ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
Aspetti giuridici delle colonie penali agricole

Alfredo Gambardella, 2006

1 La normativa del Regno d'Italia nell'Ottocento e nel Novecento

1.1 Dall'unità alla unificazione penale del 1889

Nel precedente capitolo abbiamo visto come la prima colonia penale agricola nasce a Pianosa nel 1858 (1) grazie al progetto del cav. Peri (2), e con l'invio dei primi sedici corrigendi nel maggio dello stesso anno. Essendo l'isola di Pianosa un territorio appartenente al Granducato di Toscana, al nuovo istituto si applica integralmente il "regolamento fondamentale degli stabilimenti penali" (3), testo approvato insieme al codice penale del 1853. Come noto, l'Italia raggiungerà l'unificazione legislativa del diritto penale solamente nel 1889 col codice Zanardelli (4), mentre prima di esso esistono tre differenti legislazioni penali: il codice sardo - piemontese viene progressivamente esteso alle regioni settentrionali; lo stesso codice "modificato" da due decreti luogotenenziali del 1861 in vigore nelle regioni meridionali; il codice toscano modificato dal governo provvisorio nel 1859 che elimina formalmente la pena di morte. (5) Per quanto riguarda il regolamento delle carceri del Granducato di Toscana (6), esso disciplina l'intera materia in modo relativamente chiaro e semplice; infatti si compone di soli ventisette articoli divisi in sette capi, rispettivamente riguardanti il vitto, il vestiario, il lavoro, le mercedi, la disponibilità della mercede, il modo di temperare la severità della segregazione continua ed infine le punizioni.

Bisogna rilevare che il regolamento prevede, in modo conforme col codice penale (7), le sole pene dell'ergastolo, della casa di forze e del carcere. Molto interessante è il capo III riguardante il lavoro dei condannati; anzitutto viene stabilita l'obbligatorietà del lavoro a totale profitto dell'amministrazione, avendo riguardo nella scelta del mestiere alle "inclinazioni ed alle attitudini del condannato" (8); l'art. 16 si occupa delle mercedi, le quali non hanno lo scopo di pagare il lavoro dei detenuti (il cui profitto spetta all'amministrazione) ma a "promuoverne la loro operosità e buona condotta, e ad accumulare per essi un avanzo, col quale, se miserabili, possono provvedere, scontata la pena, ai primi bisogni della loro libertà". Infine il capo V riguarda i modi attraverso i quali i condannati possono usufruire della quota disponibile delle mercede giornaliera (9), in particolare la gestione del "sopravvitto" (10). Come si può constatare da questi articoli, il regolamento, nella sua semplicità, regola abbastanza agevolmente l'organizzazione delle "prigioni tradizionali", ma la neonata colonia di Pianosa, richiedeva una organizzazione del tutto particolare.

L'istituto di Pianosa sopravvisse alla unità d'Italia, anzi si arrivò nel giugno del 1861 ad un record di 149 condannati (11); nel frattempo l'esigenza di uniformare i regolamenti carcerari fece in modo che nel 1862 venne promulgato il "Regolamento Generale per le Case di Pena" (12), il quale all'art. 1 prevedeva espressamente la sua applicabilità anche agli "stabilimenti penali esistenti nelle Provincie Toscane in forza dei provvedimenti speciali vigenti in esse, e non compresi nelle suindicate categorie di case [e cioè le case di forza per i condannati alla detenzione, i castelli od altri luoghi forti per i condannati alla relegazione, le case di correzione per i condannati al carcere, e le case di pena per i condannati alla custodia]". Tale regolamento si sarebbe dovuto applicare anche a Pianosa, benché la colonia penale agricola non fosse stata menzionata specificatamente. Questo regolamento, a differenza di quello toscano, è molto più complesso ed articolato, in quanto conta ben cinquecentocinquantotto articoli, i quali disciplinano minuziosamente l'intera organizzazione degli istituti di pena (13).

Ben presto però ci si accorge che l'istituto di Pianosa rappresenta una tipologia di casa panale con delle caratteristiche così particolari che, ad integrazione di questo regolamento, viene emanato un decreto del Ministero dell'Interno che riguarda esclusivamente la colonia di Pianosa (14), a cui fa poi seguito una circolare, sempre del Ministero dell'Interno (15), la quale si occupava specificamente dei criteri circa il trasferimento dei condannati dalle case penali alla colonia di Pianosa; il Ministro in particolare stabilì che: "1) I condannati da prescegliersi, abbiano diggià scontata metà della pena. 2) La loro condotta sia stata lodevole, ed abbiano fornite non dubbie prove di ravvedimento, e non siano incorsi in punizioni durante gli ultimi sei mesi. 3) Siano di robusta costituzione e vengano riconosciuti idonei e validi ai lavori agricoli. 4) Non siano stati condannati per delitti di sangue". Tutto questo si rese necessario per evitare che sull'isola giungessero persone pericolose, le quali mettessero a rischio il buon funzionamento della colonia, oppure persone totalmente inabili al lavoro agricolo.

Questa situazione di disorganicità, dovuta al regolamento applicato solo in parte e a integrazioni ministeriali emanate per colmare vuoti legislativi, ma non esaustive, durò per molti anni, e il decreto ministeriale del 1863 veniva a mano a mano esteso alle nuove colonie che sorsero in Italia, senza giungere a una soluzione organica in materia legislativa. Solamente nel 1887 viene emanato il nuovo regolamento per le colonie penali agricole (16), con validità dal primo marzo dello stesso anno. L'esigenza di creare una nuova normativa per le colonie era data dal fatto che ormai il decreto ministeriale del 1863 per Pianosa, non era più applicabile alla generalità delle colonie penali, in quanto ognuna di esse aveva delle proprie caratteristiche organizzative (17) e di funzionamento, per cui si rese necessaria una disciplina generale dell'intera materia. Questo nuovo regolamento, composto di ben settantadue articoli, rappresenta una normativa speciale destinata alle colonie penali agricole, fermo restando per tutto il resto il regolamento generale per le case di pena del 1862 (18). All'art. 1 si stabilisce anzitutto che le colonie possono essere di due specie, quelle destinate ai condannati ai lavori forzati e quelle ai condannati a tutte le altre pene, inoltre vengono stabiliti i principali lavori che si svolgeranno all'interno delle colonie, in particolare quelli di coltivazione, di dissodamento e bonifica dei terreni, i lavori riguardanti la "costruzione di strade e fabbricati e nell'esercizio di arti affini o sussidiarie dell'agricoltura o di speciali industrie in servizio delle Colonie stesse" (Art. 3). Viene fatta inoltre definitiva chiarezza circa le modalità di invio nelle colonie (19), precisando che in esse "sono inviate per ordine del Ministero, in seguito a proposta motivata del Consiglio di disciplina dei varii luoghi di pena, i condannati che, per la durata dell'espiazione fatta e per la lodevole condotta tenuta, siano riconosciuti meritevoli di premio" (art. 4), ed inoltre stabilendo che, pena l'allontanamento (20), il requisito della buona condotta deve persistere durante tutto il tempo di permanenza nella colonia (art. 5). Alla guida della colonia vi era il direttore (art. 10), ma, fra le più rilevanti novità previste da questo regolamento, viene data la possibilità al Ministero di nominare un agronomo (quale vero e proprio vicedirettore) (21), col compito di affiancare il direttore per quanto riguarda in particolare le decisioni specifiche e tecniche attinenti "all'agricoltura ed industrie affini" (art. 11), essendo egli anche responsabile della "buona conservazione (...) dei prodotti" (art. 20) e "della conservazione delle macchine (...) e all'allevamento del bestiame" (art. 19).

Le norme riguardanti i condannati prevedono che, al posto dell'usuale isolamento prescritto per i detenuti al loro arrivo in carcere, i destinati alle colonie vengano istruiti circa le regole che dovranno osservare durante la loro permanenza (art. 42), in particolare viene riconfermata, la regola di stampo "auburniano" circa l'obbligo del silenzio pressoché sempre presente durante tutta la giornata (art. 43), ad eccezione che "nelle ore del passeggio e del riposo [dove] i condannati potranno intrattenersi tra loro discorrendo a voce modera e nell'ordine più perfetto", precisando che "i canti, le grida e le conversazioni clamorose saranno sempre e ovunque assolutamente vietate" (art. 45) (22).

Riguardo al lavoro, l'art. 56 stabilisce che "tutti i condannati sani (...) saranno occupati nelle officine, o all'aperto in lavori agricoli in gruppo o in squadre (...) sempre sotto la vigilanza di un numero competente di guardie carcerarie [mentre] di notte saranno vigilati nei dormitorii in comune" (23). Le mercedi spettanti ai condannati lavoranti saranno in linea di massima conteggiate col sistema a cottimo (art. 59) (24).

Come si può vedere, questo regolamento non porta delle modifiche significative alla regolamentazione delle colonie, però rappresenta un importante provvedimento che rende organica e uniforme questa materia, in attesa anche della tanto sperata unificazione della legislazione penale. Le uniche modifiche di un certo rilievo riguardano i criteri di assegnazione alle colonie, ed in particolare la cancellazione dei limiti temporali sia per quanto riguarda la durata della pena originaria, sia per quanto riguarda la frazione di questa in cui il condannato deve aver dato prova di buona condotta (25).

Nella lunga strada che si conclude con la promulgazione del "codice Zanardelli", le numerose commissioni nominate per la compilazioni di progetti di codice, non mancheranno di soffermarsi sulla questione delle colonie penali (26). Sintetizzando possiamo dire che alla fine di tutti questi lavori la maggioranza degli studiosi sono favorevoli a questa tipologia di istituti penali (27), ma al contempo si cerca di inserire modifiche tali da permettere di non indebolire il carattere repressivo e afflittivo che le colonie debbono comunque avere.

La proposta di utilizzare le colonie penali agricole come luoghi alternativi dove scontare le pene, prese forma e maturò nell'ambito di quel movimento filosofico e di pensiero denominato scuola classica criminale. In sostanza tale scuola sostiene, in modo concorde ai principi illuministici scaturiti dalla rivoluzione francese, che l'uomo è un essere totalmente razionale e dotato di libero arbitrio, che gli permette di calcolare razionalmente tutti i vantaggi e svantaggi conseguenti al proprio agire (28).

Pertanto uno dei concetti cardine del diritto penale, secondo tale scuola di pensiero, è costituito dalla volontà colpevole dell'autore del reato, indipendentemente da qualunque condizionamento di ordine sociale, unito al concetto di imputabilità, per cui l'autore del reato è ritenuto in grado di capire il disvalore etico del proprio agire e in base ad esso di autodeterminarsi (29).

In generale possiamo affermare che i maggiori studiosi della Scuola Classica quali Francesco Carrara (1805-1847), Giovanni Carmignani (1768-1847), Pellegrino Rossi (1787-1848), Enrico Pessina (1828-1916), avevano una concezione retributiva e general preventiva della pena, la quale doveva essere afflittiva, proporzionale al reato, determinabile e inderogabile.

In particolare, come riporta Cattaneo, Francesco Carrara definisce la pena come "quel male che in conformità della legge dello Stato, i magistrati infliggono a coloro che sono con le debite forme riconosciuti colpevoli di un delitto" (30). Inoltre lui ritiene che:

"la pena non è un mero bisogno di giustizia che esiga la espiazione del male morale. Dio solo ha la natura e la potestà di esigere la dovuta espiazione. Non è una mera difesa che l'interesse degli uomini si procacci a spese altrui. Non è lo sfogo di un sentimento degli uomini che mirino a tranquillizzare gli animi loro rimpetto al pericolo di offese future. La pena non è che la sanzione del precetto dettato dalla legge eterna: la quale sempre intende alla conservazione della umanità, ed alla tutela dei suoi diritti; sempre procede sulle orme del giusto; sempre risponde al sentimento della coscienza universale". (31)

Infine Carrara osserva che è importante tenere distinto il principio fondamentale della pena dallo scopo della stessa, in quanto:

"Lo studio del principio fondamentale della pena conduce a trovare il criterio essenziale delle azioni delittuose; cioè cosa debba essere nelle azioni umane perché possano vietarsi. E il risultato di tale studio secondo la nostra formula si compendia in questo: debbono essere azioni lesive del diritto alle quali non si ottenga completa riparazione con la sola coazione fisica, ma siavi bisogno di una sanzione. Lo studio del fine della pena conduce a trovare i criterii misuratori dei delitti, e così delle pene medesime". (32)

Lo studioso afferma, inoltre, che il fine primario che deve avere la pena è solo quello di ristabilire l'ordine esterno della società, precisando che "se il giudice nello irrogare la pena si proponesse un fine diverso da quello che il legislatore si propose nel minacciarla, la condanna non sarebbe più la sequela necessaria della legge; non sarebbe più un'azione giusta, ma un'azione politica: e il giudice nel diverso fine supposto potrebbe trovare una ragione di deflettere dalla coerenza della legge" (33).

Per concludere Carrara ritiene che

"la pena è destinata ad agire sugli altri più che sul colpevole (moralmente già s'intende) ma non basta che agisca sui malvagi: bisogna che agisca sufficientemente sui buoni, per farli tranquilli così rimpetto al delinquente stesso, come rispetto ai temuti suoi imitatori. Quindi quel male che sarebbe sufficiente sanzione al precetto, perché avrebbe bastante azione sui malvagi in quanto oppone loro un patimento superiore all'utile del delitto, può non avere sufficiente azione sui buoni per tranquillizzarli rispetto allo stesso colpevole. Vi è bisogno di una detenzione prolungata perché i cittadini non abbiano ragione di temere che colui, troppo presto liberato, torni alle offese. Ecco come il concetto della difesa diretta si ricongiunge al fine della tranquillità e viene a completare il criterio misuratore delle pene. [...] Così la pena che niente rimedia al male materiale del delitto, è rimedio efficacissimo ed unico del male morale. [...] In tal guisa l'ultimo fine della pena è il bene sociale, rappresentato nell'ordine che si procaccia mercé la tutela della legge giuridica; e l'effetto del fatto penale si ricongiunge con la causa che lo legittima. [...] Tali condizioni della penalità, essendo derivazioni dal suo principio assoluto, legano lo stesso legislatore, il quale non può senza abuso defletterne [...]" (34).

Ciò che afferma Carrara è comune ai pensatori della scuola classica criminale di quel periodo, e lo studio dei caratteri che la pena dovrebbe avere è molto importante perché da questo si capisce l'importanza che ebbe l'istituto delle colonie penali agricole nella seconda metà dell'Ottocento (35).

Le colonie agricole, infatti, visto che sorgevano principalmente nelle isole o comunque in luoghi fisicamente separati dalla società civile, ben si prestavano a comminare al proprio interno delle pene che avevano come proprio fine principale la difesa sociale e la prevenzione generale (36); tutto questo perché nelle colonie penali veniva ricreata una specie di comunità civile, la quale rappresentava già di per sé un modo di tutela della società libera. Inoltre, come abbiamo visto, gli scopi di rigenerazione fisica e morale che veniva attribuito al lavoro agricolo, almeno nelle intenzioni degli studiosi, doveva rendere alla società un individuo cambiato, non più dedito al crimine.

Concludendo possiamo affermare che le colonie ben si inseriscono in quella politica criminale della scuola classica per cui "non si punisce in relazione al delitto commesso, ma in vista delle sue ripercussioni sul corpo sociale" (37).

1.2 Il codice Zanardelli e il regolamento carcerario del 1891

Queste discussioni avranno come risultato quello di riconoscere formalmente le colonie penali nel codice Zanardelli, con la denominazione di "case di pena intermedia agricole e industriali" (38), in quanto, come spiega lo stesso Zanardelli, così facendo si elimina "l'equivoco cui poteva dar luogo il nome di colonia [a causa del] significato più proprio a tale vocabolo, che è quello di indicare lontani possedimenti" (39). Dopo circa due anni dall'entrata in vigore del nuovo codice penale, nel 1891 viene emanato il nuovo "Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari e pei riformatorî governativi del Regno" (40), il quale all'articolo 4, elencando gli stabilimenti di pena speciali, annovera al primo posto proprio "le case di pena intermedie, agricole ed industriali". Tale regolamento è composto da ben 891 articoli, i quali disciplinano in modo particolareggiato e minuzioso il complesso sistema carcerario. Sono presenti inoltre sette articoli (452 - 458) che si occupano esclusivamente degli stabilimenti intermedi, prevedendo anzitutto che l'ammissione agli stessi viene "decretata dal Ministero dell'Interno, sulla proposta motivata del consiglio di sorveglianza dello stabilimento in cui il condannato alla reclusione sconta la pena (art. 452). Viene inoltre precisato che per essere ammesso a tali stabilimenti, il condannato per un tempo non minore di tre anni "abbia scontato la metà della pena, ma non meno di trenta mesi" (art. 453), e chiaramente il requisito della buona condotta deve sempre persistere durante tutto il tempo di permanenza nella colonia, pena la revoca della stessa (41) (art. 454). Inoltre i condannati sono divisi in due classi, quella denominata "permanente" e quella denominata "preparazione" (art. 456); alla prima sono assegnati coloro che non possono accedere alla libertà condizionale (42), alla seconda appartengono tutti gli altri condannati (43). Sempre prevista è la possibilità della nomina dell'agronomo da parte del Ministero dell'Interno (art. 133), al quale è prevalentemente "affidato l'indirizzo dei lavori agricoli e la sorveglianza diretta su di essi" (art. 134) (44).

Come evidenzia Santoriello (45), le colonie sul finire dell'Ottocento, cominciarono ad essere oggetto di numerose critiche, determinate soprattutto dalle aspre polemiche circa i costi eccessivi delle stesse (46). Inoltre anche nelle colonie, seppur con intensità minore rispetto agli istituti di pena tradizionali, la componente repressiva e afflittiva divenne predominante rispetto alle finalità rieducative cui il "progetto colonie" mirava (47). Tutto ciò portò ad un lento smantellamento delle stesse, oppure ad un loro utilizzo con finalità diverse rispetto a quelle per cui erano state create (48).

Enrico Ferri, commentando il codice Zanardelli (49), criticò abbastanza duramente il sistema cellulare, che a suo dire era "un'invenzione dei popoli nordici, che non può adattarsi alla natura vivace ed immaginosa dei popoli meridionali, per i quali dieci anni di segregazione cellulare sono una sevizia inutile, mentre lo stesso condannato si potrebbe mandare in colonie agricole penitenziarie, rendendo il condannato stesso più proficuo e facilitandone l'emenda" (50).

Lo studioso, inoltre, riserva delle critiche per quanto concerne il sistema graduale delle pene previste dal codice Zanardelli, ovvero il fatto che "l'attenuazione graduale nell'espiazione delle condanne sia ammessa per le pene che sarebbero destinate ai delinquenti volgari e pericolosi e sia negata per la detenzione che sarebbe (...) [invece] destinata ai delinquenti meno pericolosi" (51).

Egli propone che il delinquente d'occasione, o di cagionevole costituzione fisica, non venga assegnato alle fatiche del lavoro agricolo, ma vengano trovate per lui più appropriate forme di detenzione intermedia (52); il lavoro agricolo sarebbe da ammettere solo per i "delinquenti volgari", a patto però che "la sua applicazione possa conciliare il diritto individuale [del condannato al lavoro all'aperto] col concetto della sicurezza della società".

1.3 Il Pensiero della scuola positiva sul tema delle colonie penali agricole. Il Progetto di codice penale di Enrico Ferri del 1921

Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, spesso si sono scontrate più visioni distinte circa il ruolo e le funzioni che potevano avere le colonie penali agricole (53). Tali diverse visioni, erano però accomunate dal fatto di appartenere alla scuola classica criminale, ovvero quell'indirizzo di pensiero politico sociale che, partendo dalla rivoluzione francese, si inspirò alla dottrina del diritto naturale e al metodo deduttivo (54) (o di logica astratta), come armi contro le concezioni del passato ancien regime (55). In sostanza il suo indirizzo filosofico - giuridico prevedeva che la totale attenzione dovesse essere riservata esclusivamente "sul delitto e sulla pena come entità giuridiche astratte, isolate tanto dall'uomo che delinque e che è condannato, quanto all'ambiente da cui esso proviene ed a cui deve ritornare dopo la sua pena" (56). Se da un lato tale scuola di pensiero ebbe indubbiamente il merito di scardinare le vecchie concezioni penali medievali, contribuendo in modo importante alla "umanizzazione" delle pene nonché al limitare quanto più possibile l'uso della pena capitale (57), dall'altro la scienza penale e criminale perse col tempo totalmente di vista la figura del delinquente, il quale veniva considerato solamente come una vittima della tirannide statale, e il risultato fu, scrive Ferri, un "aumento continuo della criminalità e della recidiva, in evidente quotidiano contrasto colle necessità della difesa sociale contro la delinquenza, che è la ragion d'essere della giustizia penale" (58).

Nella seconda metà dell'Ottocento, comincia a svilupparsi una nuova corrente di pensiero, chiamata scuola criminale positiva, la quale usa un metodo d'indagine induttivo (59) (o positivo appunto) di cui era stato portatore nel campo scientifico qualche secolo prima Galileo Galilei. La novità sta nell'usare il metodo empirico anche nelle scienze criminali, con la nascita di una scienza autonoma, l'antropologia criminale, che ha come oggetto di studio proprio l'uomo delinquente e il suo agire, considerando soprattutto la sua dimensione psicologica oltre che organica (60).

Relativamente ai modi per combattere le delinquenza, la scuola positiva non riteneva che il rimedio migliore fosse la pena (61) (non le pene esemplari tipiche del Medioevo, ma neppure le pene mitigate accolte dalla scuola classica), ma sosteneva che fosse importante studiare le cause (psicologiche, organiche, sociali) che hanno portato al delitto, e cercare di agire sulle stesse (per esempio mediante politiche sociali adeguate se la causa del crimine è nella società dove vive il condannato) (62) per prevenire i comportamenti delittuosi.

Oltre alla prevenzione, dato che è parimenti importante il difendere la società una volta che l'evento criminoso si sia compiuto, la scuola positiva mantenne l'esigenza della repressione dei delitti, avendo però idee assai diverse dagli studiosi della scuola classica (63). In particolare, una grande differenza era rappresentata dalla concezione dell'isolamento cellulare, che Ferri definì "una delle aberrazioni del secolo XIX". Egli sosteneva la necessità di "sostituire ad esso, specie nei paesi del sole, come l'Italia, le colonie agricole col lavoro all'aperto" (64).

Per capire in maniera pratica come la scuola criminale positiva intendesse le colonie penali agricole, è particolarmente interessante lo studio del progetto di codice penale, elaborato da Ferri nel 1921 (65). All'articolo 39, dove vengono elencate le diverse specie di sanzioni per i delitti comuni, commessi dai maggiori di anni 18, viene riportata la "segregazione semplice in casa di lavoro o colonia agricola", oltre che la multa, l'esilio locale, il confino, la prestazione obbligatoria di lavoro diurno, la segregazione rigorosa in uno stabilimento di reclusione e la segregazione rigorosa perpetua. Lo stesso progetto precisa che "la prestazione obbligatoria di lavoro diurno si effettua in una casa di lavoro e colonia agricola dello Stato, senza detenzione notturna del condannato, per un tempo non inferiore ad un mese e non superiore a due anni" (art. 50), e che "la segregazione semplice in una casa di lavoro o colonia agricola consiste nell'obbligo di lavoro industriale od agricolo durante il giorno, con isolamento notturno, per un tempo non inferiore a tre anni e non superiore a 15 anni" (66). Infine all'articolo 52 viene previsto che "la segregazione rigorosa temporanea in uno stabilimento di reclusione consiste nell'obbligo del lavoro industriale od agricolo durante il giorno, con isolamento notturno, per un tempo non inferiore a tre anni e non superiore a venti anni oppure a tempo assolutamente indeterminato col minimo di 10 anni" (art. 52).

Come dimostra la lettura di queste norme, se si esclude la pena della multa (67), dell'esilio locale (68) e del confino (69), le pene propriamente detentive sono caratterizzate tutte dall'obbligo di lavoro in una colonia agricola o in uno stabilimento industriale, circostanza avvalorata dal fatto che tale tipologia di sanzione venne scelta anche come pena principale per i minorenni (70), per i malati di mente (71) e per coloro che si macchiavano di crimini politici (72). Infine l'art. 513 prevede che "alcune case di lavoro e colonie agricole saranno destinate ai delinquenti abituali di che all'art. 28" (73).

Particolarmente interessanti sono anche le norme che si occupano specificatamente del lavoro carcerario, prevedendo l'art. 70 che "a ciascun stabilimento di detenzione si assegneranno i condannati che si trovino in condizioni fisiche e psichiche più affini, anche in rapporto al delitto commesso, alla loro vita precedente e alle loro attitudini di lavoro", in riferimento alle colonie penali agricole l'art. 71 dispone che il lavoro "in tutti gli stabilimenti di detenzione e di custodia deve essere preferibilmente all'aria libera ed organizzato a scopo non soltanto educativo ed igienico, ma anche di abilità tecnica e di rendimento economico" (74).

Nella relazione preliminare presentata dalla stesso Ferri, viene riportata l'opinione favorevole della commissione che si occupa del progetto di codice penale, per cui "la prestazione obbligatoria di lavoro diurno in una casa di lavoro o colonia agricola dello Stato e cioè senza detenzione notturna del condannato, è una forma nuova di sanzione che (...) potrà dare buoni risultati". Tale ottimismo deriva dal fatto che la sanzione in oggetto sia da applicare solamente ai delinquenti occasionali, non pericolosi e per delitti non gravi, così da avere l'indiscusso vantaggio di "disciplinare il lavoro e di completarne l'istruzione tecnica, senza obbligarli alla detenzione anche notturna e quindi senza staccarli dalla loro famiglia" (75). Ferri continua dicendo che tale forma di segregazione parziale, se "applicata dal giudice con criteri di adattamento alla personalità ed alla vita precedente degli imputati meno pericolosi, promette di essere uno opportuno mezzo di rieducazione alla vita libera ed onesta" (76).

Pertanto possiamo affermare che per la scuola positiva il lavoro (in particolare quello agricolo svolto all'aria aperta) è necessario in ogni istituto penitenziario (77), sia perché esso permette al delinquente, al pari di ogni altro cittadino non invalido, di provvedere alla propria esistenza (78), sia perché così facendo non viene tolto alla società "il diritto di farsi compensare dal condannato valido al lavoro delle spese necessarie per il suo mantenimento" (79). Il fatto che la scuola criminale positiva concentri la propria attenzione principalmente sulla figura del delinquente piuttosto che sul delitto astrattamente inteso, comporta che la scelta del tipo di lavoro a cui destinare il condannato sia molto importante, ma in generale il lavoro agricolo all'interno di colonie risponde bene alle esigenze di rieducazione sociale cui mirano i positivisti.

Gli esponenti della scuola criminale positiva sostengono che il lavoro carcerario dovrebbe essere per la maggior parte un lavoro agricolo da svolgersi nelle terre malariche e insalubri, e dato che è appurato che "a redimere queste terre italiane dalla malaria necessiti il sacrificio di vite umane, o di lavoratori onesti o di lavoratori condannati, niun dubbio che questi devono essere i primi e possibilmente i soli sagrificati" (80). Al riguardo, interessante è la contrapposizione tra la visione di Ferri e quella di Beltrami Scalia; Ferri, infatti dice espressamente di non poter "ammettere la proposta di Beltrami Scalia, che per i condannati alle bonifiche 'il lavoro, nel quale essi consumano e rischiano la loro vita, abbia per compenso una diminuzione di pena equivalente ad un prolungamento della vita stessa'[per cui] per il Beltrami par quasi che il condannato faccia una concessione allo Stato, andando a lavorare in quelle terre; per noi questa non è che la conseguenza del suo delitto" (81). Pertanto Ferri è favorevole a creare un numero elevato di colonie penitenziarie e compiuta la prima bonifica, queste "dovrebbero, plaga per plaga, essere seguite e sostituite da altrettante libere colonie agricole, date direttamente alle società cooperative dei nostri contadini, che troverebbero così, senza i patimenti dell'emigrazione i primi e più efficaci rimedi alle loro condizioni, che ora, purtroppo, fanno loro invidiare il trattamento che ai delinquenti assicura lo Stato" (82).

Il lavoro all'interno delle colonie dovrebbe essere organizzato "su misura del delinquente" (83), cioè, a differenza del pensiero della scuola criminale classica, esso non deve essere inteso solo come un'attività per togliere l'individuo dall'ozio durante la permanenza in carcere, o magari concepito solamente come preparazione a quando il delinquente avrà riacquistato la libertà, ma il lavoro costituisce per il pensiero della scuola positiva un "materiale prezioso per lo studio scientifico dell'uomo delinquente", dal quale sia possibile - attraverso la compilazione di apposite schede biografiche di ogni detenuto - trarre dei dati positivi e dei criteri non arbitrari per il trattamento dei detenuti e dei recidivi.

1.4 Il codice Rocco e il regolamento carcerario 1931

Dalla contrapposizione ideologica in campo penale tra la scuola classica e quella positiva scaturirono le premesse che portarono al nuovo codice penale del 1930. Una delle novità sicuramente più significative è rappresentato dall'introduzione del cosiddetto "doppio binario", ovvero come spiega Mantovani, "il dualismo della responsabilità individuale - pena retributiva e della pericolosità sociale - misura di sicurezza. Dualismo, che riflette il contrasto di fondo tra indeterminismo classico e determinismo positivista, il quale trova la sua più stridente espressione nelle ipotesi di responsabilità attenuata - pericolosità, cioè dei semimputabili pericolosi, che come tali vengono assoggettati sia ad una pena diminuita sia a misura di sicurezza" (84).

L'intero sistema penale si trova quindi radicalmente cambiato nei suoi presupposti essenziali (85), ed è facile capire come ciò non poteva non avere conseguenze dirette anche sul sistema penitenziario. Anzitutto bisogna partire dalla nozione di misura di sicurezza qualificabile come quei provvedimenti che "hanno una finalità terapeutica, rieducativo - risocializzatrice, e sono applicati a soggetti pericolosi che hanno già commesso un fatto penalmente rilevante" (86). In particolare, come osserva Mantovani le misure di sicurezza sono diverse dalle pene

"poiché sono la conseguenza di un giudizio non di riprovazione per la violazione di un comando, ma di pericolosità, non di responsabilità, ma di probabilità di futura recidiva. Non hanno perciò carattere punitivo, ma tendono a modificare i fattori predisponesti all'atto criminale. Benché implichino una diminuzione dei diritti o della stessa libertà personale del soggetto, tale afflittività non è concepita in funzione punitiva, ma è la conseguenza inevitabile di un provvedimento diretto ad altro scopo. Ne deriva che: a) mentre la pena è determinata in quanto proporzionata al fatto già accaduto, la misura di sicurezza è logicamente indeterminata in quanto proporzionata alla prognosi di pericolosità: cessa soltanto col cessare di questa; b) a differenza della pena, che ha come destinatari gli imputabili e i semimputabili, la misura di sicurezza è applicabile anche ai non imputabili, se pericolosi, cumulandosi nei primi due casi con la pena, mentre nel terzo caso trova applicazione esclusiva" (87).

Il legislatore ha ritenuto che le misure di sicurezza dovessero essere scontate in istituti che garantissero al meglio le finalità terapeutiche, di rieducazione e di risocializzazione del soggetto, ed ha pensato che in tali istituti dovessero essere, per coloro che non erano affetti da vizi di mente, le colonie penali agricole e le case di lavoro. All'interno di questi istituti il lavoro veniva considerato, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, una componente irrinunciabile alle finalità di recupero del soggetto, e ciò, se aveva portato risultati positivi per i condannati, sicuramente si rendeva egualmente utile per gli internati sottoposti a misura di sicurezza detentiva.

Inoltre le colonie penali, situate prevalentemente su isole o in luoghi comunque distanti dalle città, si adattavano bene anche alle ulteriori finalità che, per il Guardasigilli Alfredo Rocco, le misure di sicurezza dovevano avere. Per Rocco infatti, le misure di sicurezza sono

"mezzi di prevenzione individuale della delinquenza, aventi carattere di integrazione dei mezzi repressivi di lotta contro la criminalità, in genere, e della pena in specie. (...) [Quelle] personali limitano la libertà individuale e tendono alla prevenzione con impedimento materiale e diretto di nuovi reati, o con azione eliminatrice o modificatrice dei coefficienti fisio - psicologici della delinquenza, ovvero con mezzi diretti a sottrarre l'agente alle occasioni e agli influssi ambientali, e, in genere, agli adescamenti criminosi. Di esse alcune (assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro, ricovero in una casa di cura e custodia, ricovero in un manicomio giudiziario, ricovero in un riformatore giudiziario) sono detentive, applicabili in casi che richiedono tale grave limitazione della libertà, sia per l'indole e il grado della pericolosità sociale, sia per la necessità di un regime di cura o di educazione morale, o, in genere, di sociale riadattamento, che non potrebbe essere conseguito con diversi mezzi" (88).

In particolare nella relazione il Guardasigilli si sofferma sulla differenza che esiste tra pene e misure di sicurezza e riconosce che taluni hanno "obbiettato, per le misure detentive e più specialmente per l'assegnazione ad una colonia agricola o a una casa di lavoro, che anch'esse consistono nella restrizione della libertà personale, sicché, nonostante ogni differenza teorica, hanno pur sempre, in pratica, i caratteri della pena" (89). A tali critiche Rocco risponde che "la restrizione della libertà personale, unico elemento in comune con le pene detentive, non basta per conferire alle misure di sicurezza detentive il carattere di intimidazione e di sofferenza propria della pena. È in questo senso che (...) ho affermato, essere le misure di sicurezza non già, come le pene, psicologicamente, ma solo fisiologicamente coattive. Il risultato affittivo non è sempre pedissequo a qualsiasi limitazione di libertà che sia imposta per il raggiungimento di dati scopi nell'interesse sociale. Esso è soltanto eventuale; e ciò basterebbe a differenziare la misura di sicurezza dalla pena" (90).

Infine Rocco ammette una ulteriore conseguenza che potrebbe derivare dall'applicazione delle misure di sicurezza, e cioè che "taluno si astenga dal commettere un reato per timore di essere, non soltanto punito, ma assegnato ad una colonia agricola; ma questo effetto delle misure di sicurezza è estrinseco ad esse ed estraneo agli scopi che esse si propongono".

Altra importante testimonianza che ci permette di comprendere il "passaggio" dalle pene alle misure di sicurezza per quanto concerne le colonie agricole è rappresentata dalle tesi di Silvio Longhi, il quale contribuirà peraltro in modo attivo alla stesura del codice penale del 1930 (91).

Egli sostiene che le misure di sicurezza (o sanzioni preventive) sono dirette a prevenire e a proteggere interessi specifici, minacciati pro futuro e, a differenza delle pene, non debbono avere i caratteri della fissità, della determinatezza assoluta e della efficacia afflittiva (92). In particolare Longhi riconosce quattro tipologie di misure di sicurezza in base allo scopo, denominate curative, eliminatorie, riformatrici e probatorie, spiegando che:

"sono curative le misure di sicurezza che riguardano le malattie fisiche del delinquente, considerate come causa della criminalità, e sono eliminatorie quelle che riguardano la eliminazione perpetua o temporanea dei delinquenti pericolosi e insieme incorreggibili. Le misure di sicurezza riformatrici mirano, prima che alla segregazione, alla cura morale o fisica del delinquente. Esse sono specialmente adatte per gli alcolizzati e per i minori. Riguardo a quest'ultimi, si presume - e spesso la previsione fu seguita dai fatti - che ai suoi primi fatti nella vita i minori non abbiano incontrato influenza alcuna moralizzatrice; la società deve pertanto sforzarsi di sostituirgli - troppo tardi talvolta - le sue cure moralizzatrici. In fine, le misure probatorie si adattano al delinquente ritornato nella società: dalla vigilanza di pubblica sicurezza ai patronati e alla tutela da parte degli enti morali, che si assumano, a scopo quello di assicurare al delinquente un ambiente sano e onesto, atto a tenerlo lontano dalla ricaduta" (93).

Longhi ritiene che all'interno delle misure di sicurezza eliminatorie debbano rientrare, oltre all'eliminazione fisica del soggetto, le colonie di relegazione destinate ai delinquenti abituali pericolosi. Egli considera le colonie come "una forma di eliminazione che pone il delinquente incorreggibile fuori della possibilità di nuocere", e ritiene del tutto superflua la questione della scelta del luogo, anche se ritiene l'isola la sede ideale, "in quanto si possa completamente trasformare in luogo di relegazione, senza altri abitanti che i condannati incorreggibili e il personale di guardia indispensabile" (94).

Le case di lavoro sono invece ritenute da Longhi gli istituti adatti per gli oziosi e per i vagabondi, coloro ai quali debbono essere applicate le misure di sicurezza riformatrici (95) (allo stesso genere appartengono gli asili di temperanza, destinai agli alcolizzati) (96).

Per capire a fondo il pensiero di Longhi, molto interessante è lo "schema di un codice della prevenzione criminale" da lui realizzato nel 1922. L'art. 5 del progetto si occupa delle colonie e degli stabilimenti di relegazione, stabilendo che

"la relegazione nelle colonie agricole e negli stabilimenti industriali si estende da cinque a dieci anni; e da cinque a venti anni nei casi di maggiore pericolosità o di seconda assegnazione. L'assegnato è obbligato al lavoro, con segregazione notturna. Egli può scegliere tra le specie di lavoro ammesse nell'istituto quella più confacente alle sue attitudini e alle precedenti sue occupazioni. Può essergli permessa una specie diversa di lavoro. Nell'istituto deve essere sviluppata, con opportuni insegnamenti, la educazione fisica morale e intellettuale dell'internato, e in particolar modo la di lui istruzione professionale, affinché sia convenientemente preparato il di lui ritorno alla vita libera. Gli internati in una colonia o in uno stabilimento di relegazione portano il costume dell'istituto e dallo stesso ricevono il vitto. Le visite e le corrispondenze epistolari sono permesse con limitazioni; e durante il riposo notturno l'internato è chiuso in cella" (97).

In seno alla commissione ministeriale incaricata di esprimersi circa il progetto preliminare di codice penale, fu affrontato il problema del coordinamento del sistema delle pene con quello delle misure di sicurezza. In particolare vennero discussi i rilievi fatti dalla Regia Università di Milano, secondo la quale era fondamentale che "la funzione delle misure di sicurezza [dovesse] essere non parallela, diversa, e indipendente da quella delle pene, ma coordinata, e anzi accessoria e subordinata" (98). A tali critiche, il presidente della commissione Appiani replica:

"1) anzitutto, che la coesistenza delle pene e delle misure di sicurezza, è una necessità inderogabile, in quanto la pericolosità non potrebbe essere contrastata unicamente con le pene, che hanno limiti prestabilititi e insuperabili di durata, o soltanto con misure di sicurezza, prive di contenuto afflittivo; 2) che la pericolosità stessa è più efficacemente contraddetta, adoperando congiuntamente mezzi diversi, quali appunto la sanzione penale, che intimidisce e soggioga la volontà, e la misura di sicurezza, che agisce come trattamento diretto a soggiogare le tendenze e le abitudini criminose; 3) che il sistema accolto nel Progetto coordina i due mezzi di lotta contro il delitto, poiché, riguardo alle persone imputabili, calcola e prestabilisce l'entità e l'indole di ciascuno dei mezzi predetti, in guisa da predisporre la possibile integrazione reciproca. Così l'abitualità e la professionalità nel reato non determinano altro aumento di pena, che quello dipendente dalla recidiva; aumento, al quale non può riconoscersi l'efficacia d'eludere la pericolosità: onde questa, dopo l'esecuzione della pena, deve presumersi non del tutto cessata e richiamare l'applicazione di una misura di sicurezza con una durata minima, che sarebbe ben più elevata, se il colpevole non subisse in precedenza il rigore di una pena (99).

Il codice penale del 1930 tratta il tema delle colonie penali in riferimento alle misure di sicurezza detentive, e l'art. 215 come prima misura di sicurezza elenca proprio "l'assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro" (100). Rocco al riguardo afferma che "la diversità profonda tra pena e misura di sicurezza dovrà riflettersi, necessariamente, nella pratica organizzazione degli istituti penitenziari e di quelli concernenti le misure di sicurezza. I primi non possono che inspirarsi a criteri di severità e rigore idonei all'attuazione di finalità repressive; i secondi debbono prescindere da tutto ciò che abbia carattere e scopo di intimidazione, mirando, con adeguati mezzi, alla rigenerazione morale e sociale delle persone pericolose. Altro carattere differenziale tra pene e misure di sicurezza è che le seconde sono provvedimenti di natura amministrativa, e, come tali, discrezionali, revocabili e, di regola, indeterminate nella durata, ossia fino al conseguimento degli scopi di custodia, di cura, di educazione, di istruzione, per i quali sono disposte" (101).

Come riporta Dworzak (102), una difficoltà che il legislatore ha dovuto affrontare, è stata il dover prevedere una regolamentazione diversa per il lavoro agricolo da svolgersi negli stabilimenti di pena oppure negli stabilimenti per l'esecuzione di misure di sicurezza. L'art. 216 si occupa specificamente dei criteri di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro, precisando che colpiti da tale provvedimento potranno essere "coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza", anche nel caso in cui essi, "non essendo più sottoposti a misura di sicurezza, commettano un nuovo delitto non colposo, che sia nuova manifestazione della abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere", ed infine le persone che sono state "condannate o prosciolte, negli altri casi stabiliti dalla legge" (103). Al riguardo, è lo stesso codice penale che descrive in modo analitico tali figure particolari della delinquenza. Anzitutto per quanto riguarda la abitualità, essa può essere presunta dalla legge (art. 102) oppure ritenuta dal giudice (art. 103). Nel primo caso, sarà dichiarato delinquente abituale chi, "dopo essere stato condannato alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti non colposi, della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non contestualmente, riporta un'altra condanna per un delitto, non colposo, della stessa indole, e commesso entro i dieci anni successivi all'ultimo dei delitti precedenti" (104). Nella seconda ipotesi, sarà il giudice che, nel caso in cui il soggetto sia stato condannato per due delitti non colposi e riporta un'altra condanna per delitto non colposo, potrà, valutati vari fattori quali la tipologia del reato, la sua gravità, ed in genere la condotta e il modus vivendi del condannato (105), e ritenere dunque che il colpevole sia dedito al delitto (106).

Per quanto attiene invece alla professionalità, l'art. 105 prevede che colui il quale "trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta condanna per un altro reato, è dichiarato delinquente, o contravventore professionale, qualora, avuto riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole (...), debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche parte soltanto, dei proventi del reato" (107). Infine l'art. 108 precisa che "è dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene non recidivo o delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo, contro la vita o l'incolumità individuale [...], il quale [...] rilevi una speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole" (108).

Per quanto riguarda la durata minima, l'art. 217 fissa un termine di permanenza nella colonia non minore di un anno, durata che aumenta a seconda del tipo di pericolosità attribuita al soggetto (109). Al riguardo i lavori preparatori rilevano che "il limite minimo di durata delle misure di sicurezza è determinato avendo riguardo alle diverse cause e ai particolari aspetti della pericolosità per ciascuna delle categorie di delinquenti assegnati agli stabilimenti suddetti" (110). La scelta dell'assegnazione ad una colonia agricola ovvero in una casa di lavoro, sarà effettuatala dal giudice "tenendo conto delle condizioni e attitudini della persona a cui il provvedimento si riferisce" (111) (art. 218 c.p.), fermo restando che tale scelta sarà sempre modificabile (112), anche in corso di esecuzione. Quest'ultima disposizione, come rileva anche Dworzak, è molto importante in quanto spesso solamente durante l'esecuzione si manifesta la idoneità fisica e soprattutto psichica di un individuo nello svolgere un determinato genere di lavoro oppure un determinato regime educativo (113). L'importante, come afferma nella relazione al regolamento carcerario il Ministro Guardasigilli, è che "la necessità di individuare il lavoro, a seconda delle precedenti occupazioni dell'internato e dell'ambiente in cui dovrà tornare a vivere, ha indotto a prevedere questa specializzazione (colonia agricola e casa di lavoro), che è stata oggetto della generale approvazione" (114). In realtà, nella pratica, la distinzione tra colonia penale e casa di lavoro, non è mai esistita, in quanto la maggioranza delle colonie agricole avevano lavorazioni anche diverse da quelle prettamente agricole come la pastorizia, attività industriali di vario genere come officine, laboratori artigianali etc.; al contempo le case di lavoro (in special modo quelle "all'aperto") avevano invece una impronta prevalentemente agricola (115).

Il regolamento carcerario che venne emanato nel 1931 (116), è un testo completo ed organico riguardante l'intera materia della esecuzione penale, all'interno del quale ben trentaquattro articoli (dal 266 al 291) si occupano delle misure amministrative di sicurezza detentive, dando così attuazione alle norme del codice penale (117). Ciò che si nota leggendo alcune norme del regolamento (nello specifico gli art. 260 e 261) è la volontà del legislatore di prestare attenzione ai problemi specifici degli internati (118), in particolar modo per la loro rieducazione, prevedendo a tal fine particolari disposizioni atte a tener separate le diverse categorie di internati (coloro ai quali fu applicata provvisoriamente la misura di sicurezza, oppure coloro che sono in "osservazione" in quanto soggetti a perizia psichiatrica, oltre che ovviamente per le internate di sesso femminile (119) ed i minori).

Per quanto riguarda il lavoro (120), la disposizione dell'art. 271 è categorica nel prevedere che esso è funzionale allo scopo di "riadattamento degli internati alla vita sociale", cercando di tenere presenti nella scelta del lavoro le specifiche attitudini e le prospettive che egli presumibilmente avrà una volta riottenuta la libertà (121). Per ciò che riguarda il compenso, il lavoro prestato all'interno degli stabilimenti è sempre remunerato, secondo precisi criteri fissati dall'ordinamento (122); in particolare l'art. 275 prevede un "fondo degli internati", composto a sua volta dal "fondo particolare" e dal "fondo di lavoro". Il primo è costituito dal denaro che l'internato possedeva già al suo ingresso nello stabilimento (oltre alla vendita di oggetti di sua proprietà o altri valori inviati dalla propria famiglia). Il "fondo di lavoro" si compone invece delle quote spettanti all'internato rispetto alla remunerazione di cui egli ha diritto in virtù del lavoro svolto.

Come si può notare, nella intenzione del legislatore, traspare in talune norme una concezione particolare dell'internato tale da differenziarlo dal "comune" detenuto; si intravede cioè una visione quasi "paternalistica" dello Stato, che in questo caso più che altrove si preoccupa della gestione degli internati in modo pressoché "protettivo ed avvolgente", tipica del pensiero ottocentesco delle colonie penali. In particolare emerge la figura del direttore che, nella concezione della colonia come di una "grande famiglia", rappresenta per gli internati la figura di "un padre amorevole", che attraverso la concessione di benefici e la possibilità di lavorare, educa i propri figli a ritornare nella società che un tempo ebbero offesa. Ovviamente affinché questo progetto di rieducazione potesse effettivamente funzionare, fu previsto un sistema di punizioni, tese a controbilanciare i benefici e i vantaggi soprattutto quelli derivanti dal lavoro (123).

In sostanza, il legislatore nel prevedere le colonie penali agricole come istituti destinati a coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza recupera quella concezione, tipica degli studiosi della seconda metà dell'Ottocento (Peri), secondo la quale la colonia doveva costituire uno "stato intermedio" tra detenzione e libertà.

Inoltre è importante accennare a quella parte del regolamento che si occupa del lavoro, la quale, benché riferita ai detenuti, ha importanti risvolti anche per gli internati. L'articolo 115 definisce "lavoro all'aperto" quello che "si esegue fuori dalla cinta muraria dello stabilimento", facendo venir meno la precedente disputa se in tale definizione dovessero rientrare o meno i lavori svolti "sotto la volta del cielo" (124), ma entro la cinta muraria dell'istituto (es. la coltivazione dell'orto del carcere, lavori nei cortili etc.). Secondo l'art. 117, il lavoro dei detenuti, quando si svolga esternamente, può essere organizzato nelle case di lavoro all'aperto oppure attraverso "colonne mobili di detenuti", i quali escono dall'istituto per lavorare, e vi rientrano la sera alla fine del lavoro (125). Il successivo art. 118 prevede quali siano gli scopi del lavoro all'aperto, quando i detenuti siano assegnati ai lavori agricoli, di bonifica o di dissodamento (126), prevedendo in particolare che "l'organizzazione dei servizi deve avere per fine la progressiva e graduale cessione dei terreni, migliorati, ai lavoratori liberi, nei modi di legge" (127). La cosa interessante è che alcune colonie agricole, col tempo si trasformarono in case di lavoro all'aperto per detenuti, mantenendo però sempre una "sezione per internati" (128).

Infine è interessante riportare il pensiero di D'Amelio, presidente della commissione parlamentare chiamata a dare il proprio parere sul progetto definitivo del codice penale. Egli afferma che la nuova regolamentazione sulle misure di sicurezza rappresenta non tanto la conciliazione delle due scuole di pensiero italiane (classica e positiva), quanto il loro superamento. Così, afferma D'Amelio,

"mentre è rimasto fermo ed intangibile il duplice concetto della scuola classica o tradizionale, che esclude la natura di pena dalle misure di sicurezza e ritiene che queste possono applicarsi soltanto alle persone pericolose, che già abbiano commesso un reato, ha conseguito pieno successo il duplice canone della scuola positiva, e cioè che le misure di sicurezza debbono trovare posto nel codice penale ed essere applicate per opera del giudice. Sul terreno della vita pratica, i principi delle due scuole si sono facilmente incontrati e coordinati" (129).

Concludendo, per quanto riguarda il lavoro all'aperto, nelle discussioni preparatorie al codice penale, si evince che l'assegnazione viene disposta in base alla valutazione di elementi soggettivi del condannato, come per esempio le abitudini di vita e le tendenze al lavoro. Tale attività lavorativa all'esterno è vista favorevolmente anche quando venga applicata agli ergastolani, in quanto, se viene accompagnata ad un regime severo di sorveglianza e a "lavori non lievi (ad es., dissodamento o bonifica), impedisce gli effetti deleteri della pena perpetua, senza distruggere o attenuare il carattere di afflittività, che ad essa è inerente". Sempre nei lavori preparatori, vengono riportate le opinioni contrarie all'applicazione del lavoro all'aperto, in particolare il timore che esso renda la pena troppo mite e che per le difficoltà di sorveglianza faciliti le evasioni. In realtà viene osservato che la maggioranza dei lavori agricoli attribuiscono un carattere alla pena non di mitezza ma al contrario di severità, in considerazione delle difficoltà pratiche della bonifica e del dissodamento di terreni talvolta anche malarici (130).

1.5 I mutamenti apportati dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e la riforma penitenziaria del 1975

L'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, se per un verso è stato un evento fondamentale sotto molti aspetti della vita politica, economica, sociale e giuridica del Paese, non ha avuto effetti diretti sull'ordinamento e sul funzionamento delle colonie penali agricole. Un aspetto però basilare, che certamente viene ad essere modificato dopo l'entrata in vigore della costituzione, è la concezione del lavoro carcerario, tema strettamente legato all'istituto delle colonie penali. Laddove, infatti, all'art. 272 Cost., viene esplicitamente detto che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", c'è un riferimento necessario anche al lavoro, in quanto esso è parte o complemento necessario della pena detentiva, con la conseguenza che anche il lavoro dovrà avere quei caratteri di umanità e di risocializzazione dettati dal testo costituzionale (131). In ogni tipologia di istituto penitenziario il lavoro dei detenuti dovrà "essere letto" sotto questa nuova luce, abbandonando ogni retaggio del passato che vedeva il lavoro solo come affittivo e punitivo.

A queste innovazioni sul piano costituzionale, non fece seguito alcuna modifica concreta, e le norme sull'ordinamento carcerario continuarono ad essere quelle del 1931 (132), norme che mal si conciliavano con il mutato clima politico e sociale di cui erano espressione i nuovi principi costituzionali.

Alcune norme riguardanti proprio le colonie penali furono sottoposte al giudizio della Corte Costituzionale affinché fosse verificata la loro legittimità in tal senso. In particolare la Corte respinse (133) l'ipotesi avanzata circa la inidoneità della colonia penale agricola e della casa di lavoro a svolgere la funzione rieducativa degli internati, con la motivazione che le carenze e le disfunzioni che caratterizzano una norma nella sua concreta attuazione non possono avere efficacia nel giudizio di costituzionalità (134).

Per quanto riguarda la Toscana, uno schema di sintesi, redatto da Dott. De Santis (135), riguardante gli istituti per le misure di sicurezza detentiva è il seguente (136):

PIANOSA

  • Caratteristiche climatiche e ambientali. È adibita a istituto per le misure di sicurezza la diramazione "centrale". L'ambiente edilizio è tetro, squallido, non funzionale. Le caratteristiche climatiche sono quelle comuni alle isole: caldo intenso di estate, inverni poco rigidi, estrema variabilità atmosferica, tasso piuttosto elevato di umidità.
  • Struttura edilizia. Il reparto è suddiviso in camere e camerotti:
    • n 1 per 1 posto letto
    • n 4 per 2 posto letto
    • n 10 per 3 posto letto
    • n 5 per 4 posto letto
    • n 25 per 5 posto letto
    • n 1 per 6 posto letto
    • n 1 per 7 posto letto

    Le celle di isolamento, ubicate in un reparto autonomo, sono comuni agli internati e ai detenuti. Non esiste impianto di riscaldamento.

  • Capienza. La capienza è di 197 unità.
  • Presenze. La presenza media giornaliera dal I gennaio 1971 al 31 ottobre u.s. è stata di 104 internati.
  • Situazione ed organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto il complesso degli istituti carcerari della Pianosa è il seguente: 10 sottufficiali e 177 agenti. I militari disponibili sono 6 sottufficiali e 169 agenti. Si conosce l'organico ufficiale del personale civile. Al presente figurano in servizio presso gli stabilimenti carcerari di Pianosa:
    • 1 direttore
    • 1 ragioniere
    • 1 cappellano
    • 1 sanitario
    • 1 archivista con funzioni di agronomo
    • 4 operai
  • Tipo di lavorazioni. L'attività lavorativa principale è la coltivazione dei campi e l'allevamento del bestiame; tutte le rimanenti sono da considerare accessorie alla suddetta.
  • Non sembra che l'ambiente circoscritto dell'isola e l'isolamento geografico, affettivo e sociale, in cui vivono, sia giovevole al recupero degli internati.

CAPRAIA

  • Caratteristiche climatiche e ambientali. È destinato a reparto per gli internati la diramazione porto vecchio. Il clima e l'ambiente è simile a quello di Pianosa.
  • Struttura edilizia. Consta di un unico fabbricato suddiviso in due cameroni e servizi vari. Non dispone di celle di isolamento autonome, né di impianto di riscaldamento.
  • Capienza. La capienza è di 46 unità
  • Presenze. Le presenze giornaliere medie, dal I gennaio al 31 ottobre 1971, sono state di 28 unità.
  • Situazione e organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto il complesso degli istituti carcerari di Capraia è il seguente: 8 sottufficiali e 70 agenti. I militari disponibili sono 7 sottufficiali e 63 agenti. La direzione della casa di lavoro all'aperto di Capraia non ha saputo fornire notizie circa l'organico ufficiale del personale civile; al presente figurano i servizio:
    • 1 direttore
    • 1 applicato
    • 1 cappellano
    • 3 operai
  • Tipo di lavorazioni. L'attività lavorativa principale è la coltivazione dei campi e l'allevamento del bestiame. Per quanto concerne l'opportunità di custodire internati in una isola, valgono le considerazioni formulate per l'analoga situazione di Pianosa.

PORTO AZZURRO

  • Caratteristiche climatiche e ambientali. Un reparto dell'istituto è adibito a sezione di rigore per internati; il clima è umido, ventoso e temperato; l'istituto sorge in una isola piuttosto popolata e centro attivissimo di turismo.
  • Struttura edilizia. In attesa di una definitiva sistemazione di un apposito reparto, che verrà convenientemente ristrutturato, attualmente la sezione di casa di rigore per internati è ubicata nella zona più appartata dell'istituto (14ª sezione - 3º reparto) ed è costituita da 10 camerotti, che possono ospitare due internati ciascuno, come capienza massima. Le celle di isolamento sono le stesse che vengono usate anche per i reclusi. In questi giorni è iniziata l'installazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato; si presume che entro la fine dell'anno tutto l'istituto, e quindi anche la sezione della casa di rigore, sarà riscaldata con termosifoni.
  • Capienza. La capienza è di 20 unità.
  • Presenze. Le presenze medie giornaliere degli internati assegnati alla casa di rigore dal 1/1/1971 al 31/10/1971 sono state n. 16.
  • Situazione e organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto il complesso carcerario di Porto Azzurro è il seguente: 9 sottufficiali e 148 agenti. I militari disponibili sono 7 sottufficiali e 132 agenti. Non si posseggono dati precisi relativamente all'organico del personale civile. Sono in forza al presente:
    • 1 direttore
    • 2 ragionieri
    • 1 cappellano
    • 2 sanitari
    • 2 operai

    Il personale civile e militare, di cui sopra, svolge la propria opera per tutto il complesso carcerario.

  • Tipo di lavorazioni. Gli internati, dopo un primo periodo di isolamento e di osservazione, possono trovare occupazione in una delle officine dell'istituto.

PISA

  • Caratteristiche climatiche e ambientali. L'istituto dispone di due sezioni per internati minorati fisici e sorge in una zona prossima al mare, con clima temperato.
  • Struttura edilizia. Una delle sezioni è a sistema cunicolare con 95 celle, l'altra si compone di 7 celle monoposto e di 5 camerotti di 5-6 posti ognuno. Il reparto non dispone di celle di isolamento autonome. Esiste l'impianto di riscaldamento solo nella seconda delle suddette sezioni.
  • Capienza. La capienza della sezione cunicolare è di 95 posti; l'altra può ospitare 45 unità.
  • Presenze. La presenza media giornaliera dal I gennaio al 31 ottobre 1971 è stata di 58 internati.
  • Situazione ed organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto lo stabilimento è il seguente: 6 sottufficiali e 79 agenti. I militari disponibili sono 6 sottufficiali e 77 agenti. Non si è in grado di precisare l'organico del personale civile. Attualmente prestano la loro opera per il complesso degli istituti carcerari di Pisa:
    • 1 direttore
    • 1 ragioniere
    • 1 cappellano
    • 3 sanitari
    • 2 operai
  • Tipo di lavorazioni. Non esistono lavorazioni per gli internati, anche perché trattasi di minorati fisici. Con lettera n. 19700 del 5 corrente ho inoltrato alcune proposte concernenti una migliore strutturazione del reparto in argomento.

Finalmente nel 1975 (137) venne approvato il nuovo ordinamento penitenziario (138), il quale è un testo che, a differenza dei precedenti, è molto organico e ben strutturato, e ha contribuito a modificare quella tendenza presente fin dal dopoguerra di concentrare tutte le problematiche dell'ambito penale "esclusivamente sugli aspetti teorici e sistematici a scapito di quelli riguardante la concreta operatività sociale" (139). Anzitutto viene meno quella rigida distinzione normativa tra detenuti ed internati, riguardando la maggioranza degli articoli entrambe le categorie predette. Gli istituti per adulti vengono divisi in quattro categorie, e cioè: 1) istituti di custodia preventiva; 2) istituti per l'esecuzione delle pene; 3) istituti per l'esecuzione delle misure di sicurezza; 4) centri di osservazione (art. 59). Fra gli istituti per l'esecuzione di misure di sicurezza detentive, vengono nominate, oltre agli ospedali psichiatrici giudiziali, alle case di cura e custodia e alle case di lavoro, le colonie agricole, con l'aggiunta che possono essere istituite delle "sezioni per l'esecuzione della misura di sicurezza della colonia agricola presso una casa di lavoro e viceversa", oltre che anche delle "sezioni per l'esecuzione delle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro presso le case di reclusione" (art. 62). Queste sono le uniche norme dell'ordinamento penitenziario riguardante direttamente le colonie agricole, e di conseguenza, come si evince facilmente, almeno sotto l'aspetto della organizzazione e inquadramento normativo, non cambia niente rispetto al passato, essendo le colonie sempre destinate a coloro i quali sono stati colpiti da una misura di sicurezza. L'unica grossa novità, riguarda la possibilità di creare delle "sezioni per internati" presso delle case di reclusione "ordinarie", facendo di fatto cadere la distinzione della finalità degli istituti presente originariamente. Questo ha portato col tempo alla graduale trasformazione delle colonie agricole in "case di reclusione", dotate però di una o più sezioni in cui ospitare gli internati. Tutto ciò ha permesso di allargare i benefici e vantaggi che le colonie penali avevano anche ai detenuti, in primis la possibilità di lavorare all'aria aperta ed essere liberi durante tutto il giorno.

Prospetto relativo alla capienza ed alle presenze dei detenuti (140)
capienza max capienza ottimale detenuti presenti posti infermeria note
Capraia 150 130 155
Gorgona 18 18 12 alcune sezioni sono state dichiarate inagibili dal Genio Civile
Pianosa 647 600 656 28

Bisogna non di meno aggiungere che con la legge 10 ottobre 1986, n. 663 viene abrogato l'art. 204 c.p. riguardante l'accertamento della pericolosità sociale presunta, in quanto con l'art. 312 della stessa legge viene previsto che "tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate, previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa", venendo meno quindi al riguardo ogni presunzione di legge. In altre parole gli articoli 21 e 31 di tale legge (detta "Simeone") (141), prevedono che l'assegnazione ad una colonia agricola - casa di lavoro può essere disposta solamente se sia stata accertata in concreto dal giudice di merito la pericolosità sociale ex art. 203 c.p., sempre secondo le circostanze previste dall'art. 133 codice penale (142). Inoltre, altra importante conseguenza di questa legge, è il fatto di dover ritenere ormai sorpassata l'ipotesi prevista dall'articolo 217 c.p. riguardante la durata di tempo minima per l'assegnazione ad una colonia penale o casa di lavoro; tutto a causa proprio del fatto che adesso è l'accertamento in concreto della pericolosità sociale l'unico parametro disponibile da utilizzare per stabilire la tipologia e durata delle misure di sicurezza, anche in relazione alle forme di pericolosità qualificata (143).

Infine un accenno deve essere fatto alle numerosissime circolari ministeriali (144) che sono state emanate negli ultimi anni sul tema del lavoro agricolo. Significativa è la circolare n. 2706/5159 del 19 luglio 1980 avente ad oggetto dei sussidi economici per le attività ergoterapiche (145). Viene esplicitamente detto che l'ergoterapia è considerata come un trattamento curativo, per cui essa "è finalizzata, unitamente alle altre terapie, al recupero parziale o totale delle capacità intellettive e lavorative del soggetto", pertanto il sussidio deve essere "un valido stimolo all'applicazione del lavoro e al miglioramento del rendimento, i quali contribuiscono, molto spesso in modo pregnante, a rinsaldare nell'individuo infermo il senso della propria dignità". Tutto ciò, pur non riguardando direttamente gli internati delle colonie penali agricole ma solo coloro affetti da infermità mentale, mostra come il lavoro venga in questo caso considerato quale vera e propria "terapia psichiatrica" che consiste nel cercare di rieducare i soggetti ad una vita sociale attraverso lo svolgimento di attività produttive, che nella maggior parte saranno di tipo agricolo.

Molto importante è anche la circolare n. 2906/5356 del 7 dicembre 1982, la quale ha per oggetto l'ammissione al lavoro all'esterno dei detenuti e degli internati. Tale circolare si rese necessaria per ovviare a talune erronee interpretazioni circa l'ammissione al lavoro all'esterno; in particolare si voleva sottolineare che tale misura non era e non doveva essere considerata come un "surrogato" della semilibertà.

Il regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario del 1976 (146), prevedeva che l'ammissione all'aperto poteva essere disposta solamente quando tale misura fosse stata inserita nel programma elaborato dal gruppo di osservazione e trattamento dell'istituto dove il soggetto si trovava. La circolare aggiungeva inoltre che è "quantomeno opportuno che il suddetto gruppo si riunisca periodicamente nel corso dell'esecuzione della misura per valutarne i risultati parziali". Il programma di trattamento dovrà quindi essere trasmesso al magistrato di sorveglianza (nel caso di imputati sarà sufficiente l'assenso dell'autorità giudiziaria competente), il quale se non riscontra violazioni di legge, lo approverà con il suo ordine di servizio (art. 69 legge 345/75).

Un ruolo importante è assunto dal direttore dell'istituto, in quanto è di sua esclusiva competenza l'ammissione o meno del soggetto al lavoro all'aperto; egli, infatti, nell'emettere il suo provvedimento, dovrà necessariamente attenersi agli elementi e condizioni di ammissibilità posti in rilievo nel programma di trattamento elaborato dall'équipe, ma egli è autonomo nella scelta, in quanto si avvarrà di fatti che soltanto lui, in relazione alle esigenze del segreto d'ufficio, conosce (147).

Per quanto concerne le prescrizioni da osservare nella esecuzione del lavoro all'esterno, esse dovranno essere allegate al provvedimento del direttore e firmate dall'interessato per accettazione. Fra le prescrizioni più importanti, saranno da menzionare l'orario di lavoro, il mezzo di trasporto da usare e il tempo presumibilmente necessario a compiere il tragitto istituto - posto di lavoro e viceversa, il luogo dove l'interessato consumerà il pranzo, la denominazione della ditta e il settore dove essa opera, il nome dell'imprenditore, l'indirizzo del posto di lavoro e infine le mansioni affidate al soggetto (148). In conclusione la direzione dovrà sempre verificare che sul posto di lavoro del detenuto o dell'internato sia assicurato il rispetto dei suoi diritti e della sua dignità, per far sì che non sia presente alcuna forma di sfruttamento (149).

Infine l'ultimo intervento legislativo in ordine cronologico che riguarda le colonie agricole è il regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario del 2000 (150). L'art. 50 ricalca in modo pressoché identico l'art. 48 del precedente regolamento di esecuzione del 1976 (151), e a proposito dell'obbligo del lavoro dispone che "i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, che non siano stati ammessi al regime di semilibertà o al lavoro all'esterno o non siano stati autorizzati a svolgere attività artigianali, intellettuali o artistiche o lavoro a domicilio, per i quali non sia disponibile un lavoro rispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell'articolo 20 della legge, sono tenuti a svolgere un'altra attività lavorativa tra quelle organizzate nell'istituto" (152).

Note

1. Si tratta della sovrana risoluzione del 9 Aprile 1858.

2. Come riporta Franca Mele in Le isole sono nate fatte per luoghi di pena. Pianosa e le colonie penali agricole nell'Italia dell'Ottocento, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", anno XXVI, n. 2, dicembre 1996, l'idea iniziale di Peri (esposta in una lettera privata del 18 ottobre 1857 diretta al Ministro segretario di Stato per il dipartimento di giustizia e grazia) è quella di colonizzare l'isola, soprattutto allo scopo di risolvere almeno in parte il grave problema di sovraffollamento delle carceri toscane, prendendo come esempio il pio istituto agrario di Vigna Pia sito vicino Roma e fondato dal Papa Pio IX nel 1850. Secondo Peri, inoltre, non dovrebbe essere neppure sottovalutato l'aspetto economico e la rendita agricola ottenibile da tale progetto in quanto, dato che "alla Pianosa, ove lo spazio è tre volte maggiore che alla Vigna Pia, ov'è molto terreno incolto che ha solamente bisogno di braccia per dissodarlo, ove trovasi già una quantità di bestiame capace di utilizzare l'opera di molti lavoranti, dove la sicurezza e la separazione è stabilita dalle stesse condizioni topografiche del luogo, parrebbe a me che non dovesse reputarsi una mera illusione od utopia la speranza di vedere un giorno quel territorio in condizioni più prospere di coltura".

3. Tale regolamento è approvato con rescritto del Granduca Leopoldo II datato 31 Maggio 1853.

4. Uno dei maggiori problemi che contribuisce a rendere difficoltosa l'unificazione in ambito penale, è rappresentato dalla questione della pena di morte, presente ovunque fuorché nel codice penale toscano.

5. Si tratta dell'atto del Governo Provvisorio Toscano, n. XXVIII, 30 aprile 1859: "Il Governo Provvisorio Toscano/ Considerando che la Toscana fu la prima ad abolire in Europa la pena di morte./ Considerando che se questa venne in seguito ristabilita lo fu solamente quando le passioni politiche prevalsero alla maturità de' tempi e alla mitezza degli animi,/ Considerando però che quantunque per tal modo ripristinata non venne applicata giammai perché fra noi la civiltà fu sempre più forte della Scure del Carnefice:/ Ha decretato e decreta/ Articolo unico. La pena di morte è abolita./ Cav. Ubaldino Peruzzi/ Avv. A. Malenchini/ Magg. A. Danzini". Sempre il Governo Provvisorio Toscano, il 4 Maggio 1859, ha provveduto a sostituire alla pena di morte quella dell'ergastolo. (art. 1, Atti del Governo Provvisorio Toscano, n. LI).

6. Mario Da Passano (presentazione di...[et al.]), Codice penale pel Granducato di Toscana (1953), Ristampa anastatica, Padova, Cedam, 1995.

7. Il codice penale toscano non contempla le colonie agricole. L'art. 12 dispone che "Le pene (...) sono principali, o accessorie. Le principali si distinguono in comuni ed in proprie". L'art. 13 specifica che "le pene comuni sono: [la morte]; l'ergastolo; la casa di forza; la carcere; l'esiglio particolare; la multa; la riprensione giudiciale". Interessante è il fatto che l'ergastolano ha l'obbligo di portare al piede destro un anello di ferro, che dovrà scontare la propria condanna all'isola d'Elba ed i primi 20 anni dovrà lavorare in condizione di segregazione continua dagli altri condannati (art. 15). Il condannato alla casa di forza (da un minimo di tre ad un massimo di venti anni) rimane sempre in segregazione continua dagli altri condannati (art. 16), così come per il "condannato alla carcere" (da un minimo di un giorno ad un massimo di sei anni), (art. 17). In ogni caso sono previsti mitigazioni della severità per coloro che hanno compiuto il settantesimo anno di età.

8. Art. 14 regolamento. Curioso è il tenore dell'art. 15: "Per altro quei condannati alla carcere, che prima della condanna coltivano le lettere, od una scienza, od un'arte liberale, possono dedicare le ore del lavoro a quelle occupazioni loro abituali, che sieno conciliabili col luogo di pena, ed acquistano, senza poterlo ritenere presso di sé, il guadagno, che hanno modo di procurarsi con le medesime. Chiunque profitta di questa facoltà, non riceve alcuna mercede dall'amministrazione, se non in quanto impieghi l'opera in servigio di essa: ma si può procurare, a proprie spese, qualche miglioramento nel vitto quotidiano".

9. Art. 19: "I condannati possono erogare la quota disponibile della mercede giornaliera: a) in soccorsi alla famiglia; b) nella compra di qualche arnese del relativo mestiere; c) a procurarsi un modico sopravvitto".

10. Art. 20, §1: "Il sopravvitto (...) può consistere tutti i giorni, in cui il condannato abbia i mezzi di procacciarselo, in pane, polenta di castagne o di siciliano, legumi od erbaggi conditi, frutta, uova, formaggio, o salumi". Per quanto riguarda il vino, la "quartuccia" (un quarto di litro) o la "mezzetta" (mezzo litro) dipende dal tipo di pena a cui si è sottoposti nonché all'età ed al sesso (art. 20, §2).

11. Leopoldo Ponticelli, La Pianosa, in "Rivista di discipline carcerarie", anno X, 1880.

12. Si tratta del regio decreto 13 gennaio 1862.

13. Il regolamento è diviso in tre parti fondamentali intitolate rispettivamente "del personale delle case di pena, dei detenuti, dell'amministrazione economica e della contabilità". La prima parte si occupa del personale amministrativo, del personale medico, religioso, scolastico e di custodia. La seconda parte si occupa di ciò che riguarda il "governo dei detenuti", per esempio gli orari da rispettare durante la giornata, il lavoro, la socialità, il vitto, le norme igieniche, le punizioni etc. La parte terza, infine, si occupa dell'amministrazione economica e contabile degli istituti e delle lavorazioni effettuate dai detenuti.

14. Si tratta del decreto del Ministero dell'Interno 23 dicembre 1863. Al riguardo Ponticelli, direttore della colonia di Pianosa, su tale regolamento si esprime dicendo che: "queste norme non solo furono razionali e ben determinate, ma si informarono altresì ad una larghezza di vedute che, almeno in quel tempo, non erano certamente comune alle pubbliche amministrazioni.". Leopoldo Ponticelli, opera cit., p. 447.

15. Circolare del Ministero dell'Interno (direzione generale delle carceri), 30 novembre 1870, div. VI, sez. II, n. 64450, 36-1-A., ove il direttore Cardon spiga che "non pochi tra i condannati, che nel corrente anno vennero traslocati dalle varie Case alla Colonia penale agricola di Pianosa, giunti appena in quell'isola, obbligano la direzioni ad invocare il pronto allontanamento, come quello che era imperiosamente richiesto onde tutelare l'ordine e la disciplina gravemente compromessi dalla loro presenza, resa questa d'altronde inutile dalla nessuna attitudine ai lavori agricoli della Colonia. Questo fatto prova ad evidenza che le direzioni delle Case penali hanno proceduto con troppa leggerezza e con ben poca prudenza nella scelta dei condannati da proporsi per il trasferimento nella anzidetta Colonia penale. Importando di evitare la rinnovazione dei sovra segnalati gravi inconvenienti, e di risparmiare ad un tempo all'Erario le spese non indifferenti che ne derivano [...], usando la voluta diligenza nella scelta e la necessaria fermezza nello escludere senza riguardi i non meritevoli, saranno conseguiti gli scopi di codeste traslocazioni, e i condannati si faranno persuasi che il trasferimento alla Pianosa è uno speciale favore loro accordato dal Governo, e servirà di incitamento a ben condursi onde poterne fruire".

16. Si tratta del regio decreto del 6 gennaio 1887, n. 4318.

17. Come riporta Antonio Santoriello in L'isola di Pianosa e la nascita delle colonie agricole penali nell'Italia liberale (1860/1889) in L. Martone (a cura di) opera citata, Pianosa si era specializzata nella coltura di cereali e di frutta e nella attività di pastorizia. Gorgona invece era coltivata prevalentemente ad olivo, mentre Capraia produceva soprattutto cereali e "legname per la consistente presenza di alberi ad alto fusto".

18. Art. 2 regio decreto 6 gennaio 1887, n. 4318.

19. Interessante a tal proposito è quanto riportato nell'articolo di Biamonti (Ispettore economo presso la colonia penale dell'isola di Gorgona), Sull'utilità delle colonie agricole penali, in "Effemeride Carceraria", 1870, anno VI, pag. 14, che: "Il passaggio dei detenuti delle diverse case penali del continente alle colonie essendo accordato quale premio, ragion vuole che la scelta abbia a cadere su individui che, oltre di avere già scontata la metà della pena, abbiano tenuto sempre una condotta lodevole sotto ogni rapporto. La difficoltà della scelte esige una grande avvedutezza ed una squisita conoscenza da parte dei direttori nelle loro proposte. Qualche volta il detenuto, nascondendo per alcun tempo colla più raffinata ipocrisia il germe i lui insito del delinquere, si dimentica ad un tratto del beneficio accordatogli, e coll'infrangere le discipline si rende indegno del benefico soggiorno dell'isola. Ma se la scelta dei detenuti fu operata con sapiente prudenza, ecco che l'individuo, a cui stiano sempre presenti le circostanze che accompagnarono il reato e l'intensità dell'offesa sociale o del danno privato che cagionò, messe a confronto le squallide mura del carcere, ove pria trovarsi, coll'aria balsamica che respira nella colonia, piange in silenzio il fallo commesso, mentre d'altra parte considera che il rimanente della pena a scontarsi non è forse così grave, come sente che richiederebbe la mancanza per cui venne punito".

20. "A scopo di esemplarità il condannato dovrà, di regola, essere restituito allo stesso Stabilimento da cui provenne, salvo che, per ragioni speciali, il Ministero non credesse di disporre altrimenti" (art. 6), e "i condannati espulsi dalle colonie non potranno più essere destinati in esse né in altri consimili Stabilimenti di premio." (art. 9).

21. L'art. 14 prevede appunto che "l'agronomo ha grado assimilato a quello di vicedirettore", pertanto sia a lui che al suo "ufficiale segretario" (cfr. art. 13), sono "dovuti (...) da tutto il personale della Colonia la massima deferenza e rispetto in ragione del grado, che è loro attribuito; ed assoluta obbedienza da parte degli assistenti ed agenti subalterni e dal personale di custodia in quanto si riferisce all'indirizzo ed alla retta esecuzione del lavoro".

22. Curioso è al riguardo l'ultimo paragrafo dell'art. 14, il quale prevede come eccezione alle "conversazioni clamorose" che "nelle feste, o quando per causa di intemperie i condannati sono chiusi nei dormitorii, o in altre sale comuni, potrà soltanto permettersi la lettura ad alta voce, per parte di qualche condannato ai suoi compagni riuniti a lui dintorno, di libri istruttivi e di morale all'uopo distribuiti dalla Direzione".

23. A questa regola, fanno eccezione, oltre ai "condannati addetti ai servizi speciali e domestici della colonia" (art. 56), anche i "condannati addetti alla custodia del bestiame e [i] fornaciai durante a cottura dei materiali, ed altri occupati in servizi d'indole speciale, i quali, benché affidati alla vigilanza di una o più guardie, potranno, per ragioni gravi di servizio, allontanarsi dalle stesse e anche restare fuori dei dormitorii comuni nelle ore della notte" (art. 57); chiaramente questi coloni saranno "scelti fra quelli di miglior condotta e di più breve pena da espiare, e dovranno essere privati del posto ogni qual volta in un castigo eccedente la semplice ammonizione", non tralasciando comunque anche per loro una "dovuta vigilanza" (art. 58).

24. Per quei lavori in cui il cottimo non potesse essere applicato, i "condannati saranno divisi in tre classi" conteggiandosi rispettivamente una mercede pari a una lira, ottanta centesimi e sessantacinque centesimi di lire, e l'assegnazione alle varie classi dipenderà "dall'importanza delle diverse lavorazioni o servizi e la speciale capacità ed attitudine dei condannati" (art. 59). Speciali retribuzioni saranno inoltre accordati per lo svolgimento di lavori pericolosi o particolarmente impegnativi (art. 60).

25. Art. 4.

26. Interessante è al riguardo la ricostruzione storica fatta da Franca Mele in Le isole sono nate fatte per luoghi di pena, cit. Viene riportato l'esempio della commissione per lo studio delle riforme penitenziarie (istituita con decreto del Ministero dell'Interno 16 febbraio 1862), la quale ha tra i tanti l'incarico "di esaminare se le colonie penali agricole siano ammissibili come grado nella scala penale, o meglio convenga di mantenerle per via di commutazione di pena pei condannati, che compaiono meritevoli di tale benefizio" ("Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia", n. 54, 4 marzo 1862). Oppure la commissione per lo "studio delle riforme della scala penale" istituita nel 1865, o ancora la commissione istituita dal Guardasigilli Mancini il 18 marzo 1876.

27. Il Ministro della Giustizia Vigliani, nella relazione al suo progetto di codice penale, definisce le colonie "le più belle instituzioni che la moderna civiltà accoglie senza contrasto". Paolo Onorato Vigliani, opera citata.

28. Vedi: Gemma Marotta, Teorie criminologiche. Da Beccaria al postmoderno. Milano, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 2004, pag. 62.

29. Ibidem.

30. Mario A. Cattaneo, Francesco Carrara e la filosofia del diritto penale, Torino, Giappichelli, 1988, pag. 105. Nel brano di Francesco Carrara riportato nel testo, sempre a proposito della pena viene detto che "se un male s'infligge a chi non è riconosciuto colpevole, o da chi non ne ha l'autorità, o senza la legge che lo commini, o in modo arbitrario; questa sarà una vendetta, una violenza, ma non una pena in senso giuridico. Ma se invece il legislatore comminò la pena per fini irrazionali, o con esorbitanza dalla ragione penale; la pena potrà dirsi ingiusta, dannosa, ma sarà sempre una pena".

31. Ivi, pag. 108.

32. Ibidem. Carrara indica anche quali non debbono essere i fini della pena, dicendo che: "Il fine della pena non è quello né che giustizia sia fatta; né che l'offeso sia vendicato; né che sia risarcito il danno da lui patito; né che si atterriscano i cittadini; né che il delinquente espii il suo reato; né che si ottenga la sua emenda. Tutte coteste possono essere conseguenze accessorie della pena; ed essere alcune di loro desiderabili: ma la pena starebbe come atto incriticabile quando tutti cotesti risultati mancassero".

33. Ibid. In particolare il Carrara per spiegare la sua definizione di pena afferma che "il delitto ha materialmente offeso un individuo, od una famiglia, od un numero qualunque di persone. Questo male non si ripara con la pena. [...] Ma il delitto ha offeso la società violando le sue leggi: ha offeso tutti i cittadini diminuendo in loro la opinione della propria sicurezza, e creando il pericolo del malo esempio. [...] Questo danno tutto morale crea la offesa a tutti nella offesa di uno, perché turba la quiete di tutti. La pena deve riparare a questo danno col ristabilimento dell'ordine, commosso pel disordine del delitto. Il concetto di riparazione, col quale esprimiamo il male della pena, ha implicite in sé le tre risultanti di correzione del colpevole, incoraggiamento dei buoni, ammonizione dei mele inclinati. Ma questo concetto differisce grandemente dal concetto puro di emenda, e dal concetto dello atterrimento. Altro è indurre un colpevole a non più delinquere, altro è pretendere di renderlo interiormente buono. Altro è ricordare ai mali inclinati che la legge eseguisce le sue minacce, altro spargere il terrore negli animi. Il timore e la emenda sono implicite nell'azione morale della pena; ma se di loro vuol farsi un fine speciale essa si denatura, e si conduce ad aberrazioni il magistero punitivo". Carrara continua dicendo che "è evidente la perniciosità delle conseguenze alle quali per forza logica inevitabilmente conducono la intimidazione e la emenda guardate come fine primario della penalità. La intimidazione porta ad un rincaro perpetuamente progressivo delle pene, perché il delitto commesso mostrando per positivo che quel colpevole non ha avuto paura di quella pena persuade che per mettere paura agli altri sia necessario accrescerla. (...) E siccome pei vizi della natura umana le pene non arriveranno mai e mai non arriveranno ad impedire che si delinqua, la continuata progressione dei delitti porta per cotesto ragionamento alla perpetua progressività del rigore, e non vi è punto di confine. La emenda all'opposto porta per altra deduzione logica ugualmente necessaria a sottrarre dalla pena il delinquente corretto; lo che rendendo la pena precaria, incerta, e condizionale, ne distrugge tutta la forza morale".

34. Ibid.

35. Ivi, pag. 113. Per Carrara la pena deve essere afflittiva (fisicamente o almeno moralmente), esemplare, certa, pronta e pubblica e, infine, non pervertitrice del reo. Per quanto riguarda invece gli aspetti negativi della pena, essa non deve essere: illegale, aberrante, eccessiva, divisibile e, per quanto possibile riparabile.

36. Elio Palombi, Mario Pagano e la scienza penalistica del secolo XIX, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1989.

37. Ivi, pag. 71.

38. Art. 14, codice penale 1889: "Il condannato alla pena della reclusione per tempo non minore di tre anni il quale, durante metà della pena abbia tenuto buona condotta, può essere ammesso a scontare il residuo in uno stabilimento penitenziario intermedio, agricolo o industriale [...]".

39. Atti Parlamentari. Camera. Documenti, leg. XVI, sess. II, n. 28, pp. 100 ss.

40. Si tratta del regio decreto 1º febbraio 1891, n. 260.

41. A tal proposito l'art. 455 precisa che il condannato respinto dalla colonia, non potrà più esservi ritrasferito, ed inoltre potrà essergli anche negato l'accesso alla liberazione condizionale.

42. Vedi: art. 16 codice Zanardelli.

43. Tale distinzione, che a norma degli articoli 457 e 458 si manifesta con dei "galloncini" cuciti di verde o rosso sotto il numero della matricola, comporta dei diversi regimi per le due classi di condannati, ed in particolare quelli appartenenti alla classe di preparazione saranno preferiti agli altri nella destinazione ai lavori all'aperto, e potranno scrivere mensilmente alla famiglia o ricevere una visita dei parenti in una camera separata.

44. In particolare l'art. 801 prevede che l'agronomo "è tenuto in modo speciale a vegliare sulla buona conservazione delle macchine, degli attrezzi e degli utensili, nonché sulla custodia e sull'allevamento del bestiame, e deve altresì concorrere a tutto quanto può contribuire al più produttivo ed utile andamento dell'azienda agricola e delle altre industrie affini o sussidiarie esercitate nella colonia"; inoltre "la responsabilità dell'agronomo si estende eziandio alla buona conservazione e manipolazione dei prodotti" (art. 802).

45. Antonio Santoriello, opera cit., pag. 84.

46. Ferdinando Fonseca, Delle condizioni agricole della Pianosa e dell'organizzazione delle colonie agricole penali in Italia, Firenze, tip. Carnesecchi, 1880.

47. Per quanto riguarda le colonie agricole Santoriello riporta la testimonianza che verso la fine del XIX secolo "le condizioni dei detenuti in questo tipo di stabilimenti vengono ora considerate troppo buone; si rileva il rischio - a tutto a vantaggio delle aspirazioni umanitarie - della perdita del carattere terroristico che comunque la sanzione penale deve mantenere". Antonio Santoriello, opera cit., pag. 85.

48. Ad esempio, a Pianosa, il 5 marzo del 1907 venne creato un "sanatorio criminale" destinato a tutti quei detenuti affetti da tubercolosi. La scelta di quest'isola fu dovuta essenzialmente al fatto che c'era una totale assenza della popolazione libera, oltre che per il clima salubre e mite. Non secondaria causa era che i malati potessero giovarsi dei genuini prodotti alimentari della colonia, e che sull'isola era gia presente una sezione detta "per cronici" (in sostanza una casa penale speciale, non contemplata dalla legge), in cui venivano ricoverati quei detenuti affetti da malattie la cui guarigione era molto lunga nel tempo, o addirittura di forme croniche, per niente curabili nelle infermerie dei carceri tradizionali. Il progetto prevedeva che il sanatorio, per affrontare al meglio le fasi delle malattia, si ripartisse in tre edifici (distanziati e differenziati tra loro, e ciascuno dotato di una certa autonomia), con attività rispettivamente ripartite in "preventorie, sanatorie propriamente dette e convalescenziari". Filippo Saporito, L'isola di Pianosa e i suoi stabilimenti penitenziari, in "Rivista di diritto penitenziario", 1930.

49. Enrico Ferri, Il progetto Zanardelli di Codice Penale, in Studi sulla criminalità, Unione tipografico - editrice torinese, Torino, 1926, pag. 382.

50. Ibidem. Ferri giudica attuabile e desiderabile il carcere cellulare per coloro i quali sono in attesa di giudizio, in quanto "non essendo ancora essi arrivati alla sentenza di assoluzione o di condanna, è necessario tenerli segregati perché non intralcino l'istruttoria giudiziaria, e bisogna salvare ogni galantuomo, che possa essere per isbaglio messo sotto processo, dall'obbrobrio della vita in comune, diurna e notturna, con vecchi condannati e provati malfattori".

51. Ivi, pag. 397. Ferri al riguardo spiega che, secondo il legislatore, la ragione di tale scelta "è che la detenzione è applicata ai delinquenti di occasione, e siccome il grado intermedio delle pene carcerarie è quello del lavoro agricolo o industriale in appositi stabilimenti, così la graduazione diventerebbe per questi condannati, non avvezzi ai lavori penosi, una aggravante; così il pubblico uffiziale, ad esempio, che abbia commesso un peculato, dovrebbe dopo un certo tempo passare nella colonia penale agricola, mentre egli non è avvezzo certo a vangare".

52. Ibid. "Or bene, io posso ammettere che per il delinquente d'occasione, o delicato di costituzione fisica, non si debba procedere come per il bracciante; ma allora, invece di passarlo dalla cella al grave lavoro agricolo, lo potreste passare a qualche altro stadio intermedio. Sono così fertili le immaginazioni dei penitenziaristi a questo proposito, che lo stadio intermedio si potrebbe facilmente trovare e non avreste anzi che l'imbarazzo della scelta".

53. Infra, nota 40 capitolo I.

54. Il metodo deduttivo "nella metodologia tradizionale è il procedere mediante la deduzione, e coincide, per molti aspetti, con il metodo oggi detto razionale. Nel senso tecnico odierno, il metodo deduttivo consiste nel cercare la conferma delle ipotesi sottoponendone a verifica le prevedibili conseguenze". A livello etimologico, per deduzione si intende "ogni processo, logico od ontologico, per cui dal generale discende il particolare. Pertanto si può parlare di deduzione logico - formale, quando il processo di inferenza è riguardato come movimento illativo e consequenziale del pensiero euristico; e di deduzione ontologico - oggettiva, quando l'inferenza è considerata ex parte rei come movimento dell'essere e dinamismo della realtà: nel primo caso la deduzione è processo mentale (opposto all'induzione), per cui si passa da un principio generale a una conseguenza particolare, o, anche, da una legge ai fatti, da una causa agli effetti; nel secondo caso è processo reale, che lega questi stessi termini nella loro obbiettività. Sennonché nella stessa deduzione logica con carattere dimostrativo e inventivo si ha un'implicazione ontologica, in quanto i principi supremi, cui è sospesa la validità del processo logico della deduzione, corrispondono alle stesse leggi dell'essere, fondamento della metafisica", Enciclopedia Filosofica, Edipem, Novara, 1979, vol. 2, pag. 732.

55. Enrico Ferri, Principii di diritto criminale, Torino, Unione tipografico - editrice torinese, 1928. In particolare la scuola classica criminale: "1) Cimentò e stabilì la ragione ed i limiti del diritto di punire da parte dello Stato; 2) Si oppose alla ferocia delle pene, invocando ed ottenendo l'abolizione delle pene capitali, corporali ed infamanti con una mitigazione generale delle pene conservate (carcerarie, ritentive, pecuniarie, interdittive); 3) Rivendicò ogni garanzia per l'individuo, sia durante il processo penale sia nell'applicazione della legge punitiva".

56. Ivi, pag. 39.

57. Oltre alle opere celeberrime di Beccaria, vedi: Giovanni Carmignani, Una lezione accademica sulla pena di morte detta nella Università di Pisa, il 18 marzo 1936, Tipografia Nistri, Pisa, 1836.

58. Enrico Ferri, Principii di diritto criminale, cit., pag. 41.

59. Il termine induzione è stato usato in filosofia "con diversi significati, per denotare: il passaggio dal particolare all'universale; il processo di generalizzazione; il metodo della scienza in quanto, partendo dall'esperienza, perviene alla determinazione di concetti, alla formulazione di leggi, all'accertamento di nuovi fatti. Le suddette procedure possono tutte qualificarsi come induttive: loro carattere comune può dirsi il passaggio dal noto all'ignoto, purché s'intenda ciò non solo nel senso della predizione (e della estrapolazione a nuovi casi), ma anche nel senso di una maggiore comprensione del già noto, attraverso l'enucleazione dell'ordine e della legalità (e quindi della razionalità) impliciti nel dato sperimentale. Distinti, tuttavia, sono i punti di partenza e gli scopi di queste procedure: punti di partenza potendo essere i fatti singolari dell'esperienza o concetti particolari, e punto d'arrivo potendo essere la formazione di concetti, o la formulazione di leggi, o anche l'accertamento di fatti individuali. (...) Queste varie procedure sono spesso sovrapposte e complementari (...)". Enciclopedia Filosofica, Edipem, Novara, 1979, vol. 4, pag. 570.

60. Cesare Lombroso, L'uomo delinquente in rapporto alla antropologia, giurisprudenza e disciplina carceraria, Napoleone, Roma, 1971.

61. Enrico Ferri, Studio sulla criminalità in Francia, in Studi sulla criminalità, cit. Per Ferri "il reato, come ogni altra azione umana, è l'effetto di molteplici cause, che, sebbene intrecciate sempre in una rete indissolubile, si possono tuttavia distinguere per ragioni di studio. Vi sono cioè i fattori antropologici o individuali del reato, i fattori fisici o tellurici ed i fattori sociali. Sono fattori antropologici: l'età, il sesso, lo stato civile, la professione, il domicilio, la classe sociale, il grado d'istruzione e di educazione, la costruzione organica e psichica dei delinquenti. Sono fattori fisici: la razza, il clima, la fertilità e disposizione del suolo, la vicenda diurna e notturna, le stagioni, le meteore, la temperatura annuale. Sono fattori sociali: l'aumento o la diminuzione della popolazione, la diversa emigrazione; l'opinione pubblica, i costumi e la religione; la costituzione della famiglia; l'assetto politico, finanziario, commerciale; la produzione e distribuzione agricola e industriale; l'ordinamento amministrativo, per ciò che riguarda la pubblica sicurezza, la pubblica istruzione e educazione, la pubblica beneficenza; e l'ordinamento legislativo in genere, civile e penale". Ferri denuncia come fino ad allora, i fattori sociali furono in gran parte trascurati dagli studi sulla criminalità, ma quando anche al legislatore saranno chiari tutte i tre fattori che portano l'individuo al reato, "gli sarà facile non solo di correggere talune idee esagerate o false sull'importanza di certi rimedi contro il delitto, ma di sopprimere le cause stesse del disordine, promovendo un diverso assetto sociale ed attuando così una difesa veramente efficace contro l'attività criminosa dell'uomo".

62. Enrico Ferri usa il termine "sostitutivi penali" per indicare tutte quelle riforme politiche, giuridiche, familiari e sociali, che rappresentano delle utili contro - spinte al crimine. Vedi: Enrico Ferri, Sostitutivi penali, in Sociologia Criminale, Feltrinelli, Milano, 1879. Come esempio Ferri dice che come nell'ordine economico mancando "il prodotto principale, si ricorre ai succedanei, che possono supplirlo nella soddisfazione dei bisogni naturali; così nell'ordine giuridico criminale, ammaestrati dall'esperienza, che le pene mancano, quasi totalmente, allo scopo loro attribuito di difesa sociale, bisogna ricorrere ad altri provvedimenti, che possono sostituirle nella soddisfazione della sociale necessità dell'ordine". Lo studioso però precisa che "mentre nel campo economico i succedanei restano per solito prodotti secondari ed inferiori e per ciò di uso transitorio, nel campo criminale invece i sostituti penali debbono diventare i primi e principali mezzi di quella preservazione sociale della criminalità, a cui le pene (trasformate in segregazione clinica dei delinquenti più pericolosi) serviranno ancora, ma in via secondaria. [...] Noi sappiamo che vi è una legge di saturazione criminosa, per la quale è inevitabile in ogni ambiente sociale un minimum di delinquenza naturale ed atavica, dovuto ai fattori antropologici, fisici e sociali, perché la perfezione non è di questa vita umana, così per questo minimum le pene (...) saranno l'ultimo e imprescindibile riparo, contro le inevitabili e sporadiche manifestazioni della attività criminosa". Per Ferri i principali sostituti economici, sono quelli di: ordine economico (libero scambio, libertà di emigrazione, un buon sistema tributario, attenta politica di opere pubbliche ecc.), di ordine politico (libertà di opinione, rispetto dei diritti individuali e sociali ecc.), di ordine scientifico (la stampa, la fotografia e antropometria dei carcerati, la grafologia, sofisticate serrature di sicurezza ecc.), di ordine civile ed amministrativo (facilità della giustizia civile, l'avvocato dei poveri, risarcimento alle vittime dei reati ecc.), di ordine religioso (minore sontuosità delle chiese ecc.), di ordine familiare (ammissione del divorzio) e di ordine educativo (abolizione di certi spettacoli atroci, soppressione delle case da gioco ecc.). Come riporta Roberta Bisi in Enrico Ferri e gli studi sulla criminalità, Franco Angeli, Milano, 2004, pag. 95, "Ferri, pur essendo consapevole della difficoltà di applicazione dei sostitutivi penali, poiché essa implicherebbe il sovvertimento di una immensa quantità di energie, abitudini, tradizioni, ritiene comunque che la vera importanza dei sostituti penali risieda non tanto nella specifica applicazione di una particolare proposta, quanto piuttosto nella accettazione dell'idea che la legge penale non è l'unico rimedio possibile per combattere efficacemente i fenomeni di patologia sociale".

63. Per cui è importante che "la pena, come ultima ratio di difesa sociale repressiva, non deve proporzionarsi - ed in misura fissa - soltanto alla gravità obbiettiva e giuridica del delitto, ma deve adattarsi anche e soprattutto alla personalità, più o meno pericolosa, del delinquente, colla segregazione a tempo indeterminato cioè sino a quando il condannato non sia riadattato alla vita libera ed onesta, così come l'ammalato entra nell'ospedale non per un termine prefisso di tempo - che sarebbe assurdo - ma fino a quando non sia riadatto alla vita ordinaria". Enrico Ferri, Principii di diritto criminale, cit.

64. Ivi, pag. 48. Ferri dice espressamente che "ai penitenziari che furono già chiamati tombe di esseri viventi (...) [sia da preferire] la forma della colonia agricola, che meglio corrisponde alla vita precedente del più gran numero di condannati ed offre, col lavoro all'aria libera, un efficace disinfettante fisico e morale" (pag. 619).

65. Il progetto di Enrico Ferri è riportato nell'opera citata Principii di diritto criminale.

66. Il secondo comma dell'art. 51 precisa che "La segregazione semplice sarà stabilita dal giudice per la casa di lavoro oppure per la colonia agricola secondo la vita precedente e le attitudini al lavoro del condannato".

67. Art. 46: "La multa consiste nel pagamento alla Cassa delle ammende di una somma non inferiore a lire 100 e non superiore a lire 100.000, commisurata alle condizioni economiche del condannato e della sua famiglia ed alla gravità del delitto. Quando il delitto sia stato commesso a scopo di lucro o per cupidigia il giudice aggiungerà una multa adeguata alle circostanze del fatto ed alle condizioni economiche del condannato e della sua famiglia, anche se per il delitto commesso non sia stabilita".

68. Art. 48: "L'esilio locale consiste nell'obbligo imposto al condannato di non dimorare per un tempo non inferiore a tre mesi e non superiore a tre anni, nel comune dove fu commesso il delitto né in quello ove risiedono gli offesi o lo stesso condannato".

69. Art. 49: "Il confino consiste nell'obbligo imposto al condannato di dimorare per un tempo non inferiore ai tre mesi e non superiore a tre anni, nel comune indicato nella sentenza, a distanza non minore di 100 chilometri, tanto dal comune in cui fu commesso il delitto, quanto da quello in cui gli offesi e lo stesso condannato hanno la propria residenza".

70. Per i minorenni, come prevede l'art. 41, le sanzioni previste sono la libertà vigilata, la scuola professionale e di correzione o la nave scuola, la casa di custodia e la casa di lavoro o colonia agricola per minorenni. Anche in questo caso se escludiamo le prime due sanzioni che sono prevalentemente rieducative e la casa di custodia destinata ai minorenni con problemi psichici (art. 61), la pena propriamente detentiva si realizza nella colonia agricola o casa di lavoro, per un "tempo relativamente indeterminato da 5 a 15 anni oppure a tempo assolutamente indeterminato per non meno di dieci anni" (art. 60).

71. Come prevede espressamente l'art. 62, "la casa di custodia per alienati di mente ed il manicomio criminale consistono nell'isolamento notturno con l'obbligo di lavoro industriale o agricolo, quando sia possibile, per un tempo non inferiore ad un anno per la casa di custodia ed a tre anni per il manicomio criminale, sotto la direzione di uno psichiatra antropologo - criminalista". Anche nel differente istituto della speciale colonia di lavoro per alcolizzati od intossicati cronici e per gli altri infermi di mente, il codice prevede "l'isolamento notturno con obbligo, quando sia possibile, di lavoro industriale od agricolo con regime di segregazione semplice o rigorosa stabilita per il delitto commesso. Se la sanzione sia diversa, la speciale colonia di lavoro si applica da un mese ad un anno" (art. 63).

72. Per quanto riguarda le sanzioni per i delitti politici, l'art. 40 prevede oltre alla multa e ad altre "sanzioni complementari" (art. 43: la pubblicazione speciale della sentenza, la cauzione di buona condotta, la sospensione dell'esercizio di un arte o professione, l'interdizione dai pubblici uffici e l'espulsione dello straniero), anche l'esilio generale, la detenzione semplice e la detenzione rigorosa. Quest'ultima, a norma dell'art. 57, "sarà scontata in uno stabilimento speciale od in un reparto speciale di stabilimento comune con isolamento notturno ed obbligo di lavoro diurno. La detenzione rigorosa a tempo relativamente indeterminato si estende da due a dieci ani. La detenzione a tempo assolutamente indeterminato ha un minimo di 10 anni". Invece la detenzione semplice "consiste nell'isolamento notturno ed a richiesta del condannato anche diurno in uno speciale stabilimento, per un tempo non inferiore ad un mese e non superiore a dieci anni. Il condannato ha facoltà di scegliere una delle forme di lavoro organizzate nello stabilimento e di avere colloquii liberi colle persone di sua famiglia e colloquii, sorvegliati, con altre persone e di usare libri, riviste giornali, col permesso della direzione".

73. L'art. 27 dispone che "l'autore o compartecipe di due o più delitti commessi in tempi diversi e indipendenti l'uno dall'altro, per i quali sia stabilita la segregazione, e il recidivo in questi delitti, è dichiarato delinquente abituale quando la natura e le modalità dei delitti commessi o i motivi determinati o le condizioni personali od il genere di vita tenuto dimostrino una persistente tendenza al delitto", e il successivo art. 28 aggiunge che "ai delinquenti abituali si applica, oltre la multa che sia stabilita per i delitti commessi, la segregazione semplice a tempo relativamente indeterminato per un periodo non inferiore al massimo della sanzione stabilita per il delitto più grave e in ogni caso non inferiore a 6 anni, né superiore a 20 anni".

74. Come si vede il progetto di Ferri ritiene particolarmente importante l'attività lavorativa dei reclusi, tanto che è previsto che "ogni condannato che non sia in condizioni patologiche o di invalidità, deve avere un orario di lavoro ed un salario eguali a quelli del corrispondente lavoro libero sul mercato circostante allo stabilimento" (art. 73).

75. Enrico Ferri, Principii di diritto criminale, cit., pag. 700. Ferri spiega a proposito che "la privazione dei rapporti sessuali è certamente la coercizione che più sentono i condannati alla segregazione carceraria e che determina purtroppo gravi fenomeni di corruzione o di esaurimento nervoso. Essa tuttavia è inevitabile per i delinquenti pericolosi che devono essere segregati e soltanto se ne possono attenuare le conseguenze colle discipline igieniche e col lavoro all'aria libera".

76. Ivi, pag. 700. Ferri pensa che tale tipologia di sanzione sarà applicata alla maggioranza dei delitti comuni, e che gli stabilimenti penali potranno essere oltre che di natura agricola (con o senza annessa una sezione casa di lavoro, indispensabile per compiere le opere di muratura, falegname, fabbroferraio, meccanico, etc.), anche di tipo industriale, "tecnicamente organizzate per un rendimento economico, che mentre darà ai condannati il modo di imparare un mestiere per guadagnarsi la vita dopo il ritorno alla libertà e di guadagnare durante la segregazione, il necessario per il proprio mantenimento e per risarcire almeno parzialmente la parte lesa, potrà diminuire di molto le spese dell'erario per il funzionamento di tali stabilimenti".

77. Ferri dice che la maggioranza degli studiosi delle discipline carcerarie pensa che l'esclusivo scopo del lavoro carcerario sia quello di mantenere la disciplina dei detenuti all'interno degli istituti, per favorirne così l'emenda morale e per sottrarlo alla corruzione dell'ozio forzato. Il lavoro, secondo Ferri, costituisce uno dei tre assiomi (insieme con l'isolamento e l'istruzione) nei quali si cristallizza la scuola classica criminale, secondo la quale "la funzione repressiva esercitata dallo Stato, avendo sì una ragione di utilità sociale, ma basandosi anzitutto nelle sue condizioni e nei suoi limiti, sulle ragioni della giustizia retributrice, deve consistere soprattutto nel far subire al delinquente un castigo proporzionato alla colpa morale. D'onde l'obbligo nello Stato di provvedere al mantenimento ed al miglioramento del delinquente, cui spetta il solo dovere di prestarsi all'applicazione del castigo, per la reintegrazione del diritto violato col suo delitto". Lo studioso continua dicendo che a proposito il pensiero della scuola criminale positiva è affatto diverso, in quanto essa considera che "la punizione dei delinquenti (per usare ancora questa parola ascetica, che non esprime più le idee moderne) altro non è che una funzione di difesa sociale contro i delinquenti, la quale trova le sue condizioni ed i suoi limiti, anziché nelle indeterminabili ragioni di una giustizia retributrice e nella misura impossibile della colpabilità morale, nella maggiore o minore temibilità del delinquente, che è una cosa positiva e positivamente determinabile. Ne viene allora che lo Stato non ha di fronte al condannato, che il dovere di impedirgli la ripetizione dei suoi attacchi criminosi, e quindi non può avere altro dovere (...) che quello di dar modo al condannato stesso di guadagnarsi la vita lavorando, come faceva o come avrebbe dovuto fare in libertà e come ogni uomo onesto deve o dovrebbe fare". Enrico Ferri, Lavoro e celle dei condannati, in Studi sulla Criminalità, cit, pag. 124.

78. Ivi, pag. 128. Per Ferri "lo Stato deve dare al detenuto i mezzi di guadagnarsi la vita col lavoro, e gli deve pagare questo lavoro press'a poco nella misura dei salari liberi. Dopo ciò lo Stato deve farsi pagare dal condannato l'alloggio (comprese le spese di amministrazione), gli abiti e il vitto, che non devono essere più dello stretto necessario, visto che molti poveri onesti non hanno nemmeno il necessario. Vale a dire che, almeno nelle carceri, deve imperare la regola suprema di giustizia sociale: che, eccettuati i casi di malattia o d'impotenza fisica, chi non lavora non mangia. E se una parte rimarrà, sul salario del detenuto, prima di pensare al bettolino del carcere, pensiamo a qualcun altro che non va dimenticato; pensiamo ai danneggiati dal delitto, cui si dovrà rendere la quota maggiore di questo residuo. Ed anche della quota ultima che rimarrà, il delinquente dovrà disporre, non ancora per sé, ma per la sua famiglia, che può essere composta di persone oneste e che ad ogni modo della sua carcerazione può soffrire gravi danni". Ferri conclude dicendo che lo Stato deve cessare di assecondare le tendenze brutalmente egoistiche del malfattore "al quale, soltanto quando avrà soddisfatto i suoi tre debiti primi, che col delitto contrasse verso lo Stato, che lo mantenne, verso i danneggiati e verso la sua famiglia, allora soltanto si potrà concedere una parte di salario come fondo di riserva pel giorno della sua liberazione, ed anche come minima quota disponibile, per le spese personali nel carcere, come sprone ad una migliore disciplina regolamentare e morale".

79. Enrico Ferri, Principii di diritto criminale, cit., pag. 710. Prevede l'art. 73 che "il salario dei condannati sarà devoluto per un terzo alla parte lesa, per un terzo all'erario pubblico e per un terzo alla famiglia del condannato, se bisognosa, ed al condannato stesso per suo uso personale e per il suo peculio di risparmio. Se la parte lesa fu risarcita o non vi siano danneggiati, la quota relativa sarà devoluta per metà alla Cassa delle ammende e per metà al condannato e alla sua famiglia. Se il condannato non provveda col lavoro alla spesa del proprio mantenimento, lo Stato ha diritto di ripeterne il rimborso sul suo patrimonio".

80. Enrico Ferri, Lavoro e celle dei condannati, in Studi sulla Criminalità, cit. pag. 130.

81. Ivi, nota numero 1 pag. 130.

82. Ibidem, pag. 130.

83. Per Ferri non è ammissibile che l'esecuzione della condanna venga fatta in modo impersonale, e che l'unica preoccupazione sia la disciplina formale all'interno del carcere. Lo studioso ritiene che "il rimedio può essere analogo a quello, già introdotto nelle scuole popolari, e che discende naturalmente dal criterio positivo dell'adattamento di ogni sanzione alla personalità del delinquente. Come nella scuola popolare alla commistione, nella stessa aula, dei ragazzi di tipo il più diverso (intelligenti e deficienti, ordinati e turbolenti, fantastici e positivi, sani e malaticci, ecc.) si è sostituita una selezione, anzitutto separando i deficienti dagli altri e questi - fin dove possibile - riunendoli in ogni classe secondo l'omogeneità del temperamento, facilitando così l'opera dell'insegnante e rendendola più proficua e soddisfacente, lo stesso, e con maggiore rigore sistematico, si può e si deve fare nelle carceri". In particolare Ferri dice che l'individualizzazione della esecuzione della condanna può avvenire con la "seriazione antropologia dei carcerati" e con "il trattamento dei carcerati". Per quanto riguarda il primo aspetto, Ferri sostiene che "mentre ora [gli] stabilimenti si distinguono soltanto per il genere e la durata della pena (ergastolo, casa di reclusione, casa di detenzione, manicomii giudiziari, case di correzione per minorenni, casa penale per donne) e quindi ciascuno di essi detiene individui di età, temperamento, attitudini molto diverse, si dovrà, invece, in ogni stabilimento anche per uno stesso genere di pena, raccogliere una popolazione omogenea". Cosi facendo, "ogni stabilimento di segregazione avendo una popolazione omogenea (e non troppo numerosa) avrà norme generali di trattamento adatte alla categoria omogenea dei detenuti ivi segregati, che renderanno possibile al direttore, al medico carcerario (antropologo - criminalista), agli educatori, ai sorveglianti (tecnicamente esperti) anche quel trattamento individuale, adatto per ciascun detenuto, che è l'ideale ultimo". Per quanto riguarda il trattamento dei carcerati, Ferri sostiene che il fondamento della vita carceraria deve essere il lavoro, e ciò "sia come mezzo di indennizzare il pubblico erario e le parti lesi, sia - per la grande maggioranza dei detenuti - come mezzo di educazione morale e tecnica e di vita igienica e quindi come risorsa di più sicuro ritorno alla vita normale, dopo scontata la condanna". Enrico Ferri, Principii di diritto criminale, cit., pag. 369.

84. Ferrando Mantovani, Diritto Penale. Parte Generale, Padova, Cedam, 2001, pag. 588. In particolare Mantovani ricorda la c.d. Terza scuola o Scuola eclettica (maggiori rappresentanti: Carnevale, Alimena, Mancini), importante perché "questo indirizzo, da un lato, tiene fermi i canoni fondamentali classici, continuando a incentrare il diritto penale sulla responsabilità del fatto commesso con volontà colpevole, sull'imputabilità (fondandola non più sul postulato del libro arbitrio ma sui concetti di sanità mentale e di normalità) e sulla pena, destinata agli imputabili. Dall'altro, accoglie vari postulati pratici positivisti, in quanto ammette la pericolosità sociale di certi soggetti e, per la esigenza della difesa contro i soggetti pericolosi, le misure di sicurezza. Coi primi tentativi di tipizzazione della personalità o di date personalità del reo o, quanto meno, con le prime previsioni nei nuovi codici di momenti tipicamente personali, inizia quel processo di 'ammorbidimento' della certezza e legalità classiche a favore della 'discrezionalità' del giudice ai fini dell'adeguamento di ogni provvedimento giudiziario alla personalità del soggetto".

85. "Pur restando saldamente ancorato al principio - cardine della responsabilità individuale e conservando alla pena, nella sua essenza, il carattere retributivo - intimidativo, esso ammette anche la categoria della pericolosità sociale, prevedendo per i soggetti socialmente pericolosi le misure di sicurezza in funzione di prevenzione speciale (terapeutica, risocializzatrice, neutralizzatrice). Ai fini di una più efficace lotta contro la criminalità, considera il reo non unicamente come autore del reato commesso, ma come possibile autore di nuovi reati, guardando così oltre che al passato anche il futuro. Ed è il reato, oltre che nel suo valore causale ed offensivo, è considerato anche nel suo valore sintomatico, come indice della personalità dell'autore." Ferrando Mantovani, opera cit., pag. 595.

86. Ivi, pag. 878. Mantovani spiega come "alla difesa contro i delinquenti pericolosi per molto tempo si provvide, più o meno consapevolmente, con le pene eliminative, fisicamente (pena di morte) o socialmente per lunghi periodi (deportazioni, galere, ecc.). Prevenzione generale e prevenzione speciale erano svolte, rozzamente, dalla pena. Con l'affermarsi della pena retributiva detentiva, limitata nel tempo, in sostituzione della pena di morte e delle pene di lunga durata si ripropose innanzi alla coscienza giuridica e sociale l'insufficienza di tale pena a difendere da sola i consociati dai delinquenti pericolosi, a cominciare innanzitutto dai non imputabili".

87. Ivi, pag. 879. In particolare la funzione special preventiva delle misure di sicurezza "non può esaurirsi in una mera neutralizzazione ed emarginazione dei soggetti pericolosi, che farebbe sostanzialmente delle misure di sicurezza una pena indeterminata. Ma in un ordinamento personalistico, qual è il nostro, incentrato sul principio di sviluppo della personalità, sul principio di solidarietà, sui principi di tutela della salute e della protezione dell'infanzia e della gioventù, deve tendere alla rimozione dei fattori predisponenti alla criminalità, che come tali sono un ostacolo al pieno sviluppo della persona umana. La difesa sociale nei confronti dei soggetti pericolosi si attua, così, attraverso un trattamento terapeutico - risocializzatore, che è effettuato non solo nell'interesse della collettività, ma dello stesso individuo pericoloso". Ivi, pag. 884.

88. Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, "Lavori preparatori del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale", vol. V, Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, Roma, Tipografia della Mantellate, 1929, pag. 244.

89. Ivi pag. 245. Per Rocco "le misure di sicurezza non si confondono con le pene e tanto meno si sostituiscono ad esse, ed hanno, di regola, fini socialmente eliminativi, o curativi o terapeutici, o educativi e correttici, e talora (...), semplicemente cautelativi. Mentre la pena suppone, come premessa necessaria, l'imputabilità e la colpevolezza dell'agente, è sufficiente, per l'applicazione delle misure di sicurezza, la pericolosità sociale delle persone che abbiano commesso il fatto preveduto dalla legge come reato, o, eccezionalmente, fatti non costituenti reato ma denotanti sicuro indizio di pericolosità criminale, sicché se possono applicarsi altresì a individui non imputabili o non punibili. A differenza, infine, di quanto avviene per le pene, manca ogni proporzione tra il fatto penalmente illecito e la misura di sicurezza, che non è reazione di giustizia, ma azione di difesa contro il pericolo della commissione di nuove reati, la quale, trovando la sua base nella pericolosità sociale, opera, conseguentemente, finché tale pericolosità perduri".

90. Ibidem.

91. Egli infatti avrà il ruolo di commissario nella commissione ministeriale incaricata di dare un parere al progetto preliminare di codice penale. Vedi: Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, "Lavori preparatori del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale", vol. IV, Atti della Commissione Ministeriale incaricata di dare parere sul progetto preliminare di un nuovo codice penale, parte 11ª, Tipografia della Mantellate, 1929.

92. Precisa Longhi che "con questo non si vuol dire che tutto debba essere arbitrario, bensì che la discrezionalità concessa dalla legge al giudice debba essere maggiore trattandosi delle misure di sicurezza [piuttosto che] delle pene, pur senza che siano messe in pericolo le garanzie della libertà individuale. Si può dunque dire che le sanzioni dettate per gli scopi preventivi della attività giurisdizionale, in tutto e per tutto corrispondono ai motivi che la 'scuola positiva' raccomanda e vorrebbe imporre, ma non senza contrasto: poiché essa vuole sostituire, non aggiungere, queste forme alle precedenti". Silvio Longhi, Repressione e prevenzione nel diritto penale, Milano, Società Editrice Libraria, 1911, pag. 943.

93. Ivi, pag. 945. Longhi afferma che "gli stabilimenti richiesti per le misura di sicurezza curative sono i manicomi, che dovrebbero distinguersi in criminali e giudiziali. Ai manicomi della prima specie dovrebbero assegnarsi i pazzi delinquenti, e cioè coloro che siano divenuti pazzi durante l'espiazione della pena; ai manicomi giudiziali spetterebbero invece i delinquenti pazzi, e cioè coloro che già erano alienati al momento del delitto, e che pertanto furono assolti, o durante l'istruttoria o dal giudice. E le ragioni morali e giuridiche di una tale distinzione sono evidenti. I primi reclamano cura non pena. Né sarebbe giusto valersi, nel primo caso, dei manicomi comuni. (...) Basti ricordare, sopra tutto, che si tratta non soltanto di alienati, ma di alienati dimostrati pericolosi".

94. Ibidem. Longhi aggiunge a tal proposito che "l'organizzazione di questa misura di sicurezza si complica anche colla necessità di introdurre qualche classificazione nel personale degli incorreggibili. Prevale intanto l'idea di stabilire delle differenze, in considerazione: 1º del grado di degenerazione dell'incorreggibile; 2º del di lui grado di pericolosità; 3º della di lui attitudine al lavoro. Per gli incorreggibili, profondamente degenerati, si propone la creazione di stabilimenti analoghi ai manicomi; per gli incorreggibili, degenerati o non, dovrebbero ritenersi sufficienti talune speciali sezioni nelle carceri, per gli incorreggibili capaci al lavoro, parrebbero sufficienti le colonie agricole, e gli stabilimenti industriali del genere di quelli riservati agli oziosi e vagabondi".

95. Silvio Longhi, Per un codice della prevenzione criminale, Milano, Società Editrice Unitas, 1922, pag. 69. All'art. 6 viene stabilito che "nelle case di lavoro per oziosi vagabondi e mendicanti l'assegnato è sottoposto a disciplina analoga a quella imposta negli istituti di relegazione; ma l'assegnazione ha durata non minore di un anno e non può protrarsi oltre i cinque anni; può essere protratta fino a dieci anni se l'assegnato sia stato altra volta internato in una casa di relegazione o di lavoro. Se sia incapace di lavoro, l'assegnato è coattivamente trattenuto nell'istituto soltanto per l'assistenza, il vitto e la cura. Speciali sezioni degli istituti autonomi di ricovero o mendicità, ancorché privati, possono essere destinate anche alla custodia degli oziosi vagabondi o mendicanti che non abbiano mai riportata condanna superiore a tre mesi di pena restrittiva della libertà personale. Tali sezioni sono sottoposte alla vigilanza del Ministero dell'Interno". L'art. 11 stabilisce che "Il condannato recidivo in contravvenzioni alle disposizioni sulla mendicità può essere assegnato a una casa di lavoro se il provvedimento si reputi opportuno per abituare il delinquente a una vita libera onesta e laboriosa o per distoglierlo da un accattonaggio indecoroso. Lo stesso provvedimento si applica nei riguardi di un mendicante inabile al lavoro che si rifiuti di essere ricoverato in un ospizio o insista nell'accattonaggio nonostante i sussidi destinatigli dagli istituti di beneficenza o dal comune".

96. Ibidem. L'art. 4 dispone che "i ricoverati negli asili di temperanza sono sottoposti a cura medica, a un regime di vita sobrio ed ordinato e ad un metodo rigoroso di rieducazione morale e intellettuale, per un periodo di tempo che si estende da tre mesi a due anni. Ad asili di temperanza possono essere destinati anche speciali sezioni di ospizi autonomi di ricovero e mendicità, ancorché privati, sotto la tutela e la vigilanza del Ministero dell'Interno". L'art. 9 aggiunge che "il condannato per reato di ubriachezza abituale, avvero per delitti che abbiano relazione col di lui stato di ubriachezza, può essere assegnato a un asilo di temperanza qualora il giudice ritenga che il provvedimento sia richiesto per abituarlo a vita sobria e ordinata. Il giudice può ordinare che anche l'ubriaco abituale o alcolizzato, prosciolto per irresponsabilità o per altro motivo, sia ricoverato in un asilo di temperanza".

97. Ibid. L'art. 10 si occupa dei delinquenti istintivi, e dispone che "1. Senza pregiudizio delle pene inflitte per i reati commessi, il giudice può ordinare l'assegnazione a uno stabilimento di relegazione di colui che, dopo essere stato più volte condannato a pena restrittiva della libertà personale superiore per ciascuna volta ai tre mesi, commette nei termini indicati dalla legge per la recidiva, un altro reato della stessa indole e che importi anch'esso una pena restrittiva della libertà personale, qualora ritenga la pena inflitta insufficiente a correggere il condannato e che questi, ritornato in libertà non si asterrebbe, secondo ogni ragionevole previsione dal commettere altre azioni criminose. 2. Il giudice deve sempre proporsi il quesito della assegnazione alla relegazione, anche se l'imputato, mai condannato per delitti, si sia reso colpevole: di reato di sangue, commesso per brutale malvagità o senza causa proporzionata o di furto commesso con violenza o destrezza ovvero in unione preordinata di tre o più persone, di abigeato o anche di furto doppiamente qualificato; di contraffazione di monete, o infine di condanna per associazione a delinquere. Il giudice deve proporsi il medesimo quesito se l'imputato sia condannato per reato di porto d'arma senza licenza ovvero di possesso di materie esplodenti, e il fatto si possa ragionevolmente ritenere coordinato al proposito di commettere atti contrari all'ordine pubblico e alla pubblica sicurezza di persone e delle cose. Allo stesso provvedimento, espiata la pena, è sottoposto il condannato per qualsiasi reato commesso a scopo di lucro per ingente somma, se il colpevole non abbia risarcito il danno o restituito il tolto, quando egli non dimostri di trovarsi nella impossibilità di addivenire alla riparazione. 3. L'assegnazione a uno stabilimento di relegazione è obbligatorio almeno per un periodo di cinque anni, indipendentemente da uno specifico accertamento di pericolosità criminale, se il condannato, ritenuto delinquente abituale, si sia reso colpevole di uno dei delitti enunciati nel numero precedente, e in particolar modo se si tratta di stranieri o di persona che non abbia dimora fissa nel Regno. 4. Lo straniero condannato per grave delitto o sottoposto a misura di sicurezza può essere espulso dal territorio del Regno per un tempo da tre a quindici anni, subito dopo espiata la pena e prima dell'internamento in un istituto di prevenzione criminale, o nel corso di questo".

98. Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, "Lavori preparatori del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale", vol. IV, Atti della Commissione Ministeriale incaricata di dare parere sul progetto preliminare di un nuovo codice penale, cit. Viene precisato nei rilievi mossi dalla Università che "la pericolosità, come obietto di valutazione agli effetti dell'applicabilità delle misure di sicurezza, dovrebbe essere quella superstite dopo l'esecuzione della pena, non quella accertata nel procedimento penale".

99. Ivi, pag. 550. Della stessa opinione è il commissario Longhi che critica il proprio collega Gregoracci, ribadendo che la misura di sicurezza non deve essere considerata una pena, in quanto quest'ultima "s'infligge per intimorire, in relazione al fallo commesso ed alla responsabilità morale, ed in misura determinata. Invece la misura di sicurezza si applica per il pericolo, indipendentemente dalla responsabilità morale, e si commisura al pericolo stesso". Inoltre egli critica la proposta, sempre di Gregoracci, di creare un giudice ad hoc per comminare le misure di sicurezza, in quanto ritiene che "in fondo la situazione del giudice non sarà diversa da quella che è ora, se non per una maggiore attività in un nuovo campo d'azione, che anche ora non gli è chiuso del tutto. Quando un delinquente è pazzo, saranno i tecnici a dichiararlo, e il giudice provvederà ad internarlo in (...) manicomi[o]. [...]; se si tratta di un minore, si provvede per il riformatorio, senza necessità di profonde indagini tecniche; e se di un delinquente professionale, si dispone per la casa di lavoro, mentre è il numero delle recidive, che esercita soprattutto il suo peso e dice la parola determinante e quella decisiva. Non occorreranno perciò maggiori cognizioni di ora. Sarà dopo, che occorrerà una maggiore tecnicità. L'equivoco è di confondere il momento dichiarativo con quello esecutivo. Ma dopo penserà il Direttore Generale degli Istituti di prevenzione, provocando via via quegli accertamenti, che saranno del caso, per meglio individualizzare i provvedimenti, nella loro natura e nella loro misura". Ivi, pag. 554.

100. Art. 215: "(...) Sono misure di sicurezza detentive: 1) l'assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro; 2) il ricovero in una casa di cura e di custodia; 3) il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziale; 4) il ricovero in un riformatorio giudiziale".

101. Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, "Lavori preparatori del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale", vol. V, Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, cit.

102. Ludovico Dworzak Il lavoro penitenziario agricolo nella legislazione e nella pratica, in "Rivista di diritto penitenziario", 1934, pag. 305.

103. Questo ad esempio avviene quando la misura di sicurezza, speciale per minori, del ricovero in un riformatorio giudiziario, debba essere applicata in tutto o in parte dopo che il minore abbia compiuti gli anni diciotto, e il giudice anziché sostituire ad essa la libertà vigilata, opti per l'assegnazione ad una colonia agricola (art. 2232). Oppure tale assegnazione avviene quando il minore definito delinquente abituale, professionale o per tendenza, al compimento dei diciotto anni termina il "ricovero nel riformatorio giudiziale" (art. 226). Da ultimo è da ricordare il caso previsto dall'art. 2312, per cui in caso di grave o reiterata trasgressione agli obblighi imposti dal giudice circa lo stato di libertà vigilata, è possibile l'assegnazione ad una colonia agricola.

104. Viene inoltre precisato che in tale periodo di dieci anni, "non si computa il tempo in cui il condannato ha scontato pene detentive o è stato sottoposto a misure di scurezza detentive" (art. 1022).

105. Vedi: art. 133 codice penale.

106. L'art. 104, si occupa invece della "abitualità nelle contravvenzioni" stabilendo che: "Chi, dopo essere stato condannato alla pena dell'arresto per tre contravvenzioni della stessa indole, riporta una condanna per un'altra contravvenzione, anche della stessa indole, è dichiarato contravventore abituale, se il giudice, tenuto conto della specie e della gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell'articolo 133, ritiene che il colpevole sia dedito al reato".

107. Nei lavori preparatori del codice penale, il commissario Longhi, a proposito dei delinquenti professionali, afferma che "sono tali, non i delinquenti, che fanno del delitto una professione (...), ma quelli che vivono ai margini della delinquenza come oziosi, vagabondi e mendicanti semplicemente. È per essi una professione il non averne alcuna. E per ciò appunto sono sempre in pericolo, essi e la società in cui vivono. Sono questi i professionali, per usare una parola sola e vanno considerati a parte (così è in Inghilterra) anche per il trattamento e la durata del trattamento. Il che non toglie che gl'istituti di lavoro propri per questa categoria di pericolosi, non possono essere quelli per gli abituali (...). Tali istituti sono dal Progetto chiamati 'case di lavoro'. Preferi[bile] [sarebbe] chiamarli 'istituti di segregazione o di relegazione'. È più espressivo e caratteristico. In essi la casa di lavoro per i professionali potrebbe essere una sezione, quando non fosse autonoma". Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, "Lavori preparatori del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale", vol. IV, Atti della Commissione Ministeriale incaricata di dare parere sul progetto preliminare di un nuovo codice penale, cit., pag. 578.

108. L'ultimo comma dell'art. 108 prevede che "tale disposizione non si applica se l'inclinazione al delitto è originata dall'infermità preveduta dagli articoli 88 e 89". Inoltre l'art. 1092 prevede che "la dichiarazione di abitualità o di professionalità del reato può essere pronunciata in ogni tempo, anche dopo la esecuzione della pena; ma se è pronunciata dopo la sentenza di condanna, non si tiene conto della successiva condotta del colpevole e rimane ferma la pena inflitta. La dichiarazione di tendenza a delinquere non può essere pronunciata che con la sentenza di condanna (...)". A tal proposito, bisogna aggiungere che l'art. 205 c.p. prescrive che le misure di sicurezza possono essere ordinate successivamente alla sentenza solamente: "1) Nel caso di condanna, durante l'esecuzione della pena o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena; 2) nel caso di proscioglimento, qualora la qualità di persona socialmente pericolosa sia presunta, e non sia decorso un tempo corrispondente alla durata minima della relativa misura di sicurezza; 3) in ogni tempo nei casi stabiliti dalla legge [Cfr. Art. 210 c.p., "effetti della estinzione del reato o della pena]".

109. "(...) Per i delinquenti abituali, la durata minima è di due anni, per i delinquenti professionali di tre anni, ed è di quattro anni per i delinquenti per tendenza" (art. 217 c.p.).

110. "Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale", cit., pag. 268.

111. I lavori preparatori, al riguardo, sottolineano come "l'assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro è misura di sicurezza detentiva, stabilita per i delinquenti sani di mente e maggiori d'età". Inoltre che la scelta tra queste due tipologie di istituti è affidata al giudice, il quale avrà "riguardo alle condizioni e attitudini della persona, a cui il provvedimento si riferisce" ed inoltre specificando che "il criterio evidentemente si riannoda anche alla necessità di una maggiore adeguatezza del regime di lavoro in rapporto alle finalità del riadattamento alla vita sociale". In "Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale", cit., pag. 267.

112. Art. 218 c.p., il quale prevede anche che i delinquenti abituali o professionali e quelli per tendenza, assegnati ad una colonia penale o casa di lavoro, dovranno essere assegnati a delle sezioni speciali di tali istituti, divisi da gli altri condannati.

113. Ludovico Dworzak Il lavoro penitenziario agricolo nella legislazione e nella pratica, cit., pag. 310.

114. Alfredo Rocco, Relazione del Guardasigilli al regolamento carcerario, "Rivista di diritto penitenziario", 1931, anno II, pag. 669.

115. Importante è la testimonianza fornita dal Dott. Ciccotti, direttore della Casa di lavoro all'aperto di Capraia Isola, nel suo articolo La casa di lavoro all'aperto di Capraia - isola, in "Rassegna di studi penitenziari", II vol., fasc. 4-5, 1970, pag. 745-771, il quale offre una interessantissima testimonianza sui lavori svolti all'interno dello stabilimento, che lui stesso definisce "a carattere prevalentemente agricolo".

116. Si tratta del regio decreto18 giugno 1931, n. 787 (GU n. 147 del 27/06/1931).

117. In aggiunta agli stabilimenti previsti dall'art. 215 c.p., l'ordinamento carcerario, all'art. 256 prevede quali stabilimenti per internati: i "riformatori giudiziali speciali", i "sanatori giudiziali"e le "case di rigore"; in particolare quest'ultime sono destinate a quegli internati nelle colonie penali e nelle case di lavoro che "siano ostinatamente ribelli all'ordine e alla disciplina".

118. Nella relazione del Guardasigilli al Regolamento carceraria, cit., pag. 665, a tal proposito, viene sottolineato che "lo stato di detenzione, ossia il massimo limite posto alla libertà individuale, accomuna le une e le altre [cioè misure amministrative di sicurezza e pene detentive], ma mentre tale stato deve assolutamente realizzare nelle pene un'afflizione, nelle misure di sicurezza deve considerarsi solo un mezzo indispensabile per la rieducazione dell'internato. Un'altra caratteristica concernente gli istituti per le misure di sicurezza riguarda la direzione, che secondo l'art. 261 dell'ordinamento carcerario, deve essere affidata per le colonie e le case di lavoro "a personale amministrativo, che abbia rilevato particolari attitudini al riadattamento dei detenuti." Sempre nella relazione del Guardasigilli si trova che molti sono coloro che pensano che in questi casi, al pari di quanto avviene per i manicomi giudiziari, la direzione andrebbe affidata a personale specializzato, quale appunto la categoria dei medici "alienisti". L'articolo 262 del regolamento prevede che "la custodia degli internati è affidata ad agenti specializzati del corpo degli agenti di custodia, con la qualifica di agenti sorveglianti". Infine l'art. 270 prevede che gli internati sono chiamati con il loro cognome. Questa è una grossa differenza rispetto ai detenuti, i quali sono invece chiamati col loro numero di matricola e dato che ciò viene considerato come una tra le più dure umiliazioni imposte al condannato, non è sembrato giusto estenderla "a carico di chi ha scontato la pena o fu dichiarato non punibile, ma è sottoposto allo stato di detenzione per essere rieducato o curato".

119. Art. 259 o.c.: "Le donne sono internate in stabilimenti distinti da quelli destinati agli uomini, ovvero in sezioni distinte di tali stabilimenti".

120. Peraltro il lavoro è obbligatorio per gli internati, benché sia previsto sempre il parere del medico (art. 272).

121. Al riguardo l'art. 272 dispone che: "Il Direttore, prima di assegnare i singoli internati alle varie lavorazioni organizzate nello stabilimento, li invita a scrivere o a dettare una dichiarazione nella quale indichino dettagliatamente a quali lavori si dedicano in libertà, o nelle carceri se provengono da uno stabilimento carcerario, quali risultati conseguirono, se sono disposti a continuare qui lavori ovvero se intendono dedicarsi nello stabilimento ad altri lavori. Compiute le indagini necessarie, se si riconosce che la scelta fatta dall'internato è utile per il riadattamento sociale di lui, la richiesta deve essere accolta, nei limiti elle possibilità che offre lo stabilimento". Continua l'articolo prevedendo che se invece "difettano nello stabilimento lavorazioni alle quali opportunamente l'internato dovrebbe essere addetto, si può autorizzare un lavoro autonomo, ma controllato e vigilato assiduamente, accertandone giornalmente i risultati [...]".

122. Per quanto riguarda la remunerazione, l'art. 273 prevede che il direttore dello stabilimento proponga al Ministero l'entità della remunerazione a favore del condannato, che può essere a cottimo oppure "a giornata", prendendo come riferimento "la media dei salari della Provincia ove lo stabilimento si trova". È previsto inoltre che una quota della retribuzione venga trattenuta a titolo di spesa per il mantenimento, prevedendo comunque che "la quota residuale per l'internato non deve essere inferiore ai due terzi della remunerazione se l'internato ha figli a carico, e alla metà negli altri casi".

123. L'art. 280 si occupa prevalentemente delle punizioni che possono essere inflitte agli internati ospiti nelle colonie agricole e nelle case di lavoro, secondo una scala che va dalla meno grave alla più severa, prevedendo: "1) l'ammonizione; 2) la privazione del passeggio per una durata massima di giorni dieci; 3) il divieto di acquistare il sopravvitto per la durata massima di giorni quindici; 4) la cella per la durata massima di giorni quindici, senza restrizioni di vitto; 5) il trasferimento ad una casa di rigore".

124. Dworzak, Il lavoro penitenziario agricolo nella legislazione e nella pratica, cit., pag. 306.

125. In realtà, lo stesso art. 117, al secondo comma, prevede la possibilità che "i detenuti rimangano durante la notte fuori dallo stabilimento, purché sul posto di lavoro o nelle immediate vicinanze possono sistemarsi, anche con carattere di provvisorietà, alloggi che presentino assoluta garanzia di sicurezza e di disciplina".

126. Sempre i lavori preparatori, sottolineano l'importanza della scelta che l'ammissione al lavoro all'aperto sia disposta dal magistrato di sorveglianza, in quanto "ove si rifletta che il lavoro all'aperto è un modo di esecuzione della pena detentiva, strettamente connesso, non solo con le garanzie di sorveglianza del condannato, ma anche con le attitudini del medesimo e con le sue condizioni psicologiche, le quali possono, secondo i casi, rendere efficace ovvero inopportuno il provvedimento, dal duplice punto di vista afflittivo ed educativo". In "Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale", cit. pag. 194. Cfr art. 144 codice procedura penale 1930 (regio decreto19 ottobre 1930, n. 1398).

127. Secondo Dworzak, Il lavoro penitenziario agricolo nella legislazione e nella pratica, cit., "Siamo qui in presenza di una connessione, degna di rilievo, dei postulati penitenziari con i problemi generali di ordine sociale. Si dà dunque un nuovo, importante significato del lavoro carcerario, significato atto a stroncare l'erronea opinione della improduttività di esso, ed a suscitare, invece, in suo favore l'interesse di larghi strati sociali. È questa una tendenza sana, mirante a che il condannato non sia soltanto un onere per la comunità, ma, mediante un lavoro produttivo, socialmente rigenerato e preparato alla vita libera".

128. Un esempio in tal senso ci è offerto da Raffaele Ciccotti, La casa di lavoro all'aperto di Capraia - isola, cit., il quale riporta la particolare situazione di Capraia, nel 1970, dove la casa di lavoro all'aperto, era composta da numerose diramazioni, una delle quali denominata "Portovecchio", che rappresenta la sezione "casa di lavoro" dove sono concentrati tutti i sottoposti alla misura di sicurezza.

129. Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, Atti della Commissione Parlamentare chiamata a dare il proprio parere sul progetto di un nuovo codice penale, Roma, Tipografia del Senato del Dott. G. Bardi, 1930 - VIII, pag. 196.

130. "Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale", cit., pag. 71.

131. Come ricorda però Raffaele Ciccotti, Il lavoro in carcere. Aspetti giuridici e operativi, Milano, Franco Angeli, 1987, l'assemblea costituente soppresse uno specifico emendamento secondo il quale "le pene devono avere uno scopo esclusivamente educativo e devono rimanere indeterminate, destinate quindi a cessare con il venir meno della pericolosità sociale del soggetto"; Ciccotti sottolinea quindi il fatto che neppure la Costituzione sia riuscita a rompere in modo definitivo e netto la secolare correlazione tra pena e contenuti afflittivi, in quanto il principio della rieducazione è passato in secondo piano rispetto alle esigenze di combattere la criminalità.

132. Regio decreto18 giugno 1931, n. 787.

133. C. Cost., 5/23-04-1974, n.110.

134. Oltre a ciò, la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 216 c.p. in riferimento all'art. 3 Cost. (sentenza 18 luglio 1973 n. 148). In sostanza veniva chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla presunta incostituzionalità dell'obbligo del lavoro derivante dall'assegnazione alla colonia agricola o casa di lavoro nei riguardi di soggetti inabili al lavoro. La Corte afferma che l'art. 216 c.p. non viola il principio di uguaglianza, in quanto "v'è una situazione soggettiva, tipica, assorbente di ogni altra, nell'invalido al lavoro destinatario della norma impugnata: la sua condizione di socialmente pericoloso a causa e per effetto della sua condotta antigiuridica. Lo stato di invalidità potrà esercitare il suo peso ad altri fini, ma non certamente sulle conseguenze proprie di ogni comportamento penalmente illecito. Il principio di uguaglianza non è neppure violato sotto l'ulteriore particolare profilo secondo il quale sarebbe costituzionalmente illegittimo sottoporre ad uno stesso trattamento - casa di lavoro - tanto soggetti validi, quanto soggetti invalidi, nonostante l'identica condizione giuridica di socialmente pericolosi", in Rassegna di Studi Penitenziari, Roma, 1973, pag. 1469.

135. Ispettore distrettuale di Firenze, Ministero di Grazia e Giustizia.

136. ASF, Fondo Ispettorato Istituti Prevenzione e Pena, busta 39 fasc. 10 Stabilimenti per le misure di sicurezza detentive 1971. Nel documento dell'Ispettorato distrettuale di Firenze, prot. 19711 del 20 novembre 1971 avente per oggetto "Stabilimenti per misure di sicurezza detentiva".

137. I vari disegni di legge sulla riforma penitenziaria, presentati nel 1960, 1966 e nel 1968 decadono tutti a causa di fine legislatura. Solamente il nel 1972 viene proposto un progetto (già approvato dal Senato nella precedente legislatura) che sarà approvato tre anni dopo.

138. Si tratta della legge 26 luglio 1975, n. 354.

139. Raffaele Ciccotti, Il lavoro in carcere. Aspetti giuridici e operativi, cit., pag. 19. Egli sostiene inoltre che sia stato proprio il bisogno di regolare l'esecuzione penale in modo più conforme ai principi costituzionali ad accelerare l'iter della legge, oltre che per risolvere almeno in parte il dilagante malcontento manifestato anche in forme vistose dai detenuti.

140. ASF, Fondo Ispettorato Istituti Prevenzione e Pena, busta 100, fasc. 1, lettera dell'Ispettorato distrettuale di Firenze n. 4830 del 24 marzo 1975.

141. Si tratta della legge 10 ottobre 1986, n. 663, riguardante le "modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà". Art. 21: "l'articolo 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354, modificato dall'articolo 8 della legge 12 gennaio 1977, n.1, è sostituito dal seguente"; Art. 69. - (Funzioni e provvedimenti del Magistrato di sorveglianza). "Il Magistrato di sorveglianza [...] 3. Sovrintende all'esecuzione delle misure di sicurezza personali. 4. Provvede al riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell'articolo 208 del codice penale, nonché all'applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza. Provvede altresì, con decreto motivato in occasione dei provvedimenti anzidetti, alla eventuale revoca della dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza di cui agli articoli 102, 103, 104, 105 e 108 del codice penale"; Art. 31 "1) L'articolo 204 del codice penale è abrogato. 2) Tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa".

142. Come riporta Massimo Pavarini, Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol II, Torino, Utet, 2002, "anche nel caso di declaratoria di delinquenza abituale, l'applicazione della colonia agricola deve essere ordinata previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa, in quanto l'art. 31 della legge 10 ottobre 1986 n. 663 ha abrogato ogni ipotesi di pericolosità presunta".

143. Ovvero delinquenza professionale, abituale e per tendenza. Massimo Pavarini, opera cit., riportando una interpretazione della Cassazione (Cass., sez. I, 06-07-1995), evidenzia che è corretto parlare di durata minima solamente tendenziale.

144. ASF, Fondo Ispettorato Istituti Prevenzione e Pena, busta 6, fasc. 8, 1968. Numerose erano le richieste dei detenuti che desideravano essere trasferiti in una casa di lavoro all'aperto. In ottemperanza alla circolare n. 1734/ 4192 del 21 marzo 1968, l'Ispettorato distrettuale doveva trasmettere al Ministero di Grazia e Giustizia (Direzione Generale Istituti Prevenzione e Pena ufficio 3º) l'estratto della cartella biografica, un certificato sanitario e una dichiarazione sulle capacità professionali del soggetto, oltre che ovviamente la richiesta in tal senso del medesimo. Il Ministero poteva rifiutare la richiesta ad esempio per motivi di precedenti evasioni, oppure in quanto non idoneo per lavori campestri. Merita attenzione anche la circolare n. 38 del 29 marzo 1968 con la quale l'Ispettorato distrettuale di Firenze chiedeva alle varie direzioni degli istituti di pena se vi erano detenuti da proporre per il trasferimento alle case di lavoro all'aperto.

145. Nello specifico vengono attribuite mille lire al giorno ai soggetti infermi o seminfermi di mente ammessi ad espletare attività ergoterapiche.

146. Decreto del Presidente della Repubblica 29 aprile 1976, n. 431. Art. 46. lavoro all'esterno: "L'ammissione dei condannati e degli internati al lavoro all'esterno è disposta dalle direzioni solo quando ne è prevista la possibilità nel programma di trattamento./ Gli imputati sono ammessi al lavoro all'esterno previo assenso della competente autorità giudiziaria e il lavoro è svolto sempre sotto scorta./ I detenuti e gli internati ammessi al lavoro allo esterno indossano abiti civili; ad essi non possono essere imposte manette./ La scorta è effettuata dal personale del corpo degli agenti di custodia con le modalità stabilite dal ministero./ L'accompagnamento dei minori ai luoghi di lavoro esterno, qualora sia ritenuto necessario per motivi di sicurezza, può essere effettuato anche da appartenenti ai ruoli del personale civile dell'amministrazione penitenziaria./ Al fine di consentire l'assegnazione di detenuti e di internati al lavoro all'esterno presso imprese agricole o industriali, pubbliche o private, la direzione dell'istituto, anche a mezzo degli uffici pubblici locali del lavoro, dell'industria, dell'artigianato e dell'agricoltura, individua le imprese che appaiono idonee a collaborare al trattamento penitenziario offrendo adeguati posti di lavoro./ Le imprese pubbliche o private, presso cui lavorano detenuti o internati, sono tenute a versare alla direzione dell'istituto la retribuzione al netto delle ritenute previste dalle leggi vigenti dovuta al lavoratore e l'importo degli eventuali assegni familiari, sulla base della documentazione inviata dalla direzione. Le dette imprese devono dimostrare alla stessa direzione l'adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa e previdenziale./ I detenuti e gli internati ammessi al lavoro presso imprese esterne esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla esecuzione della misura privativa della libertà./ Per controllare che il lavoro presso aziende private avvenga nel pieno rispetto dei diritti e della dignità del detenuto o dell'internato, la direzione, oltre che del personale dipendente, può avvalersi anche del centro di servizio sociale".

147. La circolare continua prevedendo che "per il provvedimento di ammissione al lavoro all'esterno non è richiesta alcuna approvazione da parte del Magistrato di sorveglianza. È però opportuno che la Direzione dell'istituto informi anche l'Autorità giudiziaria delle decisioni prese al fine di consentirle il migliore esercizio delle sue funzioni di vigilanza ai sensi dell'art. 5 D.P.R. 431/76".

148. A tal proposito, la circolare precisa quanto segue: "1) il lavoro all'esterno può essere effettuato soltanto presso aziende agricole ed industriali, pubbliche e private: è pertanto escluso che i detenuti possono essere ammessi al lavoro, ad esempio, presso esercizi commerciali o presso famiglie; 2) il detenuto o l'internato può restare fuori dall'istituto soltanto per il tempo necessario all'espletamento dell'attività lavorativa nonché per quello utile a raggiungere il posto di lavoro e tornare, né può recarsi in luoghi diversi da quelli in cui dovrà svolgere detta attività. 3) il pasto va consumato sul posto di lavoro o, nel caso in cui l'intervallo durante il lavoro lo consenta, in istituto. Può tuttavia consentirsi ai detenuti e agli internati in questione di consumare il pasto presso trattorie o ristoranti che siano convenzionati con l'azienda preso la quale essi lavorano, nel caso in cui ovviamente la stessa sia priva di mensa aziendale. 4) la scorta, sempre obbligatoria per gli imputati, dovrebbe essere di regola assicurata anche per i condannati e per gli internati. La mancata utilizzazione della scorta sarà disposta sempre motivatamente anche in considerazione della scarsa pericolosità del soggetto ammesso al lavoro all'esterno".

149. Tale controllo sarà di competenza principalmente degli educatori e degli assistenti sociali del locale centro di servizio sociale (art. 46 d.p.r. 431/76). Cfr. circolare n. 2625/5078 del primo agosto 1979.

150. Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.

151. Decreto del Presidente della Repubblica 29 aprile 1976, n. 431.

152. Art. 206 legge 26 luglio 1975 n. 354: "Nell'assegnazione dei soggetti al lavoro si deve tener conto esclusivamente dell'anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione o di internamento, dei carichi familiari, della professionalità, nonché delle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui esse potranno dedicarsi dopo la dimissione, con l'esclusione dei detenuti e internati sottoposti al regime della sorveglianza particolare di cui all'articolo 14 - bis della presente legge". Quest'ultimo articolo prevede che: possono essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte in misura superiore ogni volta a tre mesi, i condannati, gli internati e gli imputati: a) che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l'ordine negli istituti; b) che la violenza o la minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati; c) che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti [...]".