamento, veramente tali, poiché sarebbero in ogni caso applicabili "le attenuanti generiche". Nel caso delle pene fisse quindi, la Corte si è richiamata alle circostanze di reato, che proprio perché situazioni esterne al reato e solo eventualmente ricorrenti, non ne toccano la sostanza e la natura.

In seguito la Corte Costituzionale, avvicinandosi di molto allo spirito della Costituzione, si è pronunciata in favore della tesi che assumeva come costituzionalmente imposta una commisurazione 'individualizzata' della sanzione punitiva, riconoscendo che: "In linea di principio, previsioni sanzionatorie fisse non appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale" (86). In questa sentenza la Corte poi ha affermato che il dubbio di legittimità costituzionale della pena fissa potesse essere superato, caso per caso, "a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura di pena prevista, quest'ultima appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato" (87). Da questo punto di vista, si tratta, dunque, di verificare se le attuali previsioni normative dell'ergastolo risultino proporzionate o congrue rispetto all'intera gamma dei fatti tipizzati nelle fattispecie sanzionate con la massima pena.

Si deve ricordare, poi, una dottrina che, prendendo spunto da questa sentenza, ha impostato il problema della costituzionalità dell'ergastolo con riferimento al carattere della sua fissità astratta: la comminatoria rigida della massima pena sarebbe legittima soltanto alla presenza di "casi che, oltre ad essere gravi oggettivamente, corrispondano ad un tipo e ad una costante criminologica univoca" (88). E' in ogni modo è da escludere che l'individuazione di queste ipotesi sia agevole in base ai criteri politico-criminali di cui il legislatore dispone.

1.4.2 I primi progetti di riforma del Codice penale

Dopo la caduta del fascismo, sia per eliminare dal Codice penale le disposizioni nelle quali l'impronta del cessato regime politico era più evidente, sia per ripristinare alcuni istituti liberali che il fascismo aveva eliminato, cominciarono i lavori per una riforma del Codice Rocco ed addirittura per una sua integrale sostituzione. Il 31 agosto 1944, il Governo Bonomi approvò una delega "per provvedere alla riforma della legislazione penale per la formazione di un nuovo codice penale e di un nuovo codice di procedura penale pienamente aderenti alle tradizioni giuridiche del popolo italiano" e il 2 gennaio 1945 fu costituita una commissione ministeriale per la revisione del Codice penale. Tra i tanti progetti di riforma realizzati, sia di iniziativa parlamentare sia di iniziativa governativa, il più importante e completo fu certamente quello elaborato da un Comitato esecutivo (composto dai professori Vannini e Petrocelli e dai magistrati Gabrieli, Lampis e Lattanzi) della detta Commissione governativa del 1945, che riuscì a portare a termine nel 1949 un intero progetto preliminare di nuovo codice penale (Progetto Grassi), sia di parte generale sia di parte speciale.

Il testo, sottoposto al Comitato delle università, alle magistrature e agli ordini forensi, fu oggetto di critiche diffuse, mosse da diversi punti di vista: in particolare il progetto fu visto come espressione della Scuola classica, ispirato quindi alla concezione retributiva della pena, al punto che Grispigni commentò il progetto intitolando un suo articolo "Regresso di un secolo nella legislazione penale" (89). Inoltre fu rilevato che il progetto eccedesse completamente rispetto al mandato ricevuto, che era quello di rendere il codice vigente più rispondente al mutato clima politico. Non suscitò meraviglia, quindi, che il progetto preliminare di nuovo codice penale del 1949 prevedesse l'ergastolo all'art. 97, n. 1 e contenesse nell'art. 140 il principio in base al quale la rieducazione del condannato era racchiusa "entro i limiti della funzione punitiva" (90). Qui, soprattutto, la funzione retributiva ed afflittiva della pena non solo era ufficialmente riaffermata, ma era imposta quale limite al libero svolgimento dell'esigenza rieducativa, la quale, anziché imprimere un nuovo carattere alla funzione dell'istituto, conservava il ruolo minore che le era assegnato nel codice Rocco.

Fu, così, deluso il largo movimento di opinione pubblica, manifestato anche attraverso un'azione parlamentare e qualificate richieste di giuristi, che dopo la promulgazione della Costituzione si pronunciò contro il mantenimento dell'ergastolo, ritenendolo inconciliabile con il principio costituzionale secondo cui la pena dovesse tendere sempre alla rieducazione del condannato al fine di consentire a questi il ritorno alla vita civile.

Un ulteriore tentativo di riforma avvenne nel 1956, quando una commissione nominata dal ministro Aldo Moro elaborò un Progetto preliminare di modificazioni al Codice penale (Progetto Moro). Le caratteristiche di queste riforme (anche in relazione al momento politico allora attraversato dal paese) sono piuttosto moderate: ci si limitò a ritoccare istituti in cui la severità del Codice Rocco appariva eccessiva (in particolare il concorso di reati, la responsabilità per il delitto non voluto) o ad allineare alcune disposizioni con le regole costituzionali e con i principi adottati dall'Italia in convenzioni internazionali (ad es. in materia di estradizione), ma non si incise se non in misura minima sul sistema penale in generale. Anche il progetto del 1956 conservava quindi nel sistema della pena l'ergastolo all'art. 102, considerata, "una volta soppressa la pena di morte, come la necessaria sanzione per le più gravi manifestazioni di criminalità" (91), col temperamento della liberazione condizionale dopo aver scontato almeno trent'anni della pena (art. 152) (92).

1.5. L'ordinanza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite 16 giugno 1956

Il dibattito sulla legittimità costituzionale dell'ergastolo proseguì, nonostante che la relazione al progetto preliminare del Codice penale del 1949 e quella del 1956 della Commissione ministeriale di studio per la riforma del codice penale avessero affermato, come detto, che la pena dell'ergastolo non potesse essere eliminata dal codice poiché una volta soppressa la pena di morte, essa rappresentava la necessaria maggiore sanzione per le più gravi manifestazioni di criminalità.

La dottrina in particolare, richiamandosi al principio contenuto nell'art. 27 della Costituzione, osservò, infatti, che la pena detentiva perpetua a carattere eliminativo non potesse raggiungere, né conseguire il fine che il nostro legislatore, dopo la promulgazione della Costituzione, aveva assegnato alla pena, intesa non solo come mezzo per ristabilire l'ordine violato e come intimidazione nei confronti di futuri eventuali delinquenti, trattenuti dal violare la norma proprio per timore della sanzione, ma anche e soprattutto come mezzo per ottenere la rieducazione del reo. Questo ultimo fine, proprio del sistema punitivo, non poteva in pratica essere conseguito da una pena che, come l'ergastolo, presentava un carattere perpetuo e relativo. Si ritenne giustamente poi, che l'istituto della grazia, unico strumento di attenuazione della pena dell'ergastolo in quel determinato periodo storico, non togliesse a questa pena il carattere eliminativo e, quindi, quello non rieducativo insito nella pena dell'ergastolo quale era quella regolata dal codice del 1930 (93).

Contro questa vasta ed autorevole dottrina si espresse la Corte di cassazione con l'ordinanza 16 giugno 1956, Sezioni Unite (94), su ricorso avverso la sentenza della Corte d'assise d'appello di Perugia che aveva comminato la massima pena, ritenuta dalla difesa dell'imputato in contrasto con l'art. 27 della Costituzione nelle sue locuzioni "le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità" e "devono tendere alla rieducazione del condannato" (95). La Cassazione ritenne la questione "manifestamente infondata" (96) e sottrasse alla Corte Costituzionale, appena istituita, il giudizio sulla stessa. La decisione di "manifesta infondatezza" appoggiò sulla presunta "inconsistenza" della questione, posta, sempre ad avviso della corte, "quale pretestuoso espediente di difesa" (97) e questo avrebbe dovuto giustificare la sospensione del giudizio per un deferimento alla Consulta.

L'ordinanza si fondava su motivi diversi. La Suprema corte affermò, in primo luogo, che nessun riferimento, esplicito o implicito, era contenuto nell'art. 27 della Costituzione, il quale si limitava soltanto a statuire che "le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Anche se i termini letterali di questa disposizione - specifica la Suprema corte - erano invocati come argomento decisivo a favore dell'abolizione della pena dell'ergastolo, ciò era portato avanti senza apprezzabile fondamento. La Suprema corte ritenne, inoltre, basandosi sulla regola ermeneutica "ubi lex voluit dixit", che la Costituzione non avesse espressamente escluso la pena dell'ergastolo, a differenza di quella di morte, allorché nell'art. 27 sanciva: "Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalla legge di guerra".

La decisione fece anche riferimento all'istituto della grazia e precisò, inoltre, che l'art. 27 della Costituzione nel secondo inciso del terzo comma, a proposito dell'emenda, si fosse riferito ad una "tendenza" che la pena doveva avere e si doveva pensare che si trattasse di una tendenza che prioritariamente dovesse essere attribuita non tanto alla finalità delle pene, quanto alla loro esecuzione. La Suprema corte ritenne che in realtà la pena potesse risultare in concreto come tendente o meno alla rieducazione per cui occorreva, al fine di promuovere la tendenza all'emenda, eliminare gli ostacoli che potessero frapporsi alla rieducazione nel corso dell'espiazione di qualunque tipo di pena. Ecco perché, sempre secondo la Suprema corte, il fatto che l'art. 27 della Costituzione avesse attinenza con il regime penitenziario e non con i tipi di pene, confermava come l'unica pena da mettersi fuori dell'ordinamento fosse la pena di morte, proprio perché questo è l'unico tipo di sanzione che si rilevava già di per sé ovviamente contrastante con la tendenza alla rieducazione.

Dalla sentenza discendono quindi tre corollari:

  1. rieducazione non significa quindi prettamente "recupero sociale" del reo, ma "redenzione morale" o "catarsi" dello stesso, affinché lo stesso provi rimorso e pentimento per il delitto commesso;
  2. è conseguentemente sufficiente "il miglioramento morale" del reo perché possa parlarsi di "rieducazione" realizzata, dato che il recupero sociale non sempre è possibile in concreto. In questo modo, la Cassazione formula in astratto un giudizio prognostico di irrecuperabilità, giudizio difficilmente formulabile in concreto e difficilissimo da limitare ad alcuni delitti;
  3. la rieducazione dell'ergastolano, come quella di qualunque altro condannato, va limitata a non meglio specificate "esigenze di difesa sociale".

Molteplici furono le reazioni a quest'ordinanza: il Dall'Ora, per esempio, criticò in primo luogo il fatto che la Cassazione avesse sottratto il giudizio sull'eccezione d'incostituzionalità della pena dell'ergastolo alla Corte Costituzionale, la quale avrebbe deciso se la questione fosse o non fosse stata fondata; detta conclusione sarebbe stata quindi motivazione di una sentenza della Consulta, non le conclusioni di un'ordinanza di rigetto della Cassazione (98). Il Dall'Ora ritenne poi che qualora la Cassazione avesse rinviato gli atti alla Corte Costituzionale, questo avrebbe significato un dubbio sull'infondatezza della questione (99).

Non va poi perso di vista il periodo storico di cui si parla: nel merito, fu ribadito dal Dall'Ora che limitare la rieducazione del reo alla sua mera emenda "morale", voleva dire essere convinti che le carceri "siano rette da sacerdoti o precettori" (100). Fu quindi considerato ipocrita parlare di catarsi quando la pena (non solo quella dell'ergastolo) era eseguita in istituti sovraffollati, nella più totale promiscuità e, a dispetto dello stesso obbligo del lavoro, nell'ozio più devastante. In concreto, non fu auspicato altro che un'estensione dell'istituto della liberazione condizionale anche al condannato all'ergastolo ed una giurisdizionalizzazione della procedura della concessione della grazia (101).

Dal canto suo lo Iovane nel commento all'ordinanza (102), replicò alla Corte di cassazione affermando che rieducazione dovesse essere intesa come reinserimento del condannato nella società e che il riferimento alla rieducazione in senso morale avesse valore giuridico solo se associato al riadattamento sociale, così come auspicato dalla Costituzione. Alla considerazione dell'ordinanza che per "trattamento" dovesse intendersi "modalità di esecuzione" disciplinato dal regolamento penitenziario, lo Iovane rispose che se era inumano il trattamento era inumana anche la pena. Infine all'argomento della grazia, la cui concessione, secondo la Corte di cassazione, determinava la non "disumanità della galera a vita", lo Iovane rispose:

La grazia non è un istituto di giustizia, né risolve un problema intrinseco di pena, che è esclusivamente costituzionale. Essa poi giunge a posteriori, e alla condizione sia pure inespressa, che il ciclo di devastazione fisica e spirituale del condannato sia irrimediabilmente compiuto. Chi non ricorda la commovente liberazione del «brigante» Musolino, ridotto, dopo circa cinquant'anni di ergastolo un rottame umano? L'ergastolano con la Grazia, viene restituito, quando è diventato insensibile anche al carattere afflittivo della pena: altro che redenzione morale! (103)

Tavola VI. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1960-1963, situazione a fine anno) (104)
ANNI Numero complessivo Maschi Femmine
1960 918 845 73
1961 871 797 74
1962 826 754 72
1963 794 724 70

1.5.1. La dottrina successiva all'ordinanza 16 giugno 1956

Il dibattito dottrinale che seguì all'ordinanza della Corte di Cassazione del 1956 si orientò in gran parte verso il considerare costituzionale la massima pena (105). In primo luogo ci si limitò all'esame del mero trattamento inteso come esecuzione della pena: le riforme introdotte dal Codice Rocco e dal Regolamento penitenziario (106) avevano, secondo la prevalente dottrina, umanizzato al massimo il trattamento del condannato, essendosi abolite (e questo era vero) le asprezze e le afflizioni che conducevano ad una lenta distruzione psico-fisica del condannato. Dobbiamo, tuttavia ricordare che detta umanizzazione, all'epoca era lontana dall'essersi realizzata, perché la pena era eseguita in stabilimenti fatiscenti, sovraffollati, in cui l'obbligo (e diritto) al lavoro remunerato non era quasi mai realizzato, in cui il tanto citato Regolamento penitenziario contemplava condizioni di vita tutt'altro che umane (dal "tavolaccio" delle celle di punizione, all'onnipotenza dei direttori carcerari e del Ministero di Grazia e Giustizia in tutti gli aspetti che concernevano la stessa esistenza fisica del condannato, dall'istruzione all'assistenza sanitaria del condannato, ai colloqui con i familiari). A questi poteri dell'autorità amministrativa vi era uno scarso controllo giurisdizionale; solo con la riforma penitenziaria del 1975 si potrà parlare veramente di "umanizzazione" dell'esecuzione della pena. L'esistenza dell'istituto della grazia, considerato quasi come un "correttivo" alla perpetuità dell'ergastolo, non spostava il problema, data l'eccezionalità e la discrezionalità con cui era applicato (107).

In secondo luogo, la maggioranza della dottrina, che nel periodo 1956-1958 fu assai copiosa, sia pure con molteplici sfumature, si ricollegò ad esigenze di tutela sociale: la funzione intimidatrice, remunerativa ed anche vendicativa della pena fu considerata come finalità precipua della pena stessa (108). Fu negato lo stesso concetto di vendicatività della massima pena, poiché mai si poteva parlare di "vendetta" di uno Stato che si tutelava. Inoltre fu astrattamente prognosticata una presunta irrecuperabilità morale dell'ergastolano e s'invocò il principio della proporzionalità della pena al reato commesso. Per concludere la finalità rieducativa della pena fu posta in secondo piano, ridotta ad un mero auspicio di timide riforme subordinate alla volontà di un "legislatore" che in quell'epoca non dimostrava affatto questa volontà; o meglio, la rieducazione del condannato fu quasi considerata "un lusso" che lo Stato poteva "permettersi" dopo aver prima valutato le esigenze di difesa sociale e di giusta tutela delle vittime dei reati. La rieducazione del reo poteva, se possibile, effettuarsi all'interno delle mura penitenziarie (109).

Dal punto di vista strettamente letterale, si sostenne che, se la Carta costituzionale avesse voluto veramente abolire l'ergastolo, lo avrebbe detto esplicitamente (110).

Si temette, infine, con un'eventuale abolizione della massima pena, un generale "abbassamento" di tutte le pene, soprattutto dopo la recente abolizione della pena di morte (111).

La dottrina più moderna e sensibile rilevò, invece, che il fine della rieducazione era, oltre al pentimento e all'emenda, l'inserimento del reo nella società (112): si poteva affermare in sintesi, che i lineamenti stessi della pena si erano modificati con l'avvento della Costituzione e col conseguente rafforzamento della finalità rieducativa della sanzione. Da ciò discendeva anche l'istanza di trasformazione dei modi di esecuzione della pena. Queste per la più attenta dottrina, dovevano svolgersi in un trattamento progressivo non più funzionalizzato, in chiave meramente premiale, al semplice ottenimento della buona condotta del detenuto in cambio di migliori condizioni di vita all'interno del carcere e di una decurtazione della pena da scontare (113). Il trattamento era invece concepito, in modo più lungimirante, per stimolare e favorire nel condannato comportamenti positivi che trasformandosi nel tempo in abitudini di vita, lo restituissero "risocializzato" nel mondo esterno.

Parallelamente, la necessaria rieducazione della pena esigeva che il trattamento progressivo, finalizzato ormai - di là dello spirito del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena del 1931 - al riadattamento sociale dei condannati, fosse esteso a tutti i reclusi, ergastolani compresi (114).

Si spiega così come, in un periodo nel quale già si delineava la riforma dell'ordinamento penitenziario italiano (115), la dottrina vedesse, nell'estensione del beneficio della liberazione condizionale ai condannati all'ergastolo, il mezzo per armonizzare con le nuove istanze sollevate dalla Costituzione la pena perpetua, ritenuta tuttavia ancora indispensabile perché rispondente in misura elevata ai fini della prevenzione generale e a quelle funzioni di prevenzione speciale differenti dalla rieducazione.

1.5.2. I progetti legislativi tendenti all'abolizione dell'ergastolo

Nel 1958 furono presentate alla prima Commissione permanente (Affari costituzionali) della Camera dei deputati, due proposte di legge da parte di singoli deputati tendenti una all'abolizione della pena dell'ergastolo e l'altra alla commutazione. La prima (116) importava all'art. 1 l'abolizione dell'ergastolo, mentre l'art. 2 prevedeva: "Le condanne alla pena perpetua pronunciate anteriormente alla data di pubblicazione della presente legge, si intendono tramutate nella pena della reclusione nei limiti massimi previsti dalle leggi vigenti".

La seconda (117) prevedeva la commutazione delle condanne alla pena dell'ergastolo inflitte dalle Corti d'assise e divenute irrevocabili prima che fosse consentito l'appello ai termini della Legge 10 aprile 1951, n. 287 e delle condanne all'ergastolo inflitte dalle Corti d'assise dal 1º luglio 1931 al 10 novembre 1944 in trent'anni di reclusione (artt. 1 e 2); sanciva poi che qualora concorressero entrambe le condizioni di cui agli artt. 1 e 2 la commutazione di pena riducesse l'ergastolo a ventiquattro anni di reclusione (art. 3); infine prevedeva la commutazione in trenta anni di reclusione delle condanne all'ergastolo inflitte dalle Corti d'assise per coloro che, all'entrata in vigore della legge, avessero espiato oltre trenta anni di pena e di venti per coloro che avessero espiato oltre venti anni di pena, qualora avessero superato i settanta anni di età.

Le conclusioni pressoché unanimi della maggiore dottrina dell'epoca furono accolte e sintetizzate dall'Onorevole Paolo Rossi, nella sua relazione alle proposte di legge (118).

In detta relazione si sostenne che:

  1. La pena dell'ergastolo doveva ritenersi la più efficace contro i più atroci delitti a carico dei più spietati delinquenti (119);
  2. Quando la rieducazione sociale del reo non era possibile, come nel caso dell'ergastolano, la massima pena doveva tendere ad una mera emenda morale dello stesso (120).

All'Onorevole Paolo Rossi replicò l'avvocato Guido Buzzelli (121), relatore della proposta n. 157: in primo luogo egli riaffermò l'inumanità della pena dell'ergastolo, anche se disciplinato da un regime penitenziario evoluto (122). I rilievi che facevano riferimento alla pena di morte, il cui inserimento nell'art. 27, quarto comma, della Costituzione dimostravano che la rieducazione non era il fine primario della pena, secondo l'autore non avevano fondamento, egli ritenne, infatti:

Il rilievo è inconsistente per non dire che si ritorce a favore della tesi che intende combattere: se la pena capitale è prevista soltanto per il caso di guerra, si è dettata un'eccezione che conferma la regola (123).

In secondo luogo, al rilievo mosso dall'Onorevole Rossi a proposito dell'emenda morale del condannato, quale fine della pena dell'ergastolo, il Buzzelli replicò, affermando che la rieducazione implicasse tutta un'attività specifica da parte delle istituzioni pubbliche che mirasse all'annullamento degli ostacoli che si opponessero al ritorno del condannato alla vita sociale. Questa attività, egli disse, diveniva inutile nei confronti di un condannato alla pena perpetua. Sul punto il Buzzelli affermò anche:

La sicurezza di una data massima di espiazione è l'unica via per ottenere risultati concreti e validi anche ai fini della redenzione morale che tuttavia, non risolverebbe mai, sebbene raggiunta, il problema posto dal legislatore costituente. Altrimenti si resta a atti di fede e di speranza e si propagandano prospettive miracolistiche (124).

Buzzelli chiuse la sua replica, citando i dati sulla situazione della criminalità denunciati dal Procuratore Generale della Cassazione, che attestarono una diminuzione dei delitti nel 1958 a confronto con gli anni precedenti; per queste ragioni egli ritenne che a quasi undici anni dalla fine della guerra: "Lo stato della criminalità non è tale da imporre il ricorso all'ergastolo, come pena di massimo valore dissuasivo quando si dispone al vertice della scala penale della reclusione nel suo vasto limite trentennale" (125).

Si deve concludere quindi che, ad oltre dieci anni dall'entrata in vigore della Costituzione, la maggioranza della dottrina, giurisprudenza e legislazione danno al dettato costituzionale, in materia di pene (e di esecuzione delle stesse) un mero significato letterale ed etico.

1.5.3. La dottrina abolizionista

Unica voce discorde, a favore invece dell'abolizione della pena perpetua fu levata dal Carnelutti (126), anche se le sue motivazioni sono derivate più da ragioni etiche che giuridiche (127).

In sostanza:

  1. una pena quale quella dell'ergastolo che impediva la rieducazione sociale era inumana quindi in contrasto con il dettato dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione. (128)
  2. Lo Stato non aveva potere di rispondere al male con il male, qualunque crimine il reo avesse commesso, lasciando allo stesso nemmeno la minima speranza di potersi reinserire nella struttura sociale; l'intangibilità della libertà dell'uomo, dovesse, in altre parole, porsi sopra le astratte esigenze non definite di "tutela" o di "difesa sociale".
  3. Era messo sullo stesso piano della funzione retributiva ed intimidatrice della pena la persona del reo e la sua rieducazione, in un momento in cui questo aspetto era ad ogni livello messo in ombra, quasi a volere chiudere il dialogo giuridico e politico non solo sul problema dell'ergastolo, ma sulla stessa concezione della pena contenuta nel Codice penale tuttora vigente, emanato molti anni prima dell'entrata in vigore della Costituzione e non modificato, almeno fino allora nei suoi aspetti più retrivi (129).

Al Carnelutti furono in molti a rispondere (130): tra i tanti è interessante la posizione di Nuvolone (131), il quale sostenne che la pena dell'ergastolo non contrastasse in concreto con la Costituzione, ma in astratto. La pena doveva essere perpetua qualora la rieducazione del reo, intesa come idoneità dello stesso ad un suo ritorno in comunità, non fosse raggiunta, ma doveva essere temporanea, e la pena doveva quindi cessare, qualora detta rieducazione fosse in concreto raggiunta. Disse, infatti, il Nuvolone:

A mio parere, mentre non contrasta con la norma costituzionale una pena in concreto perpetua, contrasta invece, indiscutibilmente con essa una pena edittalmente perpetua. La pena detentiva può durare tutta la vita, se la rieducazione non è stata raggiunta, ma deve poter essere sempre temporanea, per cessare quando la rieducazione del condannato è stata attuata (132).

1.6. La riforma del 1962: primo passo verso l'abolizione della pena perpetua

Per uniformare l'ergastolo allo spirito dell'art. 27 della Costituzione il legislatore doveva dunque incamminarsi sulla strada delle riforme (133). Quella più logica ed immediatamente realizzabile, secondo le indicazioni della dottrina, che, come riferito, era in gran parte contraria all'abolizione della massima pena, ma favorevole in ogni modo ad un miglioramento delle condizioni di esecuzione della stessa, era di estendere ai condannati all'ergastolo la possibilità di potere usufruire della liberazione condizionale. Va rilevato che proposte in questo senso non erano nuove, poiché risalivano addirittura ai lavori relativi al codice del 1889 (134); dopo la promulgazione della Costituzione, poi, tale modifica al regime d'esecuzione della pena perpetua era prevista dai progetti di codice penale del 1949 e del 1956 (anche se, come detto, tali progetti non si concretizzarono) ed appariva non più rimandabile.

La Legge 25 novembre 1962, n. 1634 recante "Modificazioni alle norme del codice penale relative all'ergastolo e alla liberazione condizionale", rappresentò dunque una prima risposta sul piano legislativo alle istanze poste dall'art. 27 della Costituzione, che imponevano, in un ambito non circoscritto solamente all'ergastolo, di riplasmare la pena detentiva in senso più marcatamente rieducativo. A tale scopo gli artt. 176 e 177 del Codice penale furono completamente modificati ed innovati.

In primo luogo l'ammissione del recluso alla liberazione condizionale prevista dal primo comma dell'art. 176 non fu più condizionata "all'aver dato prove costanti di buona condotta", ma, 'in una visione più special-preventiva', all'aver "tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento" (135). In altre parole, la liberazione condizionale non fu più accordata come premio ad un atteggiamento esteriore valutato positivamente, ma come conseguenza di un'effettiva e certa modificazione del soggetto che si dimostrava preparato a reinserirsi nel contesto sociale.

In secondo luogo un aspetto dal quale emerge, anche se indirettamente, il potenziamento della funzione rieducativa della pena viene in luce confrontando l'ultimo comma dell'art. 176 del Codice penale vecchia formulazione con il primo comma dell'art. 177 del Codice penale oggi in vigore. In precedenza, infatti, non era consentita la liberazione condizionale se il condannato, dopo scontata la pena, doveva essere sottoposto ad una misura di sicurezza detentiva, adesso, invece, "nei confronti del condannato ammesso alla liberazione condizionale resta sospesa l'esecuzione della misura di sicurezza detentiva cui il condannato stesso sia stato sottoposto con la sentenza di condanna o con un provvedimento successivo". Il condannato, infatti, cui è comminata una misura di sicurezza detentiva, una volta ammesso alla liberazione condizionale, viene, ex art. 230 n. 2 del Codice penale, sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata, che presuppone nel soggetto un grado minore di pericolosità. Se ne deve dedurre, quindi, che il legislatore ritenne la pena detentiva trascorsa prima della liberazione condizionale strumento idoneo a ridurre la pericolosità del reo, riconoscendole dunque incontestabilmente una funzione rieducativa (136).

Infine, con più specifico riferimento alla pena dell'ergastolo, il terzo comma dell'art. 176 del Codice penale nella nuova redazione dispose che "il condannato all'ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia effettivamente scontato almeno 28 anni di pena". Mentre, infatti, nella formulazione originaria degli artt. 22 e 176 del Codice penale, l'ergastolo si presentava come pena assolutamente perpetua essendo esclusa per il condannato ogni prospettiva di ritorno alla vita civile, secondo la nuova disciplina, invece, la stessa pena, pur conservando la struttura di principio di 'pena perpetua', risultava mitigata, di fatto, dalla possibilità di concessione all'ergastolano della liberazione condizionale. A norma dell'art 176 del Codice penale, il condannato all'ergastolo che durante il tempo di esecuzione della pena, avesse tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento e avesse effettivamente scontato almeno vent'otto anni di pena (ridotti a ventisei dall'art. 28 della Legge 10 ottobre 1986, n. 663), poteva essere ammesso alla concessione della libertà condizionale, subordinatamente, però, all'adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato e salvo che dimostrasse di trovarsi nell'impossibilità di adempierle. L'art. 177 del Codice penale dispose poi, in particolare, che, decorsi cinque anni dal provvedimento di liberazione condizionale senza che fosse intervenuta alcuna causa di revoca, la pena dell'ergastolo si estinguesse e fossero revocate le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo. Con tale innovazione fu reso concretamente operante all'interno di tutte le pene detentive, lo scopo rieducativo a queste assegnato. Questo adeguamento alle esigenze di prevenzione speciale determinò una riduzione del conflitto apparentemente insanabile fra pena perpetua e funzione rieducatrice.

La novella contenuta nella Legge n. 1634 del 25 novembre 1962 esercita una profonda influenza sull'istituto della pena perpetua. Una volta riaffermata la funzione rieducativa della sanzione detentiva e riconosciuto il comportamento del condannato durante l'esecuzione quale indice del ravvedimento, il terzo comma dell'art. 176 del Codice penale nuova formulazione consente di concludere che:

  1. il ravvedimento può essere raggiunto anche da coloro che sono condannati alla pena perpetua, con la conseguente caduta del mito di un'incorreggibilità, che affonderebbe le proprie radici nella particolare gravità del fatto commesso;
  2. nei casi in cui, al termine del periodo di pena indicato dalla legge, il condannato all'ergastolo risulti sicuramente ravveduto, la funzione retributiva deve contemperarsi con l'esigenza che il detenuto sia reinserito nel contesto sociale. In altre parole il requisito dell'invariabilità della pena comminata con la sentenza definitiva, posto in risalto da quella dottrina che preferisce gli aspetti afflittivo-retributivi della sanzione, è ora parzialmente ridimensionato dall'esigenza rieducativo-risocializzativa in relazione ad ogni tipo di pena detentiva e di conseguenza con riferimento ad ogni tipo di reato, anche a quelli più gravi, nei confronti dei quali, sino all'avvento di questa riforma, è stata mantenuta 'l'intangibilità' del giudicato anche nell'esecuzione della pena.

Va osservato che la Legge n. 1634 del 1962, estendendo le ipotesi in cui la fase esecutiva è modificata in seguito all'accertamento dei risultati della carcerazione sulla personalità del condannato, contribuisce a rendere evidente la trasformazione del rapporto esecutivo in senso giurisdizionale, che divenne manifesta grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale del 1974 (137).

Se dunque la legge 25 novembre 1962 n. 1634 si muoveva nel senso voluto dall'art. 27 comma terzo della Costituzione, continuavano ad esserci moltissimi limiti che impedivano la realizzazione della finalità rieducativa e la garanzia della sua sussistenza. In particolare, si riconosceva ora possibile il ravvedimento dei condannati all'ergastolo, ma costoro non beneficiavano di strumenti rieducativi idonei a promuovere ed ad incentivare tale ravvedimento. Gli 'ergastolani', che erano rinchiusi negli stabilimenti di pena a loro riservati (138) e sottoposti al regime di esecuzione essenzialmente punitivo previsto dal Regio Decreto 19 giugno 1931 n. 787, trascorrevano il periodo di pena non inferiore a 28 anni in un regime di reclusione 'refrattario' a qualsiasi trattamento (139) o programma risocializzativo. In tal modo l'effetto desocializzativo della pena appariva difficilmente eliminabile e, per conseguenza, l'estensione del beneficio della liberazione condizionale non riusciva a modificare significativamente la pena stessa in senso rieducativo. Si può riconoscere, infatti, che l'istituto della liberazione condizionale svolga, particolarmente sui condannati all'ergastolo, una funzione responsabilizzatrice e 'rieducatrice', rendendoli consapevoli che la legge li considera ancora recuperabili alla società dei liberi ed indicando loro le condizioni per riottenere la libertà. Ciò non significa, tuttavia, ancora ritenere la pena dell'ergastolo - espiata, come detto, secondo le modalità del vecchio regolamento del 1931 - 'tendente alla rieducazione del condannato'. Si può, poi, affermare che anche i soggetti 'ravveduti' e ammessi alla liberazione condizionale ai sensi dell'art. 176 terzo comma del Codice penale, non hanno certo goduto di quel 'diritto alla rieducazione' che poteva essere dedotto, secondo un'autorevole dottrina (140), dall'art. 27 comma terzo della Costituzione.

La legge 25 novembre 1962, n. 1634 poi apportò modifiche al regime di esecuzione dell'ergastolo. In particolare, l'art. 1 di questa legge - sostituendo il secondo comma dell'art. 22 del Codice penale, secondo il quale il condannato all'ergastolo poteva essere ammesso al lavoro all'aperto dopo aver scontato almeno tre anni della pena - dispose che "il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro all'aperto", consentendogli così di poter svolgere ogni tipo di lavoro senza inutili e controproducenti termini dilatori. Inoltre, l'art. 2 della legge n. 1634 modificò l'art. 72 del Codice penale relativo al "Concorso di reati che importano pene detentive temporanee", il quale in origine disponeva che verificandosi tale concorso, al reo fosse applicata, secondo i casi, o la pena di morte (concorso tra più reati, tutti comportanti l'ergastolo), o la pena dell'ergastolo con l'isolamento diurno da sei mesi a quattro anni (concorso tra più reati, di cui uno comportante l'ergastolo e gli altri pene detentive temporanee). Il nuovo art. 72, invece, oltre ad eliminare il richiamo alla pena di morte (peraltro già soppressa dal Decreto Legge Luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 244 e dal Decreto legge 22 gennaio 1948, n. 21) limitò (e limita anche oggi), invece, l'applicabilità dell'isolamento diurno (ridotto anche nella durata) (141) al solo caso di concorso tra un reato punito con l'ergastolo e altri reati comportanti pene detentive complessivamente superiori a cinque anni.

Negli anni successivi al 1962, il regime esecutivo dell'ergastolo rimase pressoché immutato, quasi che la legge sulla liberazione condizionale, innovando tale sanzione, non imponesse, invece, una modifica, anche radicale, del regime penitenziario. Il fatto che, poi, un analogo regime penitenziario avente caratteristiche punitive-retributive valesse anche per l'esecuzione della pena detentiva temporanea, rivolta al recupero e al reinserimento sociale del reo, amplificava il problema. Un raffronto fra le concrete modalità di esecuzione della pena detentiva - sia temporanea sia perpetua - e gli scopi da questa perseguiti, infatti, dimostra con evidenza che la funzione rieducativa, in assenza di una riforma dell'ordinamento penitenziario, rimaneva 'compressa' dall'effetto intimidativo conseguente all'inflizione della pena stessa (142) e che di conseguenza l'istituto della liberazione condizionale, scollegato da qualsiasi trattamento rieducativo, manteneva, di fatto, il suo precedente carattere di premio alla condotta del reo. Questo era inevitabile alla luce della disciplina vigente; infatti, prima della Legge n. 354 del 1975, nessuna seria "osservazione scientifica della personalità" (143) era fatta al soggetto del quale si doveva valutare il grado di ravvedimento (144).

La legge del 1962, in sintesi, nacque e s'innestò in un sistema sanzionatorio caratterizzato da una struttura afflittivo-repressiva, cosicché senza una riforma dell'esecuzione, gli effetti rieducativi e risocializzativi non riuscivano ad affermarsi, mentre 'l'ergastolano' aveva come unico fine rieducativo lo stimolo a ravvedersi al fine di accedere alla liberazione condizionale.

Questa legge, come affermò Vassalli, "è stata nel campo del diritto penale la più rivoluzionaria di quante se ne siano avute nell'ultimo trentennio" (145) e, ponendosi in contrasto con il resto del sistema, gettò le basi per le riforme successive.

Tavola VII. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1964/1965, situazione a fine anno) (146)
Anni Numero complessivo Maschi Femmine
1964 699 632 67
1965 663 608 55

1.7. Il progetto di riforma del codice penale del 1972

Nell'estate del 1968, Presidente del Consiglio l'Onorevole Leone e Ministro della Giustizia l'Onorevole Gonella, essendosi da più parti rinnovate le proteste per le mancate riforme degli istituti di parte generale e di parte speciale del Codice (147), fu elaborato, sulla base di un progetto preparatorio elaborato dall'onorevole Vassalli, un disegno di legge completo di ampia riforma del Codice penale. Questo progetto fu presentato al Senato con il n. 351 il 19 novembre 1968 e fu esaminato solo dal Senato nel corso della V legislatura (1968-1972) e soltanto nella parte generale. A seguito di questo esame limitato, il disegno si scinse in un disegno di legge 351 A, concernete "modifiche al libro primo e agli artt. 576 e 577 del Codice penale" e in un disegno di legge 351 bis, concernente la parte speciale del codice, con l'esclusione dell'omicidio aggravato, contemplato dagli artt. 576 e 577. Il Senato approvò la prima parte della riforma nel luglio del 1971 (148), mentre la Camera dei deputati non poté esaminare il progetto per la fine anticipata della legislatura. Il Governo, tuttavia, nell'estate del 1972, all'inizio della VI legislatura, anche spinto dalle polemiche per la mancata approvazione del Progetto nella passata legislatura, presentò al Senato un nuovo disegno di legge (n. 372), contenente la riforma parziale della sola parte generale nel testo approvato dal Senato alla fine della V legislatura. Il Senato approvò questa riforma stralcio nel gennaio 1973 (149).

Nella materia delle pene principali l'innovazione più importante era rappresentata dall'abolizione della pena dell'ergastolo, che era sostituita con una pena di reclusione da ventisette a quaranta anni, al di sopra, cioè, del limite massimo della reclusione temporanea (nel codice tuttora vigente il massimo della pena della reclusione è di trenta anni) e di molto superiore a quanto stabilito in merito nei codici dei più avanzati Paesi europei; per le sentenze di condanna all'ergastolo già passate in giudicato, invece, la sostituzione di detta pena era con trentacinque anni di reclusione. In materia di omicidio volontario aggravato, per cui il progetto contemplava (unica appendice di parte speciale a questa riforma della parte generale) una modifica degli artt. 576 e 577 del codice, le disposizioni determinavano una graduazione delle pene da ventiquattro a trenta anni o da ventisette a quaranta anni a seconda dell'entità delle circostanze aggravanti.

Per gli autori più 'illuminati', il Progetto si riduceva ad un mero "ritocco" di un codice le cui strutture portanti rimanevano inadeguate ad una nuova concezione del reato e della pena (150), tuttavia la dottrina penalistica più avanzata salutò con favore la proposta di abolizione dell'ergastolo, infatti, affermò Marinucci:

La proposta di estromettere l'ergastolo dal nostro sistema sanzionatorio è un felice adempimento di quell'obbligo costituzionale e va salutata con favore perché rappresenta la rottura di un grosso tabù retribuzionistico: dietro l'ergastolano si nasconde infatti l'idea vetero-testamentaria che chi ha soppresso la vita altrui (o un bene reputato di ugual valore) deve rinunciare, scartata la pena di morte, quanto meno alla propria vita civile (151).

Il Marinucci, peraltro, criticò la sostituzione dell'ergastolo con la reclusione fino a quarant'anni:

Poco felice, anzi fraudolenta, sembra invece l'idea di sostituire all'ergastolo la reclusione da ventisette a quarant'anni. Pensare che simili pene, nominalmente temporanee, possano significare qualcosa di diverso dalla reclusione a vita, è una pura «frode delle etichette» (152).

Passato alla Camera dei deputati sin dal 2 febbraio 1973, il progetto approvato dal Senato, a causa di crisi ministeriali e di vicende parlamentari, non poté essere esaminato dalla Commissione Giustizia della Camera se non alla fine dello stesso anno. Le numerose battute d'arresto impedirono l'approvazione del progetto entro la fine della Legislatura; nuovamente decaduta non fu 'ripescata' a norma dei Regolamenti parlamentari nelle legislature successive.

La riforma dei primi anni settanta spezzò un simbolo, pur conservandone la sostanza: più tardi nell'emergenza, sarà lo stesso simbolo a caricarsi di valenze di politica criminale.

1.8. Le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale dei giudici di merito

L'importante riforma realizzata dalla Legge n. 1634 del 1962, non fermò le gravi controversie a livello dottrinale e politico sul problema dell'ergastolo e della sua esecuzione. Secondo molte ordinanze di rimessione degli atti alla Corte costituzionale della questione di legittimità della massima pena, nonostante la riforma, la concreta possibilità di un'applicazione dell'ergastolo come pena perpetua ed eliminativa tale da precludere il reinserimento sociale del condannato, esisteva ancora ed era considerato non consono alle finalità rieducative della pena secondo i dettami costituzionali (153). Siamo ormai lontani dalla concezione di rieducazione come mero processo di moralizzazione del condannato, perché questo processo non era certamente quello auspicato dalla Costituzione che, su certi temi, rompeva 'i ponti' con il passato. Era cambiata la mentalità e il Paese era 'civilmente' cresciuto.

In particolare, l'ordinanza della Corte di assise di Verona del 11 marzo 1972 (154) (procedimento contro Versini Pier Alberto ed altri, in Gazzetta Ufficiale 12 luglio 1972), ribaltò la concezione secondo la quale finalità primaria della pena era unicamente la "difesa" sociale e l'intimidazione dei futuri rei. Secondo la Corte d'assise di Verona, l'art. 27 della Costituzione era collocato nella parte prima, inerente ai diritti e ai doveri dei cittadini e, precisamente, nel titolo relativo ai "rapporti civili", quale appunto la libertà personale dell'individuo, innocente o reo. La rieducazione diveniva quindi la funzione principale della pena secondo l'ordinanza citata. Non si poteva, in altre parole, parlare di rieducazione impedendo al condannato di potere un giorno reinserirsi nella vita sociale. L'ergastolano era invece assolutamente escluso dal consorzio umano, quando solo attraverso il suo reinserimento sociale si poteva verificare l'avvenuta rieducazione dello stesso. La Costituzione non si era certo limitata a parlare di mera "moralizzazione" della pena, concetto a dire poco neutro rispetto a quanto la Costituzione aveva innovato in materia di pene (155).

L'ordinanza della Corte d'assise di Verona proseguiva avvertendo che il fatto che esistessero gli istituti della grazia e della liberazione condizionale, niente toglieva al carattere perpetuo e repressivo della massima pena; i suddetti istituti, infatti, rivestivano carattere discrezionale od eccezionale, quale la valutazione del Capo dello Stato, o, per quanto riguarda la liberazione condizionale, il consenso dei parenti della vittima, il pagamento delle spese e l'avvenuto risarcimento del danno, requisiti di fatto quasi mai verificatisi nel corso della storia giudiziaria. Questo secondo la Corte di merito, realizzava un'evidente disparità di trattamento tra cittadini-condannati in violazione anche dell'art. 3 della Costituzione.

La Corte di Verona, rivolta presumibilmente a chi interpretava letteralmente le norme, affermò che il fatto che la Costituzione avesse dichiarato inammissibile la sola pena di morte, non implicava necessariamente che la pena perpetua dovesse essere ineluttabilmente compatibile con l'art. 27.

1.8.1 La sentenza della Corte Costituzionale n. 264 del 22 novembre 1974

Le aspirazioni degli abolizionisti furono, però, nettamente deluse dalla Corte Costituzionale, che con la sentenza 2 novembre 1974, n. 264 dichiarò infondata la questione di costituzionalità dell'art. 22 del Codice penale in riferimento all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, sollevata dall'ordinanza della Corte d'assise di Verona del 15 marzo 1972 e quindi compatibile la pena dell'ergastolo con le disposizioni costituzionali (156).

La sentenza della Corte Costituzionale n. 264 del 22 novembre 1974 nel riaffermare l'infondatezza della questione di legittimità della pena dell'ergastolo, con riferimento alla finalità rieducativa, sottolineò che la rieducazione del reo non era sempre conseguibile. Se la pena dell'ergastolo fosse consona o meno alle finalità di cui all'art. 27 della Costituzione, doveva essere deciso solo ed unicamente dal legislatore ordinario "nell'esercizio del suo potere discrezionale", il quale era liberissimo di considerare la massima pena come mezzo di intimidazione e di isolamento dei criminali più pericolosi e propose nella motivazione la concezione polifunzionale della pena, secondo cui la rieducazione altro non sarebbe stata che una delle finalità della sanzione penale:

Funzione (e fine) della pena non è certo il solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile. A prescindere sia dalle teorie retributive secondo cui la pena è dovuta per il male commesso, sia delle dottrine positiviste secondo cui esisterebbero criminali sempre pericolosi e assolutamente incorreggibili, non vi è dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano non meno della sperata emenda, alla radice della pena.

A conferma dell'umanità dell'ergastolo e dell'assenza di contrasti tra esso e la funzione rieducativa della pena, la Corte aggiunse poi la constatazione che l'istituto della liberazione condizionale consentiva l'effettivo reinserimento anche all'ergastolano nel consorzio civile senza che le condizioni economiche potessero costituire qualsiasi ostacolo. Era citata, poi, la sentenza della stessa Corte n. 204 del 1974 (157) che aveva dichiarato illegittima la disposizione che attribuiva al Ministero di Grazia e Giustizia la facoltà di concedere la liberazione condizionale.

La sentenza in oggetto inoltre è importante poiché consente di affrontare uno dei nodi centrali del diritto penale, cioè il problema dello scopo della pena e quindi del diritto penale in generale. Dalla sentenza, infatti, è possibile evidenziare la concezione che la Corte costituzionale mostra di avere dell'esecuzione penale e in particolare del problema del lavoro carcerario, nei cui confronti la Corte prende direttamente e specificamente posizione:

Deve subito dirsi che il lavoro, ben lungi dall'essere in contrasto con la morale esigenza di tutela e rispetto della persona, è gloria umana, precetto religioso per molti, dovere e diritto sociale per tutti (art. 4 Cost.) e reca sollievo ai condannati che lavorando, anche all'aperto, come consente l'art. 22 c.p. nel nuovo testo risultante dalla novella del novembre 1962, godono migliore salute fisica e psichica, conseguono un compenso e si sentono meno estraniati dal contesto sociale.

La Corte, quindi, ritenne e interpretò il lavoro carcerario come momento positivo dell'esecuzione, tuttavia, come affermò Pavarini, "quel che a fondo rimane come momento centrale è l'ideologia della natura tout-court medicinale-rieducativa del lavoro" (158), le cui ragioni e origine storica devono essere individuate nella concezione fascista della pena, quindi nella concezione "afflittiva-espiativa". La Corte ripropose la stessa ideologia che aveva ispirato il Regolamento del 1931, aggiungendovi un escamotage formale: infatti, affermò che il lavoro è in sé rieducativo, poiché le pene devono tendere alla rieducazione per volontà costituzionale e per precetto normativo si devono scontare con il lavoro. Pavarini indicò poi, gli elementi da cui era possibile dedurre l'adesione della Corte alla concezione della sanzione penale essenzialmente di natura afflittiva:

  1. Il lavoro come "bene in sé". La Corte ignorò ogni problema connesso all'organizzazione del lavoro, come, ad esempio, se fosse assicurato a tutti gli internati e se rispetto a questo i carcerati operai mantenessero libertà di scelta.
  2. Il lavoro come premio. La Corte mostrò di condividere l'idea che il lavoro carcerario fosse un diversivo alla monotonia della vita carceraria.
  3. Il lavoro come diritto-dovere: l'ergastolano-lavoratore in realtà non aveva la possibilità di contestare il lavoro che gli era comunque imposto e non poteva pretendere di essere impiegato qualora fosse costretto all'ozio.
  4. Il lavoro come mezzo terapeutico, soprattutto se praticato all'aperto. La Corte quindi privilegiò il lavoro agricolo sul lavoro industriale, un lavoro che quindi non poteva essere considerato idoneo ad un futuro inserimento nel processo produttivo.
  5. Il lavoro come antidoto all'alienazione e come sicuro mezzo di risocializzazione. Il lavoro era (ed è), però, malamente retribuito ed era (ed è) privato da ogni libertà sindacale.
  6. La prestazione subordinata scissa dal suo rapporto sinallagmatico con il salario. Al lavoro, infatti, consegue un compenso e "il compenso"; compenso e non retribuzione.

Pavarini, tuttavia, individuò il tratto caratteristico dell'ideologia della Corte nella concezione e nell'impostazione del problema del lavoro: "L'enfatizzazione del ruolo rieducativo del lavoro anche quando questo si presenta qualificato dal carattere della marginalità ed improduttività nei confronti, ovviamente di quello c.d. libero" (159). Il lavoro considerato in questi termini era solo un momento disciplinare della fase esecutiva e non poteva avere efficacia rieducativa nei termini indicati dalla Costituzione.

L'analisi della concezione giurisprudenziale in tema di lavoro carcerario, concluse Pavarini, consentiva di individuare una concezione della pena dell'ergastolo ancora legata al carattere afflittivo-intimidatorio della sanzione penale e la teoria della polifunzionalità della pena serviva a conciliare questa concezione con la finalità costituzionale della rieducazione: l'amara conclusione era la constatazione di una continuità istituzionale tra periodo fascista e realtà democratica.

Esaminando comparativamente la giurisprudenza fin qui citata, si è affermato (160) che innanzitutto non pareva scientificamente corretto dedurre, come pure più volte è stato sostenuto dai giudici di merito e dalla stessa Corte di Cassazione, che potesse aversi rieducazione anche per mezzo della pena perpetua: rieducazione in realtà non s'identifica né con pentimento, né con emenda, ma è un concetto di relazione, che presuppone in altre parole la vita dell'uomo in società, il suo ritorno in quella comunità dal quale è separato (161). In secondo luogo era chiaro che la pena dell'ergastolo, oltre ad essere contraria ad ogni principio di umanità, era in contrasto con i principi contenuti nell'art. 27 della Costituzione. A sostegno di questo si può ricordare quanto era previsto nel disegno di legge di riforma del Codice penale del 1972:

La posizione opposta (ossia quella per l'eliminazione della pena perpetua) è prevalsa in forza di notevoli e apprezzabilissimi argomenti; questi ultimi fanno centro sulla considerazione che, nonostante la possibilità della liberazione condizionale, l'ergastolo appare sempre come contrario alla solenne enunciazione contenuta nel comma 3º dell'art. 27 della Costituzione, delineandosi al momento dell'inflizione della pena, come pena priva di ogni speranza di restituzione alla vita libera e al reinserimento sociale del condannato (162).

Con questa decisione il compito della giurisprudenza è da considerarsi esaurito. Solo il legislatore può intervenire su una norma che farà in ogni caso sempre discutere.

Tavola VIII. - Detenuti condannati all'ergastolo (anni 1970-1974, situazione a fine anno) (163)
ANNI Numero complessivo Maschi Femmine
1970 529 489 40
1971 515 475 40
1972 504 468 36
1973 523 484 39
1974 503 464 39

1.9. La sentenza della Corte costituzionale n. 168 del 28 aprile 1994

Il problema della costituzionalità dell'ergastolo, sul quale la Corte costituzionale ha, come abbiamo visto, statuito confermandone la legittimità per la generalità dei condannati a questa pena, è stato, invece, risolto in termini contrari con riguardo ai minorenni imputabili. Con sentenza 28 aprile 1994, n. 168 (164), la Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme che prevedono la pena perpetua per il minore imputabile, giustificando la decisione sul particolare significato che la rieducazione finisce con l'assumere se è riconsiderata in base alla protezione che l'art. 31, comma secondo, della Costituzione accorda all'infanzia e alla gioventù.

Prima della sentenza n. 168, il Codice penale Zanardelli del 1889 prevedeva all'art. 55, per gli imputati d'età fra i quattordici ed i diciotto anni, la sostituzione della pena dell'ergastolo con la reclusione da dodici a venti anni ed all'art. 56, per gli imputati d'età fra i diciotto ed i ventuno anni, la sostituzione con la reclusione da venticinque a trent'anni. Nel Codice penale del 1930, invece, la previsione dell'ergastolo per il minore sussisteva, anzitutto, quale effetto dell'applicazione dell'art. 73 del Codice penale: quando, cioè, concorressero più delitti per ciascuno dei quali dovesse infliggersi la reclusione non inferiore a ventiquattro anni. Per il resto, la formulazione originaria dell'art. 69 del Codice penale, che disciplinava il concorso di circostanze, rendeva impossibile, in ogni altro caso, l'applicazione dell'ergastolo al minore, poiché escludeva dal bilanciamento le circostanze inerenti alla persona del colpevole, fra cui anche quella di cui all'art. 98 del Codice penale, per la quale la pena da infliggere al minore degli anni diciotto dev'essere sempre diminuita. Tale diminuzione, perciò, andava operata ai sensi dell'art. 63 del Codice penale, al di fuori di ogni prevalenza o equivalenza. A seguito della riforma del 1974 (165) che, per attenuare la generale gravità delle pene previste dal Codice Rocco, consentiva, invece il bilanciamento di tutte le circostanze senza più alcuna distinzione, anche l'attenuante di cui all'art. 98 del Codice penale entrava nel gioco delle prevalenze o dell'equivalenza e quindi poteva restare perdente rispetto ad aggravamenti che comportassero la pena dell'ergastolo (166). Per quanto riguarda le possibilità di accesso per i minori ai benefici, sussiste sempre l'art. 21 del Regio decreto legge 20 luglio 1934, n. 1404, in virtù del quale il minore, anche se condannato all'ergastolo, può essere ammesso alla liberazione condizionale in qualunque momento, quindi senza alcun vincolo temporale: l'art. 21 prevede, infatti, che può essere disposta "La liberazione condizionale dei condannati che commissero il reato quando erano minori degli anni 18, in qualunque momento dell'esecuzione e qualunque sia la durata della pena detentiva inflitta".

Il problema della legittimità della pena dell'ergastolo per i minori deriva non solo dall'art 27, terzo comma, della Costituzione, ma anche dall'art. 31, comma secondo, della Costituzione, che obbliga la Repubblica a proteggere "l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo". L'Italia ha, inoltre, sottoscritto alcune convezioni che riguardano la materia della protezione e della tutela del minore: si pensi al punto 25 della "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo" (167) o alla "Convenzione di New York sui diritti del fanciullo" del 20 novembre 1989, che all'art. 37 prescrive che: "Né la pena capitale, né l'imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore a diciotto anni". Questa Convenzione è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176 e quindi questa Convenzione e il suo art. 37 in particolare, è legge dello Stato. Per ciò che riguarda il diritto penale minorile, la necessità di un'adeguata considerazione dell'elemento personale è prescritta dalle "Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile" (cosiddette "Regole di Pechino"), il cui punto 17 prevede che la decisione "deve essere sempre proporzionata non soltanto alle circostanze e alla gravità del reato, ma anche alle condizioni e ai bisogni del soggetto che ha delinquito come ai bisogni della società". L'art 14 del paragrafo 4 del "Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici", aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966 (ratificato dall'Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881) prevede, infine, che: "La procedura penale applicabile ai minorenni dovrà tener conto, senza distinzioni, della loro età e dell'interesse a promuovere la loro rieducazione" (168). Lo spirito di queste convezioni, rivolto ad una netta diversificazione del diritto penale minorile rispetto a quello comune, attraverso la caratterizzazione di esso più come diritto della personalità che come diritto del fatto, ha portato in molti paesi all'introduzione di misure educative, in sostituzione delle pene (Belgio, Olanda, Svezia) o ad una più ampia utilizzazione di misure non detentive (USA e Gran Bretagna) (169).

La sentenza n. 168 è la conseguenza dell'inosservanza del monito contenuto nella sentenza n. 140 del 1993 (170) dove furono dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 2, terzo comma, 3, primo comma, 10, primo comma, 27, terzo comma, 31, secondo comma, della Costituzione, del combinato disposto degli artt. 22, 98, 65, 69 del Codice penale, nella parte in cui rendevano possibile, l'applicazione anche per i minori della pena dell'ergastolo. Nella motivazione della sentenza n. 140 del 1993, era, tuttavia, rilevata l'esigenza di "un intervento sostitutivo del legislatore, che definisse, nell'ambito di una pluralità di scelte, la portata e l'ampiezza della modifica". L'ammonimento preventivo rivolto ad evitare una futura dichiarazione di incostituzionalità, sollecitando l'intervento del legislatore, non trovò seguito, rendendo necessaria la successiva decisione n. 168 del 1994.

La questione di legittimità costituzionale, oggetto della sentenza n. 168 del 1994, fu sollevata dal Tribunale minorile delle Marche (171) ed investì gli artt. 17 e 22 del Codice penale, in relazione all'omessa previsione dell'esclusione della pena dell'ergastolo nei confronti dei minorenni imputabili, in riferimento agli artt. 10, primo comma, 27, terzo comma e 31, secondo comma, della Costituzione. Anzitutto il parametro dell'art. 10 della Costituzione sarebbe violato per non essersi l'ordinamento giuridico italiano "adeguato a numerose norme pattizie del diritto internazionale vigente in materia". La Corte costituzionale respinse, però, questo assunto per la sua genericità, non essendo specificate le disposizioni che il giudice a quo intendeva richiamare. Rispetto alla previsione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, la Corte, nella sentenza n. 168, rilevò l'esistenza dei benefici dell'ordinamento penitenziario e della previsione dell'art. 21 del Regio decreto legge n. 1404 del 1934, che, come abbiamo visto, ammette il minore alla liberazione condizionale in qualunque momento dell'esecuzione e qualunque sia la durata della pena inflitta. La Corte ritenne tali correttivi sufficienti a garantire il rispetto del precetto costituzionale che aveva assegnato alla pena la funzione rieducativa, rimandando dunque al compito del legislatore il valutare se abolire o no la pena dell'ergastolo nell'ambito di una scelta di politica criminale. La questione fu, però, ritenuta dalla Corte fondata con riferimento all'art. 31, messo in relazione all'art. 27, terzo comma, della Costituzione (172). L'art. 31 prevede, infatti, al secondo comma una speciale protezione per l'infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo e pone rispetto al sistema punitivo generale, una diversificazione nel trattamento penalistico del minore. Se dunque i benefici concessi in sede di esecuzione della pena valgono ad escludere il contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, non sono sufficienti a superare il contrasto con l'art. 31, secondo comma, della Costituzione, che attribuisce alla pena applicata nei confronti del minore "una connotazione educativa più che rieducativa, in funzione del suo inserimento maturo nel consorzio sociale" (173). In tali condizioni, la pena dell'ergastolo, nella sua astrattezza, è assolutamente incompatibile con la funzione che la pena deve assumere "nella prospettiva della spiccata protezione del minore quale espressa nell'art. 31 comma 2 della Costituzione".

1.10. La giurisprudenza costituzionale: la conservazione della pena perpetua nell'ordinamento penale italiano

Con riferimento alla tematica dell'ergastolo tout court la giurisprudenza della Corte costituzionale si è articolata in due direzioni: essa ha mantenuto nell'ordinamento la pena perpetua, ma, nel contempo, ha ridotto la sfera investita da tale pena. Più precisamente, la Corte da un lato ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la previsione della pena perpetua, ritenendola compatibile con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione (174); dall'altro lato, ha censurato qualche norma che comminava la pena perpetua per certe fattispecie (175). In questo contesto di conservazione-depontenziamento della sanzione dell'ergastolo si colloca la sentenza n. 168 del 1994 (176). La Corte costituzionale con questa sentenza, infatti, ha dichiarato illegittima la pena dell'ergastolo nei confronti dei minori imputabili, ma, fedele ai suoi precedenti, non ha mutato orientamento sull'applicabilità della pena dell'ergastolo per la generalità dei condannati, come risulta chiaramente dall'ultimo comma del paragrafo quattro della motivazione. Per la Corte, infatti, i molti correttivi emanati negli anni avrebbero inciso sulla natura stessa della pena dell'ergastolo, fino a togliere ogni significato al carattere della perpetuità che la connotava alle origini, quando il Codice fu emanato: il precetto costituzionale, che assegna alla pena anche funzione rieducativa, resterebbe, così, soddisfatto. A quel punto - secondo la Corte- "diviene esclusivo compito del legislatore valutare, nelle scelte di politica criminale, se conservare o meno l'ergastolo tra le sanzioni punitive astrattamente previste" (177).

La problematica generale relativa alla costituzionalità dell'ergastolo è già stata affrontata, come detto, dalla Corte con la fondamentale sentenza n. 264 del 1974, che ha ritenuto non fondato il preteso contrasto fra la pena dell'ergastolo e il parametro di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in base al carattere polifunzionale della pena (178).

L'incompatibilità dell'ergastolo con il principio costituzionale secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, fu sostenuta da una parte della dottrina sin dall'entrata in vigore della Costituzione. Si sono già ricordate le osservazioni del Carnelutti relative al contrasto logico tra il concetto di rieducazione inteso come cammino verso una meta (la radice di educare non è docere ma ducere) e l'ergastolo in quanto pena avente carattere perpetuo ed eliminativo (anche se non in senso fisico) (179). La condanna all'ergastolo fu intesa da quest'autore come dichiarazione di morte morale e quindi come trattamento contrario al senso di umanità e al concetto di pena-rieducazione: "segregare un uomo dalla società per sempre vuol dire ritenerlo ormai non-rieducabile" (180). L'istituto della grazia, in quanto provvedimento eccezionale che può essere adottato solo per richiesta del condannato o dei prossimi suoi congiunti, non poteva essere posto a giustificazione del carattere non eliminativo di questa pena.

La dottrina del Carnelutti era contrastata dai sostenitori del carattere esclusivamente retributivo della pena, che in nome della difesa sociale e della rieducazione "interiore" dell'uomo, realizzabile entro le mura dello stabilimento carcerario, ne sostenevano il mantenimento (181). Tale orientamento ha trovato conferma nell'ordinanza della Corte di Cassazione del 1956 (182) che dichiarava manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 22 del Codice penale rispetto all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto "pretestuoso espediente di difesa" non sufficiente a giustificare la sospensione del giudizio. Il termine "trattamento", utilizzato nell'art. 27, fu inteso nel senso di "modalità di esecuzione della pena" e si ritenne, perciò, sufficiente ribadire il principio della "umanizzazione della pena". Ma l'aspetto che più colpiva della decisione era la considerazione della "rieducazione" come "redenzione morale" o "catarsi" non necessariamente finalizzata al recupero sociale (183).

La dottrina anti-abolizionista si era comunque mostrata favorevole ad un miglioramento delle condizioni di esecuzione della pena ed in particolare all'estensione all'ergastolano della liberazione condizionale, realizzata con la legge n. 1634 del 1962 (184). E fu proprio l'estensione all'ergastolano di questa a determinare la dichiarazione di non incompatibilità dell'ergastolo con i principi costituzionali nella sentenza della Corte costituzionale n. 264 del 1974. Circa il carattere polifunzionale della pena, enunciato in questa sentenza, la Corte costituzionale, con sentenza n. 313 del 1990 (185), ha osservato che per una parte (afflittività, retributività) "si tratta di profili che riflettono quelle condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale" e per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale), "si tratta bensì di valori che hanno fondamento costituzionale, ma non certo tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa, espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena". Se il teleologismo della pena fosse assunto esclusivamente o prevalentemente in funzione di quei diversi caratteri, trascurando il principio rieducativo, "si correrebbe il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione" (186).

Il carattere polifunzionale della pena non solo non risolve il problema dell'ergastolo, ma se si tiene conto della sentenza n. 313 del 26 giugno 1990 della Corte costituzionale che ha esteso la funzione rieducativa anche alla fase di irrogazione e a quella comminatoria della pena, si dovrà ammettere che è proprio la concezione dell'ergastolo come pena che contrasta con la funzione risocializzante, proprio per il suo carattere assoluto che esclude, in linea di principio, il reinserimento del condannato alla società (187).

Secondo gli autori favorevoli all'abolizione dell'ergastolo (188), il carattere premiale delle norme che permettono di trasformare l'ergastolo in pena temporanea non è in grado di modificare la natura perpetua della pena edittale. Profili di incostituzionalità rispetto all'art. 3, primo comma, 27, primo e terzo comma, della Costituzione, sarebbero perciò ravvisabili nel fatto che la liberazione condizionale, la grazia, lo sconto di pena e gli altri benefici dipendono dall'intervento della discrezionale volontà di terzi o da quella disciplinata dallo stesso condannato" (189). Non è rilevante il fatto che siano stati introdotti accorgimenti per rendere possibile una liberazione dopo lunga espiazione, poiché non si tratta di interventi normativi sulla pena, ma di provvedimenti premiali che l'ergastolano deve meritare secondo l'accertamento discrezionale del giudice e che perciò sono soltanto eventuali, dipendono dalla volontà altrui e non è detto che siano dovuti (190). Non è risolutivo che l'ergastolo di fatto possa tradursi in pena temporanea, poiché, ammesso che in concreto ciò si verifichi, non esclude l'astratta possibilità che al contrario, il condannato rimanga in carcere per tutta la vita (191). Quindi per sua natura l'ergastolo non è compatibile con la finalità risocializzante della pena ex art. 27, terzo comma, della Costituzione (192).

Merita ricordare che è rimasta senza seguito la mozione approvata il 3 agosto 1989 dalla Camera dei Deputati della X Legislatura, con la quale s'impegnava il Governo "a presentare disegni di legge per l'abrogazione della pena di morte dal Codice penale miliare di guerra (193) e dell'ergastolo". Si diceva nella motivazione che l'ergastolo era tra le pene che contrastano con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, secondo cui "nessun individuo può essere sottoposto a punizioni crudeli, disumane o degradanti".

Si distinguono con forza di nuovo le parole di Luigi Ferrajoli (194) relative al paradosso di una pena perpetua dichiarata costituzionalmente legittima nella misura in cui essa è in realtà non perpetua. La Corte, infatti, con i continui richiami ai benefici di cui può godere l'ergastolano considera la pena perpetua semplicemente pena "minacciata".

Note

1. Il termine ergastolo deriva dal greco έργαστήριου, che significa casa di lavoro, officina, dalla radice εργατομαι, che significa io lavoro. Più specificamente è formata da έργα (che corrisponde al latino opera) e στήριου (corrispondente al latino statio).

2. Sulle origini storiche dell'ergastolo si veda: Fiorelli P., Ergastolo, Premessa storica, in "Enciclopedia del diritto", vol. XV, Giuffrè, 1966, p. 223. Oltre a questo importante saggio per approfondimenti si può consultare: Aschieri A., voce Ergastolo, in "Il digesto italiano", volume X, Utet, Torino 1895-1898; Lugnano S., Considerazioni sull'ergastolo, in "Archivio penale", 1983, p. 496; Mereu I., Note sull'origini della pena dell'ergastolo, in "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 95.

3. Fiorelli P., op. cit., p. 224.

4. Ibid.

5. Beccaria C., Opere, (a cura di Romagnoli), II, Firenze 1958, p. 719-730.

6. Mereu I., cit., p. 95.

7. Mujiart De Vougons, Les loix criminelles de France, Paris, 1780, p. 74.

8. Fiorelli P, cit., p. 224.

9. Mereu I., cit., p. 97.

10. Bentham J., Theorie des peines, in Oeuvres, (a cura di) E. Dumont, Hauman, Bruxelles 1841, Libro II, p. 73.

11. Art. 15 del Codice penale del 1810: "Gli uomini condannati ai lavori forzati saranno impiegati ai più penosi lavori; essi trascineranno ai loro piedi una palla o saranno attaccati a due a due con una catena allorché lo permetterà la natura del lavoro al quale saranno impiegati".

12. Art. 17 del Codice penale del 1810, primo comma: "La pena della deportazione consisterà nell'essere trasportati e nel rimanere per sempre in un luogo determinato dal governo, fuori del territorio continentale della Francia".

13. Art. 7 delle leggi penali del codice pel Regno delle due Sicilie del 1819: "La pena dell'ergastolo consiste nella reclusione del condannato per tutta la vita nel forte di un'isola, secondo i regolamenti. Le donne espieranno l'ergastolo nelle case di reclusione colle restrizioni che si indicheranno da' regolamenti".

14. Tale problematica fu molto viva in Francia nei primi decenni del XIX secolo, ma la legge di revisione del 1832 non accolse tali proposte, ritenendo idoneo allo scopo di offrire speranza al condannato l'istituto del ricorso alla clemenza del Principe.

15. Si vedano gli artt. 67 della Carta Costituzionale francese del 4 giugno 1814 e 640 delle leggi penali del Codice pel Regno delle due Sicilie.

16. L'ergastolo era la pena carceraria per il Codice toscano del 20 giugno 1853, vigente fino all'unificazione legislativa: caratterizzato da venti anni di segregazione assoluta (ridotta a dieci per Decreto del 10 gennaio 1860) e in seguito con il passaggio al lavoro in comune sotto la disciplina del silenzio. Questa mitigazione di trattamento era negata a chi avesse commesso dopo la condanna altro delitto non punibile con la pena dell'ergastolo, mentre era concessa anche in anticipo qualora il condannato avesse raggiunto i settanta anni di età (art. 13 e 15 del Codice e Decreto 10 gennaio 1860). Per il Codice estense del dicembre 1855, l'ergastolo era pena carceraria perpetua e temporanea, con lavori a profitto dello Stato e catena al piede del condannato (artt. 10 e 16). Il Codice parmense del 5 novembre 1820 prevedeva i lavori forzati a vita, non opere faticose e i condannati erano legati a due a due con catene al piede (art. 17). Lavori forzati a vita erano contemplati anche nel Codice sardo del 20 novembre 1859 (esteso alle province meridionali il 17 febbraio 1861), che prevedeva, come modalità esecutive della pena, opere faticose e catena ai piedi (artt. 13 e 16). Il Regolamento pontificio del 25 settembre 1832 prevedeva la galera perpetua, disciplinata da regolamenti speciali (art. 50). Il Codice austriaco del 27 maggio 1852, per il Lombardo Veneto, comminava il carcere duro perpetuo che prevedeva anche: ferri ai piedi, lavoro obbligatorio, inasprimenti del digiuno, del giaciglio duro, dell'isolamento, della cella oscura, del bastone. Va segnalato che insieme alla pena del carcere a vita, tutti questi codici prevedevano anche la pena di morte, tranne il Codice toscano dopo il decreto di abolizione del 30 aprile 1859. Si veda Bernardi A., Ergastolo: verso un'effettiva pluridimensionalità della pena perpetua?, in "Archivio Giuridico Serafini, 1984, pp. 391 e ss., in particolare p. 398.

17. Il Progetto del Codice penale italiano del De Falco, del 26 febbraio 1866, prevedeva l'ergastolo come pena perpetua da scontarsi in case ubicate in una delle isole del Regno, con segregazione individuale di venti anni e, quindi, eventuale passaggio al lavoro in comune "sotto la disciplina rigorosa del silenzio (art. 15). Oltre all'ergastolo era prevista la pena dei lavori forzati a vita, da scontarsi in apposite case, con lavoro isolato o in comune (art. 16). Il Progetto 18 luglio 1867 prevedeva il solo ergastolo, come carcerazione a vita da eseguirsi in uno stabilimento di un'isola del regno, con segregazione continua dagli altri condannati, in cella, per tutta la vita e con l'obbligo del lavoro (artt. 11, 12, 19). Il progetto 15 aprile 1870 considerava come pena massima la pena di morte e prevedeva la reclusione a vita (art. 13), che avrebbe dovuto essere scontata con la sola segregazione notturna "e coll'obbligo del lavoro in comune e nel silenzio durante il giorno" (artt. 15 e 21). Col Progetto De Falco del 30 giugno 1873 l'ergastolo riprende il posto di massima pena: si scontava negli "ergastoli" situata in un'isola del Regno; dopo dieci anni di segregazione individuale il condannato poteva essere ammesso al lavoro in comune, con la regola del silenzio. Il Progetto Viglioni del 24 febbraio 1874 ristabilì la pena di morte pur riconfermando l'ergastolo con le stesse modalità esecutive del precedente Progetto. Anche il Progetto senatorio del 25 maggio 1875 conservò la pena di morte e definì l'ergastolo come il progetto Viglioni, aggiungendo soltanto le norme per il passaggio al lavoro in comune e per l'eventuale revoca "se il condannato non tiene buona condotta".

Il Progetto Mancini del 25 novembre 1876, tenuto conto delle proposte della Commissione ministeriale, riprodusse le disposizioni del Progetto senatorio, esclusa la pena di morte, ma ammise l'anticipato passaggio alla vita in comune se lo stato fisico o morale avesse reso al condannato intollerabile la segregazione e richiese per l'ammissione alla vita in comune e per la revoca secondo il criterio della condotta, anche il parere della Sezione d'accusa nel distretto dello stabilimento (artt. 11, 13 e 58).

La Relazione ministeriale sull'ultimo progetto Zanardelli (22 novembre 1887), fissato gli estremi di ogni pena carceraria nella segregazione cellulare notturna e nel lavoro, spiegava come l'ergastolo surrogasse la pena di morte e come ne fosse carattere essenziale la perpetuità. La segregazione cellulare continua cessava, dopo dieci anni, soltanto se il condannato avesse tenuto buona condotta: egli allora passava al lavoro in comune, ma con l'obbligo del silenzio. L'art. 11 del Progetto: "La pena dell'ergastolo è perpetua e si sconta in uno stabilimento speciale, dove il condannato rimane in segregazione cellulare continua, con l'obbligo del lavoro. Il condannato all'ergastolo, il quale abbia tenuto buona condotta, è ammesso, dopo dieci anni di segregazione continua, al lavoro in comune con altri condannati, con l'obbligo del silenzio".

18. Bernardi A., cit., p. 401.

19. Ivi, p. 402.

20. Si veda Aschieri A., voce Ergastolo, Il Digesto italiano, volume X, Utet, Torino 1895-1898. De Giulj E., voce Ergastolo, in Enciclopedia giuridica italiana, Vallardi, Milano 1906.

21. I dati sono stati reperiti in: Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano, 1903, pp. 354 e ss. Per la corrispondenza fra le pene applicate sotto l'impero dei Codici aboliti e quelle inflitte dal Codice Zanardelli, si sono seguite le norme dell'art. 20, primo comma, delle Disposizioni per l'attuazione del Codice penale Zanardelli. Ai condannati all'ergastolo corrispondono quindi per gli anni 1887/1899, i condannati morte, ai lavori forzati a vita o all'ergastolo, secondo gli aboliti Codici penali sardo e toscano.

22. La diminuzione che si osserva dopo il 1889 nel numero dei condannati all'ergastolo dipende dalla nuova legislazione entrata in vigore nel 1890. Il Codice penale Zanardelli restrinse, infatti, la pena detentiva a vita ad un minor numero di reati in confronto a quelli a cui il Codice sardo comminava la morte (convertita sempre, a apartire dal 1876, in condanna perpetua) od ai lavori forzati a vita.

23. Saltelli C., voce Ergastolo, in Nuovo Digesto Italiano, Utet, Torino 1938, p. 458.

24. Ibid.

25. Si veda Saltelli C., cit.

26. Gli artt. 148 del Codice penale e 106 del Regolamento prevedono che nel caso di infermità psichica sopravvenuta del condannato, prima o durante l'esecuzione della pena detentiva, il giudice possa differire o sospendere la pena e possa far ricoverare il condannato presso un manicomio giudiziario ovvero in una casa di cura e di custodia.

27. Relazione sul regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, n. XXXI: "Anche l'isolamento continuo è spogliato di ogni inutile rigore, perché i condannati che vi sono sottoposti sono ammessi al passeggio e si farà ogni sforzo per assicurare loro il lavoro remunerativo anche nella cella". Già con Circolare 10 dicembre 1921 si dispone che i sanitari possano attenuare il rigore della segregazione cellulare continua in casi speciali.

28. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

29. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

30. Nella relazione al Re è detto che: "Il mantenimento della pena carceraria perpetua quale anello intermedio tra la pena capitale e le pene carcerarie temporanee non credo abbia bisogno di giustificazione alcuna. Ma nella nuova legislazione la pena detentiva perpetua è stata spogliata di ogni inutile afflizione e di ogni superflua intensità dolorifica, essendosi per essa, come per le pene carcerarie temporanee, abolite, di regola, la segregazione cellulare continua, cioè diurna e notturna, che l'esperienza addita come fonte di abbrutimento, anziché di redenzione morale e cagione perenne di morbi che distruggono, con le forze fisiche, le forze intellettuali e morali dei condannati. Si è solo conservato l'isolamento notturno la cui necessità non può essere revocata in dubbio al fine di impedire, durante le ore di riposo notturno, quella promiscuità di vita fra i detenuti che è fonte non dubbia di vizi e di immoralità, oltre che d'inevitabile contagio criminale". Cattedra A., Venga E., Cattedra M., Notarella sull'ergastolo, in "Rivista penale", 1981.

31. L'art. 62 del Codice penale prevede sei attenuanti comuni:

  1. L'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale;
  2. L'avere agito in stato d' ira, determinato da un fatto ingiusto altrui;
  3. L'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dalla Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale, o professionale, o delinquente per tendenza;
  4. L'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità;
  5. L'essere concorso a determinare l'evento insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa;
  6. L'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'art. 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.

Circa l'applicazione delle diminuzioni di pena, premesso che l'art. 132, comma secondo, del Codice penale prevede che non si possano oltrepassare i limiti per ciascuna specie di pena, salvo i casi espressamente determinati dalla legge, nel caso di una sola attenuante, alla pena dell'ergastolo è sostituita la reclusione da 20 a 24 anni (art. 65, comma secondo, del Codice penale); in caso di concorso di più attenuanti la pena della reclusione non può essere inferiore a dieci anni per i delitti puniti con l'ergastolo (art. 67, conmma secondo, del Codice penale). Per approfondimenti si veda: Mantovani F., Diritto penale (parte generale), III ed., Cedam 1992, Padova, pp. 411 e ss. e pp. 803 e ss.

32. Corte costituzionale sentenza n. 176 del 1991, in "Rivista italina di diritto e procedura penale", 1991, p. 1025, con nota di Corvi.

33. Pubblicata in "Giurisprudenza costituzionale", 1994, 1267, con nota di E. Gallo, Un primo passo per il superamento dell'ergastolo, e di G. Gemma, Pena dell'ergastolo per i minori: davvero incostituzionale? Pubblicata anche in "Giurisprudenza italiana" 1995, I, p. 358, con nota di M. Ruotolo, L'illegittimità costituzionale della pena dell'ergastolo nei confronti del minore: un segno di civiltà giuridica.

34. Publicata in "Giurisprudenza costituzionale", 1993, p. 1105.

35. Il precedente più illustre è sicuramente rappresentato dalla nota sentenza della Corte Costituzionale 22 novembre 1974, n. 264 che fa esclamare Luigi Ferrajoli, Ergastolo e diritti fondamentali, "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 83: "Abbiamo così il paradosso che la pena perpetua è stata dichiarata legittima nella misura in cui è in realtà non-pepertua: dunque l'ergastolo, secondo la Corte, non esisterebbe nella realtà, ma solo nelle norme - non come pena scontata ma come pena minacciata - e proprio per questo non sarebbe necessario eliminarla dalle norme". Inoltre è possibile ricordare Corte Costituzionale, sentenza 22 dicembre 1964, n. 155 (in "Giurisprudenza costituzionale", 1964, p. 1179 e ss.) dove la Corte, escludendo l'incostituzionalità dell'art. 72 del Codice penale, a fortiori ritiene non incostituzionale anche l'art. 22 del Codice penale. Numerose sono poi le ordinanze di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzione del'ergastolo emanate dalla Corte di Cassazione: Sezioni Unite, 16 giugno 1956, in "Rivista di diritto penale", 1956, p. 485; 6 ottobre 1971, in "Giurisprudenza penale, 1972, II, p. 861; 15 dicembre 1972, Ivi, 1973, Ii, p. 418.

36. M. Chiavario, L'ergastolo al minorenne, in "Foro italiano", 1980, II, p. 617.

37. Corte di Cassazione, 28 febbraio 1980, in "Cassazione penale", 1982, p. 268, con nota di Martini, Ergastolo ed isolamento continuo: l'art 72 c.p. fra abrogazione ed incostituzionalità. In dottrina l'abrogazione dell'art. 72 per opera dell'art 33 della legge n. 354 del 1975 è sostenuta da Grevi V., Riduzione di pena e liberazione condizionale per i condannati all'ergastolo, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1978, p. 60; in senso contrario Fassone E., Riduzione di pena ed ergastolo: un contributo all'individuazione della pena costituzionale, ivi, 799.

38. In questo senso, E. Fassone, Riduzione di pena, op. cit., pag. 825, il quale esclude che la misura porti a "negare al condannato in isolamento ogni contatto con operatori penitenziari, educatori, esperti dell'osservazione e del trattamento" o che gli vieti "ogni possibilità di lettura, di corrispondenza e di colloquio".

39. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. 2, pag. 655, Utet, Torino 1981.

40. Circolare Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, 14 maggio 2002. "Isolamento diurno".

41. Circolare Dipartimento amministrazione penitenziaria, 732382-2/11 (6) del 20/02/1988. "Art. 33".

42. Secondo la Corte di Cassazione, 10 giugno 1992, Potorti, C.E.D Cassazione, n. 191381, ciascun periodo di carcerazione cautelare od esecutiva, pur avendo a suo tempo trovato causa in uno in uno o più deteminati titoli di custodia o in una o più determinate condanne, allorché si unificano le pene in sede esecutiva, non può essere specificamente riferito a taluna di queste, ma va imputato unitariamente al cumulo delle pene inflitte per tutti i reati commessi prima del suddetto periodo detentivo.

43. Cassazione, 30 settembre 1993, Cappai, ivi, n. 195435.

44. Corte di Cassazione, 1 aprile 1998, Leanza, ivi, n. 210568.

45. Corte di Cassazione, 30 settembre 1993, Cappai, ivi, n. 195435.

46. Corte di Cassazione, 2 maggio 1994, Cochis, ivi, n. 198923.

47. La Corte costituzionale con sentenza del 28 aprile 1994, n. 168, in "Cassazione penale", p. 2328, ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 73, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui, in caso di concorso di più delitti commessi da minore imputabile, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, prevede la pena dell'ergastolo".

48. Relazione ministeriale sul progetto di codice penale, n. 94.

49. Romano M., commento art. 73 del Codice penale, in Commentario sistematico del codice penale, Giuffrè, Milano 2003. Analogamente su questo punto: Nuvolone P., Norme penali e principi costituzionali, in "Giurisprudenza costituzionale", 1956, II.

50. Così Cassazione, 1 marzo 1991, Martino, C.E.D. Cassazione, n. 186929.

51. L'ergastolo non può essere inasprito mediante l'isolamento anche diurno per effetto della continuazione delittuosa (art. 81 c.p.), perché l'art. 72 c.p. riguarda soltanto il concorso materiale di reati.

52. Introdotto a seguito della sentenza 21 settembre 1983 n. 274 della Corte Costituzionale dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'originario art. 54 citato nella parte in cui non prevede la concedibilità della riduzione di pena anche al condannato alla pena dell'ergastolo.

53. Articolo aggiunto dall'art. 17 della Legge 10 ottobre 1986, n. 663.

54. Corte Costituzionale, ordinanza 20 luglio 1995, n 337. La Corte incidentalmente osserva che: "...la pena dell'ergastolo, nonostante il suo inquadramento nell'attuale tessuto normativo abbia, a determinati fini, provocato il venir meno della rigorosa caratteristica di perpetuità che all'epoca dell'emanazione del codice la connotava (v. sentenza n. 168 del 1994)", deve "considerarsi comunque una pena perpetua tanto da non ammettere scomputi che non incidano sulla natura stessa della pena (v. sentenza n. 270 del 1993); ciò sta a significare che, se a taluni fini, la pena dell'ergastolo può assumere i caratteri della temporaneità nel quadro di quelle misure premiali che anticipano il reinserimento come effetto del sicuro ravvedimento del condannato, da comprovarsi dal giudice sulla base non solo della buona condotta tenuta durante l'espiazione della pena, bensì, soprattutto sulla sua partecipazione rieducativa (v., ancora, sentenza n. 168 del 1994), non è possibile detrarre dalla pena inflitta la misura corrispondente all'indulto perché, altrimenti, si inciderebbe sulla natura stessa della pena quale irrogata in sede di cognizione con inevitabili riverberi non solo sulla misura ma sulla qualità della pena stessa".

55. Corte di Cassazione, 12 gennaio 1993, Pau, in "Giurisprudenza italiana", 1994, II, p. 509.

56. L'art. 4 della Legge 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario, garantisce ai detenuti e agli internati l'esercizio personale dei diritti derivanti dalla medesima legge, anche se si trovano in stato di interdizione legale.

La Corte Costituzionale con sentenza 14 luglio 1986, n. 183 (in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1988, 1477) ritenne costituzionalmente legittimo, con riferimento agli artt. 4 e 27 della Costituzione, l'art. 32 del Codice penale, interpretato nel senso che lo stato di interdizione legale permane anche nei confronti del liberato condizionalmente.

57. Così commenta Giovanni Fiandaca il principio contenuto nell'art. 27, 3º comma della Costituzione: "Proprio perché innovativo e di segno decisamente progressista, questo principio ha subito una vicenda tormentata sul triplice versante della sua ricezione giurisprudenziale, dottrinale e legislativa. A parte i margini (inevitabili?) di perdurante ambiguità insiti nell'idea stessa di rieducazione, è un fatto incontestabile che le prime interpretazioni del principio hanno avuto come obiettivo di contenere il più possibile la portata innovativa, in modo da collocarlo in una prospettiva di continuità rispetto all'ordinamento precedente. Da questo punto di vista, è dato registrare (soprattutto in dottrina) un'evoluzione interpretativa pressoché corrispondente al crescente peso esercitato dalle forze politiche progressiste, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta. Una corrispondenza analoga è, a maggior ragione, rinvenibile sul piano dell'attuazione legislativa del principio rieducativo, e ciò rispetto sia ai traguardi raggiunti, sia alle battute d'arresto.

Peraltro, la tradizionale lettura riduttiva della disposizione non ha per molto tempo, consentito di cogliere tutte le possibili implicazioni del principio di rieducazione, quale fondamentale criterio di politica criminale: la consapevolezza che una norma come quella di cui all'art. 27 3º co. non esaurisce il suo raggio d'azione entro lo spazio dell'esecuzione della pena, ma incide già sul piano della struttura del reato, comincia a farsi strada in seno alla nostra dottrina soltanto a partire dai primi anni settanta". Fiandaca G., Commento all'art 27, 3º comma della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di Giuseppe Branca, Zanichelli, Bologna 1991.

58. Molto brevemente si può dire che Scuola classica e Scuola positiva sono il nome dei due principali e contrapposti indirizzi della scienza criminalistica che a partire dalla metà del XVIII secolo tentarono di affrontare il problema della criminalità e della lotta contro di questa. La Scuola classica (i cui esponenti sono i filosofi e scienziati del diritto Beccaria, Pagano, Filangeri, Romagnosi e i giuristi Carmignani, Rossi e Carrara) si diffonde nell'ambiente politico-culturale dell'illuminismo e incentra la propria attenzione sui presupposti razionali della punibilità: il suo postulato è il libero arbitrio, cioè l'idea di uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni; essa pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto e la concezione etico-retributiva della pena. La Scuola classica teorizza un sistema penale che eserciti una funzione di prevenzione generale e speciale incentrato su tre principi fondamentali: 1-volontà colpevole; 2-imputabilità; 3-pena come retribuzione del male compiuto. La Scuola positiva (capostipite Lombroso, esponenti Ferri, Garofalo, Grispigni) si ispira alla teorie filosofico-culturali del Positivismo metodologico, che si sviluppa nel XIX secolo in opposizione al razionalismo illuministico: il suo postulato è il determinismo causale (il delitto cioè, come manifestazione necessitata di determinate cause e non estrinsecazione di una scelta libera). I positivisti pongono a base del diritto penale non la responsabilità etica ma la pericolosità sociale del soggetto e la concezione difensiva della sanzione penale. Gli autori di questa Scuola concepiscono un sistema penale fondato sull'idea "utilitaristica" della difesa sociale: i delinquenti vanno sottoposti a misure di sicurezza non proporzionate alla gravità del fatto, indeterminate e derogabili.

59. Camera dei deputati, Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea Costituente, VI, pag. 180.

60. Camera dei deputati, Ivi, VI, pag. 181.

61. Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, pag. 2502.

62. Ivi, pag. 2560 e ss.

63. Ivi, pag. 2573 e ss.

64. Ivi, pag. 2651 e ss.

65. Ivi, pag. 2878 e ss.

66. La Costituente fu quindi decisamente diversa dalla Relazione Rocco sul Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, approvato con Regio Decreto del 18 giugno 1931, n. 787, che aveva affermato la "necessità che il regime carcerario serva alla rigenerazione del condannato nell'interesse dell'individuo e della società. A parte questa finalità di emenda del condannato, che è fra le più nobili aspirazioni della coscienza moderna, sono preordinati i capisaldi della riforma".

67. Bernabei, Il problema della pena nel codice, nella Costituzione e nel progetto preliminare di riforma, in "Giustizia penale", 1951, sostenne: "La rieducazione può conseguirsi solo a condizione che la detenzione non si esaurisca in uno stato di isolamento coattivo, ma si arricchisca di un complesso di mezzi attivi opportunamente scelti con criteri di osservazione scientifici nei confronti delle diverse individualità dei condannati. (...) La norma costituzionale considera l'istituto della pena non solo sotto l'aspetto del suo non dover essere («le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità»): non facere; ma anche e principalmente sotto quello del suo dover essere («devono tendere alla rieducazione del condannato»): facere".

68. Anche nel Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena approvato con Regio Decreto del 18 giugno 1931, n. 787 ricorreva il termine "trattamento". Tale espressione manteneva, però, il più delle volte il precedente significato di regime di vita prescritto all'interno degli istituti. Solo in alcune disposizioni (artt. 51 e 238) essa si colorava, in parte, di quella terapeuditicità che ne contraddistingue attualmente il contenuto. Sotto questo profilo anche il regolamento del 1931 risultava in contrasto con lo spirito della Costituzione.

69. Luigi Ferrajoli, Ergastolo e diritti fondamentali, in "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 79, individua chiaramente i profili di contrasto tra la pena dell'ergastolo e l'art. 27 della Costituzione: "Innanzitutto la violazione del principio, stabilito dall'art. 27 della nostra Costituzione, secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». L'ergastolo è una pena disumana proprio perché, sopprimendo per sempre la libertà di un uomo, ne nega radicalmente l'umanità. In questo senso, oltre che disumana, essa è incompatibile con il principio della 'dignità ' del cittadino sancito dall'art. 3 della Costituzione. C'è poi un secondo e non meno vistoso profilo di illegittimità: il contrasto con il principio, parimenti stabilito dall'art. 27, 3º comma, della Costituzione, secondo cui «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Il solo significato che possiamo associare a 'rieducazione è quello di 'reinserimento sociale' o 'recupero sociale'".

70. Bettiol, Sulle massime pene: morte ed ergastolo, in "Rivista italiana diritto penale", 1956, p. 555, il quale accusò la Costituzione di "superficialità e compromesso" e sul punto affermò: "Ciò vale anche per la nostra Costituzione, tipica espressione di frettolosi compromessi là dove parla del finalismo penologico che non può essere preso alla lettera", concludendo che: "l'affermazione «finalistica» circa la pena rimane come una manifestazione platonica della presenza di una istanza hegeliana di sinistra entro le articolazioni della Costituzione o un «pio» voto di una «pietas» mentale non sufficientemente edotta circa i fondamenti razionali della pena".

71. Nuvolone P., Norme penali e principi costituzionali, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1956, II, pp. 1253 ss. affermò: "Il terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, che sancisce questi principi, è stato da taluni autori sopravvalutato e da altri sottovalutato: è una sopravvalutazione il ritenere che con esso la Costituzione italiana abbia senz'altro accettate e imposte come obbligatorie le tesi della difesa sociale: ma è una sottovalutazione il ritenere che esso non abbia nessuna efficacia precettiva, che si tratti di una semplice opinione teoretica. A questo proposito non voglio certo riproporre qui l'annosa disputa sulla distinzione tra norme programmatiche e norme precettive; ma devo ripetere per chiarezza quanto ebbi già a scrivere altra volta, e, cioè, che anche le norme cosiddette programmatiche a meno che non siano generiche, e cioè prive di un contenuto univoco, hanno un'efficacia precettiva immediata, data la loro natura di norme che statuiscono principi obbligatori per tutti i cittadini e per tutti gli organi dello Stato. E pertanto, i principi di umanizzazione e di rieducazione non rappresentano solo direttive per il legislatore futuro, ma anche principi aventi un valore positivo attuale nell'ambito della legislazione vigente: nel senso di produrre l'eventuale caducazione di norme ed istituti contrastanti con essi e di imporre agli organi amministrativi criteri esecutivi che con essi non siano in contrasto".

72. Corte Costituzionale, 5 giugno 1956, in "Rivista italiana di diritto penale", 1956, p. 299 e, in particolare, pp. 305-306, con nota di Nuvolone, Norme costituzionali e leggi penali anteriori alla Costituzionale.

73. Bettiol, Sulle massime pene, op. cit. p. 565: "C'è, invero una rieducazione «interiore» dell'uomo, una conversione dal male al bene che trova proprio nell'isolamento la condizione più adatta al suo manifestarsi e al suo consolidarsi in termini di spiritualità, mentre non è affatto dimostrato come, sulla base di una riforma umana delle modalità di esecuzione dell'ergastolo, non si possa realizzare un minimo di vita sociale all'interno dello stabilimento carcerario nel cui ambito possa concretamente manifestarsi la avvenuta «rieducazione».

74. Bettiol, Sulle massime pene, op. cit. p. 557.

75. Bettiol, Sulle massime pene, op. cit. p. 558.

76. Bernardi A., Ergastolo: verso un'effettiva pluridimensionalità della pena perpetua?, in "Archivio Giuridico Serafini, 1984, pp. 391 ss., in particolare p. 408.

77. Messina, Il problema dell'ergastolo, in "Scritti in onore di A. De Marsico", vol. II, 1960, p. 200. L'Autore osservò come la rieducazione morale "non può essere considerata al di fuori dei limiti del dettato di cui all'art. 27 Cost. Ma la rieducazione morale vi può essere ricompresa soltanto nei limiti in cui essa sta alla base della rieducazione sociale".

78. Sezioni Unite Cassazione, 16 giugno 1956, in "Rivista italiana di diritto penale", 1956, p. 485, con nota di Dall'Ora, L'ergastolo e la Costituzione.

79. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

80. Sulle possibili ragioni dell'insufficiente attenzione dedicata alla natura di pena fissa dell'ergastolo: Bricola, Pene pecuniarie, pene fisse e finalità rieducativa, in AA.VV. "Sul problema della rieducazione del condannato: Atti del II Convegno di diritto penale", Cedam, Padova 1964, p. 202, secondo cui può "sembrare singolare" che il problema della costituzionalità dell'ergastolo "si sia posto solamente con riguardo al rapporto tra la perpetuità della sua durata e l'impossibilità di un teleologismo rieducativo dello stesso in sede esecutiva, senza fare riferimento alla sua fissità astratta". Secondo Paliero, Pene fisse e Costituzione: argomenti vecchi e nuovi, in "Rivista italiana di diritto processuale e penale", 1981, p. 730, la spiegazione della scarsa attenzione al carattere 'fisso' dell'ergastolo' "è dovuta al carattere di argomento 'troppo tecnico e neutrale' di fronte ad una pena eliminatrice, che con la sua perpetuità coinvolge così drammaticamente il destino sociale e l'essenza stessa della vita umana".

81. L'art. 1 comma terzo del Decreto Legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito dalla Legge 6 febbraio 1980 n. 15 e concernente "Misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica" prevedeva, infatti: "Le circostanze attenuanti concorrenti con l'aggravante di cui al primo comma non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa ed alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria di reato".

82. Gallo E., Significato della pena dell'ergastolo. Aspetti costituzionali, in "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 71.

83. Ferrajoli L., Ergastolo e diritti fondamentali, op. cit., p. 84.

84. Corte Costituzionale, 15 maggio 1963, n. 67, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1963, pp. 575 e ss.

85. Dove si affermava che: "il principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è personale, va inteso, oltre che nel senso di rapportabilità fisica e psichica del fatto-reato al suo autore, anche in quello della necessaria personalità della pena, la quale in considerazione dei fini di emenda e di rieducazione attribuitele dallo stesso art. 27 non potrebbe che adeguarsi, con i criteri di cui all'art. 133. c.p. non soltanto all'entità del fatto ma anche alla personalità del colpevole". Tribunale di Napoli, 27 marzo 1962, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1962, p. 1044.

86. Corte Costituzionale, 2 aprile 1980, n. 50 in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1981, p. 725, con nota di Paliero, Pene fisse e Costituzione: argomenti vecchi e nuovi.

87. E' un principio questo che la Corte ha enunciato riguardo ad una norma che conteneneva la comminatoria fissa sia di una pena detentiva sia di una pena pecuniaria, per questo motivo per la prima parte, appariva applicabile anche all'ergastolo. Gallo, Significato della pena dell'ergastolo. Aspetti costituzionali, cit., p. 72.

88. Bricola, Pene pecuniarie, pene fisse e finalità rieducativa, cit., p. 203.

89. Grispsigni F., Regresso di un secolo nella legislazione penale, in "Scuola positiva", 1949, p. 329 ss.

90. Grispigni F., op. cit., p. 331, osservò che la disposizione dell'art. 140 violasse il comando costituzionale "in modo clamoroso e macroscopico".

91. Relazione al progetto di riforma del Codice penale, paragrafo 86.

92. La stessa dottrina della Chiesa stabilì, attraverso un intervento del Papa Pio XII nel discorso ai partecipanti al VI Congresso Nazionale dell'Unione dei giuristi cattolici che "non sarebbe giusto respingere in principio e totalmente la funzione della pena vendicativa". Sul punto Cabri R., La pena dell'ergastolo: storia, costituzionalità e prospettive di un suo superamento, in "Rivista penale", 1990, p. 525.

93. La grazia concessa dal Presidente della Repubblica è, infatti, un provvedimento eccezionale che può essere adottato solo per richiesta del condannato o di un suo prossimo congiunto e non un provvedimento da adottarsi nei confronti di tutti gli ergastolani su iniziativa che non parta dal condannato stesso.

94. Cassazione, Sezioni Unite, 16 giugno 1956, in "Rivista italiana di diritto penale", 1956, p. 485.

95. Sezioni Unite Cassazione, 16 giugno 1956, in "Rivista italiana di diritto penale", 1956, p. 485.

96. Sezioni Unite Cassazione, 16 giugno 1956, op. cit., 1956, p. 492. Iovane, La questione dell'illegittimità costituzionale dell'ergastolo e il potere giudiziario, in "Foro italiano", 1956, II, p. 145, sul rigetto per "manifesta infondatezza" affermò: "Mentre in genere l'istituto della 'manifesta infondatezza' in procedura si identifica con le cause di inammissibilità (art. 207, 524 c.p.p.) senza margini di discrezione per il giudice, e, mentre la motivazione in questi casi si assolve abitualmente con l'estrema parsimonia dei moduli a stampa anche da parte della Cassazione, nel caso nostro, per giungere al modesto traguardo del rigetto per infondatezza ictu oculi, le Sezioni Unite hanno dovuto far ricorso a sottili disquisizioni di diritto all'indirizzo di questa o di quella scuola giuridica sulla ragione della pena e perfino alla tanto discussa e discutibile coesistenza delle pene e delle misure di sicurezza, in difformità della «sobria delibazione» premessa espressamente nell'ordinanza. Infatti, le Sezioni unite hanno sentito il bisogno di motivare l'ordinanza con «un'esegesi penetrante» di tutti i commi e di tutti i riflessi dell'art. 27 della Costituzione con lontani richiami legislativi fino al ricordo del regolamento carcerario".

97. Sezioni Unite Cassazione, 16 giugno 1956, op. cit., p. 486.

98. Esula dall'oggetto del presente studio il problema dei limiti di competenza fra Corte di Cassazione e Corte Costituzionale. Sul punto, con riferimento all'ordinanza in questione, Calamandrei, Sulla nozione di manifesta infondatezza, in "Rivista di diritto processuale", 1956, II, p. 164; Dall'Ora, L'ergastolo e la Costituzione, cit., 485 e in particolare, p. 489: "Sono perplesso se (gli argomenti della Corte di Cassazione N.d.A.) convincano della infondatezza manifesta.

Non tanto in ordine alla compatibilità della pena dell'ergastolo con il primo inciso del terzo comma dell'art. 27, che qui mi pare non possa davvero discutersi: quanto in ordine al secondo inciso. Penso, come dicevo dianzi, che neanche questo debba intendersi come riferito all'applicazione concreta e non ai tipi astratti di pena; ma qui non può parlarsi di evidenza letterale ed assoluta che colpisca icto oculi. Non basta una «sobria delibazione».

Se occorre, per convincere della infondatezza, fare ricorso ad una serie di argomenti che sorreggano l'interpretazione esatta, vuol dire che l'infondatezza c'è, ma non è manifesta. La soluzione della questione è certa, ma per conseguire la certezza occorre discuterne. Bisogna far luogo ad un certo vaglio di argomenti e ad una certa selezione di ragioni giuridiche per giungere alla esclusione di dubbi possibili. Ciò perché dunque il dubbio non si presenta in limine come insano o palesemente aberrante, anche se risulta, alla fine, certamente infondato.

Ecco perché mi pare che quanto meno in ordine al secondo inciso la motivazione di questa elaborata e perspicua sentenza avrebbe dovuto essere motivazione di sentenza della Corte Costituzionale".

99. Dall'Ora, L'ergastolo e la Costituzione, op. cit., p. 490.

100. Dall'Ora, L'ergastolo e la Costituzione, op. cit, p. 486.

101. Dall'Ora, L'ergastolo e la Costituzione, cit, p. 491: "Un modo per migliorare concretamente il sistema positivo potrebbe essere, a mio avviso, quello della introduzione anche in ordine alla pena dell'ergastolo, dell'istituto della liberazione condizionale. Fissato un termine cronologico, potrà stabilirsi che dopo la sua decorrenza debba giudicarsi del grado di rieducazione cui il condannato sia pervenuto, ai fini della concessione della libertà sub condicione. Mi par giusto che se una tale riforma fosse introdotta, dovrebbe peraltro prevedersi la possibilità di commisurare il suddetto termine cronologico all'età del condannato: altrimenti nelle ipotesi di età avanzata dell'ergastolano il proposto moderame rischierebbe di essere per forza di cose inoperante. Alla luce dei principi costituzionali mi parrebbe questo un mezzo più che la grazia idoneo a favorire, come valido e pratico incentivo, l'effettivo riadattamento sociale del condannato. Meno della grazia prossimo all'arbitrio: ancor meglio se potesse esser regolato anziché come una procedura amministrativa, piuttosto secondo forme di accertamento giudiziario, con la previsione di più gradi giurisdizionali, in virtù della maggiore garanzia del vaglio intorno ai presupposti per la concessione del beneficio, se viene compiuto dal Magistrato".

102. Iovane, La questione dell'illegittimità costituzionale dell'ergastolo e il potere giudiziario, op. cit.

103. Iovane, La questione dell'illegittimità costituzionale dell'ergastolo e il potere giudiziario, op. cit., p. 148.

104. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

105. Bettiol, Sulle massime pene, cit.; Cigolini F., Sull'abolizione della pena dell'ergastolo, in "Rivista penale", 1958, I; Ferrante U., Aboliamo l'ergastolo?, in "Giustizia penale", 1956; Geraci L., L'estensione del beneficio della liberazione condizionale ai condannati all'ergastolo, in "Critica penale", 1956; Virotta I., Costituzione e pena dell'ergastolo, in "Rivista penale", 1956.

106. Per le riforme introdotte dal Codice Rocco e dal Regolamento penitenziario del 1931 si veda i § 1.2.

107. Va ricordato che anche i sostenitori della "rieducazione interiore" concordavano nell'auspicare "la trasformazione delle condizioni nelle quali il condannato è chiamato ad espiare la pena" e l'introduzione della liberazione condizionale quale ulteriore "valvola" da affiancare alla grazia, "trascorso un determinato periodo di tempo e accertata l'emenda del reo". Bettiol, Sulle massime pene, cit., pp. 565-566. A favore dell'introduzione della liberazione condizionale anche Cigolini, Sull'abolizione della pena dell'ergastolo, cit., p. 304.

108. Cigolini, Sull'abolizione della pena dell'ergastolo, cit., p. 301: "Ecco perché, secondo il nostro ordinamento giuridico, le finalità precipue delle pene in genere, ed in particolare di quella dell'ergastolo, sono la forza intimidatrice, il carattere remunerativo e la tutela della società". Geraci L., L'estensione del beneficio della liberazione condizionale ai condannati all'ergastolo, op. cit., pag. 138: "La redenzione se è uno dei fini che persegue la pena non è certamente il solo e il dubbio mi viene offerto dallo stesso Pannain il quale incisivamente, inquadrando il problema in una realtà che non si distrugge diversamente ha chiarito che la pena altro non è che il mezzo per il raggiungimento di uno scopo il quale consiste nella difesa della società per cui la rieducazione del condannato potrà rappresentare solo ed eventualmente un consigliabile carattere della pena, una specie della modalità di esecuzione".

109. Ferrante U., Aboliamo l'ergastolo?, cit., 306: "Del pari è erroneo affermare che l'ergastolo è in contrasto con la norma costituzionale in quanto impedirebbe la rieducazione del condannato rendendo inattuabile il suo reinserimento nella vita sociale. La rieducazione è un fatto spirituale e non deve necessariamente identificarsi con la possibilità di ritornare alla vita normale; può considerarsi socialmente rieducato anche chi deve trascorrere la sua vita tra i carcerati perché anche questi fanno parte della società, salvo che, a voler esser a tutti i costi pietisti, non si arrivi all'eccesso opposto di considerare i detenuti come esseri fuori della società umana".

110. Cigolini, Sull'abolizione della pena dell'ergastolo, cit., p. 298, affermò: "Gli abolizionisti dell'ergastolo, per risolvere radicalmente e sollecitamente la questione, hanno sostenuto che le norme del codice penale (art. 17 e 22) le quali prevedono l'ergastolo, sono viziate di illegittimità costituzionale, essendo a loro dire, in contrasto con la lettera e lo spirito dell'art. 27 della Costituzione il quale dispone che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione dei condannati. Ma tale tesi è infondata, perché la citata norma, anche se si considera precettiva e non puramente programmatica, si attiene esclusivamente al trattamento da farsi al detenuto durante l'espiazione della pena, e interessa, perciò, soltanto il diritto penitenziario e non già il diritto penale. L'ultimo capoverso della citata norma invece incide sul diritto penale sostanziale perché si riferisce alle pene da conservare, disponendo l'abolizione della pena di morte. Pertanto il legislatore costituente, pur avendo preso in esame la natura delle pene contemplate dal codice penale, ha ravvisato, non più confacente alla nostra civiltà, soltanto la pena capitale ma non già quella dell'ergastolo".

111. Ferrante U., Aboliamo l'ergastolo?, cit., 305, affermò: "A nessuno può sfuggire che se l'abolizione della pena di morte, con il ripristino delle attenuanti generiche e la conservazione dell'ergastolo, ha portato ad un abbassamento del livello delle pene in genere, l'abolizione, sic et simpliciter, dell'ergastolo condurrà ad un ulteriore abbassamento e, quel che è più da temere, ad un ingiustificato, antigiuridico ed antimorale appiattimento".

112. Carnelutti, La pena dell'ergastolo è costituzionale?, in "Rivista diritto processuale", 1956, I, p. 2: "La rieducazione penale sarebbe, quando perpetua, una rieducazione a vuoto. O, almeno, una rieducazione in funzione morale non in funzione sociale; e perciò non la rieducazione voluta dalla Costituzione".

113. Vassalli, Altavista, Di Gennaro, Progressione del trattamento - Semilibertà - Liberazione condizionale - Grazia, in "Rassegna di studi penitenziari", 1963, p. 5.

114. E' da costatare come, in quegli anni, la dottrina prendeva atto di come la pena, con il suo contenuto rieducativo, sembrasse essere ontologicamente destinata ad una popolazione carceraria di soli emarginati da reinserire nella comunità dei consociati. Conseguentemente, infatti, la sanzione penale, da un lato, rivelava il suo carattere implicitamente ed indirettamente classista, dall'altro finiva con l'assumere funzioni esclusivamente afflittive e retributive nei confronti di quei soggetti che tanto per il tipo di reato commesso, quanto per la loro personalità e posizione, non abbisognavano di rieducazione, quanto meno nel senso non strettamente morale della nostra normativa. Per Dolcini, La "rieducazione del condannato" fra mito e realtà, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1979, p. 480, nei confronti dei soggetti le cui "carenze di socialità non risalgono a 'carenze di formazione, in particolare quindi nei confronti dei 'detentori del potere economico che realizzano fatti lesivi di interessi collettivi' e dei delinquenti politici, la pena non potrà operare che in termini di intimidazione; le sue potenzialità rieducative risulteranno sostanzialmente affidate alle connotazioni di afflittività". Infatti: "Esiste anche per tali soggetti 'un bisogno di rieducazione', vale a dire l'esigenza di creare condizioni favorevoli perché possano vivere nella società nel rispetto delle sue regole. La pena detentiva, con i contenuti e le modalità esecutive attuali, deve però limitarsi, nei loro confronti, ad un'azione di 'neutralizzazione' - per il tempo dell'esecuzione - e di 'ammortamento' - per il tempo successivo".

In tutti i casi, con riferimento all'istituto dell'ergastolo, così come oggi è disciplinato, tale problematica non si pone. Infatti, il periodo di reclusione necessario per essere ammessi alla liberazione condizionale è talmente lungo da imporre l'adozione di ogni strumento rieducativo, nel tentativo di risocializzare l'emarginato 'ab origine' e di arginare il processo di desocializzazione e di degrado psicologico che tende generalmente a manifestarsi in tutti i detenuti, quale che sia la loro indole o classe sociale. Bernardi, Ergastolo: verso una effettiva 'pluridimensionalità' della pena perpetua?, op. cit., p. 412.

115. Un disegno di legge per un nuovo ordinamento penitenziario è approvato dal Consiglio dei Ministri l'11 giugno 1960 e pubblicato nel supplemento del fascicolo IV di "Rassegna di studi penitenziari", 1960, p. 175.

116. Proposta di legge relativa all'abolizione dell'ergastolo (n. 157), presentata dai deputati Buzzelli, Gullo, Zoboli, Silvestri, Pino, Guidi; in "La giustizia penale", 1959, I, p. 16.

117. Proposta di legge per commutazione della pena dell'ergastolo in pena temporanea (n. 179), presentata su iniziativa dei deputati Berlinguer, Targetti, Amadei, Comandini, Ferri, Greppi, Musotto, Pinna, Paolucci, Silvio, il 30 luglio 1958, in "La giustizia penale", 1959, I, p. 20.

118. Rossi P., Abolizione o commutazione dell'ergastolo - Relazione per la prima commissione della Camera dei deputati, in "La giustizia penale", 1959, I, p. 15.

119. Affermò, infatti, Rossi nel parere: "La pena dell'ergastolo, suprema espiazione riservata ai più atroci delitti, e minaccia rivolta ai più terribili delinquenti, non può nelle attuali condizioni storiche, considerarsi contraria al senso di umanità (art. 27 della Costituzione), se si pensa che essa è in vigore pressoché dovunque, anche in paesi che non hanno, come il nostro, soppresso la pena di morte e che offrono statistiche criminali meno pesanti". Rossi P., op. cit., p. 19.

120. "L'ergastolo non è assolutamente inconciliabile con il disposto dello stesso art. 27 Cost., per cui le pene 'debbono tendere alla rieducazione del condannato', sia perché in tale tendenza è uno dei fini della pena, ma non certo l'unico e nemmeno il principale; sia perché per rieducazione non si intende la sola riabilitazione sociale, con restituzione del condannato alla vita libera, e inconciliabile quindi con l'ergastolo, ma anche il ripristino minimo etico nell'autore di atroci delitti; sia infine, 'perché l'ergastolo non esclude affatto, in caso di constatata rieducazione, il ritorno alla vita associata, attraverso la grazia". Rossi P., op. cit., p. 19.

121. Buzzelli A., L'art 27 della Costituzione e l'abolizione dell'ergastolo, in "La Giustizia penale", 1959, I, p. 206.

122. Buzzelli A., op. cit., p. 208: "Il carcere è inumano anche se condotto con trattamenti umani". Partendo da questa affermazione il Buzzelli torna anche sul tema dell'illegittimità costituzionale dell'ergastolo: egli ritiene che l'esistenza dell'art. 27 comma 3 Cost. fosse sufficiente per considerare l'ergastolo incostituzionale, poiché in contrasto con la finalità rieducativa della pena.

123. Buzzelli A., op. cit., p. 209.

124. Buzzelli A., op. cit., p. 210.

125. Buzzelli A., op. cit., p. 211.

126. Carnelutti F., La pena dell'ergastolo è costituzionale?, "Rivista italiana diritto processuale", 1956, p. 1.

127. Così le definì Cigolini, in Sull'abolizione della pena dell'ergastolo, cit., p. 301: "Queste considerazioni che vogliono essere giuridiche, sociali, etiche e religiose insieme, hanno poca consistenza per risolvere il problema propostomi".

128. Carnelutti F., op. cit., p. 3: "Se la pena, secondo la Costituzione, deve tendere alla rieducazione, segregare un uomo dalla società per sempre vuol dire ritenerlo ormai non rieducabile. Il giudice non può condannarlo all'ergastolo senza dirgli: tu sei, ormai, un uomo perduto. Diversa è la portata fisica, ma identico il contenuto logico della condanna all'ergastolo e della condanna a morte: una dichiarazione di morte morale. In verità la sola giustificazione della pena di morte sta nel considerare il condannato moralmente perduto; allora la sua uccisione è equiparabile a quella di un animale pericoloso; a questo patto soltanto l'uccisione giudiziaria non è un omicidio. Ma se un colpevole non si considera moralmente perduto neppure lo si può condannare all'ergastolo. Ecco perché, com'è contraria al principio di rieducazione, così la pena dell'ergastolo è un trattamento inumano. Il vero è che soltanto in quanto tende alla rieducazione, la pena si risolve in un trattamento umano".

129. Carnelutti F., op. cit., p. 4. "In realtà l'ergastolo è figlio della concezione retributiva ed intimidativa della pena. La tariffa della proporzione tra pena e delitti, com'è stabilita dalle leggi vigenti, in ordine alla retribuzione e non alla rieducazione, è uno degli aspetti più arretrati per non dire più indecorosi del nostro ordinamento giuridico. Il dosaggio del malum passionis in anni, mesi e giorni secondo la gravità di un imponderabile malum actionis è quasi sempre meno serio del calcolo di Shylock quando pretendeva di valutare in una libbra di carne l'inadempimento del suo debitore. Sotto questo aspetto l'inumanità della pena sta in ciò che si attribuiscono al giudice poteri, i quali suppongono una capacità che l'uomo non possiede".

130. Possiamo ricordare Cigolini, in Sull'abolizione della pena dell'ergastolo, cit., p. 301: "Il punto più debole dell'opinione da me contrastata, consiste nel voler assegnare alla pena la sola finalità della rieducazione del condannato: qui si mostra tutta l'unilateralità, e l'insufficienza di tale assunto, perché il problema della pena non è solo il problema dell'uomo che ha delinquito, ma è anche e soprattutto quello della vittima, di tutte le altre vittime potenziali, insomma dell'intera società percossa dal delitto, la quale esige che il suo offensore sia punito adeguatamente, perché altrimenti se la pena si rendesse sempre più incerta e illusoria, i cittadini offesi finirebbero col perder qualsiasi fiducia nella giustizia e sarebbero indotti a rendersi ragione con le proprie mani". In questo senso anche Ferrante U., Aboliamo l'ergastolo?, cit., Messina, Il problema dell'ergastolo, cit., Virotta I., Costituzione e pena dell'ergastolo, cit.

131. Nuvolone P., Norme penale e principi costituzionali, in "Giurisprudenza Costituzionale" 1956, II, pp. 1253 ss.

132. Nuvolone P., op. cit., pag. 1257.

133. Durante la discussione della Prima Sottocommissione per la Costituente, gli Onorevoli Terracini e Nobile proposero, come già detto, di inserire nel terzo comma dell'art. 27 della Costituzione (allora in realtà, art. 21) la frase: "Le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di 15 anni".

134. Conti, La pena e il sistema penale del codice italiano, in "Enciclopedia del Pessina", vol. IV, 1910, p. 155: "L'Onorevole Panattoni aveva proposto alla Camera (Tornata del 4 giugno 1888) di istituire 'il condono della pena perpetua al condannato che nel volgere di venti anni avesse dato prova di ravvedimento'".

135. Fu abbandonata così "la vecchia concezione penitenziaria della liberazione condizionale come premio al buon detenuto, a prescindere da un esame sul suo effettivo recupero per la società, sul suo ravvedimento". Vassalli, Funzione rieducativa della pena e liberazione condizionale, in "Scuola positiva", 1964, p. 403, in particolare p. 406. Vassalli rilevò, poi, come il testo del 1º comma dell'art. 176 nuova versione riecheggiasse il 1º comma dell'art. 16 del Codice penale del 1889, per il quale poteva ottenere la liberazione condizionale il condannato a pene detentive di una certa durata che "avesse tenuto tale condotta da far presumere il suo ravvedimento". Con riguardo al concetto di "ravvedimento", ricomparso dopo alcuni decenni, osservò ancora Vassalli, Ibid.: "Il riferimento al 'ravvedimento' del condannato non deve trarre in inganno circa i suoi reconditi significati di omaggio a questa o a quella concezione della pena. Certo essa implica anche, almeno nel maggior numero dei casi, il morale pentimento per il male commesso, ma non si esaurisce in questo.

Esso non può significare altro se non il conseguimento da parte del condannato della effettiva capacità di reinserirsi in modo ordinato nella società, in particolare della garanzia che egli dà di non commettere ulteriori reati".

136. La portata e gli effetti della riforma hanno una gran rilevanza nei confronti dei minorenni, dal momento che, per questi, valeva la regola dell'art. 21 del Regio Decreto Legge 1934, n. 1404 che al comma primo stabiliva che: "La liberazione condizionale dei condannati che commisero il reato quando erano minori degli anni diciotto può essere ordinata dal Ministro in qualunque momento dell'esecuzione e qualunque sia la durata della pena definitiva inflitta".

137. Sentenza 4 luglio 1974 n. 204 della Corte Costituzionale, in "Giurisprudenza costituzionale", 1974, p. 1708, che dichiarò l'illegittimità costituzionale - per contrasto con l'art. 24 comma primo della Costituzione - dell'art. 43 del Regio Decreto 28 maggio 1931 n. 602 che attribuiva al Ministero della Giustizia la facoltà di concedere con proprio decreto la liberazione condizionale. Tale attribuzione passò così all'autorità giudiziaria. Sul punto si veda infra.

138. Il Regio Decreto 19 giugno 1931, n. 787 (Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena) prevedeva, com'è noto, appositi stabilimenti di pena per i condannati all'ergastolo (artt. 23 e 24).

139. Bernardi, Ergastolo: verso una effettiva ' pluridimensionalità' della pena perpetua?, cit., p. 418 definisce 'trattamento' "una terapia di riadattamento sociale sottoposta a precise regole e limiti, tesi a tutelare i condannati contro tecniche 'manipolatrici' imposte, atte a modificarne in modo prestabilito la personalità. Nel rispetto della libertà interiore del condannato, gli interventi rieducativi devono consentire quella maturazione dei soggetti reclusi che sola può condurli a aderire ai fondamentali valori sociali sottesi, come denominatore comune al nostro pluralismo culturale". Al di là quindi di quanto previsto dall'Ensemble de régles minima pour le traitement des détenus adottato dall'ONU il 30 agosto 1955 e, in una più avanzata versione, dal Consiglio d'Europa il 19 gennaio 1973, con il concetto di 'trattamento' si deve fare riferimento ad un'offerta di strumenti a sfondo rieducativo che, pur prefiggendosi di modificare gli atteggiamenti di vita della persona, postula sempre la piena dignità di questa.

140. Malinverni, Esecuzione della pena detentiva e diritti dell'individuo, "Indice penale", 1973, p. 20.

141. La durata minima dell'isolamento diurno passa, in caso di concorso di delitti che comportassero tutti la pena dell'ergastolo, da un anno a sei mesi, e la durata massima da cinque anni a tre; nel caso poi di concorso di delitto che importasse la pena dell'ergastolo con uno o più delitti che comportassero pene detentive temporanee, superiori a cinque anni, il periodo minimo passava da sei mesi a due e il massimo da quattro anni a tre.

142. Siniscalco, I principi del sistema penale e la Costituzione, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1976, p. 1128, affermò: "Il terzo comma dell'art. 27 delinea i caratteri e i contenuti della pena, sanzione penale 'primaria': le interpretazioni che, richiamando le basi filosofiche della pena e della sua relativa funzione, hanno cercato - secondo un orientamento tipicamente concettualistico - di ridurre il significato della disposizione fino a svuotarla sostanzialmente di contenuto, per farne una semplice indicazione di 'modi di applicazione sembrano urtare contro la lettera e insieme contro la ratio della disposizione".

143. Cesa-Bianchi e Belloni, Profili di intervento dello psicologo nell'esecuzione penitenziaria, in "Alternative alla detenzione" 1982, pp. 269 e ss.: gli autori dopo aver rilevato che il legislatore "non si è espresso affatto circa le modalità dell'osservazione scientifica, lasciando carta bianca al tecnico di volta in volta chiamato a tale compito", delineano "i limiti logici e giuridici dell'osservazione scientifica, desumendoli anche dai principi generali del sistema processuale".

144. Margara, Aspetti pratico-operativi delle misure alternative alla detenzione, in F. Mantovani (a cura di) "Pene e misure alternative nell'attuale momento storico", Giuffrè, Milano 1977, p. 48 e ss, pose in luce le cause della "gestione sostanzialmente indulgenziale" della liberazione condizionale operata dal Ministero fino al 1974 ed in seguito dalle Corti d'Appello, che rendono tale istituto "più che mai oggi una specie di lontana giustizia sovrana".

145. Vassalli, La liberazione condizionale dall'amministrazione alla giurisdizione, in "Giurisprudenza costituzionale", 1974, p. 3527.

146. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

147. Oltre ai Progetti Grassi del 1949 e Moro del 1956 citati, negli anni si succedettero i Progetti Gonella del 1960, Leone del 1963, Reale del 1968, che, però, non furono approvati e che inoltre furono criticati, poiché lasciavano immutate le strutture portanti del sistema penale.

148. Disegno di legge approvato dal Senato il 2 luglio 1971, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1971, p. 863 e ss.

149. Disegno di legge approvato dal Senato il 31 gennaio 1973, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1973, p. 827 e ss.

150. Cabri, La pena dell'ergastolo: storia, costituzionalità e prospettive di un suo superamento, cit., p. 529, affermò: "E' comunque certo che la riforma parziale di un codice è un palliativo necessario in attesa della creazione di un nuovo codice, enorme lavoro che comporterebbe lunghi anni".

151. Marinucci G., Politica criminale e riforma del diritto penale, in "Jus", 1974, pp. 464 ss., in particolare p. 487.

152. Ibid.

153. Una pronuncia di manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale relativo alla pena dell'ergastolo fu emessa il 24 gennaio 1964 (cioè in seguito all'approvazione della legge n. 1634) dalla Corte d'assise di appello di Milano (in "Giurisprudenza costituzionale", 1964, p. 389). L'ordinanza di questa corte faceva soltanto un breve riferimento alla Legge 25 novembre 1962, n. 1634, segno che anche per la giurisprudenza detta riforma non era stata idonea ad influire sull'essenza della pena. Per il resto, oltre ad accentuare il carattere interiore e morale della rieducazione e proporre, secondo l'insegnamento del Bettiol (Sulle massime pene: morte ed ergastolo, cit.) che l'accettazione del principio rieducativo in termini sociali e di relazione avrebbe determinato l'incostituzionalità delle pene temporanee, l'ordinanza non innovava riguardo all'art. 22 del Codice penale. La Corte d'assise d'appello di Milano sollevò nella stessa ordinanza l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 72 del Codice penale che, prevedendo nel caso di "concorso di reati che importano l'ergastolo e di reati che importano pene detentive temporanee", l'applicazione di detta pena con l'isolamento diurno che variava secondo il reato concorrente, sarebbe venuta a violare il principio di umanità sancito nell'art. 27 terzo comma della Costituzione, perché avrebbe posto in essere un trattamento non giustificato da alcuna necessità e quindi inumano. Sulla questione sollevata dalla Corte d'assise d'appello di Milano, la Corte costituzionale, con sentenza 22 dicembre 1964, n. 115 (in "Giurisprudenza costituzionale", 1964, p. 1179) si pronunciò nel senso della non fondatezza, osservando che "l'isolamento diurno del condannato all'ergastolo per la funzione cui adempie secondo il diritto vigente, per i limiti e le modalità attuali della sua applicazione, non può ritenersi misura contraria al senso di umanità".

154. Corte d'assise di Verona, ordinanza 11 marzo 1972, in "Giurisprudenza costituzionale", 1972, p. 1808.

155. In particolare, in tale ordinanza si ritenne che l'istituto dell'ergastolo implicasse "l'impossibilità del condannato di reinserirsi nella società" poiché "la funzione assegnata dalla Costituzione alla pena è ben diversa dagli eventuali temperamenti che di volta in volta vengono addotti per mitigare il rigore della pena facendo ricorso ad altri istituti giuridici". Ivi, p. 1810.

156. Anche la Corte costituzionale Federale della Repubblica Federale Tedesca, con sentenza del 21 giugno 1977, in "Neue Juristiche Wochenschrift", 1977, p. 1525, ha ritenuto compatibile, con la Costituzione tedesca, la pena dell'ergastolo. La sentenza, a differenze di quella italiana, ha un'ampia motivazione ed entra nel merito della giustificazione in concreto della pena perpetua. La questione sollevata concerne, infatti, tale pena (labenslange Freiheitsstrafe) in generale e anche con specifico riguardo alla figura dell'assassinio (Mord, la più grave fra le specie di omicidio volontario previsto dal codice tedesco, § 211Strafgesetzbuch). Il tribunale costituzionale premette che il carcere a vita costituisce un intervento straordinariamente grave sui diritti fondamentali della persona colpita e che la sua ammissibilità costituzionale, pur non esclusa in radice, è condizionata a variabili storiche. Viene in considerazione, innanzitutto, il rispetto della persona umana: "I presupposti fondamentali dell'esistenza individuale e sociale dell'uomo devono essere salvaguardati e ciò vale anche per l'esecuzione della pena. Con la dignità umana così intesa sarebbe incompatibile che lo stato pretendesse di spogliare coattivamente l'uomo della sua libertà, senza che almeno gli resti la chance di poter tornare a partecipare alla libertà". Esclusa in tal modo la legittimità costituzionale di una punizione 'senza speranza', il giudizio si sofferma sugli effetti del carcere prolungato a proposito dell'idoneità alla vita normale. L'ipotesi che, oltre una certa durata della detenzione, siano inevitabili danni irreversibili alla personalità, non sarebbe né comprovata né esclusa; ai fini del giudizio di costituzionalità, il tribunale ritiene, però, di dover auspicare una riforma penitenziaria e l'impegno dello Stato a predisporre misure atte a prevenire i danni temuti e a favorire il recupero del condannato. A tale fine, in conformità ai principi dello stato di diritto, si richiede che "i presupposti sotto i quali la pena detentiva a vita può venire sospesa ed il procedimento da applicare, siano regolati legislativamente". A differenza dell'Italia dove con la Legge n. 6 del 12 febbraio 1975 si era realizzata la giurisdizionalizzazione del procedimento della liberazione condizionale, nella Repubblica federale Tedesca non era ancora attuata questa riforma, alla cui attuazione il Tribunale costituzionale vincola il legislatore, e la grazia, non vincolata a prinicipi giuridici certi e comportante differenze di trattamento ingiustificabili, non era più considerata sufficiente.

E', quindi, legittimato un modello di 'pena detentiva a vita', alla presenza di idonee modalità di esecuzione e dall'innesto di istituti miranti al reinserimento sociale del condannato; ma, si aggiunge, una pena così grave deve essere giustificata anche in concreto, con riguardo ai tipi di delitto per cui sia comminata. La tutela della vita umana può essere giustificazione idonea, ma non incondizionata, infatti, afferma la Corte costituzionale federale tedesca: "La minaccia e l'applicazione della pena detentiva a vita hanno significato per il rango che la coscienza giuridica generale riconosce alla vita umana. Nell'altezza della pena minacciata il legislatore porta ad espressione il suo giudizio di disvalore sul fatto minacciato della pena". La giustificazione del carcere a vita per l'assassino è questa: "La comminazione assoluta di una pena così grave non trova obiezioni di diritto costituzionale, se al giudice resta legalmente aperta la possibilità, nella sussunzione dei casi concreti sotto la forma astratta, di pervenire ad una pena irrogata che sia compatibile col principio costituzionale di proporzionalità". La pena detentiva a vita, in conclusione, non è fuori del sistema costituzionale, ma solo entro condizioni e limiti precisi: in merito alla struttura dell'istituto, nel senso di garantire una chance legale di reinserimento sociale e in merito all'area di applicazione, attraverso una cernita scrupolosissima dei delitti meritevoli della 'pena a vita'. Questo requisito non viene, però, affrontato nella sentenza della Corte Costituzionale italiana n. 264 del 1974, né nel dibattito dottrinario italiano.

La sentenza ("di rigetto") emessa dalla Corte costituzionale sulla questione di legittimità dell'ergastolo, invece, tratta solo marginalmente il problema della cosidetta "pena fissa" e delle comminatorie "assolute": la Corte "aggira" il problema ricordando le possibilità di graduazione offerte dalle circostanze (nella specie, le cause di diminuzione dell'imputabilità previste dal § 21 Strafgesetzbuch). Per comprenderne i motivi di tale silenzio da parte della Corte tedesca si deve ricordare, innanzitutto, che la problematica della Strafzummessung (discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena) è approfondito ampliamente dalla dottrina tedesca: mentre in Italia, infatti, l'art. 133 del Codice penale (combinato con l'art. 25 secondo comma della Costituzione) sembra offrire una garanzia di legalità circa le scelte discrezionali del giudice, in Germania l'assenza di una norma equivalente contribuisce a sottolineare l'esigenza di ricondurre a criteri giuridici, valutazioni affidate tradizionalmente a criteri soggettivi: la soluzione adottatta nel § 13 dello Strafgesetzbuch lascia, però, aperto il campo a molti dubbi interpretativi e risponde solo in parte alle esigenze del sistema penale. In secondo luogo, in tema di "pene fisse" si può poi dire che l'esperienza delle pene pecuniarie maturata in Germania (e prima nella Repubblica federale tedesca), dove si è adottato il sistema "dei tassi giornalieri", dimostra la possibilità di adeguare la finalità rieducativa della pena alle pene pecuniarie. Se teniamo presente questi due aspetti è quindi possibile comprendere perché la Corte costituzionale tedesca aggiri il problema della pena fissa nella sentenza citata.

157. Corte Costituzionale, 4 luglio 1974, n. 204, in "Giurisprudenza costituzionale, 1974, II, p. 1707. Si deve ricordare che la Legge n. 6 del 12 febbraio 1975 stabilì la competenza in materia alla Corte d'appello nel cui distretto il condannato espiava la pena, al momento della presentazione della domanda. L'art. 22 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 poi dispose che la decisione sull'istanza di ammissione alla liberazione condizioanle fosse adottata dal Tribunale di sorveglianza competente territorialmente sull'istituto penitenziario in cui è ristretto l'interessato al momento della presentazione della domanda.

158. Pavarini, La Corte costituzionale di fronte al problema penitenziario: un primo approccio in tema di lavoro carcerario, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1976, pp. 262 ss.

159. Pavarini, op. cit., p. 271.

160. Ferrajoli, Ergastolo e diritti fondamentali, in "Dei delitti e delle pene", n. 2, 1992, p. 79, il quale afferma, p. 83: "Ebbene: è la stessa Corte Costituzionale che ha dovuto ammettere l'incompatibilità dell'ergastolo con la finalità così intesa della rieducazione del reo (intesa come 'reinserimento sociale', N.d.A.). Ma lo ha fatto nella medesima sentenza con la quale - ripetendo un misero ed ipocrita sofisma già utilizzato nel 1956 dalla Corte di Cassazione, che aveva sostenuto la costituzionalità dell'ergastolo perché questo non «può ritenersi nella realtà una pena sempre perpetua» essendo sempre possibile la grazia - ne ha ribadito la costituzionalità". Nello stesso senso: Torrebruno, Davvero costituzionale la pena dell'ergastolo?, in "La giustizia penale", 1975, I, p. 33.

161. Carnelutti, La pena dell'ergastolo è costituzionale?, cit., chiarì il significato etimologico del termine educare, p. 2: "Educare viene da ducere, non da docere (Forcellini, Walde-Hofman) e perciò esprime l'idea del cammino verso una meta: chi educa, guida; l'educazione è un processo, al quale non può non essere assegnato un risultato da raggiungere; sotto questo profilo la formula del tendere alla rieducazione significa, propriamente, consistere nella rieducazione: educato è chi ha ricevuto l'educazione e così, percorso il cammino, ha raggiunto la meta"; e poi aggiunge: "Quale meta, per la rieducazione penale? Morale o sociale? Per il condannato in sé o per il condannato rispetto agli altri? Essa è implicita nella struttura stessa della reclusione, che separa l'individuo dalla società perché non idoneo a vivere in questa; il delinquente sul terreno del diritto penale, non è tanto un soggetto immorale, quanto un soggetto antisociale".

162. Relazione datata 26 gennaio 1973, del Senatore Folieri al Disegno di legge approvato dal Senato il 31 gennaio 1973, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1973.

163. Dati a cura di Ministero dell'interno, Direzione generale statistica, Annuario statistico italiano.

164. Corte costituzionale, sentenza 28 aprile 1994, n. 168, in "Giurisprudenza costituzionale", 1994, I, p. 1254, con nota di Gallo E., Un primo passo per il superamento dell'ergastolo e di Gemma E., Pena dell'ergastolo per i minori: davvero incostituzionale?; pubblicata anche in "Giurisprudenza italiana", 1995, I, p. 357, con nota di Ruotolo M., L'illegittimità costituzionale della pena dell'ergastolo nei confronti del minore: un segno di civiltà giuridica.

165. Si veda l'art. 6 del Decreto legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito dalla legge 7 giugno 1974, n. 220.

166. Si veda sentenza della Cassazione penale, sezione I, 14 febbraio 1980, in "Giurisprudenza italiana", 1981, II, p. 1, con le osservazioni di Chiavario, L'ergastolo al minorenne.

167. Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, punto 25: "Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere dela stessa protezione sociale".

168. Sulla base di questa norma e dell'art. 31 della Costituzione, la sentenza costituzionale n. 128 del 1987 aveva, poi, dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge 9 ottobre 1974, n. 632 che ratificava il trattato di estradizione fra Italia ed Usa, per la parte in cui quel trattato consentiva l'estradizione del minore ultraquattordicenne ed infradiciottenne anche nei casi in cui l'ordinamento statunitense non accordava alcuna particolare tutela nello Stato di New York all'imputato minorenne. In questo Stato, infatti, se il minore viene condannato per delitto di categoria A-1 o A-2 (ad esempio, omicidio) è considerato e trattato come adulto, e perde il diritto all'accertamento applicabile in fase esecutiva al delinquente minore. In fase di cognizione, infatti, il giudizio è comune ad adulti e a minori e l'imputabilità è presunta per entrambi. Gallo E., Un primo passo per il superamento dell'ergastolo, cit., 1269.

169. Per approfondimenti si veda: Gallo E., Un primo passo per il superamento dell'ergastolo, cit., 1268; Ruotolo M., L'illegittimità costituzionale della pena dell'ergastolo nei confronti del minore: un segno di civiltà giuridica, cit., p. 359.

170. Questa decisione può essere letta in "Giurisprudenza costituzionale", 1993, p. 1105.

171. L'ordinanza che ha sollevato la questione è pubblicata in "Gazzetta ufficiale", n. 4 del 19 gennaio 1994, 1ª serie speciale.

172. La Corte costituzionale estende l'oggetto proposto in sede di ordinanza, in vista di una valutazione complessiva della normativa sottoposta al suo giudizio (che rientra nella sua competenza per espressa previsione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953), dichiarando l'illegittimità consequienziale degli artt. 69 e 73 del Codice penale, in quanto applicabile nei confronti del minore imputabile.

173. Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 1994 in "Giurisprudenza costituzionale", 1994, I, p. 1263.

174. Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 1974, cit.

175. Corte costituzionale, sentenza 5 maggio 1979, n. 26, in "Giurisprudenza costituzionale", 1979, p. 288, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo - per contrasto con l'art. 3 Cost. - l'art. 186, comma primo, del Codice penale militare di pace, in quanto equipara, nella sottoposizione alla stessa pena dell'ergastolo, l'ipotesi dell'insubordinazione con violenza realizzatasi nell'omicidio tentato e quella consistita nell'omicidio.

176. Per approfondimenti si veda Gemma E., Pena dell'ergastolo per i minori: davvero incostituzionale?, cit., p. 1271.

177. Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 1994 in "Giurisprudenza costituzionale", 1994, I, p. 1262.

178. Si veda supra § 1.8.1.

179. Carnelutti F., La pena dell'ergastolo è costituzionale?, in "Rivista di diritto processuale", 1956, I, p. 1.

180. Ivi, p. 3.

181. Bettiol, Sulle massime pene: morte ed ergastolo, cit; Virotta, Costituzione e pena dell'ergastolo, cit.; Ferrante, Abolizione dell'ergastolo?, cit.; Cigolini, Sull'abolizione della pena dell'ergastolo, cit.; Messina, Il problema dell'ergastolo, cit.

182. Corte di cassazione, 16 giugno 1956, cit.; si veda § 1.5.

183. Si veda Dall'Ora A., L'ergastolo e la Costituzione, cit.

184. Si veda § 1.6.

185. Corte costituzionale, sentenza 26 giugno 1990, n. 313, in "Raccolta ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale", vol. XCVI, 1990, p. 103.

186. Ibid.

187. Gallo E., Significato della pena dell'ergastolo, cit., p. 65 e ss.

188. Gallo E., Significato della pena dell'ergastolo, cit.; si veda anche le considerazioni sulla pena dell'ergastolo contenute negli Atti del Convegno promosso dall'Associazione Antigone e patrocinato dalla Presidenza della Camera dei deputati, che si è tenuto a Roma il 20 febbraio 1992, nel quale si sono espressi, unanimamente, per l'abolizione, giuristi, filosofi, sociologhi e psichiatri: atti dal titolo Fine pena: mai!, pubblicati in "Dei delitti e delle pene", 1992, 2, da pag. 61 a 87.

189. Gallo E., Significato della pena dell'ergastolo, cit., p. 65 e ss.

190. Ibid.

191. Ibid.

192. Ruotolo M., L'illegittimità costituzionale della pena dell'ergastolo nei confronti del minore: un segno di civiltà giuridica, cit., c. 360.

193. L'art. 1 della Legge 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena di morte prevista dal Codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal Codice penale.

194. Ferrajoli L., Ergastolo e diritti fondamentali, cit. Dello stesso autore si veda anche: Quattro proposte di riforma delle pene, in Borrè G e Palombarini G. (a cura di), Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, FrancoAngeli, Milano 1998; Diritto e ragione, Bari, 1989, p. 413.