ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

L'influenza della perizia psichiatrica sulle decisioni del giudice e sui programmi di trattamento

Gianni Giordano, 2006

1. Rapporto tra psichiatria e diritto

Una disamina dell'influenza esercitata dalla perizia psichiatra (ma potremmo parlare più in generale della psichiatria) sulla decisione del giudice, non può prescindere dall'analisi del rapporto, storicamente mutevole, tra psichiatria e diritto. Possiamo prender le mosse, per poi cogliere l'evoluzione e i mutamenti di questo rapporto, dal 1930 e quindi dall'emanazione del codice penale. In passato, come ho già avuto modo di rilevare, esisteva un vero e proprio connubio fra psichiatria e diritto. Queste si muovevano secondo prospettive comuni di difesa sociale e si realizzava un sistema di controllo rigido e stereotipato. La perizia aveva luogo solo in caso di palese anormalità, e se era accertata una delle malattie nosograficamente definite, si riconosceva il vizio di mente. La perizia non era neanche richiesta dall'imputato perché, ove fosse stato riconosciuto infermo di mente, era internato nell'OPG automaticamente secondo un meccanismo presuntivo. Al perito era richiesto di svolgere un ruolo di etichettamento del periziando, coadiuvando il giudice quando si supponeva il ricorso di un'infermità e senza alcun'influenza di carattere terapeutico e criminologico. Si può cogliere la ratio di questo vero e proprio connubio, nell'unanime visione della malattia mentale. La psichiatria aveva una visione positivista e organicista della malattia mentale ed il legislatore del 1930 l'ha fatta propria. I positivisti consideravano l'attività mentale patologica e non, come un prodotto del cervello; l'attività mentale è secrezione del cervello come la bile è secrezione del fegato. La causa del disturbo mentale doveva ricercarsi in un'alterazione organica e quindi dell'organo cervello. La malattia mentale era considerata alla pari di ogni altra malattia organica e per quanto attiene la strategia terapeutica, il malato di mente era collocato in un manicomio dove avrebbe dovuto rimanervi fino a che non fosse guarito e ciò comportava per l'approssimazione e la scarsissima efficacia degli interventi curativi, una degenza a vita. I malati di mente, i pazzi, erano soggetti affetti da una malattia organica particolare, la follia, la pazzia e pertanto dovevano essere custoditi si, curati si, ma anche allontanati perché ritenuti irresponsabili e pericolosi. La nozione di pazzo o alienato (dal latino alius e alienus) è giunta sino ai giorni nostri. Il sistema della giustizia si appiattiva sulle concezioni della psichiatria; il folle era incapace di intendere e di volere, quindi lo proscioglieva e lo inviava al manicomio criminale dove era dimenticato anche fino alla fine dei suoi giorni. Nell'utilizzazione del sapere psichiatrico in seno alla giustizia è andato frantumandosi, negl'ultimi decenni, l'intima armonia che perdurava da almeno un secolo. Ciò che stupisce è che mentre in altri settori della medicina legale permane una reciproca comprensibilità dei rispettivi ambiti semantici ed una sintonia di cognizioni, questa è venuta meno nel rapporto tra psichiatria e giustizia. L'alleanza profittevole, fondata sulla condivisione di taluni concetti fondamentali sulla malattia mentale, non esiste più nei termini con cui si era sviluppata (se pur con taluni malintesi e incomprensioni); oggi la sintonia è infranta e per Ponti ciò è dovuto al fatto che i paradigmi su cui si fondava il connubio non ci sono più. Potrei affermare che alla base di ogni rapporto c'è il dialogo e che oggi psichiatria e diritto non sembrano parlare la stessa lingua. In particolar modo vi era un concetto intorno al quale si reggeva il rapporto tra psichiatria e diritto, quello di malattia mentale. La psichiatria, con il tempo ha preso coscienza della crisi in cui versava per mancanza di punti di riferimento e di certezze, le stesse che fornite al diritto in età positivista, erano il cemento del connubio diritto-psichiatria. Oggi che la psichiatria rifiuta, quella visione della malattia mentale e i vecchi sillogismi positivisti, essa avverte il disagio culturale di vivere nelle maglie strette e statiche della legge; è come se il diritto e la psichiatria abbiano marciato per anni alla stessa velocità e poi la psichiatria abbia allungato il passo lasciando il diritto dietro di sé. C'è da considerare che, per quanto attiene il diritto, se l'elaborazione dottrinaria giuridica sia rimasta ancorata a concezioni non molto distanti da quelle coeve al dibattito che approdò alla redazione del codice penale nel 1930, è emersa una tendenza evolutiva nella magistratura di cognizione, di esecuzione e rilevanti interventi interpretativi vi sono stati anche da parte della Corte Costituzionale.

Dagli anni settanta si assiste ad una rottura con questi sillogismi e stereotipi; l'uomo è avvertito come un unicum, la persona è caratterizzata dalla sua unicità irripetibile come lo è il suo modo di vivere il rapporto tra sé ed il mondo. Questo cosa vuol dire, il malato di mente è malato si, ma non è alienus, è parte del mondo, è sempre una persona umana. Ecco allora che in primo luogo deve rompersi il parallelismo malato di mente-incapace di intendere e di volere. (1) Mutata la percezione della malattia mentale, in una nuova prospettiva è stato affrontato anche il tema dell'imputabilità del malato di mente. Gli apriorismi che avevano caratterizzato la psichiatria di un tempo, non erano più accettabili. Vi è stato anche un approdo antitetico a quello positivista: l'antipsichiatria, che nega l'esistenza stessa della malattia mentale e ritiene sempre imputabile lo psicotico. Szasz, nel 1970, scriveva che non si devono ritenere non imputabili gli autori di reato sulla base dell'infermità mentale e si rifiutava di considerare la malattia mentale "come causa di certi comportamenti". Gli psicotici, per Szasz, non sono individui caratterizzati da condizioni chiamate malattie mentali che li spingono a commettere delle azioni criminali, e per questo dovrebbero essere trattati dalla legge come qualsiasi altro soggetto, non essere mandati in manicomio in quanto irresponsabili, ma scontare la pena. Ora c'è da dire che queste impostazioni sono comprensibili in quei paesi in cui la valutazione della non imputabilità è fondata su un criterio puramente psicopatologico consistente nell'accertamento di una malattia mentale al momento del fatto, cui segue, automaticamente, la pronuncia di non imputabilità. Dove vige un metodo psicopatologico-normativo, come in Italia, è richiesto non solo il riconoscimento dell'infermità, ma anche l'apprezzamento di come questa interagisca psicologicamente, nel compromettere, in misura più o meno cogente, la capacità di intendere e di volere. In un'ottica responsabilizzatrice, la psichiatria sembra aver raggiunto un approdo: la necessarietà della valutazione della maggiore o minor conservazione dell'integrità dell'Io. Quando sia possibile ravvisare la non globale destrutturazione della personalità, si può ammettere che residui uno spazio sufficiente per una scelta volontaria e consapevole; se l'Io non è del tutto destrutturato, se su questa parte integra si punta per favorire la guarigione, questa stessa parte integra può comprendere il significato illegittimo dell'atto commesso, e può consentire la scelta fra le varie possibilità di agire, ma anche la percezione della pena nei suoi molteplici significati e specialmente quello retributivo ed intimidatorio. A questo punto, se si ammette che uno psicotico può comprendere il significato della pena ed il valore deterrente della stessa, perché dovrebbe essere assegnato al manicomio giudiziario come incapace: se le funzioni dell'Io non sono completamente compromesse, appare più corretto che paghi con il carcere per quel che ha fatto. Non è un aprioristico riconoscimento d'imputabilità del malato di mente, come quello dell'antipsichiatria, ma si tratta di meglio osservare il soggetto, per evitare che la pronuncia di non imputabilità peggiori una situazione recuperabile.

2. Stato psicopatologico e comportamento criminale: criteri di valutazione della responsabilità penale

Si pone quindi il problema di valutare il rapporto fra lo stato psicopatologico ed il comportamento criminale cui corrisponde un criterio o metodo di accertamento della responsabilità. Schreiber ha individuato tre diversi metodi di valutazione della responsabilità penale:

  1. Il metodo psicologico normativo che consiste nel valutare l'esistenza di malattie o disturbi psichici e valutarne l'incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Circa i fattori psicopatologici, non sempre la legge li definisce e si limita a far riferimento a concetti molto generali, che poi sono interpretati estensivamente. Per quanto attiene le due capacità di intendere e volere, nella maggior parte dei sistemi penali che seguono tale metodo valutativo (e sono quello danese, francese, olandese, austriaco, irlandese portoghese, svizzero, tedesco, greco ed il nostro) è sufficiente che manchi anche solo una di esse perché il soggetto non sia considerato punibile. Come rileva Pulitanò, il primo metodo, quello "misto", è fatto proprio dal nostro codice penale. In base a tale metodo quindi non occorre solo individuare lo stato patologico, ma anche la verifica normativo giurisprudenziale della rispondenza di tale stato ad una condizione di infermità tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere o entrambe;
  2. Il metodo puramente psicopatologico considera non punibili i soggetti affetti da determinate malattie mentali, senza valutarne la loro incidenza sulla capacità di intendere e di volere (Norvegia e Svezia seguono questo metodo). Ne consegue, ed è l'esempio svedese, che il malato mentale venuto a contatto con la giustizia penale, non può essere sottoposto a sanzioni penali punitive, ma deve essere sottoposto a misure di trattamento psichiatrico;
  3. Il metodo puramente normativo non considera i problemi psicopatologici, ma valuta solo se al momento del fatto sussisteva la capacità di intendere e di volere. Tale metodo non è seguito in nessuno dei paesi europei (almeno di quelli membri dell'U.E.) e fa capolino solo in quelli in cui l'elemento psicopatologico interpretato in modo estensivo conduce ad effetti distortivi e ad abusi contrari al "senso di giustizia".

Occorre anche chiarire che esiste un legame tra il criterio utilizzato per definire il disturbo psichico e il criterio per rilevare il rapporto tra disturbo e imputabilità: quanto più è allargato il criterio diagnostico, più è vincolante il rapporto tra malattia mentale e comportamento.

Nonostante il maggior sforzo critico dei magistrati, ancora oggi il legame tra disturbo psichico e comportamento criminoso, soprattutto per quanto attiene i reati di violenza resta in piedi. Anche se non esiste più il meccanicismo per il quale il malato di mente è solo per questo prosciolto, si cerca il legame di causalità tra lo stato patologico e l'atto criminoso come se questo fosse sintomo della malattia, del disturbo o, il che è speculare, essa ne sia la causa. In realtà non sembra che si possa affermare che il reato sia sintomo della malattia e ciò anche nei casi più gravi ed efferati. Nel corso del presente studio, ho avuto modo di parlare con più di uno psichiatra forense ed ho trovato conferme al fatto che il reato non necessariamente è sintomo di patologia. Ma potrei citare altri esempi: pensiamo ad un soggetto che sia convinto a causa di una tematica delirante tecnicamente ben individuabile e rafforzata da fenomeni dispercettivi, che il coniuge lo tradisca; supponiamo che commetta uxoricidio. In tal caso l'uxoricidio non può dirsi sintomo del disturbo psichico "delirio di gelosia", né è sintomo della infermità psichica che comporta il delirio e le allucinazioni (questi si sintomi della malattia). Il delirio è una strada, è un mezzo attraverso il quale il soggetto viene a conoscenza di un fatto, il tradimento del coniuge, anche se in tal caso non è reale. Non è diversa la situazione di chi, magari con i propri occhi, scopre di essere tradito. A quel punto entrambi hanno di fronte una certezza, il tradimento. Il comportamento successivo sarà frutto di una serie di variabili culturali, personali, relazionali, sociali, ma non del modo in cui sono venuti a conoscenza del fatto di essere traditi. Pertanto potranno vendicarsi di pari grado, separarsi, ferire il coniuge o ucciderlo, ma lo potranno fare entrambi non solo il delirante. Anche il delirante uxoricida, sa e vuole in modo non dissimile dall'uxoricida per gelosia non delirante che cede agli stati emotivi e passionali, e che a norma del nostro codice penale, non escludono e non diminuiscono l'imputabilità. Ciò non toglie che vi siano anche coloro che ritengono che all'origine dell'uxoricidio vi sia un'informazione sbagliata, prescindente dalla realtà, e che ciò comprometterebbe la libertà di scelta rispetto agli altri, ma non solo non è facile da dimostrare, ma rischia anche di riportare in auge l'antico dilemma morale e filosofico libero arbitrio-servo arbitrio, determinismo o libertà. Alla luce di queste considerazioni sembra allora doversi distinguere in ambito psichiatrico e con riguardo alla infermità psichica, la sofferenza dalla violenza eventualmente concomitante. È essenziale tale distinzione anche per evitare che lo psichiatra divenga controllore dei comportamenti del periziando in funzione sociale anziché interprete o cointerprete di problemi del soggetto. Il controllo sociale spetta ad altre competenze ed "agenzie sociali" non allo psichiatra perché tale azione è aterapeutica anche se l'aspetto terapeutico è assente nella perizia.

La valutazione dei problemi connessi con l'imputabilità e la responsabilità penale a livello dei casi individuali, nel campo delle scienze di tipo clinico come sono la psicologia e la psichiatria, hanno evidenziato come i periti non sono scientificamente qualificati per fornitore pareri, se non veri e propri giudizi, in merito a questioni morali e filosofiche, come la responsabilità o l'imputabilità penale. Giustamente Canepa fa notare che il parere del perito è trasformato dal magistrato in un giudizio morale sulla responsabilità e quindi sulla libertà del soggetto che deve essere giudicato, ma il perito non ha la competenza per esprimersi sulla responsabilità e sull'imputabilità da qui, la richiesta di revisione di tali concetti in seno al codice penale. Per Canepa il perito dovrebbe limitarsi alla comprensione clinico-fenomenologica dell'atto criminoso ed elaborare un programma di trattamento finalizzato alla risocializzazione.

3. L'influenza della perizia psichiatrica sulle decisioni del magistrato e sui programmi di trattamento

Potremmo distinguere due diversi ambiti di influenza della perizia psichiatrica:

  1. le decisioni del giudice
  2. il trattamento del reo malato di mente.

Circa le decisioni del giudice abbiamo parlato del connubio psichiatria e diritto. Abbiamo visto come vi fosse un affidamento totale del diritto ad una psichiatria che sembrava fornire certezze e risposte certe in ordine ai quesiti posti dal magistrato. Per anni si è assistito ad un appiattimento della giurisprudenza di merito rispetto alle rilevazioni peritali e ciò sia perché è mancata e manca una preparazione universitaria e professionale dei magistrati sulle tematiche psichiatriche e psicopatologiche, sia perché da sempre i magistrati hanno preferito ricorrere ad un ampia delega a favore dei periti chiamati a esprimere i loro pareri nelle varie fasi del processo penale e nella fase di cognizione e nella fase esecutiva. Manacorda ha rilevato che dopo anni di proscioglimenti indiscriminati per difetto di imputabilità, la tendenza ad emettere sentenze sommarie ha rallentato, ma non perché siano state apprese le moderne acquisizioni sulla malattia mentale ed il disturbo psichico, ma per esigenze di opportunità, per fronteggiare una criminalità organizzata crescente, che vedeva gli imputati, presunti promotori di strutture criminali, allegare disturbi psichici per ottenere il riconoscimento della non imputabilità e conseguente destinazione, prima automaticamente ora previo accertamento della pericolosità, ad un trattamento (la misura di sicurezza O.P.G.) più vantaggioso che non la pena ordinaria. La normativa della misura di sicurezza per come è stata concepita, è, infatti, più vantaggiosa per gli autori dei reati gravi che per quelli di reati di minore entità. Nel corso del colloquio con la dott.ssa Brandi ed il dott. Jannucci alla domanda relativa al problema della simulazione nel corso della perizia, mi è stato risposto che il rischio è sempre presente ed il perito deve tenerne conto, ma è anche vero che questo è proporzionale alla gravità del reato e sarebbe assurdo simulare per chi è imputato di un reato per il quale è prevista una pena edittale, nel massimo, non molto alta. Un autore di reato grave riconosciuto non imputabile e pericoloso è destinato alla misura di sicurezza, ma se non ha disturbo mentale e privo di turbe psicopatologiche, fruirà della revoca della misura di sicurezza che a quel punto diviene un atto dovuto non ricorrendo le condizioni per mantenerla. Secondo Manacorda nei casi di criminalità organizzata avrebbe dovuto essere la constatazione della impossibilità di coincidenza tra capacità manageriale degl'imputati e incapacità di intendere e volere a spingere alla inversione di tendenza sui proscioglimenti e non ragioni di opportunità.

Ma guardiamo nel dettaglio il codice di rito; questi prevede che il difetto di imputabilità, genericamente inteso e pertanto dovuto ad una qualsiasi delle cause previste dalla legge, in un soggetto appartenente ad una qualsiasi delle fasce di età all'uopo considerate dal codice penale (minore di anni 14, minore di anni 18 e maggiore di 14 e maggiore di 18), possa essere riconosciuto dal giudice tanto nella fase dell'udienza preliminare, quanto nel corso del dibattimento. Se riconosciuto dal giudice dell'udienza preliminare, il difetto di imputabilità conduce ad "una sentenza di non luogo a procedere" ex art. 425 c.p.p.

Se il difetto di imputabilità sarà invece riconosciuto nel corso del dibattimento, esso condurrà ad una sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p.

Abbiamo preso come punto di partenza l'età del soggetto ma potrebbe non esservi certezza in merito a questa e allora vengono in soccorso le presunzioni ed il principio del favor rei.

Se l'imputato è di età inferiore ai 14 anni sappiamo che opera la presunzione assoluta di non imputabilità. Nel dubbio sull'età dell'imputato ovvero, se l'imputato avesse o meno compiuto i 14 anni al momento del fatto, opera una presunzione relativa, e quindi vincibile dalla prova contraria, di minore età da cui la presunzione assoluta di non imputabilità.

Se il soggetto ha un età compresa tra i 14 e i 18 anni vi è presunzione relativa di difetto di imputabilità. Nel caso di dubbio sull'età e il dubbio permanga anche dopo che il giudice abbia disposto perizia, vige la presunzione relativa anzidetta.

Circa il soggetto maggiorenne prosciolto in udienza preliminare, è necessario che il difetto di imputabilità sia evidente al punto che è presumibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, che un eventuale successivo giudizio non sia in grado di far maggior luce sul punto o di concludersi in maniera diversa. In presenza di questa evidente risultanza di difetto di imputabilità, prevale il principio di economia processuale ed il procedimento può concludersi all'udienza preliminare. Circa l'assoluzione in dibattimento, l'art. 530 c.p.p. estende alla prova della imputabilità il principio dell'assoluzione in caso di insufficienza di prove sull'imputabilità ovvero, art. 530 2º comma c.p.p., "quando manca o è insufficiente la prova che il reato è stato commesso da persona imputabile".

Ma quali sono le conseguenze della pronuncia di non imputabilità?

Abbiamo visto che i quesiti posti al perito sono tre e che al secondo, sulla pericolosità, il perito risponde se ha risposto positivamente al primo nel senso che vi è vizio di mente. Mi limiterò solo a citare le conseguenze della valutazione di non imputabilità in quanto si tratterebbe di affrontare la tematica della pericolosità sociale. In breve, il minore di 18 anni non imputabile per età (minore di anni 14) o perché incapace di intendere e volere, ed il minore di anni 18 non imputabile per vizio di mente, sono prosciolti e non assoggettati a pena. Le esigenze di difesa sociale (ma non solo), impongono che se ha commesso un delitto e sia ritenuto pericoloso, avuto riguardo alla gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia, si applica al minore la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libertà vigilata. Se non si applica la misura di sicurezza detentiva, il minore potrà essere affidato al servizio sociale minorile ad una casa di rieducazione o ad un istituto pedagogico o medico-psichico; si tratta di misure rieducative.

Il minore di anni 18 ma che ha compiuto i 14 anni quando è riconosciuto imputabile fruisce di agevolazioni in termini di diminuzione di pena e di pene accessorie; se il giudice lo considera pericoloso, ordina che dopo l'esecuzione della pena sia applicata una delle misure di sicurezza sopraindicate.

Se il minore è incapace di intendere e di volere, anche per ragioni non attinenti all'età, si fa luogo al trattamento curativo, e l'articolo 222 4º comma c.p., stabilisce che anche ai minori di 14 anni o maggiori di 14 ma infradiciottenni, si applica la misura dell'OPG se hanno commesso il reato in condizioni di infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o sostanze stupefacenti o sordomutismo. Ho descritto la situazione dei minori perché, ovviamente, peculiare rispetto a quella del maggiorenne e per la quale rinvio ad altro studio. (2) Mi limito a ricordare che il codice penale gradua agl'artt. 88 e 89 il vizio di mente, in totale e parziale. Se vi è vizio totale e l'imputato è pericoloso, si applica la misura di sicurezza dell'OPG. Se il vizio è parziale ed ha scemato grandemente la capacità di intendere e di volere, l'imputato è condannato a una pena ridotta e se è socialmente pericoloso, le misure di sicurezza applicabili sono l'assegnazione alla casa di cura e di custodia. Merita menzione un aspetto particolarmente importante dell'accertamento della pericolosità quale momento successivo alla dichiarazione di non imputabilità per infermità psichica: esistevano nel nostro codice penale una serie di presunzioni relative alla pericolosità che portavano, se pur nei casi previsti dalla legge, alla automaticità della misura di sicurezza. Ebbene, queste presunzioni sono venute meno grazie ad una serie di sentenze della Corte Costituzionale. (3)

Nel nostro sistema penale, ma anche in quelli della maggior parte dei paesi europei, le conclusioni dei periti esercitano una minima influenza sulla programmazione del trattamento dei malati di mente. In effetti un quesito relativo al programma di trattamento non è neanche posto al perito nel nostro ordinamento. Allo psichiatra si chiede di pronunciarsi su questioni che sono prettamente giuridiche: l'imputabilità e la pericolosità sociale. Quest'ultima sappiamo essere la probabilità di recidiva di un comportamento delittuoso e quindi al perito è richiesto un parere di predizione aleatorio e caratterizzato da scarsa attendibilità. Ciò non toglie che in alcuni paesi tale quesito sia posto ed è il caso della Svizzera. Questo scollamento tra fase della perizia e successiva fase trattamentale, comporta che il trattamento sia realizzato senza che vi sia l'apporto del perito e su base di automatismi fondati sulla considerazione della gravità del fatto di illecito sulla pericolosità ma non sulle condizioni psicopatologiche e cliniche del soggetto. Al perito non è richiesto di operare un trattamento ma ciò non toglie che effetti positivi e terapeutici possono derivare anche nel corso della perizia. Bernheim, per esempio, ha affermato che la perizia non solo può essere occasione per il periziando di riflettere, magari per la prima volta, sulla propria esperienza di vita, ma in più può preparare il soggetto all'idea di un trattamento che sarà iniziato da un'altra persona. Comunque al di là del fatto che al perito non è richiesto direttamente di occuparsi del trattamento ma di altro, di rispondere ai quesiti posti dal giudice, ciò che costituisce un impedimento allo svolgersi dello stesso è sia la situazione socio-ambientale in cui il soggetto si trova, sia l'ignoranza delle condizioni in cui il trattamento suggerito si svolgerà. Nell'ottica trattamentale il presupposto è dato dalla comprensione clinico-fenomenologica del reato, anche il fatto di reato più grave può essere compreso e secondo una criteriologia che non dovrebbe discriminare l'insanità mentale dalla normalità. In quest'ottica allora la perizia non è più limitata alle cause psicopatologiche, ma alla comprensione dell'atto nel suo complesso e all'elaborazione di un programma di trattamento.

4. Conclusioni e prospettive future

A conclusione di queste pagine posso affermare che ciò che sembra caratterizzare la psichiatria oggi è il disagio culturale, scientifico di calarsi nelle maglie giuridiche e giudiziarie strette e statiche. Abbiamo anche visto come esistono due posizioni ideologiche antitetiche: da un lato il pensiero di matrice positivista, che vorrebbe un maggior coinvolgimento delle scienze umane nel processo penale ed una trasformazione della pena in un processo di cura e rieducazione, dall'altro lato, la tendenza opposta che vorrebbe incentrare il processo penale sul reato con minor considerazione del reo. Secondo questa ultima impostazione, l'accertamento della malattia mentale dovrebbe avere uno spazio estremamente ridotto all'interno del processo penale e ciò in ragione delle mistificazioni, delle distorsioni e degli abusi contrari all'interesse della giustizia e spesso del reo. Spesso, infatti, accade che la terapia mascheri dietro le argomentazioni cliniche una repressione e ciò in violazione dei diritti e delle garanzie del reo. In termini di proposte le tendenze ideologiche opposte si traducono da un lato, nella richiesta di una generalizzazione della perizia "criminologica", dall'altro nell'abolizione della perizia e della imputabilità, considerando sempre imputabili i rei affetti da malattia mentale. (4) Non sono solo esigenze di giustizia a spingere per l'esclusione della non imputabilità dei malati di mente, ma anche considerazioni cliniche: la moderna psichiatria ritiene sia necessario recuperare spazi di libertà al malato di mente e che l'acquisizione della responsabilità faciliti il successivo intervento terapeutico superando gli effetti negativi della stigmatizzazione derivante dall'attribuzione di incapacità. Tuttavia, non sembra possibile raggiungere finalità di responsabilizzazione, di terapia, di conferimento di dignità al malato di mente solo attraverso un'artificiosa e rigida affermazione della capacità di intendere e volere dei portatori di disturbi psichici. Queste finalità richiede la costruzione di un nuovo rapporto tra psichiatria e giustizia. In passato esisteva un legame forte tra diritto e psichiatria che si reggeva su una visione organicistica della malattia mentale: il malato di mente era, in ogni caso, incapace e pericoloso. Sono state le acquisizioni della psicoanalisi e la scoperta delle dinamiche sociali che sottendono la definizione ed il trattamento delle malattie mentali, che hanno permesso di considerare la malattia mentale come una realtà complessa e articolata, accompagnata da gradi di comprensione e libertà anche rispetto agli illeciti penali. Dice Ponti: "Superato il pregiudizio che considerava il malato di mente sempre incapace, bisogna evitare quello opposto di considerarlo sempre capace di intendere e di autodeterminarsi perché ciò contrasterebbe con la realtà clinica". La proposta di abolire l'imputabilità e di spostare la valutazione psichiatrica al momento esecutivo della pena (5) per ridurre eventualmente il peso della sanzione, può, tra l'altro, condurre a rischi di enfatizzazione e simulazione dei disturbi psichici e tal proposito Bandini parla di fenomeno analogo alle sindromi da indennizzo. Per Ponti, è impensabile la proposta di abolire le norme relative alla imputabilità e senza accogliere il sillogismo malato di mente-incapace, ritiene si debbano offrire soluzioni concrete a situazioni le quali pur non essendo riconducibili alla malattia mentale, possono presentarsi in alcuni casi e nel singolo caso, per tempi più o meno lunghi. Sulla stessa linea si colloca il dott. Jannucci il quale, concorde con la Dottoressa Brandi, non condivide l'impostazione della scuola triestina che vorrebbe "cambiar la situazione esistente a colpi d'accetta", e si dice favorevole ad "un diritto mite ovvero flessibile e praticabile in clinica". Il dott. Jannucci ha affermato: "Occorre contestualizzare: io credo che ora come ora negl'istituti di pena ordinari sia troppo difficile fornire al malato socialmente pericoloso un'assistenza congrua. Bisogna prevedere speciali istituti di cura per costoro e allora la perizia potrebbe essere il luogo dove si decide se colui che ha commesso il reato era tanto infermo di mente e pericoloso da necessitare questa cura; quindi in linea di principio sono contro tutte le forzature e contro l'atteggiamento che già negli anni '60 ci fu la proposta di legge Vinci Grossi che poi è tornata in auge alcuni anni fa quando c' era l'onorevole Corleone sottosegretario alla giustizia che diceva di abolire l'istituto della perizia psichiatrica, e di abolire l'art. 88-89 del c.p. così anche il malato di mente autore di reato risponde penalmente del reato, il magistrato applicherà le varie attenuanti però nell'esecuzione penale gli si darà una cura: Ma io dico come si può dare una cura in queste condizioni, non è possibile che sia il penitenziario a dare una cura". Infine riporto la testimonianza del dott. Paterniti su questa stessa questione: "Sarei d'accordo (con la proposta di abolire l'imputabilità) se poi il trattamento fosse adeguato e condotto in strutture apposite ed il trattamento fosse vero e sarebbe preferibile alla detenzione nell'O.P.G. che ha solo un valore di contenzione e non di cura e trattamento ma non mi sembra che l'ordinamento penitenziario sia in grado di assolvere alla funzione di cura. C'è da dire che non tutti i soggetti sono trattabili, alcuni potrebbero aver la prescrizione dell'obbligo di cura ma si tratta sempre di trovare le strutture pensiamo, per esempio, al tossicodipendente il quale è inviato alle comunità, agli arresti domiciliari con l'obbligo di cura".

Ma vi è un'altra ragione per mantenere le norme sull'imputabilità: il fine di queste norme è proteggere chi non era al momento del fatto, pienamente o totalmente responsabile dei propri atti.

Non sembra, alla luce di queste considerazioni operate che la psichiatria possa continuare ad operare nel sistema penale così come le è richiesto. Esercitare la psichiatria, dicono Merzagora e Ponti, è svolgere un'attività falsa e falsificante, si affermano cose cui nessuno crede più adeguandosi a richieste incompatibili con l'attuale sapere psichiatrico. Posso riportare ciò che al riguardo ha affermato il dott. Jannucci: "[...] ammesso che la giustizia dica ad esempio che sono incapaci di intendere e di volere e che possa essere considerata infermità in termini psichiatrici forensi solo quell'infermità legata a danno organico, [...] in psichiatria non esiste il dire: - si tratta di danno organico quindi dirò al giudice che questo o quello è infermo di mente-. In realtà, in psichiatria e nelle conoscenze psichiatriche attuali si parla di disturbo in termini bio-psico-sociale, quindi siccome queste sono le nostre conoscenze non possiamo rinunciarvi perché entro in ambito forense, quindi andrò oltre a quello che la giurisdizione e le varie sentenze hanno ammesso e riconfermato in modo molto contraddittorio e che si rifanno ad esigenze di politica criminale e che purtroppo sono sottaciute e poco discusse, tanto più che si giudica il momento del reato quindi, per esempio, è vero che la giustizia ci dice che non deve essere una patologia puntiforme, ma è una cosa che in quanto psichiatra non posso dire, perché esistono delle psicosi brevi, quindi io non posso escludere questo fatto, e non posso negarla una volta che ho constatato che siamo in questa situazione; questo è un rischio grandioso perché in un certo momento della vita chiunque potrebbe avere avuto questa cosa". Ma di là dalle incomprensioni esistenti tra psichiatria e giustizia resta in ogni modo il fatto che il parere chiesto al perito è una valutazione non assoluta ma probabilistica nel senso che la certezza assoluta non esiste in merito a quanto all'esperto è richiesto dal giudice. Sembrano più che mai attuali le parole di Wootton per cui: "né la medicina, né qualsiasi altra scienza potrà mai sperare di raggiungere la prova che una persona non sia in grado di resistere ai propri impulsi perché non può o perché non vuole. Le proposizioni della scienza sono soggette a verifica empirica: ma poiché non è possibile mettersi nei panni di un altro uomo, non è concepibile un criterio oggettivo che possa distinguere il non ha resistito da il non ha potuto resistere. Si deve allora affermare che non è possibile fissare un misura esatta della responsabilità, nel senso di capacità del soggetto ad agire diversamente da come in realtà ha agito".

La perizia appare un passaggio importante e di contributo sostanziale nel senso che dalle testimonianze degli esperti mi è parso di capire che la perizia non è atto dovuto e quindi formale. Posso a tal riguardo riportare quanto affermato da Paterniti che sintetizza un po' questa posizione: "La mia esperienza è stata positiva e attenta, i magistrati che mi hanno chiesto perizie lo hanno fatto a ragione veduta anche a garanzia dell'imputato altre volte per meglio valutare la dinamica dell'evento reato ... io faccio quasi esclusivamente, anzi esclusivamente, perizie per magistrati o giudici e non faccio perizie di parte per scelta. Ho avuto l'impressione che i magistrati che mi chiedessero perizie lo facessero non perché si deve fare ma perché la situazione lo richiede". Sembra allora potersi dire che la psichiatria forense è destinata a cambiare radicalmente ma non certo a scomparire. (6) Ad essa spetterà il compito di comprendere la natura del disturbo ed il ruolo che esso ha avuto nel delitto, di trasferire al giudice queste conoscenze acquisite, di prevedere e programmare tempi e modi della terapia. (7) Si tratterà di un ruolo diverso, più vicino a quello della psichiatria clinica e dunque, di terapeuta e non di giudice, quale oggi lo psichiatra forense, di fatto, esercita. Non sembra accettabile che dal suo aleatorio giudizio dipenda la libertà o la pena per il peritato, un giudizio che poi è emesso sulla base di una criteriologia psichiatrica che si traduce in una giustizia troppo discrezionale, priva di certezza del diritto e per questo aleatoria.

Concludo riportando un pensiero di Piero Calamandrei che al meglio esprime il ruolo del processo e pertanto di quale contributo può venire al diritto da altre scienze:

"Ricordarsi che il processo è essenzialmente studio dell'uomo; non dimenticarsi mai che tutte le nostre simmetrie sistematiche, tutte le nostre elegantie juris, diventano schemi illusori se non ci avvediamo che al di sotto di essi di vero e di vivo non ci sono che gli uomini, colle loro luci e loro ombre, con le loro virtù e le loro aberrazioni."

Note

1. "Non è da ritenersi sufficiente nemmeno la diagnosi di psicosi al fine di escludere la capacità [...] necessita accertare se il fatto illecito, considerato dal punto di vista della sua motivazione, risulta intimamente connesso con la malattia ed in ultima analisi con il campo fenomenico e diafenomenico da essa alterato". (De Vincentiis, Calleri e Castellani 1972).

2. Rinvio alla relazione di Alessandra Marconi.

3. Sent. 27\07\1982 n.139 abrogratrice dell'art. 204 2º comma c.p., e degl'artt. 205 cpv e n. 2 e 222, comma 1º "nelle parti in cui non subordinano il provvedimento di ricovero in O.P.G. dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della cognizione e dell'esecuzione della persistente pericolosità derivante dall'infermità medesima esistente al tempo dell'applicazione della misura".

4. A tal proposito in data 29\11\1983 era stata presentata alla Presidenza del Senato, una proposta di legge (D.D.L. 177), che all'articolo 1 sanciva il principio per cui la malattia mentale non esclude ne diminuisce l'imputabilità con conseguente rifiuto della valutazione psichiatrica nel processo penale. In tale prospettiva, l'accertamento psichiatrico è solo spostato al momento dell'esecuzione della pena senza garanzie e con il rischio di una psichiatrizzazione del mondo penitenziario. (Bandini-Gatti: Prospettive di riforma in tema di imputabilità e trattamento del malato di mente).

5. Si tratta di un sistema seguito in Belgio ed in Svezia; ho chiesto in particolare a tutti periti incontrati cosa ne pensassero e se fosse praticabile in Italia e sono emerse posizione diverse: la sfiducia, nel caso dei Dottori Brandi e Jannucci, una posizione possibilista, nel caso del dott. Paterniti, o ancora la fiducia e l'apprezzamento del sistema attuale ed è il caso del dott. Cantale che tuttavia ritiene migliorabile questo senza smantellarlo.

6. Bandini e Lagazzi hanno formulato questa proposta di riforma dei quesiti peritali che sintetizza il diverso ruolo che dovrebbe rivestire la perizia:

  1. dica il perito se al momento dei fatti per cui è imputato, il periziando abbia manifestato disturbi psicopatologici e, in caso affermativo, di quale tipo e quale gravità;
  2. dica se questi disturbi psicopatologici abbiano inciso sulle capacità del soggetto al punto di comprendere il comportamento delinquenziale secondo schemi abituali di pensiero ed in quale misura;
  3. dica se tali disturbi persistano al momento dell'indagine peritale.

7. "Io penso che noi tecnici prima di consegnare la relazione al giudice, dobbiamo farci una domanda: abbiamo messo in grado quest'uomo o questa donna di capire? Come diceva Ponti, occorre utilizzare termini comprensibili anche dall'uomo della strada ma non perché il giudice sia stupido ma perché egli è uomo di legge e non un medico e deve essere messo nelle condizioni di comprendere". dott. Cantale.