ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

L'imputabilità

Gianni Giordano, 2006

1. Responsabilità penale ed imputabilità: rapporti e differenze concettuali

Elemento comune ai sistemi penali europei e non solo, è il concetto di responsabilità penale. Secondo tale concetto, che attiene la capacità di discernimento e di libera autodeterminazione, l'autore di un reato non può essere punito se incapace di "rispondere" dei suoi atti. In genere opera nei sistemi penali europei anche un meccanismo (diffuso nel diritto anche per altri istituti) di presunzione di responsabilità a partire da un'età limite. La legge penale individua poi i casi in cui la responsabilità è esclusa o per circostanze attinenti all'autore del reato (la sua persona ed in particolare le sue condizioni psichiche), ovvero a circostanze concernenti l'azione. Se, per esempio, guardiamo alla legge penale svizzera, la responsabilità è definita come la duplice capacità, al momento del fatto, di valutarne il carattere illecito e d'autodeterminarsi in conseguenza di quella valutazione. Un caso particolare è invece quello del Belgio e della Svezia due paesi nei quali il problema della responsabilità penale (dell'imputabilità) non si pone. In questi paesi, infatti, non rileva stabilire se il delinquente sia normale o meno, responsabile o irresponsabile, poiché i loro ordinamenti penali non forniscono definizioni di normalità, d'imputabilità e di responsabilità. Il solo problema che si pone è quale sia la sanzione più adeguata al caso concreto; è sufficiente che in ragione delle esigenze del diritto penale siano fissate le sanzioni, le pene, le misure di trattamento o di sicurezza adeguate alle diverse categorie di delinquenti. Oltreoceano, in talune legislazioni statunitensi, non è presente il concetto di responsabilità come lo conosciamo noi, ma lo stato psichico del soggetto può rilevare come circostanza attenuante particolare. (1) Per quanto attiene la nostra realtà normativa, il legislatore ha voluto distinguere responsabilità e imputabilità.

Partiamo da un dato normativo, l'art. 42 c.p., il quale dice: "Nessuno può essere punito per un'azione preveduta dalla legge come reato se non l'ha commesso con coscienza e con volontà ...". Secondo questa norma, la responsabilità penale dell'autore di un reato, s'identifica con il possesso della generica capacità di coscienza e volontà.

La responsabilità penale è l'obbligo di sottoporsi alle pene stabilite dal codice in rapporto al compimento di un reato. La responsabilità penale presuppone l'aderenza del fatto concreto a quello tipico e può essere esclusa quando un soggetto, perfettamente "normale" dal punto di vista psichico, abbia commesso un illecito penale in condizioni di legittima difesa (art. 52 c.p.), ovvero in stato di necessità (art. 54 c.p.).

Per quanto attiene all'imputabilità, questa è disciplinata dal nostro ordinamento in modo chiaro; occorre precisare che anche se l'imputabilità è indagata nel corso del processo penale, essa va sempre riferita al momento in cui fu commesso il fatto di reato per il quale si procede.

L'imputabilità è definita come la capacità di intendere e di volere al momento del fatto (art. 85 c.p.). Ma cosa s'intende per capacità di intendere e di volere?

La capacità di intendere è l'attitudine del soggetto a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge intorno a lui e di cogliere il valore sociale positivo o negativo dei suoi atti; essa presuppone l'idoneità psichica di comprendere o discernere le proprie azioni od omissioni (art. 40 c.p.) ed i motivi della propria condotta. La capacità di intendere il valore prescinde dal sentire, dal condividere, dal vivere il valore normativo del fatto e che è cosa diversa dal non intendere un fatto negativo, illecito.

La capacità di volere è l'attitudine del soggetto a determinarsi in modo autonomo, a scegliere tra i motivi coscienti in vista di uno scopo, di "volere" ciò che l'intelletto ha reputato doversi fare, di comportarsi coerentemente con tale scelta, di optare per la condotta che pare più ragionevole e resistere agli stimoli d'avvenimenti esterni. Appare chiaro quindi che il principio, il paradigma su cui si regge tutta la nostra impalcatura culturale, giuridica e morale, è il principio di responsabilità che ha come premessa la libertà dell'autore del fatto delittuoso. Se non ci fosse tale libertà non avrebbero senso la sanzione, la riprovazione sociale, l'idea di colpa, il concetto di devianza, quello di giustizia e di diritto. Corollario di tale principio, è quello reciproco per cui, può essere chiamato a rispondere di un fatto solo colui per il quale esista solidarietà con i propri atti. Il fulcro del nostro contratto sociale è quello secondo cui l'individuo è libero, quindi è responsabile e deve rispondere dei propri atti; se si presume esistente, nell'uomo, il libero arbitrio, ne deve conseguire la responsabilità morale del reo e ovviamente quella giuridica. È chiaro che l'elaborazione del concetto di responsabilità penale attiene le scienze umane ed in particolare è costruita sulle concezioni fondamentali della filosofia, della teoretica e della morale. Il concetto di responsabilità penale è oggi oggetto di revisione ma non si può pensare a rinunciarvi. Tuttavia occorre distinguere la responsabilità penale, che è concetto giuridico è alla cui definizione contribuiscono il diritto, la filosofia e la morale, dalla responsabilizzazione come esigenza primaria per la formazione e la socializzazione dell'uomo, come principio pulsore di ogni azione finalizzata alla sua realizzazione in ogni campo.

2. Imputabilità: meccanismi presuntivi

Il nostro legislatore, a fronte dell'impossibilità di accertare in positivo la capacità individuale di agire altrimenti nel caso concreto e della difficoltà empirica di verificare il peso dei fattori antagonistici nel processo di motivazione, presume, nel genere umano, la libertà d'autodeterminazione del soggetto agente in assenza di cause che valgono ad escluderla, ovvero, ragionando in negativo, la libertà sussiste se non ci sono cause che la escludono. L'art. 85 c.p. ci dice che esiste un certo numero di soggetti che può tenere comportamenti alternativi e che quindi possono essere ritenuti responsabili dei loro atti. Tra gli estremi ideologici dati, da un lato da coloro che ritengono sempre responsabili i delinquenti e dall'altro coloro che ritengono gli stessi sempre irresponsabili, vi è la realtà dei molti responsabili e dei pochi irresponsabili. L'art. 85 c.p. individua il presupposto della responsabilità nell'imputabilità. Questa non è, riduttivamente, la capacità alla pena, ma la capacità alla colpevolezza e in subordine alla pena come conseguenza della colpevolezza. Senza imputabilità non vi è colpevolezza, senza colpevolezza non vi può essere pena (nulla pena sine culpa). Quindi l'imputabilità è l'attribuibilità di un fatto ad un soggetto ed è condizione, se ricorrono le altre previste dalla legge, per l'irrogazione di una pena propriamente detta; è d'obbligo tale precisazione perché al non imputabile non si applica la pena ma può applicarsi una misura di sicurezza se ne ricorrono i presupposti. La legge operando secondo un meccanismo presuntivo riconosce il soggetto maggiorenne, che ha compiuto i 18 anni, imputabile ovvero capace di intendere e di volere. L'uomo normalmente, secondo l'id quod plerunque accidit, è capace di libere scelte e perciò imputabile. Si ritiene che a quest'età l'uomo raggiunge un'adeguata maturità psichica e per adeguata s'intende un livello di capacità di intendere e di volere che risulta sufficiente a rettamente recepire il comando ingiuntivo o interdittivo della norma penale e a conformarvi l'azione. Pertanto, deve darsi per scontato che i precetti penali siano concepiti avendo come destinatari tali soggetti, in poche parole, devono essere tarati sulle capacità psichiche di soggetti che abbiano superato i 18 anni. Accanto a questa presunzione, positiva e relativa, opera un'altra presunzione, negativa ed assoluta, quella relativa al minore d'anni 14. L'art. 97 c.p. afferma che "non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i 14 anni." Questo si spiega perché la capacità di intendere e di volere è la risultante dello sviluppo psicofisico del soggetto, alla nascita il patrimonio psichico è nullo e con il tempo si sviluppa fino a raggiungere (se la raggiunge) la maturità psichica. Quando la maturità è raggiunta, non è un dato certo ed inequivocabilmente affermabile con riferimento a tutti gli individui. Il legislatore per esigenze di certezza, semplicità, celerità ed anche d'uguaglianza (se pur uguaglianza formale), ha presupposto che tale maturità è conseguita con la maggiore età. Pertanto il maggiorenne è imputabile mentre il minore d'anni 14 non è imputabile. Non vi è nel nostro ordinamento un meccanismo d'accertamento in concreto ed individuale svincolato da presunzioni, ma un criterio cronologico che sulla base delle risultanze dell'esperienza e delle scienze, opera la duplice presunzione descritta. Vi sono poi i soggetti infradiciottenni che hanno compiuto i 14 anni; per questi soggetti, vige un meccanismo d'accertamento caso per caso, in concreto, dell'imputabilità. L'art. 98 c.p., infatti, dice che "È imputabile chi, nel momento i cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i 14 anni, ma non ancora i 18 anni, se aveva la capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita". Sebbene manchi un'esplicita presunzione circa la presenza o il difetto d'imputabilità, si deve ritenere che al fondo sussista un presunzione implicita (relativa) di difetto d'imputabilità nel soggetto che ha compiuto i 14 anni ma non i 18 anni. Ciò comporta che una sentenza di condanna nei confronti di un tale imputato, non preceduta dall'accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto per cui si procede, sarebbe carente in quanto a motivazione. Con gli infradiciottenni, lo scibile dei soggetti che possono venir a contatto con la giustizia penale è completo. Si tratta di valutare ora quali cause, quali fattori, possono incidere sulla valutazione dell'imputabilità nel senso di escluderla o attenuarla.

3. Le cause d'esclusione e di attenuazione dell'imputabilità

Ho evidenziato i meccanismi presuntivi che operano nel codice penale, si tratta di evidenziare le condizioni per le quali queste vengono meno. Per il minore d'anni 14, la presunzione è assoluta e pertanto non esiste possibilità (per definizione) di prova contraria. L'infraquattordicenne è sempre non imputabile. La presunzione che opera rispetto al soggetto maggiorenne, è relativa il che vuol dire che è ammessa la prova contraria. Si presume che il soggetto maggiorenne sia imputabile ma esistono fattori che possono escludere o attenuare l'imputabilità. Tali cause, di cui (secondo il meccanismo negativo descritto) il giudice deve accertare l'assenza perché il soggetto sia imputabile sono:

  1. i casi d'intossicazione acuta da alcol o da stupefacenti dovuti a caso fortuito o forza maggiore artt. 91 e 93 c.p.;
  2. i casi in cui l'autore è stato reso da altri incapace di intendere o di volere;
  3. i casi in cui il soggetto presentava al momento del commesso delitto, un quadro d'infermità tale da escludere, art. 88 c.p. o da scemare grandemente art. 89 c.p. la sua capacità di intendere o di volere;
  4. il caso del minorenne che ha compiuto i 14 anni ma non ancora i 18, che per immaturità non aveva al momento del fatto, la capacità di intendere o di volere art. 98 c.p.

Se si esclude quest'ultimo caso, per il quale si tratta di verificare lo sviluppo psico-sociale, in tutte le ipotesi citate, si tratta di casi d'incapacità di intendere o volere riconducibili ad un'infermità mentale a sua volta produttiva di vizio totale o parziale. È ovvio che il giudice il quale nutra dubbi sulla sanità mentale del soggetto, indagato o imputato, si avvarrà del perito o di un collegio di periti perché sia svolta perizia e sulla base del parere peritale possa decidere formulando un giudizio.

In merito alle cause d'esclusione dell'imputabilità devo dire che, in alcuni autori, suscita più di un dubbio il fatto che superato lo scoglio dell'età vi sia ancora spazio per la non imputabilità per vizio di mente. Per taluni questo vuol dire dare al giudice e al perito il potere di espropriare il soggetto della qualità di persona anagraficamente adulta, ripristinando l'equazione amens-infans ricorrente nella trattatistica. La pronuncia di difetto d'imputabilità non solo deresponsabilizza ma ha anche un effetto deleterio in termini terapeutici in quanto accresce il distacco dalla realtà, il senso d'onnipotenza, spinge in senso opposto all'integrazione intrapsichica, approfondisce il disturbo di partenza. Il proscioglimento per vizio di mente, per Manacorda, renderebbe ancor più disturbata una persona. Da qui la proposta di abolire la nozione di imputabilità, almeno con riguardo a coloro che hanno superarto l'età limite dei 14 anni. Sopra i 14 anni sarebbero tutti imputabili e il problema della malattia psichica rileverebbe ai fini dell'esclusione del dolo o della colpa e ciò nei casi di reale incapacità di intendere e di volere. Nelle ipotesi di deliranti di gelosia o persecuzione, per esempio, poiché queste non escludono la capacità d'intendere e di volere, si tratterà di tenerne conto nell'irrogazione della pena. Manacorda suggeriva anche di prevedere un meccanismo per il quale, nei casi di minorata contrattualità sociale accertata rigorosamente, sia disposta una riduzione di pena, purché non si tratti di un meccanismo che operi in modo indiscriminato per i portatori di disturbi psichici ma aperto alla considerazione degli altri fattori, sociali, economici, culturali, fisici e personali, che incido sulla contrattualità sociale diminuendola.

Ho indicato le cause che valgono ad escludere o attenuare la capacità di intendere o di volere per il nostro codice, ma non vuol dire che al di là di queste la capacità giuridica coincida con quella naturale e la normativa di cui all'art. 92 c.p. sull'ubriachezza ne è testimonianza. Nel caso di incapacità procurata al fine di commettere un reato, non solo non si fa questione di imputabilità esclusa o ridotta, ma la pena è aumentata.

Per pure ragioni di completezza cito anche l'art. 96 c.p. relativo al sordomutismo: il sordomuto se a causa della sua infermità non era, al momento del fatto, capace di intendere o volere, non è imputabile, e se tale capacità era gravemente scemata, la pena è diminuita. L'udito ed il linguaggio sono importanti per lo sviluppo psichico e pertanto se il sordomutismo è causa di incapacità il soggetto non è imputabile (ciò non toglie che se pericoloso si applichi la misura dell'O.P.G.), se capace è un soggetto come gli altri e quindi imputabile, se scemata la pena è ridotta. (2) Appare delinearsi quindi lo spazio in cui si inserisce la psichiatria forense; nel quadro delle presunzioni legali, vi è lo spazio per le eccezioni al principio generale della sussistenza della capacità di intendere e volere, e sul ricorrere o meno di questa, è chiamato a pronunciare il suo parere il perito. L'eccezione è rappresentata dall'individuo, indagato o imputato, malato di mente, o meglio, da colui che a ragione di infermità ha visto abolita o grandemente scemata la capacità di diritto penale.

4. La nozione di infermità: staticità giuridica di un termine scientificamente superato

Si è molto discusso, specie da parte degli psichiatri forensi, sulla normativa italiana che prevede il riconoscimento di un'infermità che escluda o limiti grandemente la capacità di intendere o di volere al momento del reato. Il concetto di infermità, oggi che ha perduto il legame che aveva in passato con il termine follia, è divenuto vago e indeterminato ed ha perduto per la psichiatria ogni valore da quando si è scoperto, si è preso coscienza, che il disturbo mentale non è solo malattia, ma è un'entità complessa, non definibile, in ordine alla quale vi sono poche certezze circa l'eziologia e che in definitiva è la risultante di una condizione sistemica nella quale concorrono il patrimonio genico, la costituzione, le vicende di vita, gli stress, il tipo d'ambiente, l'individuale plasticità dell'encefalo, i meccanismi psicodinamici, la peculiare modalità di reagire, di opporsi, di difendersi. Oggi non esiste più la malattia mentale nel senso antico del termine e nessuno psichiatra potrebbe onestamente darne una definizione; oggi esiste una visione plurifattoriale integrata della malattia mentale. Per quanto attiene alla nozione di infermità, questa è oggi intesa o in senso ampio, che permetta di includere ogni tipo di disturbo che incide sullo stato di mente, o in senso restrittivo e tale da comprendere solo i casi di vera e propria psicosi o condizione psicologica equivalente. Oggi è come se si fronteggiassero due diversi orientamenti in tema di valutazione psichiatrica forense: uno auspica un sempre più stretto vincolo ed un maggior rigore nosografico e l'altro, che ritiene che il giudizio sull'imputabilità prescinda in gran parte dalla nosografia. (3) La nosografia è lo studio puramente descrittivo delle malattie ed il criterio nosografico differenzia rigorosamente i vari disturbi in funzione della formulazione delle diverse diagnosi. Dalla diagnosi derivano poi rigorose conseguenze in ordine alla prognosi, alla terapia, e per quanto c'interessa, alla responsabilità, all'imputabilità, alla pericolosità. Il criterio nosografico, che dovrebbe conferire certezza, in realtà non risolve il problema della traduzione della diagnosi in valutazione psichiatrica-forense ed è alto il rischio di una trasposizione arbitraria e pericolosamente allargata dell'incapacità di intendere e di volere. Il riferimento è al tentativo di forzare l'etichetta nosografica per farvi rientrare tutta una serie di situazioni (comportamenti improvvisi, apparentemente immotivati o che rivelano sproporzione fra motivo e azione, incongrui rispetto allo stile di vita, e che si verificano magari senza un segnale di preavviso in termini di psicopatologia dell'autore) e per le quali l'etichetta di stati emotivi e passionali ex art. 90 c.p. va stretta. Il legislatore ha voluto operare, nel disciplinare l'imputabilità, una distinzione tra le cause patologiche e quelle non patologiche escludenti o grandemente scemanti la capacità di intendere e di volere ed ha escluso, per ragioni pedagogiche, gli stati emotivi e passionali; l'uomo, se non è malato, deve controllare i propri istinti. L'articolo 90 c.p. non fa che dire che questi stati non sono rilevanti di per sé, se non riconducibili ad un'alterazione mentale patologica che abbia il valore di infermità. Se è così allora lo psichiatra, se vorrà, potrà aggirare il divieto dell'art. 90 c.p. affermando che, in una data fattispecie, non si trattava semplicemente di stati emotivi e passionali ma di una condizione ove l'ansia, la passione, l'ira hanno agito "con modalità patologica avente valore di malattia" ovvero "secondo un meccanismo morboso o come un'infermità transitoria". Questo accade perché lo psichiatra forense opera secondo convenzioni più che secondo convinzioni; si trova a dover seguire i capricci di una giurisprudenza che mutati i vecchi paradigmi di riferimento, sembra voltar gabbana secondo l'autorevolezza o persuasività del perito con il rischio che il perito faccia il giudice concedendo o meno il vizio totale o parziale. La nosografia, che avrebbe dovuto creare una situazione di certezza ed univocità di giudizi, ha portato invece a far rientrare dalla finestra situazioni che si erano volute escludere ope legis, ma non solo, è accaduto che una stessa denominazione nosografica talvolta gravasse ed altre no sull'imputabilità. (4) È chiaro allora che ciò che ha portato alle critiche verso la nosografia psichiatrica, è il fatto che da un lato sia troppo ampia e rischia di non essere praticabile in ambito forense, con il pericolo di ricomprendere situazioni magari abbisognevoli di cura e trattamento ma non tali da escludere l'imputabilità, e dall'altro, troppo stretta e rigida talché vi sono situazioni non inquadrabili in una denominazione nosografica preesistente e si coniano neologismi del tipo, raptus, reazione a corto circuito, discrontrollo episodico, o alla forzatura, poco rigorosa, di termini psichiatrici come il disturbo borderline di personalità. Ciò non vuol dire che deve essere abbandonata la nosografia, perché un riferimento terminologico uniforme è necessario e da qui l'indicazione ad avvalersi della nosografia dei DSM (DSM III-R, DSM IV) senza trarre però da essa immediate conseguenze sul piano medico-legale. D'altronde che sia superato il rigido inquadramento nosografico con il giudizio sull'imputabilità è dimostrato dal fatto che, per esempio, la psicosi non è di per se ragione d'incapacità e la nevrosi non porta necessariamente all'imputabilità. Oggi ciò che accade nella valutazione richiesta al perito, è che non si ha la ricerca di una malattia da cui trarre conseguenze sul piano della capacità o meno di intendere e di volere, ma che si ricerchi il residuo spazio di libertà nell'individuo. Il perito valuta la capacità di intendere e di volere e quando la ritiene compromessa, formula il giudizio sul vizio di mente e se il periziato è portatore di un disturbo che rientra nella nosografia psichiatrica, lo mette in rilievo. Ove non esiste la possibilità d'incasellamento nosografico, adatta la nosografia studiata per la clinica, allo scopo di renderla utilizzabile ad un diverso fine. Allora il riferimento all'infermità, di cui agl'artt. 88 e 89 c.p., è nominalistico. Ciò che rileva è che sia intaccata la capacità di intendere e di volere, poi, il nome della malattia che la inquina diviene secondario. Ecco perché si afferma che il concetto d'infermità non ha più confini ed è divenuto evanescente. Ciò significa che il procedimento logico descritto dal codice, non è di fatto praticato ma rovesciato completamente. Il codice vorrebbe si cercasse l'infermità e verificare se è abolita la capacità di intendere e di volere; nella prassi avviene che si ricerchi questa e se compromessa al momento del fatto, se ne inferisce un'infermità, anche prescindendo dall'inquadramento nosografico oppure forzandolo. Il riferimento nosografico allora è inutile o utile solo per omogeneità di linguaggio.

Bandini ha affermato che sarebbe opportuno staccarsi dal momento diagnostico nosografico, in altre parole, evitare un metodo che preveda l'utilizzazione di una rigida nosografia psichiatrica la quale condurrebbe ad artificiosi e facili parallelismi tra specifiche diagnosi e conclusioni sull'imputabilità; sono, infatti, frequenti i casi in cui il cosiddetto malato di mente, compie un reato in una condizione che gli permette di comprendere il significato del suo atto e di determinarsi di conseguenza, così come non infrequenti i casi in cui una sindrome nevrotica, costituisce un'infermità tale da escludere la capacità di intendere o di volere. In psichiatria forense sarebbe quindi opportuno, considerare non tanto la malattia, quanto la sindrome od il singolo sintomo psicopatologico, cogliendo di tale sintomo i principali aspetti eziologici, di gravità, d'aderenza o meno al reale, di consapevolezza critica, d'adattamento sociale, valutando in che modo e grado tale sintomo incide sulla capacità di volere del soggetto. Non è stata esente da critiche anche la scelta del legislatore di collegare la patologia mentale alle due capacità di intendere e di volere. Non solo è criticata l'artificiosa separazione delle due capacità, ma anche la connotazione più metafisica che scientifica della capacità di volere. Bernheim ha rilevato come la capacità di volere è difficilmente collegabile ad una valutazione clinica in quanto è connotata da assunti morali, è la risultante d'interazioni e dinamiche psicologiche complesse, all'interno delle quali è spesso impossibile sondare gli aspetti normali da quelli patologici. Da qui deriva la richiesta dei clinici di limitare l'accertamento alla sola capacità di intendere e cioè di quell'attitudine del soggetto autore di un reato, di discernere rettamente i fatti secondo un pensiero coerente, di avere la consapevolezza dei suoi atti e di prevederne le conseguenze. Lo psichiatra sembra in grado di ricercare come l'autore di un reato si sia rappresentata una situazione, in che grado abbia avuto coscienza del carattere delittuoso del suo gesto. Infine, criticata sul piano clinico, è la nozione di vizio parziale di mente. Difficilmente definibile in clinica, è una nozione che si presta e si è prestata a strumentalizzazioni in ambito giuridico. Sembra quindi potersi affermare che al di là del formalismo legale e di un'interpretazione letterale del termine infermità nel codice penale, il perito deve sempre procedere in modo rigoroso e con parametri scientifici all'accertamento delle capacità, ma non può escludere dal concetto d'infermità disturbi che in realtà possono (anche se in rari casi) assumere un rilevante significato patologico. La psichiatria pertanto non sa precisare cosa si deve intendere per malattia mentale e per infermità. Non è un caso che, di fatto, la psichiatria ha rinunciato a tale termine e parla di disturbi. La psichiatria li conosce, li classifica, li cura ma non li definisce, come non definisce la sanità mentale. Non esiste una soddisfacente definizione che specifichi i confini del concetto di "disturbo mentale". Ciascuno dei disturbi è concepito come "una sindrome o modalità comportamentale o psicologica clinicamente significativa, che si manifesti in un individuo e che tipicamente associata o con un malessere attuale (sintomo dolore), o con menomazione (alterazione di una o più aree del funzionamento), o con un rischio significativamente aumentato di andare incontro a morte, o dolore, a invalidità, o a un'importante perdita di libertà" (DSM III-R). Il disturbo è dunque più semplicemente "la manifestazione di una disfunzione comportamentale, psicologica o biologica nella persona" (DSM III-R).

La valutazione dei fattori che valgono ad escludere (art. 88 c.p.) o a scemare (art. 89 c.p.) tale capacità, rientra nei compiti della psichiatria forense attraverso la perizia psichiatrica. Già si potrebbe porre un punto fermo (che poi nel proseguo dell'indagine risulterà non essere proprio tale): il compito del perito psichiatra è valutare l'imputabilità e non la responsabilità.

Note

1. A questo proposito Morris, ha affermato che non vi è motivo per cui lo stato mentale non debba essere considerato alla stregua di altre condizioni, quali l'appartenenza ad ambienti familiari depravati o la residenza in ambienti urbani marginali, e propone di considerare il disturbo psichico nel sistema delle attenuanti.

2. Resta ferma la previsione di cui all'art. 219 c.p. per l'applicazione della misura della casa di cura o libertà vigilata.

3. In psichiatria forense l'inquadramento nosografico non aiuta più di tanto; il termine di riferimento è un altro. Il giudizio in tema di incapacità di intendere e di volere non è, almeno nel nostro sistema, un giudizio solo tecnico, una mera diagnosi psichiatrica, bensì una valutazione attinente allo spazio della residua libertà (o responsabilità morale) del singolo (Ponti, Merzagora, 1986).

4. Gli stati emotivi e passionali, che ai sensi dell'art. 90 c.p. non escludono né diminuiscono l'imputabilità, possono eccezionalmente aver rilievo, ai fini dell'eliminazione e dell'attenuazione della capacità di intendere e di volere, solo quando, esorbitano la sfera puramente psicologica, degenerando in un vero e proprio, anche se transeunte, squilibrio mentale, tale da obnubilare ed attenuare la coscienza e da paralizzare in toto e notevolmente i freni inibitori e, con essi, la volontà (Cass. Pen., 6 giugno 1972).