ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Il contributo della perizia psichiatrica alla valutazione della responsabilità penale

Gianni Giordano, 2006

1. Duplice ruolo della psichiatria tra presente e futuro

Il ruolo della psichiatria nel processo penale può essere inteso secondo molte prospettive; al di là del suo ruolo istituzionale di identificare nell'autore di un reato l'eventuale presenza di una malattia mentale, all'esperto psichiatra (psichiatra forense) è chiesto di fornire suggerimenti sul trattamento da attuare, di occuparsi della risocializzazione dei condannati, talora di contribuire, con il giudice, alla ricerca della verità. Vi sono due ruoli che rivestono particolare importanza:

  1. il ruolo di "frenatore" che mira a frenare appunto la tendenza alla deresponsabilizzazione del colpevole affetto da una qualche patologia mentale;
  2. il ruolo di "traduttore" ovvero di colui che trasferisce, divulga nel mondo del diritto e dell'amministrazione della giustizia, i contenuti della psichiatria moderna.

Per quanto attiene il primo ruolo, possiamo definirlo come la reazione al processo decennale di riduzione dello spazio di responsabilità individuale cui si era accompagnata un superamento della visione retributiva della pena e all'innesto della finalità rieducativa divenuta poi preminente. Il criminale era un malato che andava curato e rieducato. Oggi si assiste ad un percorso inverso: la prospettiva rieducativa è entrata in crisi ed il contenuto retributivo della pena ha preso nuovamente spazio. (1) La psichiatria moderna può svolgere questo ruolo di frenatore perché ad essa è attribuito il compito di decidere chi è imputabile e chi no; la psichiatria dovrebbe tracciare la linea tra sanità ed insanità, e lo psichiatra diviene arbitro del processo di attribuzione della responsabilità. La psichiatria però non è una scienza astratta, neutrale, almeno non lo è stata per molto tempo risentendo delle correnti culturali ad essa coeve e ciò a fatto sì che per anni si seguisse la tendenza alla deresponsabilizzazione, e che sul piano giuridico si è tradotta in indulgenzialismo e permissivismo. Oggi è venuto il momento di cambiar rotta e se in passato si è abusato di una vecchia nosografia che consentiva, attraverso un processo di etichettamento, di dichiarare pazzi e quindi non responsabili gli autori di reati, con contrazione dello spazio di responsabilità, è venuto il momento di rivedere quest'impostazione. Non si tratta di invocare la "mano pesante" in modo indiscriminato e demagogico, ma di ristabilire il principio etico-sociale della punizione per cui ciascuno deve rispondere dei propri atti. Il concetto di "diritto mite", con la proposizione di pene alternative al carcere, non vuol dire abusare dei concetti di non imputabilità e di incapacità di intendere e volere. Ecco allora che lo psichiatra può far molto per recuperare lo spazio di responsabilità perduto ma per fare questo deve recuperare autonomia rispetto ai giudici e alle sollecitazioni che da loro provengono; (2) il perito non deve farsi manipolare ed avallare soluzioni suggerite da esigenze di giustizia e deve respingere connivenze e confusione di ruoli. Ecco allora emergere il secondo ruolo, quello di traduttore. Deve essere lo psichiatra ad illuminare il giudice, la giustizia, circa i nuovi contenuti del sapere psichiatrico trasferendo o rendendo partecipe anche il diritto del processo di riduzione dello spazio di irresponsabilità. La percezione del malato di mente, anche la percezione sociale, è mutata e se in psichiatria non si accetta più il sillogismo malato di mente-irresponsabile, non si capisce perché permanere nel diritto. Il giudice deve comprendere che ci sono i buoni e i cattivi anche tra i malati di mente e che, al di là dei rari casi di irresponsabilità, i più ben possono comprendere il disvalore di certe condotte e conservano un margine di autodeterminazione che consente loro di scegliere fra giusto e ingiusto, lecito ed illecito e quindi possono rispondere di fronte alla società delle loro scelte. Alcuni vecchi stereotipi positivisti, permangono nel diritto e spetta alla psichiatria contribuire ad abbatterli.

2. La perizia psichiatria nel processo penale

A) Nozione giuridica

Tracciare i confini entro cui la perizia psichiatrica si colloca nel nostro procedimento penale presuppone la conoscenza della natura giuridica e delle finalità della perizia nella sua accezione più ampia. La perizia ha la duplice natura di mezzo di prova e di mezzo di valutazione della prova. Essa occorre quando è necessario svolgere una valutazione che richiede competenze tecniche, scientifiche o artistiche. La perizia adempie a tre funzioni che richiedono, per essere esercitate, specifiche conoscenze:

  1. svolgere indagini per acquisire dati probatori
  2. acquisire gli stessi dati selezionandoli e interpretandoli
  3. acquisire valutazioni sui dati assunti (art. 220 1º C.P.P.).

L'art. 220 C.P.P. dice che la perizia è ammessa quando "occorre svolgere indagini". La dottrina, ha interpretato tale espressione, tra l'altro diversa da quella dell'art. 314 C.P.P. abrogato che parlava di "necessarietà della perizia" limitandone quindi l'ammissibilità, nel senso che il giudice sia obbligato ad ammettere e a disporre anche d'ufficio la perizia (art. 224 1º c.p.p.), se si trova nelle condizioni di non poter svolgere indagini o accertamenti sulla base delle sole sue competenze. La giurisprudenza, da parte sua, ha sempre affermato la discrezionalità della perizia come mezzo di prova per cui anche a fronte di pareri tecnici e di documenti addotti dalla difesa, la scelta del giudice di merito di disporre indagine specifica è discrezionale. La scelta del giudice di disporre o meno la perizia sia che l'attività indagatrice conduca ad un parere, sia che sia diretta alla costituzione di una certezza, è discrezionale. Tornando alla natura giuridica della perizia, il codice la colloca tra mezzi di prova insieme alla testimonianza, l'esame delle parti nel dibattimento, i confronti, le ricognizioni, gli esperimenti giudiziali e i documenti; la perizia quindi, fornisce elementi direttamente utilizzabili a fondamento della decisione. I mezzi di ricerca della prova, le ispezioni, le perquisizioni, e le intercettazioni telefoniche, sono finalizzati ad acquisire cose, tracce, documenti, ed elementi che hanno attitudine probatoria. La perizia non è tanto una prova quanto elemento della stessa per la componente valutativa che la contraddistingue. Attraverso la perizia il perito fornisce al giudice le competenze tecniche che gli mancano. Il perito fornisce al giudice, attraverso la perizia, un giudizio sui dati e gli elementi già acquisiti. (3) Per quanto attiene la scelta del perito, si è dibattuto molto in ordine al criterio da utilizzarsi per la sua nomina. La scelta è un'attività critica comparativa, il giudice sceglie tra più soggetti quello ritenuto più idoneo all'incarico. Una scelta affidata liberamente al giudice, per alcuni, sarebbe contraria all'indipendenza del suo giudizio, ma d'altro canto, l'affidamento della scelta alle parti suscita altrettante perplessità. Esistono tre criteri praticabili per la nomina del perito:

  1. una scelta vincolata rispetto all'oggetto dell'indagine;
  2. libera scelta entro un albo;
  3. libera scelta anche fuori dall'albo.

Il vecchio codice di rito, prevedeva la libera scelta del giudice il quale doveva solo aver riguardo alla competenza specialistica del perito (314 c.p.p. abrogato).

L'art. 221 c.p.p. preoccupandosi in particolar modo della competenza e qualificazione del perito cui la perizia è affidata, ha operato la scelta per il criterio della nomina di un professionista iscritto ad un albo professionale, individuando nell'iscrizione una garanzia di professionalità. Tuttavia è ammesso, in via sussidiaria, il ricorso a "esperti di particolare competenza" e se "le valutazioni risultano di notevole complessità ovvero richiedono distinte conoscenze in differenti discipline", il giudice può disporre perizia collegiale. Infine, se la perizia è nulla, l'art. 221 c.p.p. dispone che se è possibile, "l'incarico deve essere affidato ad altro perito". L'incarico è conferito tramite ordinanza, questa fissa il giorno per il conferimento dell'incarico peritale e l'espletamento di alcune formalità rituali. L'incarico è conferito in presenza del P.M. e dei difensori di parte. Il perito declina le proprie generalità ed il giudice verifica l'assenza di cause di incompatibilità o di incapacità dello stesso, quindi lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale, ed il perito a questo punto è chiamato a rendere la dichiarazione sostitutiva del giuramento di cui all'art. 326 c.p.p. abrogato. Gli articoli 222 e 223 c.p.p. stabiliscono le cause di incapacità, incompatibilità del perito e quelle di astensione e ricusazione; si tratta di cause previste a pena di nullità della perizia. Il giudice formula i quesiti peritali sentiti il P.M., i difensori ed il perito ovviamente, al fine di una valutazione collegiale e comparativa dell'utilità che l'atto assume in ordine all'acquisizione delle prove. Circa la risposta ai quesiti, l'art. 227 1º e 2º comma del c.p.p. prevede che il perito risponda in forma orale mediante parere raccolto nel verbale, salvo la possibilità che il giudice lo autorizzi a presentare una relazione scritta necessaria ad integrare (e quindi non sostitutiva) il parere. La risposta al quesito è immediata ma ove occorra, al perito può essere concesso un termine non superiore a 90 giorni entro il quale dovrà fornire detto parere. Nelle fasi delle indagini preliminari, il G.I.P. può concedere una proroga sino ad un massimo di 6 mesi se gli accertamenti sono di particolare complessità e se disposti in dibattimento condurrebbero ad una sospensione superiore a 60 giorni. Quindi l'oralità dell'esposizione del perito è la regola e l'eccezione è la relazione scritta. La possibilità di lettura sussiste solo dopo l'esame orale del perito, ma questa è la lettera della legge ed in realtà, e i giudici e i P.M., chiedono ai periti di fornire risposte per iscritto. Sia i periti che i consulenti tecnici, sono ascoltati nel processo penale come testimoni e quindi in contraddittorio, con l'avviso di cui all'art. 497 c.p.p. e devono inoltre prestare giuramento di verità pena la nullità dell'esame. A differenza dei testimoni, periti e consulenti, si possono avvalere di testi, memorie, pubblicazioni, anche altrui, che saranno acquisite al fascicolo dibattimentale.

B) I momenti della perizia psichiatrica

Veniamo ora ad analizzare natura e finalità della perizia psichiatrica. Anche in questo caso abbiamo uno strumento di accertamento tecnico che mira a fornire al perito psichiatra gli elementi per pronunciare un "giudizio", un parere diagnostico, valutativo o prognostico. È chiaro che il ruolo istituzionale della perizia psichiatrica nel processo penale, è quindi della psichiatria forense, è l'accertamento delle condizioni di mente del periziando. È luogo comune che destinatario della perizia o soggetto della stessa sia l'imputato; in realtà i soggetti sono diversi e oltre all'imputato vi sono l'indagato, la vittima, il testimone, il condannato e l'internato. Noi ci occuperemo della perizia sull'indagato e sull'imputato. L'indagine è commissionata allo psichiatra o dal giudice, e si tratta della perizia propriamente detta o tecnicamente definita tale dal codice, disposta dal G.I.P. durante le indagini preliminari, dal G.U.P. o dal giudice del dibattimento durante lo stesso, o dal P.M. o dai difensori di parte dell'imputato o della vittima ed in tal caso si parla di consulenza tecnica di parte. La psichiatria forense comprende anche la perizia medico legale e quella giudiziaria. La prima ha ad oggetto le questioni attinenti alla deontologia professionale e la responsabilità degli operatori della salute mentale ma anche l'accertamento e la valutazione delle patologie mentali in campo assicurativo, previdenziale, assistenziale, compresa la valutazione della componente psichica del danno biologico. La perizia giudiziaria non si rivolge solo a soggetti condannati o internati ma anche alle vittime di un reato; questi sono portatori di problemi particolari in ordine alle terapie di intervento e di recupero e la loro soluzione risente del contesto differenziato in cui la psichiatria viene ad operare, ed è per questo che lo psichiatra forense ha una preparazione specifica rispetto al clinico, pur svolgendo spesso (o normalmente) anche l'attività di psichiatra clinico. (4)

Non sarebbe possibile collocare cronologicamente e logicamente nel processo penale la perizia psichiatrica senza una considerazione delle finalità a cui è rivolta. La perizia può essere disposta ai seguenti fini:

  1. l'accertamento della capacità processuale dell'imputato ovvero di partecipare coscientemente al processo;
  2. l'accertamento di 6 mesi in 6 mesi in caso di sospensione del processo per incapacità dell'imputato;
  3. l'accertamento per disporre le misure cautelari di cui agl'articoli 73, 284-286 c.p.p.;
  4. l'accertamento per stabilire l'esistenza del vizio di mente totale o parziale al momento del fatto, attuale e la pericolosità sociale.

Il nostro legislatore non si è solo preoccupato di prevedere i casi in cui la perizia può essere disposta ma anche le finalità per le quali la perizia non può essere disposta.; se escludiamo le norme del processo minorile e quelle che attengono la fase esecutiva della pena, sono vietate le perizie in ordine al carattere e la personalità dell'imputato, le forme qualificate di pericolosità sociale e in genere le qualità psichiatriche indipendenti da cause patologiche. Il dettato dell'art. 220 2º comma c.p.p. è frutto di un acceso dibattito dottrinale: da un lato vi era chi sosteneva l'essenzialità di una conoscenza più profonda della personalità del reo per adeguare, individualizzare la sanzione o il trattamento, dall'altro vi era chi temendo una sorta di strumentalizzazione dell'indagine sulla personalità ed una sua influenza negativa (un pregiudizio) sul convincimento del giudice voleva escluderlo.

Il vecchio articolo 314 c.p.p. abrogato, escludeva la perizia non solo con riguardo alla abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, ma anche quella volta ad accertare carattere e personalità dell'imputato indipendenti da cause patologiche. Sebbene si fosse affermata negli anni precedenti all'emanazione del nuovo c.p.p. una tendenza abrogatrice del divieto di perizia criminologica, questo è rimasto nel nuovo codice con una formulazione testuale identica a quella del 1930 articolo 314 c.p.p. abrogato.

A questo punto possiamo vedere le fasi in cui la perizia si inserisce: possiamo operare una dicotomia fra la fase cognitiva e quella esecutiva. Nel corso della fase cognitiva il codice di rito ammette tre tipi di accertamenti:

  1. la consulenza tecnica di parte del P.M. articoli 359-360 c.p.p.;
  2. la perizia disposta dal G.I.P. articoli 392-398 c.p.p.;
  3. la perizia dibattimentale articolo 508 c.p.p..

Nella fase esecutiva è il magistrato di sorveglianza a ordinare la perizia volta a stabilire:

  1. la presenza o persistenza di pericolosità sociale psichiatrica al momento dell'applicazione della misura dell'O.P.G.;
  2. condizioni di mente dell'internato o condannato ai fini dell'esecuzione o prosecuzione della pena o di una misura di sicurezza diversa da quella psichiatrica (O.P.G.);
  3. condizioni di mente del condannato o internato in vista della concessione di misure alternative all'internamento.

Ai fini di questa esposizione rileva la fase cognitiva. Il primo momento processuale, in cui può emergere la necessità di svolgere una perizia psichiatrica, è quello delle indagini preliminari. Durante questa fase il P.M. può, articolo 359 c.p.p., nominare e avvalersi di consulenti tecnici che non possono rifiutare la loro opera.

Il codice di rito parla di necessità di procedere ad accertamenti, rilievi segnaletici, fotografici o descrittivi e ogni operazione tecnica per cui siano necessarie specifiche competenze. Anche le parti, articolo 233 c.p.p., possono nominare in numero non superiore a due, i consulenti tecnici i quali potranno esprimere il loro parere anche attraverso la presentazione di memorie (articolo 121 c.p.p.). È possibile che la perizia sia disposta dal G.I.P. su richiesta di parte. L'articolo 392 c.p.p. prevede alla lettera F che il P.M. e la persona sottoposta a indagini, possono chiedere al G.I.P. che si proceda con incidente probatorio, alla perizia o esperimento giudiziale se la prova attiene persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione o al 3º comma quando la perizia se disposta i dibattimento potrebbe comportare una sospensione superiore ai 60 giorni. Anche in dibattimento la perizia può essere disposta dal giudice o d'ufficio o su richiesta di parte (articolo 508 1º comma). La regola sarebbe quella per cui il perito deve essere chiamato immediatamente ad esporre il parere, ma se ciò non è possibile, il giudice dispone la sospensione del dibattimento e fissa la data dell'udienza nel termine di 60 giorni.

Nella fase di appello, il giudice, se ritiene di non poter decidere sulla base degli atti può disporre la perizia e il rifiuto della richiesta della stessa, in quanto giudizio di fatto, non è sindacabile in Cassazione se motivato in modo logico e coerente. Cosa è chiesto al perito, quali fatti deve accertare? Ho esposto le finalità della perizia psichiatrica e ho evidenziato come al di là del luogo comune per cui il periziando è l'imputato, in realtà anche altri soggetti possono essere peritati. A me preme concentrarmi, ai fini di questa esposizione, sulla perizia condotta sull'indagato o imputato. Poiché l'indagine su questi soggetti può essere rivolta ad accertare tre diverse situazioni, capacità processuale, imputabilità, pericolosità, escludo la prima e la terza dedicandomi alla seconda. Al perito è solitamente chiesto di pronunciarsi su tre quesiti: "dica il perito, esaminati gli atti di causa, visitato (nome e cognome), eseguiti tutti gli accertamenti clinici e di laboratorio che ritiene necessari ed opportuni, quali fossero le condizioni di mente (di nome e cognome) al momento del fatto per cui si procede; in specie se la capacità di intendere o di volere fosse per infermità, esclusa o grandemente scemata".

Il secondo quesito attiene l'accertamento della pericolosità sociale: "in caso di accertato vizio di mente dica altresì il perito se (nome e cognome) sia persona socialmente pericolosa". Il terzo quesito attiene la capacità processuale: "dica il perito, esaminati gli atti, visitato (nome e cognome), eseguiti tutti i rilievi clinici e di laboratorio che ritiene opportuni e necessari quali siano le attuali condizioni di mente di (nome e cognome) e, in particolare, se sia o meno in grado di partecipare coscientemente al processo".

Esiste un percorso logico che lega questi quesiti; al secondo risponderà solo se ha risposto positivamente al primo e abbia accertato vizio totale o parziale di mente. Circa il terzo quesito l'articolo 70 c.p.p. dice che: "quando non deve essere pronunciato sentenza di proscioglimento o non luogo a procedere e vi è ragione di ritenere che per infermità mentale l'imputato non è in grado di partecipare coscientemente al processo, il giudice, se occorre, dispone anche di ufficio perizia".

Il nostro sistema penale, il nostro processo penale, è di tipo accusatorio ed il soggetto, dalla prima informazione (quando è indagato) all'applicazione della pena, deve essere in grado di difendersi, capace di autodifesa.

3. Nozione clinica-scientifica di perizia psichiatrica

Fin'ora ho esposto i caratteri della perizia così come emergono dal codice penale e di rito. È bene ora osservare la perizia psichiatrica da un'altra visuale, ad essa naturale e congeniale: quella scientifico-medica. A tal fine ho condotto una serie di colloqui con psichiatri forensi che mi hanno permesso di cogliere il lato meno tecnico giuridico e più pratico-scientifico dall'attività peritale. Parlando con la Dottoressa Brandi, ho appreso per esempio come ciò che può apparire evidente, la perizia è atto particolare in quanto si inserisce nel processo penale e condotta sull'indagato o imputato, è in realtà un pregiudizio di chi è estraneo alla pratica della perizia psichiatrica forense. La perizia psichiatrica, diceva la Dottoressa Brandi, è un atto medico che viene ad avere una finalità particolare nel processo penale; un atto medico cui sono connesse conseguenze particolari. (5) Ma la testimonianza di esperienza della Brandi non è isolata. Il Dottor Paterniti, anch'egli psichiatra forense, ha confermato questa impostazione, affermando di comportarsi da clinico nel corso della perizia psichiatrica.

Tuttavia occorre anche chiarire che si tratta comunque di un atto che è svolto in un contesto peculiare, da cui derivano conseguenze discriminanti la perizia psichiatrica dal colloquio psichiatrico nel contesto clinico.

La perizia non ha e non potrebbe avere scopo terapeutico ed è questa un'impostazione generalmente condivisa. (6) In un suo saggio Verde, (7) si chiede se sia possibile svolgere un'attività diagnostica in un contesto peritale penale. Egli sottolinea come la situazione peritale non è terapeutica, ma piuttosto un'attività che risponde a regole ed esigenze peculiari, più proprie alla esigenze contingenti e alla politica del diritto prevalente in un determinato periodo storico, che alla scienza psichiatrica in se. Ma quali sono queste peculiarità della situazione peritale rispetto alla situazione clinica:

  1. non si tratta di un'attività terapeutica rivolta all'individuo; il cliente che si rivolge al perito psichiatra è il giudice;
  2. la valutazione psichiatrica del paziente deve riguardare sia il passato (il momento del fatto), che il presente, e sfociare in una prognosi (giudizio di pericolosità) riguardante il futuro;
  3. la valutazione è collocata in un contesto in cui si discute della pena e se un'azione sia imputabile ad un determinato soggetto: al perito è chiesto di calarsi in un contesto di controllo disciplinare;
  4. tale contesto può influenzare l'assetto mentale del perito, si può costituire cioè un setting profondamente divergente dal setting dell'intervista psichiatrica: il setting dell'intervista psichiatrica origina e deve tornare ad una situazione processuale sottoforma di relazione scritta o orale in cui il perito concentra le sue conclusioni motivandole. Le regole di questo setting non dipendono dal perito e non sono manipolabili dallo stesso perché tracciate dalla norma legale e dalla giurisprudenza;
  5. il quesito è poi formulato in termini giuridici, come giuridico e non "naturale" è il concetto di imputabilità, come quelli di infermità, vizio totale e vizio parziale, che pongono un problema di interpretazione e di raccordo tra diritto e psichiatria che è poi la quintessenza dell'attività medico legale..

Da ciò si ricava l'impressione che anche la diagnosi sia formulata in termini giuridici o con riferimento prevalente al problema giuridico di cui il perito è stato investito.

Quella di Verde è un'altra testimonianza della peculiare natura della perizia psichiatrica. È un'attività complessa in cui il momento diagnostico si inserisce in modo del tutto anomalo rispetto alla clinica: non è diagnosi rivolta al trattamento, all'indicazione della cura, non è rivolta ad offrire un aiuto (almeno istituzionalmente non ha tale funzione) al periziando, perché non è rivolta al paziente ma a fornire una risposta, che ha sovente il valore di congettura, alla domanda sociale espressa dal giudice. Ma vi è di più: secondo Ponti, il fatto che oggi il concetto di infermità è divenuto aleatorio e indefinito farà si che il perito faccia il giudice, dato che se tutto può diventare infermità, nulla lo è realmente.

Sembra difficile ipotizzare che il perito operi prima la diagnosi con il manuale D.S.M. III - R e poi risponda ai quesiti peritali posti dal giudice. Sembra che ab origine egli sappia a chi deve rispondere e anche la ricostruzione narrativa cui addiviene il perito nella sua relazione non sfugga a tale logica, e sia rivolta alla terapia sociale della collettività lesa dal delitto e non al paziente. Tra periziando e perito sembra ergersi il muro della legge. Quindi la perizia è un atto medico perché condotto da un medico, basato su esami clinici, di laboratorio, sul colloquio psichiatrico, sulla somministrazione di test, perché condotto evidentemente alla luce delle acquisizioni moderne della scienza psichiatrica; ma è anche vero che è richiesto al perito di fare una diagnosi che diagnosi non è, perché il periziando non è un paziente che ha una sofferenza psichica che lo ha portato lì per una terapia che poi in realtà terapia non è. È un ibrido, un confuso, "un mostro", un qualcosa che serve a qualcun'altro e che farà soffrire il periziando più che star bene. Il rischio insito in questa situazione non è indifferente ed è quello di avere pseudo-diagnosi burocratizzate, arbitrarie fondate su stereotipi e su ricostruzioni narrative finalizzate a motivare conclusioni sulla capacità di intendere e di volere che dipendono da un giudizio morale o persino penale sul comportamento del reo e che la perizia viene talvolta a pronunciare. Poiché abbiamo affermato che il sapere psichiatrico non è del tutto neutro ed asettico rispetto al contesto culturale ad esso coevo, nel quadro di un processo di riaffermazione della responsabilità anche morale dell'uomo e quindi anche dell'uomo malato, il rifiuto di ogni determinismo aprioristico, unito alla consapevolezza dell'esistenza di fattori che influenzano la volizione, la psichiatria ha fatto proprio il concetto di responsabilità attenuata. Ho parlato di responsabilità morale e nell'attuale sistema penale, la valutazione richiesta al perito, non si esaurisce in una diagnosi tecnico-medica, ma consiste anche in un giudizio di responsabilità morale. La dimostrazione più convincente di ciò che ho affermato, è nella non corrispondenza degli inquadramenti nosografici della psichiatria con le valutazioni in merito alla capacità di intendere e di volere, e che il termine di riferimento non è la rigida nosografia ma la responsabilità morale. Ciò che accade nella pratica forense, è che allo psichiatra, quando intervengono fattori riducenti o attenuanti legati alla personalità del reo, è affidato il mandato sociale di valutare la responsabilità morale e ciò con la motivazione dell'accertamento dell'esistenza o meno di una malattia, ma in concreto, è quel giudizio che è richiesto allo psichiatra. L'ambiguità tra la richiesta esplicita di valutazione di infermità e quella implicita di responsabilità morale, risiede nel venir meno dell'assioma malattia mentale-irresponsabilità, ed ecco allora che al perito è chiesto di valutare il grado di influenza dell'infermità sulla libertà e di dare o no valore di malattia ad una situazione, nel considerare una pulsione vincibile o meno; in pratica è chiesto al perito di penetrare il processo volitivo. Ponti dice al riguardo che il compito del perito non sarebbe, alla luce della situazione esistente, diverso da quello del giudice, solo che al perito spetta il giudizio di responsabilità sulle personalità morbose. Il fatto, dice Ponti, che ci sia chiesto dai giudici una perizia criminologica, in altre parole, sulle dinamiche psicologiche che hanno agito in un reo e sulla sua personalità, ne è una prova. A fronte dell'incertezza sulla responsabilità piena, sull'esistenza di un vizio totale o parziale, per decidere se ciò che ci pare di intuire ha o no il valore di malattia, noi facciamo pendere la bilancia dall'uno o dall'altro lato secondo il giudizio che ci siamo andati formando sulla responsabilità morale del reo ovvero sul suo grado di libertà. Le conoscenze psichiatriche sarebbero solo una delle componenti del giudizio, e servirebbero a dare corpo ad una valutazione in merito alla responsabilità operata con una metodologia deduttiva e non induttiva. Ponti non afferma che il perito emette un giudizio arbitrario e sulla base delle sue idiosincrasie, ma che la valutazione è espressa in conformità a fattori non esclusivamente psichiatrici.

Non tutti dipingono la perizia con toni foschi; Bandini afferma che la perizia psichiatrica, anche se solo circoscritta all'esame della imputabilità, è uno strumento insostituibile, in quanto presenta garanzie che non sono possedute da altri strumenti di indagine, è chiara nelle sue finalità, non è contaminata dalle ambiguità che presentano le attività cliniche che prevedono contemporaneamente aspetti valutativi ed aspetti terapeutici. È indispensabile, comunque, che la perizia psichiatrica, come ogni altro atto medico, sia svolto in modo da rispettare al massimo i diritti dell'uomo ed in particolare dell'uomo malato. Il perito dovrebbe operare allora mantenendo il massimo della riservatezza, senza svelare aspetti della vita intima del periziando, non pertinenti all'accertamento dell'imputabilità (Bernheim). Al perito non deve essere chiesto di prendere posizione sulla consistenza dei fatti, né deve essere chiesta una descrizione caratterologica che permetta di attribuire il reato all'imputato (art. 220 2º c.p.p.). A tal fine Canepa e Fornari, hanno sostenuto l'utilità della nomina non di un perito ma di un collegio peritale costituito da esperti dei diversi settori, quello della psichiatria forense e medico legale, auspicando un approccio interdisciplinare che permetta un contatto con l'imputato corretto per una valutazione più rigorosa della realtà osservata. È inoltre suggerito di non affidare la perizia ai sanitari che si occupano, o si dovranno occupare, in futuro del trattamento. Questo sarebbe consigliabile per evitare che il clinico cui spetta il trattamento, possa svolgere atti di tipo valutativo che potrebbero condurre a benefici rispetto alla pena. Il rapporto terapeutico, infatti, può essere fortemente inquinato, compromesso da attività di tipo valutativo richieste dal magistrato e che privano tale rapporto di libertà e spontaneità. Ciò non toglie che il perito non possa tenere un atteggiamento terapeutico, di empatia, di comprensione e di coerenza. È auspicabile che il clinico che svolge attività di perito non sia coinvolto in modo prioritario in attività di trattamento del periziando, in quanto la duplicità dei ruoli può condurre a difficoltà ed errori facilmente comprensibili. Ciò non esclude, come ho avuto modo di constatare nel colloquio con i dottori Brandi e Jannucci, (8) che soggetti "passati" per gli studi clinici, poi vengono a contatto con la giustizia penale e ritrovano gli stessi psichiatri in veste di periti. (9)

4. Lo svolgimento della perizia psichiatrica

Dalla peculiare natura e finalità della perizia psichiatrica e sulla base delle raccomandazioni più comuni rivolte agli psichiatri, deriva una sorta di decalogo, di procedura, un metodo che caratterizza il colloquio psichiatrico. Merzagora distingue due momenti dell'attività del criminologo clinico:

  1. quello trattamentale e terapeutico, cioè fornire un servizio su richiesta del reo per soddisfare suoi bisogni di aiuto terapeutico, (10) di chiarificazione interiore, di programmazione, di consiglio e revisione di progetti di vita, per svolgere anche attività in ambito carcerario;
  2. il ruolo di osservazione, valutazione e prognosi su mandato dell'autorità giudiziaria (o carceraria) e che è poi il ruolo istituzionale.

Il momento che a noi interessa è il secondo ma le indicazioni che seguono sembrano applicabili ad entrambi in momenti se pur con talune sfumature.

In primo luogo il colloquio nel caso della perizia psichiatrica è una forma, una tecnica di comunicazione, che si svolge in una situazione istituzionale, che ha come antecedente il fatto che l'intervistato ha commesso (potrebbe aver commesso) un reato, e che ha come scopo fornire ad altri che hanno su di lui autorità, informazioni sulla sua personalità in relazione alla genesi e alla dinamica del reato, in caso di colloquio criminologico, sulla sua sanità mentale, (riferita al momento del fatto) in caso di perizia sull'imputabilità.

La comunicazione avviene in primo luogo a voce ed in un gruppo di due persone; se nel caso del colloquio clinico terapeutico si incontrano volontariamente instaurandosi in tal modo un rapporto clinico-paziente, nel caso della perizia psichiatrica, manca l'elemento della volontarietà ed il suddetto rapporto. Merzagora ha anche precisato la differenza tra intervista e colloquio. Sono entrambe forme di comunicazione ma il colloquio è caratterizzato dalla maggiore profondità del rapporto interpersonale mentre la seconda sarebbe caratterizzata dalla finalità di ricercare informazioni senza un rapporto stretto o profondo tra intervistatore ed intervistato.

Ebbene che tipo di rapporto può instaurarsi fra perito e periziando, se pur nell'arco di poche sedute (solitamente 3 o 4), in cui si articola la perizia. Ho cercato attraverso le interviste agli psichiatri di far emergere il modo di porsi degli stessi rispetto ad un soggetto che, almeno ai miei occhi, appare particolare: l'indagato o l'imputato. Ponti ha sottolineato che in primo luogo il perito non è dalla parte del periziando ma davanti a lui. Se non è consigliabile e sembra assente un atteggiamento moralistico che impedisca la comunicazione empatica, è anche opportuno ricordarsi il compito valutativo di cui si è investiti, da qui l'impossibilità di quel "mettersi completamente nei panni dell'altro", di "comprendere totalmente", di cui parlano Rogers e Kinget con riferimento al rapporto terapeutico. La perizia è momento di confronto fra due persone e fra due morali che possono essere diverse perché, in linea di principio, uno dei soggetti ha commesso un reato. Anche il più anticonformista dei periti troverà comportamenti che lo ripugnano: possono essere i reati sessuali, quelli dei colletti bianchi, quelli sui minori. Anche il perito ha una morale razionale ed una emotiva che possono essere mobilitate e ciò è inevitabile perché è umano e si tratta solo di convivere con tale situazione; si tratta di evitare il moralismo e non la morale. I rischi del moralismo sono di non obbiettività, di discriminare in negativo l'autore del reato che ci disturba o di trattarlo con benevolenza, consapevoli del rischio di trattarlo peggio per via delle nostre convinzioni. Non ci sono ricette per evitare il moralismo se non, come suggerisce Merzagora, esser vigili e consapevoli che la persona non è ciò che fa, una cosa è il comportamento altra cosa la personalità. La persona può anche aver commesso un reato ma non è detto che questo invada tutta la sua persona e che sia qualitativamente diversa dalle altre. Bisogna guardarsi bene anche dagli atteggiamenti opposti al moralismo, il rischio in atteggiamenti collusivi o seduttivi è che il soggetto, ansioso di parlare e di sfogarsi, confonda il perito con un terapeuta e riferisca fatti o avvenimenti che non sono a conoscenza del giudice e non sono in atti e che lo possono pregiudicare. Sarebbe disonesto, dice Merzagora, far credere al soggetto che "siamo con lui" ma non è dello stesso avviso Di Tullio che anzi suggerisce, fermo restando il criterio della obbiettività, di usare tutta l'abilità per guadagnarsi la stima e la simpatia del soggetto e ciò per eliminare le resistenze che, in ogni criminale, si riscontrano come naturale tendenza a nascondere ciò che può aggravare la situazione di reo. Circa l'atteggiamento più corretto da seguire fra i due indicati, basterebbe ricordare che il perito è un medico e non un giudice e non deve pertanto indurre a confessioni anche se opera su mandato dell'autorità giudiziaria. Inoltre è tecnicamente consigliato di individuare dei confini entro cui muoversi nel corso del colloquio ovvero gli argomenti da trattare senza sconfinamenti. Merzagora sconsiglia di affrontare gli argomenti più intimi, ansiogeni e non funzionali a rispondere ai quesiti peritali, ciò non toglie, che in alcuni casi taluni di questi argomenti siano proprio a ciò funzionali. Quando ho chiesto se la tecnica di conduzione della perizia mutasse a seconda del reato per cui si procede ovvero se il soggetto fosse indagato o imputato di bancarotta fraudolenta anziché di violenza sessuale su minore (ed era volutamente estremizzata la contrapposizione), mi è stato risposto dal dottore Paterniti, che certamente il reato per cui si procede è rilevante ai fini peritali. Sarebbe impensabile evitare l'argomento ansiogeno per eccellenza, la sfera sessuale, se si sta periziando un indagato o imputato di reato sessuale. (11) In punto di tecniche da seguirsi, Ponti ha sottolineato che se è da apprezzarsi una preparazione e sensibilità psicoanalitica, è da sconsigliare l'impiego di tecniche e di interpretazioni di tale stampo nel corso di una perizia perché non idonei alle finalità della stessa. Ma allo stesso modo è precluso al perito la possibilità di far ricorso alla narcoanalisi o a tecniche che facciano leva solo sul conscio e ciò anche perché lesive della libertà personale, quando, come nella perizia, coattivamente applicate. Anche se vi fosse il consenso dell'interessato violerebbero la sua libertà, il suo diritto di difendersi e anche di mentire. Le stesse precauzioni dovranno usarsi nella somministrazione dei test che esplorano in profondità la personalità del soggetto. Ciò non toglie che il perito non deve accettare supinamente ciò che il periziando esprime anche perché esiste un problema nella perizia che è estraneo all'ambito clinico terapeutico, la simulazione. (12) Comunque tutte queste precauzioni, sono dettate dalla volontà di tutelare chi, è indagato o imputato, da un'eccessiva violazione della sua persona partendo dal presupposto che già la perizia, essendo ordinata anche senza il consenso del periziando, è una forma di intromissione nella sua vita, da qui la proposta di Bandini per una perizia disposta solo se vi è richiesta della difesa.

È chiaro che se le finalità della perizia si riflettono sul modo di porsi del perito, anche il periziando deve essere cosciente di questo e non nutrire aspettative che sarebbero destinate a rimanere insoddisfatte. Chi conduce il colloquio non deve alimentare illusioni scegliendo quindi la linea dell'onestà e della limpidezza ma il periziando, dall'altro lato, non può chiedere o contrabbandare la sua "collaborazione" in cambio di vantaggi o promesse che il perito non può fare. La regola di Semi, la reciprocità, per cui "il paziente, uscendo, deve aver l'impressione di aver ricevuto almeno quanto ha dato", non vale per la perizia.

Evidentemente le differenze che sussistono tra colloquio terapeutico e perizia, sul piano del ruolo dell'operatore e delle aspettative dell'utente, le modalità con cui concretamente procedere, le tecniche insomma, non sono molto diverse; si tratta solo di adattamento di quelle seguite in ambito clinico all'ambito peritale. Il periziando sappiamo che non accede volontariamente al colloquio ed inoltre è persona accusata di aver commesso un fatto previsto dalla legge come reato. Non ho mancato di chiedere ai periti incontrati, come si pongono di fronte ad un soggetto particolare come è l'imputato magari di fatti gravissimi. Sembrerebbe utile mantenere un aplomb inattaccabile anche di fronte ai fatti sconcertanti, ma Sullivan ritiene che tale atteggiamento possa nuocere perché avvertito come indifferenza dal periziando e per lo psichiatra, sostiene questo autore, è pericoloso essere indifferente. Non si può chiedere allo psichiatra di stare dalla parte del soggetto (Rogers), ma neanche deve trattare il periziando come un oggetto osservato anziché come soggetto. Per quanto attiene gli argomenti quelli più scottanti non sono affrontati subito e viene stornata l'attenzione da quelli più ansiogeni (Merzagora). Il perito inizierà con il raccogliere le informazioni sulla vita del soggetto dedicandosi quindi ad argomenti meno coinvolgenti, il periziando non deve aver l'impressione che il perito stia svolgendo un'ulteriore istruttoria perché tale sensazione inquinerebbe il rapporto intervistatore-intervistato. Tra gli atteggiamenti da evitare (Merzagora) vi è la falsa ingenuità: per esempio, di fronte alle menzogne dar a vedere "di bere" quanto riferito. Sullivan sconsiglia l'ironia, anche se sottile, perché foriera di negatività. Per tentare una schematizzazione, il rapporto tra perito e periziando dovrebbe essere impostato sul rispetto reciproco, sulla consapevolezza di non essere diverso dall'interlocutore, disponibilità ed empatia senza confusione di ruoli.

Da parte del periziando quali possono essere gli atteggiamenti opposti al perito: è possibile che il perito sia avvertito come "la vacca da mungere" e si cerchi di trarre ogni beneficio possibile ed utilità immediata. È l'atteggiamento di sfruttamento.

Può esservi l'intimidazione, cioè il periziando pone un aut aut o con me o contro di me, e ciò non è possibile come ho già detto. Vi è l'atteggiamento accomodante ed ipocrita di chi collabora ma non fino in fondo. Vi è la dispersione cioè l'atteggiamento di chi è loquace ma parla di tutto eludendo quanto richiesto, e in tal caso, il perito deve chiudere il periziando sui temi specifici del colloquio. Abbiamo ancora la drammatizzazione dei propri problemi di salute e giudiziari, la seduzione verso il perito, la provocazione dialettica con atteggiamento ribelle, sarcastico e vi è poi un atteggiamento diffuso tra i membri della criminalità organizzata, l'indifferenza, l'essere impassibili e distaccati nel corso del colloquio (13). Più difficili sono l'identificazione con l'ideale di sé, il periziando non dice ciò che è ma ciò che dovrebbe essere secondo l'idea dell'ideale di sé. Infine l'inversione dei ruoli con il periziando che vorrebbe condurre il colloquio interrogando ed indagando il perito il quale deve riassumere il controllo della situazione. Ma gli atteggiamenti più comuni e conosciuti sono il silenzio (14), la menzogna e la simulazione.

Circa il silenzio e la simulazione, è d'obbligo indagare sulla natura criminale o patologica degli stessi. Esiste, infatti, il silenzio schizofrenico e per la simulazione si pongono i problemi della sindrome di Ganser, ma in genere la simulazione è simulazione di malattia mentale. La reazione al silenzio, che può anche essere dettata da motivi di riservatezza, e alla simulazione, deve essere possibilmente di invito a rispondere per il bene del soggetto stesso. Di fronte alla menzogna è più difficile mantenere un aplomb pacata, soprattutto se si ratta di menzogne grossolane, ma la permalosità è da evitarsi. Meglio, dice Merzagora, un atteggiamento deciso e chiaro che riporti il colloquio sul piano del reciproco rispetto. Non è facile per l'esperto riconoscere la simulazione tenendo conto che non può usare lye detector, sieri della verità et similia. Parlando con il dottor Paterniti ho appreso che sullo sfondo, come possibilità concreta, il perito sa che esiste il pericolo di simulazione (Merzagora, invece, sostiene che non sarebbe poi così frequente come si crede) ma che l'esperto ha i mezzi per scoprirla e smascherarla. In realtà dai colloqui che ho avuto con i periti ho tratto la conclusione che è l'esperienza personale che parla e se da un lato vi è chi dice che è facile smascherare la simulazione, dall'altro vi è chi afferma, per esempio la Dottoressa Niccheri, che non solo è difficile smascherarla ma che non sarebbe poi così frequente. (15) Circa la menzogna bisogna dire che il perito non è il giudice, non ha un ruolo inquisitorio, non deve emettere giudizi di colpevolezza. Ma come ha indicato Paterniti, il perito non si presenta come tabula rasa di fronte al periziando; ha letto gli atti del processo, i verbali delle forze dell'ordine, le dichiarazioni rese al maresciallo o altri al momento dell'arresto e almeno su questi fatti sa quando il soggetto mente. Si tratta di non indispettirsi perché la menzogna è nelle regole del giuoco, è un diritto del soggetto quindi evitare, dice Merzagora, di interrompere il colloquio scandalizzati dall'atteggiamento menzognero.

Per il silenzio esiste la possibilità di aggirarlo senza arrendersi ad esso. Può essere il potere ansiogeno di una domanda ad ingenerarlo ed è consigliato allora un approccio indiretto, più conveniente per soggetti che, non stabilmente inseriti in culture (sottoculture) criminali, hanno commesso un reato, ma che riveste il carattere di eccezionalità in un percorso di vita. Per favorire la comunicazione e "rompere" il silenzio, si può cercare di restringere per gradi le tematiche per arrivare per approssimazione successiva, al centro del problema. Ciò che è importante e che le domande siano comprensibili, pertinenti, compatibili con lo scopo dell'esame. Deve essere evitato "l'errore dell'esperto" cioè attribuire gradi di competenza all'intervistato che in realtà non possiede (Noventa 1986). Circa la documentazione del colloquio si pone la questione se prendere appunti o usare un registratore. Al di là di chiedere se la registrazione disturba il periziando, inconvenienti emergono da entrambi i lati. La registrazione è una verbalizzazione, pura testimonianza della comunicazione verbale. Gli appunti possono ostacolare il fluire della conversazione e far perdere a chi li prende, l'attenzione. (16) Si è anche pensato alle riprese visive (in particolare in caso di perizie sui minori), ma è chiaro che in tal caso emerge in maniera ancor più evidente il problema del rispetto della privacy. L'unica indicazione che potrebbe essere data è quella di non prendere appunti se questa attività ostacola la comunicazione; ma il rischio è di una scarsa utilizzabilità di quanto è emerso nel colloquio. Una soluzione universale non esiste e la scelta è contingente. Schematicamente il colloquio inizia con la raccolta delle notizie di vita, l'argomento meno ansiogeno e che consente di creare una "intimità" in vista dei temi più scottanti e probabilmente ansiogeni. Non è fase superflua quella della raccolta delle notizie di vita perché è la più oggettiva e non si presta a manipolazioni, ma è anche vero che la scelta di certi fatti piuttosto che altri, può fornire indicazioni che trascendono il mero fatto. È impensabile che possano essere raccolti tutti i fatti e tutti i dati ma è necessario che ci siano comunque dei fatti a cui ancorare le proprie conclusioni avendo ben presente, che lo psichiatra non trasforma il possibile nel certo ed il probabile nel sicuro (Ferracuti 1985), ma esprime un parere probabilistico. Viene quindi il momento di affrontare il tema del reato. Sullivan parla di passaggi d'argomento e li suddivide in graduale, l'atteggiamento consigliato, il passaggio accentuato, apprezzabile in alcuni casi, ed il passaggio brusco, accettabile solo per evitare di affrontare i temi più ansiogeni. Accade anche che sia il periziando ansioso di parlare del reato per mitigare la propria responsabilità o per dichiararsi innocente o perché gravato dal senso di colpa. Il perito ha letto i verbali, gli atti, ed è informato sul reato e sulle circostanze dello stesso. In merito ho ritenuto di chiedere al dottor Paterniti se le caratteristiche e particolarità del reato incidessero sulle tecniche del colloquio. È ovvio che sia fondamentale che il perito sia a conoscenza dei fatti non tanto per cogliere in fallo il periziando, quanto per porre le domande giuste e per evitare perdite di tempo ed imbarazzo al periziando. Quindi è importante che il perito sappia la definizione giuridica del reato, quando, dove è stato commesso, l'età dell'autore al momento del fatto, quella della vittima, il tipo di rapporto esistente con la vittima, le aggravanti e le attenuanti, le reazioni del periziando al momento dell'arresto, dell'istruttoria, al processo, in carcere, e le reazioni nell'ambiente familiare. Deve conoscere infine, la posizione giuridica; ha subito altre condanne, è un recidivo, che valutazione fornisce dei suoi precedenti, insomma il curriculum criminoso. La perizia comprende anche esami di laboratorio e non ci si deve aspettare che, in un ottica positivistica e lombrosiana, le funzioni cerebrali o semplicemente, e per quanto a noi interessa, la capacità di intendere e di volere, siano necessariamente alterate nel soggetto peritato in quanto criminale.

Di Tullio al contrario ritiene che "i comuni delinquenti sono in generale fortemente predisposti ai turbamenti relativi al grado di estensione e lucidità della coscienza, specie sotto l'influenza di stati emozionali intensi ... la capacità di giudizio è nei comuni delinquenti inferiore alla media ... in base alla nostra esperienza, nei delinquenti l'atto volitivo viene ad essere spesso irregolare, per il fatto che gli stimoli endogeni sono più intensi e più prepotenti, l'apprezzamento difettoso e la capacità di inibizione più o meno limitata".

La personalità delinquenziale per i più non esiste, anche perché il delinquere è concetto giuridico non omogeneo a quello biologico di personalità e di malattia.

Bisio suggerisce di affrontare il tema reato secondo questo schema: (17)

  1. indagare come il soggetto ha ceduto ai motivi che su di lui hanno agito;
  2. determinare perché quelli antagonistici non lo hanno inibito;
  3. come il soggetto ha concepito l'azione sociale dalla quale si è ripromesso un interesse;
  4. la preparazione e l'esecuzione del reato;
  5. passare allo studio del comportamento per verificare come la personalità reagisce agli stimoli nelle varie condizioni.

Non esiste un catalogo standardizzato di domande e soprattutto non sono concepite sulla dicotomia sano-malato. Resta l'avvertimento di non indagare o sopravvalutare le dinamiche profonde dell'inconscio che hanno condotto il reo al reato, perché mancano di requisiti di verificabilità ed oggettività delle dinamiche inconsce. In particolare si teme il rischio deterministico insito nella teoria psicoanalitica ed è probabilmente questa preoccupazione che ha spinto il legislatore ad introdurre il divieto di cui all'articolo 314 c.p.p.. Lo stesso Freud riconobbe che la sua teoria non aveva niente a che fare con la determinazione dell'innocenza o colpevolezza dell'imputato.

Sempre in ordine al precetto di cui all'art. 314 c.p.p., Gullotta dice: "il divieto si fonda sul timore che l'uso della psicologia nel processo penale possa diventare una specie di passaporto per l'impunità in quanto, attraverso impostazioni deterministiche, si potrebbe arrivare a "dimostrare" l'inevitabilità di ogni reato e quindi la coscienza e la libera volontà di azione". A completamento di un'indagine che ha il suo fulcro nel colloquio, è possibile la somministrazione di test di personalità. Come ho detto solo a completamento ed infatti a tal riguardo il dott. Paterniniti ha affermato che: "I test hanno un valore molto relativo, in genere, ma alcuni sono validati su campioni di popolazione molto ampia. Tra i più noti ed utilizzati vi è quello di Rorschach e il Minnesota (M.M.P.I.): il primo è quello delle macchie, (18) il secondo consiste in una serie di 500 domande vero falso. Certo ve ne sono molti altri il Koch, il Machover, il W.A.I.S. ma i più noti sono questi, e sono test di interpretazione della personalità, proiettivi, e sono solo un aiuto eventuale essendo il colloquio, il parlare, il capire, l'approfondire, il momento centrale tutto il resto, è un accessorio altrimenti somministreremmo solo test. (19) Esistono test che per quanto standardizzati possono fornire conclusioni peritali". (20) A questo punto il perito concluse queste fasi si sarà fatto un'idea sulle condizioni mentali del periziando e sulla risposta da dare ai quesiti. In merito al dettato dell'art. 88 c.p. ci potremmo domandare se in realtà esistono casi in cui la capacità di intendere e di volere è abolita. Lo stato delle conoscenze neurofisiologiche e psicologiche, come confermano gli psichiatri che si sono prestati a fornire la loro testimonianza, ci dicono che solo in casi rari la capacità di intendere e volere è esclusa: sono i casi di coma, di sonno profondo, di crisi convulsiva di grande male e parimenti in alcune forme di oligofrenia di grado elevato e nelle sindromi demenziali psichicamente marasmatiche; tutte queste situazioni sono definite convenzionalmente "di profonda destrutturazione dello stato di coscienza". Al di fuori di queste situazioni, gli autori, per esempio Manacorda, escludono che la capacità di intendere e di volere possa dirsi abolita; può essere modificata in pejus, ma non è detto che sia grandemente scemata e anzi, è concettualmente errato definire in termini quantitativi la capacità di intendere e di volere, poiché tutte le capacità si prestano a valutazioni qualitative.

Circa l'art. 89 c.p. ed il concetto di capacità grandemente scemata, è chiaro che l'uso dell'avverbio crea una qualche difficoltà. Sembrerebbe, almeno dalle testimonianze degli psichiatri intervistati, che la situazione di cui all'art. 89 c.p. non sia molto lontana da quella dell'art. 88 c.p.. Intendo dire che al di là delle possibilità concrete di quantizzare la capacità, il vizio parziale sarebbe assai prossimo al vizio totale. (21)

Note

1. Il processo di riduzione dello spazio di responsabilità individuale del delinquente, si colloca nell'ambito di un fenomeno culturale più ampio, e che propone in termini nuovi, l'antico quesito relativo alla libertà dell'uomo, al libero arbitrio e alla responsabilità dei singoli circa il loro operare. Ne è derivato in ambito sociologico e politico, una diffusione dei filoni di pensiero che dubitano del diritto della società di punire e, in alcuni casi ambienti giudiziari, dello stesso concetto di imputabilità; l'uomo è responsabile di ciò che fa e ha senso punirlo per quello che ha fatto illegittimamente? (Ponti, Merzagora Psichiatria e Giustizia).

2. "Quando mi affidano un incarico peritale non è tanto come mi pongo nei confronti del periziando, ma come mi pongo nei confronti del magistrato che mi da l'incarico. Alcuni magistrati danno l'incarico a persone di loro fiducia quando sanno che risponderanno più o meno a quella che è la loro visione dei fatti; io mi pongo con grande autonomia anche relativamente al giudizio che posso intravedere del magistrato, nel senso che penso che andrebbe garantita questa autonomia anche nel rispetto del perito anche se vi sono alcuni psichiatri forensi che accettano di essere condizionati nel loro giudizio dal magistrato ma questi non hanno esperienza clinica e fanno allora criminologia." dott. Jannucci.

3. La perizia non è tra l'altro obbligatoria ed in sede di legittimità non è sindacabile il motivato convincimento del giudice di merito che abbia ritenuto superflua la perizia nell'accertamento delle prove e su cui la difesa abbia chiesto un accertamento peritale. Cassazione Penale 7/6/1976.

4. "Lo psichiatra che si occupa della perizia psichiatrica dovrebbe avere insieme una grande capacità clinica e anche quelle conoscenze tecniche giuridiche e del diritto penitenziario che gli consentano di avvicinarsi, senza timori, alla perizia perché, se uno ha una grande attività clinica ma non ha mai fatto perizie si troverà, ovviamente, spaesato". dott. Jannucci.

5. "Per me la perizia può essere anche molto utile dal punto di vista terapeutico ad una persona ed è per questo che dobbiamo fare perizie che i pazienti possono leggere [...] nelle perizie bisogna essere espliciti nei confronti dell'autorità giudiziaria ma non si deve dimenticare che la perizia può andare in mano alla persona peritata e che viene giudicata e deve allora contenere elementi utili al paziente ed anche un giudizio di incapacità o di pericolosità possono essere utili". Dottoressa Brandi.

6. "L'attività psicodiagnostica mira essenzialmente a ricevere informazioni, ad inquadrare una persona avendo poco tempo a disposizione, al fine di fornire risposte in merito ai problemi, il comportamento, le difficoltà di un soggetto ad un clinico, perché la psicodiagnostica è ancella della clinica, ma manca totalmente dell'alleanza terapeutica tipica del colloquio clinico che è un punto d'unione che mira a mettere a suo agio la persona". dott. Cantale.

7. A. Verde. Perizia psichiatrica: problemi e difficoltà. Psicologo psicoterapeutico, ricercatore all'Istituto di Criminologia e Psichiatria forense dell'Università di Genova.

8. "Nei primi anni di esperienza pensavo anch'io che chi ha in cura un paziente presso un centro di salute mentale sarebbe bene si astenesse dal fare perizie, oggi invece io ritengo che sia assolutamente indispensabile che egli si occupi anche dell'attività forense di un suo paziente perché è parte della sua attività clinica e sarebbe bene che tutti gli psichiatri ne sapessero di più sull'attività forense visto che la maggior parte dei nostri pazienti si trovano ad avere grane giudiziarie". dott. Jannucci.

9. "Il perito è il braccio destro del giudice, rappresenta la legge, non può instaurare un'alleanza terapeutica con il periziando e la mancanza di quest'alleanza terapeutica fa sì che il soggetto abbia tutto il diritto di mentire, di vedere il perito come un nemico, cosa che non si ha nel rapporto terapeutico dove il terapeuta è alleato delle parti sane della persona". dott. Cantale.

10. "Non è lecito rendere virtuoso, saggio o felice un ente razionale contro la volontà di quest'ultimo. A prescindere dal fatto che questo sforzo sarebbe inutile, e che nessuno può essere virtuoso, saggio o felice se non attraverso il suo lavoro e la fatica personali, a prescindere dunque dal fatto che l'uomo non può fare ciò, egli non deve nemmeno volerlo". Fichte: La missione del dotto.

11. Il dott. Cantale, in merito all'applicazione di un metodo diverso di conduzione della perizia in ragione del reato per il quale si procede, ha affermato: "Dal mio punto di vista ciò che cambia non è il reato di cui il paziente è accusato ma è la persona che si ha davanti che incide sul modo di condurre la perizia [...] se ho di fronte uno schizofrenico il mio atteggiamento sarà diverso da quello che avrò se di fronte ho un nevrotico o un insufficiente mentale [...] l'atteggiamento è tarato sul soggetto che ho di fronte per rispetto dello stesso indipendentemente dal tipo di reato".

12. Brandi e Jannucci hanno parlato di simulazione in ambito clinico ma di diversa natura da quella che emerge nella perizia. In ambito clinico si simulerebbe la sanità e non l'insanità.

Il dott. Cantale mi ha parlato di simulazione di non totale insanità anche in ambito peritale ovvero chi rischierebbe, se riconosciuto non imputabile e pericoloso, l'O.P.G. simula la parziale infermità e in ogni modo chi simula l'infermità in ambito peritale lo fa puntando al vizio parziale di mente e non a quello totale.

13. "[...] il vero grande criminale non mi ha mai creato problemi ed anzi è stato più facile da gestire che non il teppista, il tossicodipendente agitato, i soggetti che appartengono a situazioni di marginalità, il grande criminale solitamente ha un atteggiamento estremamente rispettoso, tranquillo, corretto nei confronti del perito". dott. Cantale.

14. "Se c'è una cosa che mette in crisi lo psicodiagnosta è il silenzio, l'assenza di risposte ed è la più grande difesa che il soggetto può mettere in atto perché se non risponde, non mette l'esaminatore nelle condizioni di esaminare, non si svela e quando si svela diviene interpretabile". dott. Cantale.

15. La dottoressa Niccheri mi ha riferito che nei sui 34 anni di esperienza ha incontrato solo tre casi di simulazione e che sono stati smascherati con non poche difficoltà.

16. Anche a tal proposito posso riportare il parere della dottoressa Niccheri. La dottoressa ha espresso non solo le difficoltà legate all'uso del registratore in carcere per i permessi necessari ad introdurre tale oggetto ma anche rilevato la maggior affidabilità di tale strumento se si tratta di controbattere a contestazioni che possono venire dai consulenti di parte. Per il resto non riconosce che gli appunti facciano perdere l'attenzione; si tratta solo di fare esperienza.

17. A questo riguardo Orsenigo dice: "La specificità del discorso psichiatrico forense è mettere in relazione una determinata persona con una patologia psichica cronica o acuta precisa, all'interno di una situazione interattiva spesso unica, irripetibile: nella valutazione della capacità di intendere e di volere al momento del fatto diventa cruciale il grado di relazione genesica da una patologia psichica con il reato prodotto".

18. Al paziente è chiesto di osservare delle tavole su cui sono stampate macchie di inchiostro e di riferire cosa vede in esse, cosa suggeriscono lui quelle macchie. In realtà una risposta esatta non esiste nessuna macchia ha un significato corretto e si tratta solo di evidenziare una struttura personale.

19. È stato dimostrato che occorre essere prudenti nella valutazione di test psicodiagnostici somministrati in carcere dove i reclusi sono talvolta alterati in modo profondo ... si dovrebbe inoltre tener conto dell'effetto che il delitto produce sulla struttura psichica del reo sia in senso destruente che compensatorio. Orsenigo.

20. "[...] io penso che si lavora bene con i test, utilizzando quelli che si conoscono; io mi rifiuto di utilizzare quelli che non conosco, si garantisce il periziando che sia o meno in regime carcerario, si garantiscono i colleghi ed il giudice [...] il problema non è tanto il luogo ma chi somministra i test e ovvio che se li somministri male li somministri male ovunque". dott. Cantale.

21. "Si tratta di vedere se il disturbo psichiatrico evidenziato rende del tutto inefficiente la capacità di intendere e di volere il c.p. artt. 88 e 89 parla totale vizio di mente o parziale, ma grandemente scemata quindi uno può essere arrabbiato tantissimo la sua capacità di intendere e volere può essere un po' scemata ma non si può invocare il vizio parziale [...] se sono arrabbiato e commetto un reato ho la capacità di discernimento ridotta ma non è grandemente scemata ... altrimenti anche negli incidenti automobilistici dovrebbe esservi la capacità grandemente scemata nei due che si picchiamo a morte, è ridotta ma non grandemente che per me vuol dire, se consideriamo la totalità 100% grandemente scemata è 90% non 20%." dott. Paterniti.