ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
Aspetti storici

Alfredo Gambardella, 2006

1 La nozione di colonia penale

Dovendo affrontare il problema della colonizzazione penale nel sistema penitenziario, è necessario innanzi tutto individuare il significato etimologico della parola "colonia", e le varie accezioni che essa ha assunto nel corso dei secoli. Il termine in questione, derivato dall'antico vocabolo latino "colonus", ovvero colui che coltiva il campo proprio o l'altrui (contadino) (fine secolo XIV, S. Agostino) (1), nell'età antica indicava un nucleo di popolazione civile trasferita dalla madrepatria in un altro territorio, in genere scarsamente abitato, per la creazione di un insediamento stabile. Tali furono le colonie greche e romane. Nell'età moderna la parola ha indicato un paese geograficamente lontano su cui uno Stato stabilisce militarmente la sua sovranità con l'intento di sfruttarne le risorse a suo vantaggio. Un'altra accezione, non lontana dalle precedenti indicate per affinità di riferimenti e significati, è quella relativa alla colonia penale che, in modo sintetico, possiamo definire stabilimento penitenziario lontano dalla madrepatria, destinato un tempo ai condannati a lunghe pene detentive.

Secondo la definizione del "Digesto" (2) le colonie penali possono essere di due specie: di oltre mare e interne, le prime in territori conquistati in luoghi lontani dalla madrepatria, le seconde all'interno dei confini naturali. Esse hanno in comune la necessità di dissodare e bonificare luoghi incolti e insalubri sia nei confini naturali sia oltre mediante l'opera di condannati, ma differiscono in quanto nelle colonie penali interne "i condannati sono sempre detenuti in un penitenziario", mentre nelle altre essi generalmente non hanno "altra limitazione della libertà personale fuori di quella della dimora obbligatoria e di una certa disciplina, e vivono del proprio lavoro" (3). A ciò si deve aggiungere che le colonie penali interne sono di istituzione più recente rispetto alle altre, quindi "rappresentano l'ultimo perfezionamento del sistema penitenziario moderno, in quanto che consistono in una maniera di esecuzione della pena principalmente indirizzata all'emenda del colpevole".

I diversi significati che la parola colonia assume sono riconducibili al verbo "colere" che in latino significa "coltivare", "curare" ma anche "trattare con rispetto", "rispettare un superiore". Carlos Petit (4) da queste indicazioni etimologiche evince alcune indicazioni importanti che danno al termine "colonia" significati precisi e caratterizzanti, come per esempio la nozione di protezione e educazione, il rapporto con la natura, il lavoro come forma di rieducazione e infine il riferimento alla famiglia e in particolare alla figura "paterna" del direttore (5). A questo proposito Franca Mele, ricostruendo la fondazione della colonia penale di Pianosa (6), afferma che essa era destinata ad accogliere, secondo il progetto (1858) di Carlo Peri (7), Soprintendente Generale per gli stabilimenti penali, giovani corrigendi da impiegare nella coltivazione dei campi, nell'allevamento del bestiame e nella costruzione di un fabbricato destinato ad accoglierli, con l'obiettivo di rieducare ragazzi che

"hanno seguito il cattivo esempio dei genitori o per i quali i genitori hanno trovato un modo legale per esimersi dal loro mantenimento; anche se nei loro confronti si rende necessario un intervento correzionale, costituiscono comunque la classe di detenuti meno pericolosa per la società e su di essa la prigione ha effetti tutt'altro che correttivi, avviandoli anzi alla delinquenza abituale". (8)

A ulteriore conferma di quanto sopra, Santoriello in "L'isola di Pianosa e la nascita delle colonie agricole penali nell'Italia liberale" (1860-1889), (9) mette in evidenza "l'ampia discrezionalità" del direttore riguardante non solo la costruzione degli edifici ma anche l'attivazione di nuove coltivazioni e l'organizzazione stessa della giornata dei condannati che era disciplinata secondo regole prestabilite, che riguardavano persino l'alimentazione e il compenso in base alle categorie lavorative (10). Dunque un potere ampio del direttore che paternamente si occupa dei condannati, istituendo regole ma anche provvedendo a creare situazioni favorevoli di tutela e di lavoro che potevano preparare i condannati al reinserimento nella società civile.

La colonia penale, pertanto, persegue finalità rieducative e socializzanti, almeno nel progetto dei riformatori della prima metà dell'Ottocento in particolare nel Granducato di Toscana, e ha lo scopo di trovare soluzioni alternative a condizioni sempre più critiche dei detenuti per problemi di sovraffollamento e di strutture edilizie inadeguate. Secondo Guido Neppi Modona, tuttavia, tali finalità sono state proclamate ma mai raggiunte, basti pensare

"alle condizioni di vita cui erano costretti i condannati e, con loro, le guardie carcerarie: nelle colonie, collocate appunto in terreni incolti e malarici [...] la malaria e le disastrose condizioni igieniche mietevano vittime in altissima percentuale, con picchi di mortalità dall'8 al 10% e di infermità dal 30 al 40%, secondo quanto dichiarato dallo stesso direttore generale delle carceri Beltrani Scalia in una relazione del 1891" (11).

I dati confermano drammaticamente gli aspetti problematici del modello delle colonie penali, tuttavia non bisogna dimenticare che, rispetto al regime penitenziario, le pur incivili condizioni in queste ultime risultavano assai meno gravi tanto che vi venivano trasferiti condannati meritevoli di premio (12).

Per quanto riguarda la situazione degli altri Stati europei, è molto difficile fare una trattazione del tema della "colonizzazione penale", comparata alla situazione italiana, in quanto fenomeni di specie ebbero dei presupposti e degli sviluppi totalmente diversi rispetto a quelli appena trattati. Se infatti è comune a quasi la totalità dei Paesi europei dell'Ottocento la spinta ad una ricerca di nuove forme di pena detentiva (13), ogni Paese si è dotato di una propria specialità, in particolare, una differenza eclatante deriva dal fatto che l'Italia non avesse (o avesse in modo molto limitato) dei possedimenti d'oltremare ove sperimentare la colonizzazione penale, mentre nazioni, come la Francia e il Regno Unito, poterono almeno cercare di effettuare una colonizzazione dei "nuovi mondi" con l'invio dei condannati.

In particolare la Francia si mosse fondamentalmente lungo le due direttrici delle colonie agricole per minorenni e la colonizzazione penale dei territori lontani dalla madre patria (14), in seguito alla nascita, alla fine del XVIII e inizi del XIX secolo, di correnti riformatrici, ispirate soprattutto dagli scritti di illuminati filantropi del tempo, quali Cesare Beccaria, Montesquieu, Voltaire e altri (15), i quali, una volta affermata l'inutilità della pena arbitraria e dei supplizi - in particolar modo della pena di morte (16)- propongono l'idea dell'imprigionamento come pena principale da applicare. All'inizio del XIX secolo anche in Francia viene proposto un modello di pena del tipo "dell'isolamento cellulare puro", ma ciò ben presto si rivelerà un modello fallimentare, a causa soprattutto dei costi eccessivi che questa tipologia portava, e dunque si fece largo l'idea di utilizzare la colonizzazione penale, in particolar modo nella Guyana (17). Luigi Napoleone considerava la pena dei lavori forzati nei territori d'oltre mare "più moralizzatrice, meno dispendiosa e più umana" (18). In realtà, questa deportazione nel continente americano, si rilevò quasi da subito un progetto fallimentare, e la causa prima riguardò essenzialmente le pessime situazioni sanitarie ed ambientali che i condannati trovarono in Guyana, che portarono a dei tassi di mortalità altissimi sia per i reclusi che per le guardie. Tutto ciò fece sì che l'entusiasmo per questo nuovo strumento per combattere la criminalità, quale la deportazione, andasse ben presto diminuendo, e questo portò alla definitiva fine della pena ai lavori forzati prima dell'inizio del secondo conflitto mondiale (19).

Un diverso aspetto della colonizzazione è rappresentato dalle colonie agricole destinate ai giovani delinquenti. Tali istituti furono adottati prevalentemente in Francia e in Belgio (20), e alla base stava la concezione che veniva attribuita alla terra, in aperta contrapposizione e critica all'industria, perché veniva sottolineato il carattere nel contempo coercitivo e educativo proprio del lavoro agricolo (21). Tali colonie inizialmente erano per lo più gestite da privati, in particolare era il mondo cattolico ad occuparsene. Ciò fece sì che si creassero aspre polemiche che, come riporta Eric Pierre, vertevano sul fatto che spesso questi direttori degli istituti privati "pensavano troppo al successo finanziario delle loro imprese e non abbastanza all'educazione dei giovani" (22).

2 Le colonie penali agricole in Toscana nella prima metà dell'Ottocento: l'utopia della riforma

Nella prima metà dell'Ottocento si aprì in Italia e in Europa un intenso dibattito sui sistemi penitenziari, con successive istanze riformatrici che si manifestarono in particolare in Piemonte e in Toscana. La discussione verteva in particolare su due modelli americani (23): Philadelphia e Auburn (24): il primo influenzò soprattutto la conduzione degli istituti del Granducato di Toscana, al secondo fecero riferimento in particolare i riformatori piemontesi (25).

Per quanto riguarda la Toscana (26), all'inizio dell'Ottocento i lavori forzati costituivano la modalità principale di esecuzione delle pene, per lo più in bagni penali (27), mentre la carcerazione era limitata a periodi molto brevi (28). In particolare il Codice Criminale della Toscana del 1786 si era molto ispirato ad alcune fondamentali idee - guida del pensiero illuminista, quali l'abolizione della pena di morte e delle mutilazioni corporali. Nel contempo, però, si fece ricorso sempre più alla pena dei lavori forzati, soprattutto nei bagni penali di Livorno, Pisa e dell'isola d'Elba. Inoltre venne aperta nel 1816 una "casa di forza" a Volterra, e molte delle carceri toscane furono attrezzate per il lavoro dei detenuti (soppressione per sovrana risoluzione del 15 agosto 1835 del carcere fiorentino delle Stinche, apertura nel 1836 di una casa di correzione nell'ex convento delle Murate; apertura nel 1833 di una casa di pena femminile a S. Gimignano) (29). Anna Capelli (30) descrive la vita dei detenuti nei bagni e precisa che era caratterizzata dal fatto che il condannato passava la notte rinchiuso, mentre il giorno rimaneva a contatto con gli operai liberi e lavorava per opere di pubblica utilità; proprio in ciò stava la componente deterrente, in quanto, oltre alla fatica propria del lavoro, il forzato subiva "la berlina" di dover stare pubblicamente "con la catena, la divisa, la scritta appesa al collo indicante il crimine, la coccarda di colore diverso a seconda del reato" (31). Questo modello non era però più adatto alla mutata realtà ottocentesca. Se era servito da tramite da una concezione di "eliminazione fisica" tipica della pena capitale, ad una concezione detentiva della pena, tuttavia, non serve alla rieducazione del condannato e soprattutto non rispettata il principio della "less eligibility" (32), cioè il far sì che il tenore di vita in carcere fosse comunque peggiore di quello già bassissimo che i delinquenti avevano in libertà (33). Dato che nella prima metà dell'Ottocento le cause del crimine vengono sempre più spesso ricercate nell'ambiente sociale che l'individuo frequenta (34), viene scartata, in favore della segregazione assoluta, la deportazione che crea il distacco solo dalla società di appartenenza.

La scelta del sistema isolazionista guidò la politica di riforme della Toscana fin dai primi anni Quaranta, inserendosi in una tradizione, che affondava le proprie radici nel Settecento (abolizione della pena capitale) (35). In realtà, come osserva Capelli (36), "l'applicazione su vasta scala di un metodo d'internamento severo come l'isolamento assoluto poteva [...] essere utilizzata per sancire il superamento di forme di pena inadeguate e per rafforzare al tempo stesso il ruolo della detenzione, e di conseguenza delle strutture carcerarie, all'interno del sistema espiativo". Tutto ciò va interpretato come la volontà di modernizzare il sistema, allo stesso modo nel Settecento la riforma Leopoldina "normalizzando" il lavoro forzato aveva potuto "controbilanciare" l'abolizione della pena di morte, con una misura altrettanto repressiva e deterrente.

In questo contesto si inserisce la proposta di Carlo Peri di istituire la colonia penale agricola di Pianosa (37), con lo scopo di trovare un'alternativa di pena per i giovani corrigendi, destinandoli al lavoro sull'isola, con il non secondario fine di deflazionare gli stabilimenti cellulari (38) in modo che l'opzione "philadelphiana", adottata dal Codice Penale del 1853, potesse essere pienamente realizzata in una concreta struttura penitenziaria (39). Le finalità che inizialmente avevano guidato Peri nella definizione del progetto, furono in parte successivamente modificate estendendo l'invio nell'isola degli adulti come premio di buona condotta (40). Peri pensava che la colonia doveva assolvere la funzione di "istituzione intermedia" (41) che intercorreva tra il passato stato di detenzione e il futuro stato di libertà.

L'isolamento cellulare era visto dagli studiosi, in particolare da Peri (42), non come una componente crudele e afflittiva nei confronti dei detenuti, ma quasi protettiva, con l'attuazione di quel sistema definito della "buona compagnia", per cui i reclusi sarebbero stati tutelati dalla loro reciproca "scuola del male", ed avrebbero incontrato solo persone rette quali volontari ed ecclesiastici, e a tal fine nel 1846 fu fondata una società caritatevole di patrocinio (43).

Dal punto di vista pratico, esaminando i risultati concreti di questa "svolta philadelphiana", i problemi non mancarono, e ciò dette luogo ad aspre polemiche ed accesi dibattiti; in particolare interessantissime sono le inchieste di un medico, Carlo Morelli, che nel 1859 esaminò le condizioni dei detenuti ospiti nella casa di Volterra (44). Egli denunciava condizioni di vita pessime, soprattutto a livello sanitario, che portavano ad un deperimento sia fisico sia, in particolar modo, mentale (45). Il paradosso era che, se queste disastrose conseguenze derivavano dal modello dell'isolamento cellulare, in realtà esso non era applicato in modo corretto, perché a causa dei problemi di architettura carceraria (sovraffollamento, vicinanza delle celle etc.) era impossibile attuare l'utopia di partenza della "buona compagnia" (46), alla luce anche del fatto che le previste visite ai reclusi da parte dei patroni erano molto rare. Egli concludeva che la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di adottare un sistema cosiddetto misto, facendo seguire all'isolamento delle fasi di stampo "auburniano" (47).

Questa "riforma della riforma" (48), smentiva sicuramente, almeno in parte, i propositi della riforma voluti da Peri, anche se, probabilmente, ciò permise che il suo progetto nell'isola di Pianosa si sviluppasse maggiormente ed avesse una evoluzione che inizialmente nessuno aveva previsto.

Sostanzialmente dall'unità fino al codice Zanardelli, in Italia si scontrano due diverse scuole di pensiero per quanto riguarda il tema delle colonie penali agricole. La discussione non verte tanto tra coloro che sono favorevoli all'istituto in sé e coloro che invece sono contrari (anche se non mancano voci in tal senso) (49), quanto piuttosto riguardo alla funzione che esse dovrebbero avere nell'ambito del sistema penitenziario italiano. Già nella commissione nominata con decreto del Ministro dell'Interno del 16 febbraio 1862, da una parte viene proposto che l'invio nella colonia costituisca uno stadio intermedio tra quello della segregazione e quello della liberazione condizionale, dall'altro però viene respinta l'ipotesi di inserire le colonie nella scala penale, perché questo, a detta di alcuni, rappresenterebbe una inammissibile mitigazione che indebolirebbe la portata intimidatrice e repressiva della pena, in quanto l'invio nella colonia sarebbe a quel punto considerato un diritto e non un premio per la buona condotta. Fondamentalmente alcuni studiosi quali Peri, e anche il Guardasigilli Vigliani oppure l'ispettore generale delle carceri del Regno Beltrani Scalia (50) hanno una concezione di colonia penale intesa come strumento necessario di passaggio dal carcere alla società libera; quindi, anche se il loro regime detentivo è più mite rispetto ai tradizionali istituti di pena, ciò non toglie alla pena la funzione intimidatrice, in quanto l'invio nelle colonie viene fatto solo al termine di un periodo detentivo e sempre condizionato alla buona condotta. Per contro, altri studiosi, ad esempio i professori Brusa, De Foresta e Cerruti, avevano un'idea di colonia penale intesa come deportazione di una parte di criminali in terre lontane o anche nelle isole, allo scopo di allontanare le persone più miserabili dal consorzio civile. In questo caso le colonie agricole non erano viste come istituti penali giuridicamente organizzati e amministrati dallo Stato, ma solo quali luoghi geografici di deportazione, dove non era presente l'obiettivo della "rigenerazione morale dei detenuti", ma si perseguiva solo lo scopo di difendere la società allontanando quanto più possibile i criminali (51).

Molto interessante a proposito fu la testimonianza di un insegnante elementare con alle spalle esperienze di insegnamento ai detenuti, il quale ricevette nel 1863 l'incarico di fondare delle scuole per i coloni, nelle isole toscane; ciò permise allo studioso di visitarle, e di rendersi conto che, a suo giudizio, esse erano perfette per ospitarvi luoghi di pena (52), in particolare gli istituti delle colonie agricole (53).

A seguito dell'esperimento di "Pianosa" nel 1869 venne istituita anche nell'isola di Gorgona una colonia penale agricola, come succursale della medesima, ottenendo dopo pochi anni l'autonomia amministrativa (1871); nel 1873 anche Capraia divenne sede di una colonia penale. È interessante quanto ebbe a scrivere il primo direttore di Gorgona, Angelo Biagio Biamonti, il quale in una lettera indirizzata al Commendator Felice Cardon (direttore generale delle carceri) sostenne che:

"Finalmente nel 1869, considerando il Governo che dai progressi dell'Agricoltura deriva in gran parte la prosperità delle Nazioni, che dai lavori Agricoli potevansi ritrarre proventi ben più ragguardevoli di quelli che offrono gli altri Stabilimenti Penali, e che in una Colonia, a preferenza d'ogni altro luogo, sarebbesi con maggior facilità potuto ottenere il rigeneramento morale del condannato, e che infine le spese per la fondazione d'una Colonia in quell'Isola [Gorgona] avrebbero potuto ascendere alla metà meno di quelle che sarebbero occorse per altro Stabilimento Penale, dacché esistevano tuttora nell'Isola antichi fabbricati, da adattarsi con poca spesa all'uopo" (54).

Anche per quanto riguarda l'esperienza di Gorgona, i primi commenti furono estremamente positivi; una significativa testimonianza ci è fornita da Volpini, un professore di un istituto tecnico, che in una lettera ad un suo collega di un liceo (cav. Ottaviano Targioni Tozzetti), avendo visitato l'isola, nel descrivere le attività produttive presenti all'interno della colonia, scrisse che nell'isola:

"vi è una concia di pelli, la quale basta per il consumo dei 310 detenuti e presto aprirà una via anche all'esportazione; si fabbrica il sapone, che supplisce ai non piccoli bisogni della Colonia; quivi si fabbricano cappelli di paglia ed anche di lana tosata da un gregge che pascola sopra quei colli; e cappelli pure di pelo di coniglio, che vive e si riproduce in abbondanza in una ben intesa conigliera. Fu utilizzata una pietra atta a far buona calcina, come pure una terra per far mattoni ed altri oggetti laterizi, le quali cose ognun conosce quanto vantaggio arrechino a stabilimenti di questo genere. Tutto insomma che può abbisognare agli abitanti della Colonia, ivi si fabbrica, si perfeziona ancora, e se ne ritrae utilità e comodo incalcolabile. La macellazione del bestiame, la pollicultura, l'allevamento dei bovi, delle pecore, delle capre, e degli animali suini rendono la Colonia quasi indipendente da ogni altro luogo per le sue industrie e prodotti, e la fanno, e tanto più la faranno in un prossimo avvenire ricca, bella in tutto e feconda" (55).

Come possiamo dedurre dai vari giudizi espressi circa la validità o meno del progetto di realizzazione delle colonie penali agricole, il dibattito era concentrato sia sull'aspetto economico sia su quello funzionale e organizzativo. Riguardo alla questione economica, nel dibattito svoltosi alla fine del XIX secolo, molto interessante è la posizione espressa nel 1902 da Carfora nel "Digesto", in quanto egli precisa che le colonie penali agricole non possono costituire una soluzione economicamente valida al problema dei costi sopportati dall'erario per il mantenimento degli Istituti di pena, infatti permangono problemi relativi alla sorveglianza (da cui non si può prescindere), e alla organizzazione del lavoro, sulla cui produttività non possiamo parlare di utili.

Carfora parte da una prima constatazione, supponendo che

"se le colonie penali potessero sorgere per generazione spontanea, come conseguenza della deportazione applicata coll'abbandono dei condannati sopra isole deserte, dove questi, provveduti nel momento stesso dell'abbandono dei soli mezzi indispensabili per procacciarsi la vita, sarebbero lasciati a se stessi senza sorveglianza e senza aiuti ulteriori (...), allora è evidente che esse, salvo le spese di traduzione dei deportati e di prima provvisione, verrebbero a costar quasi nulla allo Stato, e sarebbero per conseguenza causa di notevole economia; ma non è chi non veda come queste Colonie penali, tranne quella di liberare lo Stato dai condannati, non avrebbero utilità di sorta sotto il rapporto dell'emenda, che è quello che giustifica principalmente gli istituti di simil genere" (56).

Egli continua però dicendo che

"sarebbe sempre pericoloso il lasciar senza sorveglianza una moltitudine di condannati, i quali diventerebbero gli uni agli altri lupi e finirebbero per divorarsi a vicenda, quando si pensi che il mondo dei delinquenti è per se stesso turbolento e attaccabriga, ed anche nei luoghi ordinari di pena, dove viene esercitata una vigilanza continua e rigorosa, se ne vedono gli effetti spesso disastrosi, i quali incombe allo Stato l'obbligo di evitare, perché il delinquente, per quanto meritevole di pena, per la quale a lui sia reso in sofferenza il male commesso col delitto e la società sia garentita da nuovi attentati, non è mai da considerarsi come una belva, della quale basta liberarsi in qualsiasi modo e senza nessun riguardo alla impronta della umanità, che resta incancellabile anche negli esseri i più protervi".

L'autore ribadisce la necessità di un'attenta sorveglianza nelle colonie. Assunto quindi che per forza di cose, le colonie penali, al pari di qualunque altro istituto di pena, hanno un costo che grava sull'erario dello Stato, esiste una peculiarità tipica di questi istituti, che riguarda il lavoro. Tale questione deve essere affrontata secondo Carfora, sotto un duplice aspetto: 1) la difficoltà di rendere avvezzi al lavoro individui che per la loro indole sono ad esso ribelli, in quanto hanno sempre vissuto nell'ozio e grazie ai proventi dei loro misfatti; 2) le caratteristiche intrinseche del lavoro coatto che è di per sé meno produttivo del lavoro libero (57).

Altra cosa fondamentale da considerare, sempre secondo Carfora, è che, anche nel caso in cui venga superato il problema derivante dalla minore produttività del lavoro carcerario, e dunque supponendo che esso produca un guadagno, gli eventuali utili devono essere diretti ai condannati come giusta retribuzione delle loro fatiche, altrimenti il lavoro acquisterebbe come unica connotazione quella afflittiva, tipica dei lavori forzati, ma, come detto, questo non appartiene all'originario spirito delle colonie. Possiamo concludere che gli sperati vantaggi economici che le colonie avrebbero dovuto portare, in realtà sono del tutto inesistenti; anzi è configurabile addirittura un non remoto rischio per l'intera economia nazionale, in quanto le colonie avrebbero potuto fare una concorrenza sleale al libero mercato del lavoro, grazie al basso costo della manodopera ivi presente. L'unica soluzione, sotto questo aspetto, fu sfruttare il lavoro dei condannati per compiere quelle opere che i liberi cittadini non volevano fare, come la bonifica di zone malariche o alcune attività pericolose legate a certe industrie, così da trarre vantaggio per l'intera nazione (58). Carfora aggiunge un altro aspetto molto significativo che concerne il problema dell'emigrazione, fenomeno di grande rilevanza sociale, assai diffuso negli ultimi anni del XIX secolo, che determinò quella mancanza di manodopera alla quale le colonie penali potevano in gran parte supplire (59).

In conclusione è difficile dire se le colonie penali, così come strutturate nel corso dell'Ottocento, fossero o meno vantaggiose dal punto di vista economico, dipendendo il tutto, come abbiamo potuto vedere, da un numero elevato di fattori e di variabili. Probabilmente l'utilità delle colonie per lo Stato avrebbe dovuto essere inquadrata non solo sotto il profilo economico e finanziario, ma anche e soprattutto in relazione al vantaggio che potevano avere sulla rieducazione morale e sociale del condannato rispetto agli istituti di pena ordinari, in quanto solo in esse il condannato poteva trovare motivazione al reinserimento nella società civile come rinato lavoratore e non più come delinquente dedito al delitto e all'ozio. Da questo punto di vista, in linea di principio, potevano esserci dei risvolti positivi per lo Stato e per la collettività anche a livello economico.

1895-1896 Utile industriale Perdita industriale Ragguaglio per ogni giornata di lavoro
Asinara 11.261,99 0 0,234
Bitti 11.183,84 0 0,712
Cagliari (S. Bartolomeo) 17.016,01 0 0,257
Capraia 7.364,09 0 0,157
Castiadas 0,00 28.880,11 0
Gorgona 0,00 6.193,86 0
Isili 0,00 7.348,19 0
Maddalena 896,56 0,00 0,164
Pianosa 24.075,89 0,00 0,264
Pozzuoli 0,00 5,30 0
1896-1897 Utile industriale Perdita industriale Ragguaglio per ogni giornata di lavoro
Asinara 12.445,10 0 0,277
Bitti 2.025,29 0 0,178
Cagliari (S. Bartolomeo) 22.662,83 0 0,048
Capraia 0,00 2.850,58 0
Castiadas 5.198,62 0 0,042
Gorgona 0,00 5.103,19 0
Isili 0,00 1.485,54 0
Maddalena 321,85 0,00 0,104
Pianosa 32.965,82 0,00 0,289
Tremiti 6.364,05 0,00 0,507

Le tabelle riportate riguardano gli utili/perdite delle colonie penali agricole per l'esercizio finanziario 1895-1896 e 1896-1897 (60). Come si evince dai dati raccolti, per il primo biennio preso in esame, gli stabilimenti di pena intermedi diedero un utile industriale netto di 28.369,92 Lire, ma lo Stato dovette spendere ben 245.494,26 Lire per il solo mantenimento dei detenuti. Tali dati rimasero pressoché costanti nel biennio di esercizio successivo, benché l'utile industriale netto salì sensibilmente a 72.554,25 Lire e la spesa si attestò a 226.037,20 Lire.

3 Condizioni di vita e di lavoro

Dovendo affrontare il tema delle condizioni di vita e di lavoro all'interno delle colonie penali, dobbiamo innanzi tutto evidenziare che l'attività prevalente era quella agricola, pertanto l'organizzazione dell'istituto era funzionale ad essa. Prendiamo ad esempio il regolamento delle colonie del 1887 (61), esso disciplinava in modo minuzioso gli orari che i condannati dovevano rispettare, prevedendo che la sveglia suonasse dal primo settembre al quindici aprile "mezz'ora prima del levar del sole", mentre "dal sedici aprile a tutto agosto col levar del sole" (62). Il regolamento continuava prevedendo che "mezz'ora dopo la sveglia i condannati saranno destinati alle varie occupazioni loro assegnate e vi attenderanno senza interruzione fino all'ora della prima refezione, da farsi in generale due ore dopo, e per la quale è concesso un quarto d'ora, riprendendo quindi il lavoro fino all'ora del rancio o della prima distribuzione del vitto (...)" (63). Sempre per sottolineare come le regole di vita erano tutte finalizzate al buon andamento dei lavori, si può ricordare l'art. 47 in cui si prevedeva che per il vitto e il riposo pomeridiano fosse concessa una pausa di un'ora e mezzo, al termine della quale i condannati dovevano far ritorno al luogo di lavoro, senza possibilità di ulteriori interruzioni (64) fino a mezz'ora prima del tramonto. Eventuali deroghe per l'interruzione del lavoro potevano essere concesse solamente nel caso in cui il luogo di lavoro fosse molto distante rispetto ai dormitori, per cui in tal caso il termine del lavoro poteva essere anticipato in modo che i condannati potessero far ritorno nei loro ricoveri sempre entro il tramonto (65). Una volta rientrati nei vari stabilimenti della colonia loro assegnati, ai detenuti veniva distribuito il vitto, che dovevano consumare in un lasso di tempo di mezz'ora, trascorsa la quale, adempiuta ogni visita e ogni altra formalità, i condannati potevano riposarsi (66). Visto che la maggioranza dei lavori all'interno della colonia erano all'aperto, era prevista una speciale organizzazione per i giorni in cui, a causa delle intemperie, i normali lavori nei campi non potessero essere svolti (67). In questi casi, così come nei giorni festivi, la sveglia per i condannati era posticipata di mezz'ora, e veniva concessa un'ora e mezzo di tempo da dedicare alla pulizia personale e dei locali. Nella restante parte della mattinata i condannati assistevano alla messa "e alla spiegazione del Vangelo", ed erano impegnati in attività scolastiche e di educazione in genere. Dopo il pasto giornaliero e il riposo, i condannati assistevano al "catechismo ed alla benedizione", e fino al tramonto era concesso loro "il passeggio" oppure del tempo per curare la propria corrispondenza (68). Come si può osservare i ritmi di vita sono prettamente agricoli, con il primo vitto somministrato di regola a mezzogiorno e quello serale al tramonto (69).

Nel precedente capitolo abbiamo evidenziato che il lavoro era obbligatorio per tutti i condannati che non avessero particolari problemi di salute (art. 56), ma vi erano delle differenze tra le varie colonie penali riguardo alle tipologie di lavoro e di conseguenza alle condizioni di vita dei detenuti. Sicuramente l'esempio più importante, sia perché fu la prima colonia agricola in Italia, sia perché in essa si ebbero i migliori risultati produttivi e soprattutto organizzativi, è dato dallo stabilimento di Pianosa. Per capire al meglio come si svolgeva la vita all'interno del penitenziario, è opportuno soffermarsi brevemente sulle vicende storiche dell'isola (70). Essa, infatti, a differenza delle altre isole toscane (eccetto Giannutri e Montecristo), è sempre stata disabitata, se si esclude il breve periodo di dominazione romana (71), e il XV secolo, quando l'isola conobbe un certo periodo di floridezza, periodo che cessò definitivamente quando nel 1554 l'isola venne saccheggiata e distrutta dal pirata Dragut (72). Da questo momento in poi Pianosa non conobbe più una popolazione stabile, ma venne sfruttata in modo saltuario soprattutto dagli elbani che vi si recavano per coltivare la terra e portarvi il bestiame (73). Foresi riporta una testimonianza molto interessante che attesta come l'isola fosse meta di pescatori, i quali dimoravano dentro piccole caverne naturali (74). Questa premessa risulta importante, in quanto ci fa capire come nel momento in cui venne istituita nel 1858 la colonia, l'isola fosse praticamente disabitata (75), evitando possibili problemi di convivenza con popolazione libera (76).

Anzitutto bisogna precisare che, come in tutte le colonie agricole, anche a Pianosa, si procedette alla divisione del territorio "in poderi" e a mano a mano che venivano compiuti i lavori di dissodamento e di bonifica dei terreni, "venivano costituite delle diramazioni lontane dalla casa centrale dove venivano stabiliti altri detenuti" (77). Foresi riporta a tal proposito una interessantissima tabella, (78) deducibile da degli scritti del direttore Ponticelli (79), nella quale risulta che nel 1880 la suddivisione per tipologie di detenuti nei vari poderi era la seguente:

Centrale Cardon Certosa Giudice Marchese Brigantino Ippodromo Sembolello Fornace Agrippa Totali
Servizi domestici 29 5 2 3 3 1 3 2 2 50
Sarti 22 22
Calzolai 21 21
Fabbri 24 24
Falegnami 17 17
Panificio 19 19
Fabbriche 16 16
Agricoltori 152 76 32 91 94 15 4 45 32 32 576
Rappez. 1 1 1 3
Barrocciai 2 1 1 1 6 1 1 1 14
Bifolchi 2 2 1 1 8 2 16
Pastori 10 2 2 2 2 18
Stallieri 1 1 1 2 3 1 1 10
Squadra volante 8 8
Fornaciai 2 2
Totale 300 100 40 100 100 16 20 60 40 40 816

In sostanza le varie diramazioni della colonia, si possono considerare dei distaccamenti funzionali dotati di una certa autonomia, tanto da essere considerati un "carcere nel carcere". Come riporta Carfora (80), i dieci poderi di cui era composta Pianosa, erano ciascuno dotati degli "occorrenti fabbricati per abitazione di uomini, ricovero di animali e riparo di istrumenti e prodotti rurali". Inoltre lo studioso evidenzia che "la ripartizione della popolazione detenuta non è fatta naturalmente in maniera uniforme, ma varia dalle centinaia alle poche decine, a seconda della estensione dei poderi, della qualità delle colture e della loro ubicazione".

Altra interessante novità fu che in quasi tutte le colonie agricole erano presenti un determinato numero di detenuti denominati "sconsegnati", contraddistinti dalla iniziale "S", i quali avevano la possibilità di lavorare, principalmente come pastori, carbonai, agricoltori etc., senza immediata vigilanza da parte del personale di custodia, spesso in poderi periferici della colonia stessa (81). Ovviamente la sorveglianza era solamente ridotta rispetto agli altri detenuti comuni, e non totalmente assente (82).

Come si evince dalla tabella riportata il fabbricato denominato "casa centrale" (83) è quello che può ospitare il maggior numero di detenuti, e che Saporito (84) descrive come "un fabbricato imponente, a due piani, con un corpo mediano e due ali laterali"; mentre a proposito delle altre diramazioni, egli aggiunge che "i lavoratori, che attendono a siffatte aziende, hanno quasi tutti dimora fissa nei rispettivi fabbricati, nei quali ogni nota carceraria cede il posto alle necessità lavorative, ed alla semplicità propria della vite agreste; onde dall'insieme risulta il carattere di un vero villaggio agricolo". Dworzak (85) aggiunge che tale suddivisione in diramazioni è utile ed importante per favorire il trattamento individuale dei condannati, e che tale tipo di organizzazione "ha il vantaggio di permettere lo sviluppo dell'azienda su vasta scala, evitando nel contempo un soverchio ammassamento di carcerati". Lo studioso precisa però che secondo lui "anche una colonia agricola non può estendersi smisuratamente perché l'indirizzo generale da dare al lavoro nella colonia, l'amministrazione ecc. incombono sempre alla persona del direttore".

L'organizzazione del lavoro a Pianosa era impostato secondo schemi semplici ma razionali, tali che la colonia godeva di una sostanziale indipendenza dal punto di vista della produzione dei beni e dei servizi indispensabili di cui aveva bisogno (generi alimentari, manodopera edile etc.). Tale forma di autarchia era resa possibile dal fatto che ogni detenuto svolgeva all'interno dell'istituto un certo lavoro, scelto da lui secondo le sue capacità ed attitudini, ovviamente tenendo presente le effettive necessità di manodopera della colonia. Fin da subito la produzione agricola di Pianosa si specializzò nella coltura della vite e nella conseguente produzione di vino (86), che Saporito definisce di "ottima qualità" oltre che "premiato in numerose esposizioni" (87). Oltre a ciò era presente la coltivazione di numerosi alberi da frutto, in particolare mandorli e peri, discreta era anche la produzione di ortaggi, cereali e le "culture foraggere e da pascolo" (88), raggiungendo buoni livelli di qualità nella produzione del grano.

Come abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, il regolamento prevedeva che la vita dei detenuti si svolgesse per la maggior parte della giornata all'aria aperta, essendo occupati nei vari lavori della colonia. Questo rappresenta sicuramente la caratteristica più importante che differenzia le colonie dagli istituti tradizionali, dove, al contrario, i detenuti passavano la maggior parte del loro tempo chiusi nell'istituto, nell'ozio della loro cella oppure svolgendo limitati lavori interni. Da questo punto di vista, le colonie erano nettamente da preferire, in modo particolare per quei detenuti che dovevano scontare una pena molto lunga. A riprova di ciò, un interessante indice della preferenza dei detenuti per le colonie, può essere desunto dal numero estremamente basso di castighi inflitti, dimostrando una scarsa conflittualità rispetto alle altre carceri (89). Anche le condizioni di vita nella colonia erano buone, con un tasso di mortalità nel biennio 1866-67 del 1,4%, a fronte del 26% dei condannati all'ergastolo nel carcere di Torino; dati positivi vennero riscontrati in generale anche per lo stato di salute dei condannati, in quanto nel 1876 le giornate di cura concesse agli stessi erano molto al di sotto della media in confronto agli altri stabilimenti penali (a Capraia, su 180 presenti, si registravano ricoveri per un totale di 580 giornate, a Gorgona su 330 detenuti le giornate di cura furono 2256, e la media nazionale era di circa 7000 giornate) (90). Per quanto riguarda più dettagliatamente la disciplina, nel 1896 i delitti compiuti in tutti gli stabilimenti penali d'Italia furono 60, per salire di venti unità l'anno successivo; però di questi solo sei avvennero nelle colonie tanto nel 1896 che nel 1897 (91). Sproporzione la troviamo anche nel numero delle infrazioni, se si considera che nel 1896 esse furono solo 1694 nelle colonie e ben 25913 nelle case di reclusione, e nell'anno seguente furono 1379 nelle prime e 27618 nelle seconde (92). Per quanto attiene al numero dei recidivi nelle infrazioni disciplinari, furono "nel 1896 di 6538 nelle case di reclusione e di 322 nelle case di pena intermedie, e nel 1897 di 6679 nelle prime e 358 nelle seconde, in guisa che i recidivi rappresentano nelle prime oltre un terzo dei condannati, e nelle seconde poco più del decimo" (93). La situazione all'interno dei singoli stabilimenti è illustrata nella tabella seguente (94):

1896 1897
Infrazioni Recidivi Infrazioni Recidivi
ASINARA 109 55 98 26
BITTI 36 6 51 11
CAGLIARI (S. BARTOLOMEO) 301 21 232 12
CAPRAIA 215 41 121 35
CASTIADAS 527 154 330 181
GORGONA 97 19 64 16
ISILI 60 14 58 11
MADDALENA 26 56 2
PIANOSA 108 97 11
PIOMBINO 113 12 154 6
POZZUOLI 31
TREMITI 1 119 32
TOTALE 1624 322 1379 318

Interessanti sono anche le tabelle di seguito riportate indicanti le ricompense accordate ai condannati, sempre nel biennio di esercizio 1896-1897 (95):

1896 Lode Permesso di libri Permesso di sussidi Permesso di scrivere Aumento sulle gratificazioni Proposta di grazia
ASINARA 21 120
BITTI 5 16 8
CAGLIARI (S. BARTOLOMEO) 4 166 97
CASTIADAS 72 1
GORGONA 39 69
ISILI 18 48
MADDALENA 2 156 36 4
PIANOSA 4 17 36 444 4
PIOMBINO 72 9
POZZUOLI 6 36
1897 Lode Permesso di libri Permesso di sussidi Permesso di scrivere Aumento sulle gratificazioni Proposta di grazia
ASINARA 3 106
BITTI 15 3
CAGLIARI (S. BARTOLOMEO) 7 126 84
CAPRAIA 4 55 36
CASTIADAS 1 151 19 1
GORGONA 6 55 28
ISILI 7 18 23
MADDALENA 2 243 24 4
PIANOSA 3 20 383
PIOMBINO 16 37
TREMITI 23 31 2

Tra l'altro, secondo Dworzak (96), il fatto che in uno stabilimento penale ci sia fra i reclusi un livello morale alto è molto importante anche sotto il profilo della sicurezza, in quanto il lavoro agricolo in certe condizioni (97), influisce positivamente sulla disciplina dei carcerati, "rendendo rari i casi d'evasione anche indipendentemente del luogo ove si trova la colonia".

4 Domicilio coatto

Il domicilio coatto è strettamente connesso alle colonie penali agricole, ma ne è formalmente indipendente. Infatti mentre esso è un provvedimento di polizia preventiva in quanto "rappresenta in Italia uno dei mezzi con i quali il potere sociale adempie alle sue funzioni di prevenzione dei possibili danni privati e pubblici, onde possono esser cagione le persone pericolose alla città" (98), deportandole in luoghi isolati dal civile consorzio (la destinazione preferita sono le piccole isole), mentre le colonie penali agricole sono totalmente inserite nell'ambito del sistema penitenziario. Quindi sia l'uno sia le altre hanno in comune, di preferenza, il sistema della relegazione insulare, inoltre, anche se il domicilio coatto viene qualificato come strumento di polizia preventiva, comunemente viene considerato come una pena al pari di una condanna giudiziale (99). Sono dunque due istituti fortemente legati tra loro in quanto molte isole, tra cui quelle dell'arcipelago toscano, furono colonie coatte (100); successivamente furono utilizzate per accogliere i condannati.

Il domicilio coatto, che possiamo definire come misura di pubblica sicurezza, consiste "nella dimora obbligatoria, secondo certe regole e discipline, in un luogo designato, delle persone le quali, per ragioni tassativamente indicate dalle legge, sono da reputarsi pericolose alla società in guisa da dover esser per un certo tempo segregate da quel comune consorzio, al quale esse potrebbero esser facilmente causa di danno, per le prave tendenze manifestate" (101). L'istituzione del domicilio coatto nel Regno d'Italia avviene nel 1863 con la legge Pica (102), che ha lo scopo di fronteggiare un momento di forte tensione sociale riguardante soprattutto l'Italia meridionale, dove rappresenta un mezzo di lotta contro il brigantaggio e le organizzazioni malavitose (camorra). La legge dispone che "il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette (...)" (103). Secondo il Codice Penale sardo del 1859 sono persone sospette coloro "che sono diffamati per crimini o per delitti e singolarmente per grassazioni, estorsioni, furti e truffe, e coloro che sono sottoposti alla sorveglianza speciale della Pubblica Sicurezza" (104). Il regolamento di attuazione (105) prevede che "l'individuo cui è assegnato il domicilio coatto rimane libero (...)" (106), ma sottoposto alla sorveglianza da parte degli Ufficiali di Pubblica Sicurezza (107). Questo istituto nasce dunque, come abbiamo già detto, da esigenze straordinarie di ordine pubblico, per trasformarsi però col tempo in uno strumento ordinario, con finalità preventive. Interessante al riguardo è la legge di pubblica sicurezza del 1865 (108), nella quale all'art. 76 è previsto che il Ministro dell'Interno può "[...] eziandio per gravi motivi di sicurezza e d'ordine pubblico designare per un termine non maggiore di un anno il luogo nel quale l'ozioso o vagabondo recidivo dovrà stabilire il suo domicilio". Singolare è la circostanza che, l'incolpato di oziosità o vagabondaggio, tramite denunzia scritta (109) o anche in seguito della pubblica voce o notorietà (110), venga ammonito dal pretore a "darsi immediatamente a stabile lavoro, e di farne costare nel termine che gli prefigge, ordinandogli nel tempo stesso di non allontanarsi dalla località ove trovasi, senza preventiva partecipazione all'autorità di pubblica sicurezza" (111). Col passare del tempo però sembra che le originarie esigenze di stretto ordine pubblico, che erano alla base del domicilio coatto vadano sfumandosi, e si usi l'istituto per finalità alquanto diverse, come la tutela della morale pubblica. Il "Regolamento pel servizio di sorveglianza delle persone pregiudicate e sospette e pel domicilio coatto" del 1881, stabilisce che viola l'ammonizione anche chi "sia trovato a girovagare le osterie o gli altri esercizi pubblici, o darsi bel tempo nei teatri o in altri divertimenti, o altrimenti far spese eccedenti le proprie risorse, oppure cambiare spesso di abiti e vestire in modo non confacente ai propri mezzi economici, o mantenere donne pubbliche o in altro modo tenere condotta viziosa, o frequentare la compagnia di persone soggette e pregiudicate" (112). Dunque la caratteristica peculiare dell'istituto è il controllo di polizia sull'individuo e secondo il riformatore esso avrebbe dovuto contrastare fenomeni sociali rilevanti come la delinquenza comune e il vagabondaggio.

La realtà, tuttavia, fu ben diversa e per molti aspetti fallimentare, in quanto non fu possibile nella maggior parte dei casi ottenere l'emenda dei coatti attraverso il lavoro, che anzi continuavano ad oziare e vivevano in una situazione peggiore rispetto a quella dalla quale erano stati allontanati con i provvedimenti in vigore (113).

Altro aspetto negativo è che spesso le persone mandate nelle isole erano "capifamiglia", ovvero si trattava dell'unica fonte di sostentamento dei nuclei familiari, per cui l'allontanamento creava delle conseguenze disastrose nell'ambito familiare e sociale, causato dalla rottura dei rapporti umani (114).

Il domicilio coatto sopravvisse nei fatti fino all'epoca fascista (115), prendendo progressivamente forma di "funzione politica", per cui accanto ai camorristi gli "ospiti" più numerosi delle colonie furono i socialisti (116). Inoltre deve essere sottolineato il fallimento sia del fine proprio dell'istituto cioè quello di combattere il vagabondaggio nelle regioni meridionali, sia della funzione "rigenerativa" (117), che si voleva attribuire alle colonie coatte, fucine invece di più perfezionati delinquenti (118).

Il regio decreto del 6 novembre 1926, n. 1848 (119) introdusse al posto del domicilio coatto il confino di polizia (120). Come riportano gli studiosi Celso Ghini e Adriano Dal Pont, (121) l'istituto del confino, per come era strutturato, era una misura molto più restrittiva del semplice domicilio coatto, in quanto, esso "aggiungeva numerose altre restrizioni della libertà personale, in modo da renderlo (...) un 'carcere all'aperto'" (122).

L'art. 184 del citato testo unico prevedeva che al confino di polizia potevano essere assegnati, qualora ritenuti pericolosi alla sicurezza pubblica, gli ammoniti (123) e "coloro che abbiano commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali o economici costituiti nello Stato o a menomarne la sicurezza ovvero a contrastare od ostacolare l'azione dei poteri dello Stato per modo da recare comunque nocumento agli interessi nazionali, in relazione alla situazione, interna od internazionale, dello Stato". Il confino aveva una durata da un minimo di uno ad un massimo di cinque anni, da scontare in una colonia o in un Comune del Regno diverso dalla residenza del confinato (art. 186).

In ogni provincia venne istituita una commissione composta dal prefetto (che la convocava e la presiedeva), dal procuratore del Re, dal questore, dal comandante dell'arma dei carabinieri e da un ufficiale superiore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (art. 168) (124). Essa disponeva l'assegnazione al confino e la sua durata, potendo anche disporre l'immediato arresto delle persone prima che il confino fosse eseguito (186) (125).

Il confino di polizia, se aveva in comune con l'istituto del domicilio coatto l'obbligo di residenza in un determinato luogo (art. 193) (126), nonché l'obbligo del soggetto di darsi a stabile occupazione (art. 189), si distingueva per una numerosa serie di obblighi ulteriori che rendevano la vita al confino particolarmente dura. A tal proposito, l'art. 190 disponeva che al confinato potesse essere anche prescritto: "1) di non allontanarsi dall'abitazione scelta, senza preventivo avviso all'autorità preposta alla sorveglianza; 2) di non ritirarsi alla sera più tardi e di non uscire al mattino più presto di una data ora; 3) di non detenere né portare armi proprie od altri strumenti atti ad offendere; 4) di non frequentare postriboli, né osterie od altri esercizi pubblici; 5) di non frequentare pubbliche riunioni, spettacoli o trattenimenti pubblici; 6) di tenere buona condotta e di non dar luogo a sospetti; 7) di presentarsi all'autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni che saranno indicati, e ad ogni chiamata della medesima; 8) di portar sempre indosso la carta di permanenza e di esibirla ad ogni richiesta degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza" (127).

Il numero esatto di persone che durante il periodo fascista furono condannati al confino di polizia è difficile da determinare, ma, con una buona approssimazione, esse furono da un minimo di 12.000 ad un massimo di 18.000 (128). I luoghi prescelti per il confino di polizia furono le isole di Favignana, Lampedusa, Lipari, Pantelleria, Ponza, Tremiti, Ustica e Ventotene, dove vennero costituite delle colonie (o utilizzate quelle già esistenti). Al contrario, nei Comuni di terraferma, non furono istituite colonie, ad eccezione di Pisticci, in provincia di Matera (129).

La conclusione che si può trarre da questo breve excursus sulle colonie coatte è che esse hanno svolto "un ruolo sussidiario all'intervento penale, in quanto ne sono destinatari soggetti ritenuti socialmente o politicamente pericolosi nei cui confronti l'accertamento di vere e proprie responsabilità penali si presenta problematico", come sostiene Neppi Modona, in "La parabola storica delle colonie penali" (130).

5 Deportazione e cenni alle colonie italiane d'oltremare

Con deportazione, secondo Franca Mele (131), si indica "in generale una sanzione penale che consiste nell'allontanamento del condannato dal paese in cui è stato commesso il delitto e nella relegazione in un'isola o in una terra lontana dalla patria".

Indipendentemente da ragioni di carattere espansionistico - militare, che hanno portato l'Italia a non essere una potenza coloniale, quanto meno in raffronto ad altre potenze europee, possiamo dire che l'Italia non ha mai avuto delle colonie penali d'oltre mare quindi non ha mai conosciuto la pena della deportazione (132). Ciò non significa che il tema non fosse dibattuto dai maggiori studiosi dell'epoca, e al di la di convinti fautori come il De Foresta (133) o il Cerruti, la dottrina prevalente era contro la deportazione. Interessante a tal proposito è la testimonianza di Carfora (134) il quale riporta il pensiero del noto studioso Beltrani Scalia, secondo il quale la deportazione è

"una pena diseguale, immorale, mancante di esemplarità, è la più costosa di tutte ed è quella, che dà risultati minori. È diseguale, perché mentre è di una gravità insopportabile per le persone deboli di salute ed amanti della loro patria e della famiglia, è per contrario desiderata da coloro, che, mancando di queste legittime affezioni, trovano in essa l'occasione di seguire una vita di avventura; (...) è immorale perché rompe i vincoli di famiglia, allontanando l'uomo da quelle persone, la cui presenza e i conforti delle quali possono influire sulla sua correzione, stimolandolo al pentimento; e quantunque i deportati sieno autorizzati ad aprir famiglia, le donne, colle quali possono facilmente contrarre matrimonio, non sono le più adatte a conseguire i risultati morali, che si pretendono, e si corre il pericolo che i figliuoli di questo connubio sieno educati nel male e nel vizio. Non è esemplare né intimidatrice, perché il deportato è sedotto dall'idea di libertà, che gode alla Colonia e della speranza di poter fare una fortuna col suo lavoro (...); originandosi di qui la terribile ingiustizia che i maggiori criminali godano di libertà e di vantaggi negati a quelli, i quali, meno delinquenti, scontano la pena nella madre patria".

Tutti gli studiosi sono comunque d'accordo nel ritenere che per risolvere i gravi problemi nei quali è immerso il sistema carcerario italiano, occorrono delle ingenti spese; pertanto anche tralasciando l'ipotesi della deportazione, il mantenimento e soprattutto il potenziamento delle carceri rappresenta comunque un problema economicamente rilevante per lo Stato. Pian piano però fra gli studiosi, si affacciano coloro i quali, come Nocito (135), propongono di utilizzare la deportazione, ma di attuarla nei territori italiani, in quanto sarebbe inutile andare a cercare "i banchi di perle e di coralli, gli arcipelaghi più o meno luminosi ed i mari più o meno pacifici", quando l'Italia è ricchissima di isolette adatte a tale scopo. Della stessa idea è Biamonti, secondo il quale è molto più corretto volgere lo sguardo alle isole italiane, perché così facendo la pena raggiungerebbe il suo vero scopo, cioè quello di "reprimere i delitti e ottenere la morale rigenerazione" (136). Detto questo, è difficile considerare e valutare oggettivamente la pena della deportazione, in quanto, come rileva correttamente Franca Mele (137) essa varia molto in ragione al luogo e alle modalità di esecuzione in cui viene applicata. La studiosa precisa infatti che nella deportazione

"il luogo prescelto può essere disabitato oppure no, il clima salubre o malsano, la terra più o meno fertile e coltivabile, insomma i fattori ambientali possono contribuire a rendere la pena più o meno dura. Altrettanto può dirsi delle modalità di esecuzione: infatti la deportazione può essere perpetua o temporanea, comportare un periodo di carcerazione in patria, risolversi in una semplice carcerazione o in un regime di semi-libertà durante il quale i condannati lavorano per conto dello Stato o di privati, può comportare la concessione di terre durante o dopo l'espiazione della pena, la possibilità che il deportato si crei una famiglia o che questa lo raggiunga. Molteplici possono essere anche gli obblighi o i diritti del deportato una volta conclusa la condanna: obbligo di risiedere nella colonia o, viceversa, di abbandonarla, o piena libertà di scelta, possibilità di esercitare solo alcune professioni, possibilità o divieto di divenire proprietario di terre".

Tutti i vari progetti sull'introduzione della deportazione che si alternano nei trent'anni che vanno dall'unità al "codice Zanardelli", benché molto eterogenei fra loro, con notevoli sfumature circa l'applicazione concreta della deportazione (138), si arenano, e alla fine lo stesso codice penale unitario del 1890 non prevede la pena della deportazione. Franca Mele (139) riporta la relazione fatta da Zanardelli che spiega le ragioni per le quali tale pena è esclusa; dice Zanardelli che la deportazione

"non è punto esemplare e intimidatrice, mentre non solo non incute proporzionato spavento, ma appare alla fantasia dei perversi circondata di speranze e di seduzioni, talché in Francia dopo la legge 1854 si videro malfattori condannati alla reclusione commettere altri delitti per essere trasportati alla Nuova Caledonia. La deportazione, d'altra parte, non è atta a procurare l'emenda del colpevole, poiché anzi è eccitamento a scellerate leghe e quasi campo aperto alla mutua corruzione. Essa infine, oltre ad essere sommamente dispendiosa, non presenta il carattere della certezza, prestandosi con facilità alle evasioni [...]".

Concludendo possiamo dire che, le ragioni che stanno alla base della deportazione, ovvero l'allontanamento dalla patria dei criminali più pericolosi, il ridurre la pressione demografica nei penitenziari e la colonizzazione di terre lontane, unite a delle cause storiche e politiche non hanno portato ad introdurre questa pena nel nostro ordinamento, neppure quando, ad imitazione delle altre grandi potenze europee, l'Italia conobbe una minima espansione coloniale. Ciò che invece l'Italia sperimentò seppur per un periodo limitato, furono le colonie penali d'oltre mare riservate ai delinquenti indigeni.

Interessante fu la colonia per coatti di Assab (140), nel Corno d'Africa italiano; oppure la colonia penale agricola per la redenzione dei criminali indigeni operante nell'oasi di Uau el Chebir, nel Sahara libico, fondata nel 1937 dal Maresciallo Balbo. Anche in questo caso l'assegnazione era prevista dopo un periodo di pena scontata in carcere, quando i condannati indigeni avessero dato prova di volontà di riscatto; veniva loro affidato un pezzo di terreno da bonificare e, se si mostravano meritevoli, dopo alcuni anni potevano ottenere la grazia sovrana. In sostanza si voleva realizzare contemporaneamente la "bonifica umana e la bonifica del terreno" (141). Altri interessantissimi esempi di colonizzazione penale, conosciuti dall'Italia nei primi decenni del XX secolo, furono le colonie penali agricole di Coefia, di Berka e di Castelluccio (Raaba), tutte ubicate nella Cirenaica italiana. Dalle parole di Achille Terruzzi, governatore della Cirenaica dal 1926 al 1929, a proposito degli stabilimenti agricoli (142), si capisce che queste colonie per indigeni avevano una buona organizzazione e che era ben sviluppata l'agricoltura, tutto ciò, quindi, poteva essere utile all'Italia coloniale di quegli anni. In seguito ad una tale positiva pubblicità, non mancò chi, come Tito Cicinelli (direttore superiore degli stabilimenti carcerari di Roma), propose di inserire anche "condannati metropolitani" (cioè italiani), negli stabilimenti africani, esperimento per il quale l'unica difficoltà vera era tutt'al più di carattere finanziario, mentre gli ostacoli che si volevano opporre erano solo di indole politica; non c'era infatti alcun problema climatico, "essendo risaputo che tutta la zona costiera della Cirenaica e l'immensa fascia montana che la separa dalla zona pre-desertica, hanno un clima il quale non differisce da quello della Sicilia che per un maggior grado di umidità affatto innocuo". Non sarebbe nemmeno un problema, continua Cicinelli, "una minore attitudine dei condannati metropolitani in confronto degli indigeni al genere di lavoro da compiersi laggiù, verificandosi proprio il contrario, per la povertà di cognizioni agricole delle popolazioni libiche e per quella loro repugnanza ad ogni lavoro faticoso che è spiccata caratteristica della razza" (143). Tali esperimenti, comunque, così lodati dagli studiosi, furono solo una brevissima parentesi nella vita giuridica italiana, quasi a voler rappresentare un'immagine coloniale che nei fatti l'Italia non aveva.

Oltre a ciò, secondo la ricostruzione fatta da Carfora, è interessante notare che l'organizzazione tipica della colonia poteva essere applicata a quei "comitati di patronato per i liberati dal carcere" che, sebbene nella pratica mai attuati, secondo molti studiosi del tempo (144) avrebbero "rappresentato un complemento della pena vantaggioso non solo alla società, che vi guadagnerebbe in sicurezza ma anche al condannato, che vedrebbe facilitato il suo riadattamento alla vita sociale". Altre volte invece assumono il carattere di colonia penitenziaria quegli istituti indirizzati alla correzione dei giovani delinquenti (145). Infine un accenno deve esser fatto alle "colonie per figli dei carcerati" (146), istituto che trova il suo fondamento in una concezione "ereditaria del crimine", per cui "il discendente da un delinquente debba sottoporsi a certe speciali cure morali, perché in lui si steriliscano i germi, che hanno potuto per avventura essergli trasmessi", in quanto la "tendenza al delitto può trasmettersi per eredità o per atavismo" (147). Ma certamente la "summa divisio", la classificazione più importante nella quale possono essere divise le colonie, riguarda la distinzione tra le colonie penali d'oltre mare e le colonie agricole site nei confini naturali dello Stato. Al primo tipo di colonie guardarono principalmente quei Paesi che, come l'Inghilterra, conoscevano la pena della deportazione (148); il secondo tipo, invece, comprende quegli istituti che, come gli stabilimenti di pena intermedi, sono luoghi in cui vengono destinati quei condannati meritevoli, i quali con la loro buona condotta abbiano dato prova di emenda e svolgono un lavoro prevalentemente agricolo. La Francia sperimentò, sotto alcuni aspetti, delle colonie appartenenti a questo secondo modello, ma solo quelle per minorenni si trovavano all'interno del territorio naturale francese, mentre quelle per adulti si ebbero sostanzialmente in Guyana e in Nuova Caledonia, assumendo però caratteristiche prevalenti di stabilimenti agricoli, piuttosto che luoghi di deportazione tipici del modello inglese.

Note

1. Manlio Cortelazzo, Paolo Zolli, Dizionario etimologico, Bologna, Zanichelli, 1979-1988.

2. Francesco Carfora, Colonia Penale, in "Digesto Italiano", Torino, Unione tipografico editrice, vol. 7, parte II, 1897-1902.

3. Ibidem.

4. Carlos Petit, Colonia, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, Roma, Carocci Editore, 2004.

5. Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pag. 702, fa un riferimento alla famiglia, laddove riporta l'esperienza della colonia per minori, istituita nel 1871 in Polonia. L'aspetto più interessante del sistema di educazione applicato prevedeva la divisione degli alunni in famiglie e in classi sotto la direzione di un padre di famiglia.

6. Franca Mele, Le isole sono nate fatte per luoghi di pena. Pianosa e le colonie penali agricole nell'Italia dell'Ottocento, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", anno XXVI, nº2, dicembre 1996.

7. Notizie sulla figura dell'Avvocato Carlo Peri, le ritroviamo in Anna Capelli, Il carcere degli intellettuali. Lettere di italiani a Karl Mittermaier (1835-1865), Milano, F. Angeli, 1993. Peri cominciò ad occuparsi dei problemi carcerari in Toscana nel 1842, quando il presidente del Buon Governo Giovanni Bologna lo nominò "ispettore generale delle prigioni". Nel 1848 divenne "soprintendente generale delli stabilimenti penali e penitenziarj e delle carceri pretoriali del Granducato", per poi ricoprire nel 1859 l'incarico di "consultore per li stabilimenti penali" presso il Ministero di Grazia e Giustizia.

8. Ivi, pag.363.

9. Luciano Martone (a cura di), Giustizia penale e ordine in Italia tra Otto e Novecento, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1996.

10. Antonio Santoriello, L'isola di Pianosa e la nascita delle colonie agricole penali nell'Italia liberale (1860/1889), in Luciano Martone (a cura di), opera citata, pag. 79.

11. Guido Neppi Modona, La parabola storica delle colonie penali, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, Roma, Carocci Editore, 2004.

12. Vedi: "Regolamento per le colonie penali", emanato con il decreto del 6 gennaio 1887, n. 4318.

13. E' il fenomeno tipico della c.d. "fuga dal carcere". Vedi: Guido Neppi Modona, La parabola storica delle colonie penali, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, cit.

14. Guido Neppi Modona, La parabola storica delle colonie penali, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, cit.

15. Jacques - Guy Petit, La colonizzazione penale, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, cit.

16. Celeberrimo è per questo tema il testo di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Rizzoli, 1950.

17. La Francia guardò con attenzione alla Guyana quando perdette i suoi possedimenti dell'America del Nord. Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pag. 695.

18. Michel Pierre, La terre de la grande punition, Paris, Ramsay, 1982, pag. 17, En novembre 1850, le prince-président Louis Napoléon donnait son aval à de nouvelles formes de déportation coloniale: «Six mille condamnés renfermés dans nos bagnes grèvent le budget d'une charge énorme, se dépravant de plus en plus, et menacent incessamment la société. Il me semble possible de rendre la peine des travaux forcés plus efficace, plus moralisatrice, moins dispendieuse et plus humaine en l'utilisant aux progrès de la colonisation française».

19. L'abolizione definitiva della deportazione in Francia avvenne nel 1953. Jacques - Guy Petit La colonizzazione penale, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, cit.

20. Per il Belgio vedi Marie-Sylvie Dupont-Bouchat, Le colonie penali per minori in Belgio nel XIX secolo, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, cit.

21. Eric Pierre, Le colonie agricole per giovani delinquenti in Mario Da Passano, Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, cit.

22. Ivi, pag 111.

23. La distinzione tra questi due modelli venne elaborata per la prima volta da Alexis de Tocqueville, studioso francese del XIX secolo che si occupò a lungo della società americana, e fra le tante problematiche di cui egli volle occuparsi, rientrò anche il sistema penitenziario americano. Come riporta Lucia Re (a cura di), Alexis de Tocqueville. Scritti penitenziari, Roma, edizioni di storia e letteratura, 2002, pag. XIV, Tocqueville non riteneva importante stabilere quale tra i due modelli fosse da preferire, mutando egli stesso parere e pronunciandosi prima a favore del modello di Auburn, ritenendolo meno costoso e più educativo, poi difendendo il sistema di Philadelphia. Tocqueville ricondusse il sistema penitenziario americano a due soli modelli ideali, per la semplice ragione che egli negava che gli Stati Uniti si fossero dotati di un sistema penitenziario uniforme, sia perché i diversi penitenziari erano nati in modo spontaneo e non seguendo una precedente politica in tal senso, sia perché spesso furono le singole città a deliberare e a occuparsi delle carceri, creando un sistema molto eterogeneo. Nella sua ricostruzione Re riporta la concezione di Tocqueville secondo la quale il sistema penitenziario risulta come la somma di due entità diverse ma complementari, e cioè come "un'organizzazione coerente delle strutture punitive e un preciso metodo di punizione dei colpevoli". Fondamentale è che la pena principale sia la privazione della libertà (eliminando quindi tutte le altre tipologie di pena, quale quella capitale, le mutilazioni corporali, il marchio a fuoco etc.) e il creare le condizioni per cui i detenuti vivano in uno stato di totale isolamento. Questo perché Tocqueville riteneva nettamente distinte la "società dei detenuti" e la "società dei liberi", due sistemi che erano governati da leggi diverse, per cui i cittadini democratici devono essere "governati", mentre i detenuti devono essere "domati". Tocqueville ritiene che debba essere assolutamente evitato il fatto che i detenuti all'interno del carcere acquistino la consapevolezza di essere una "forza collettiva", di appartenere cioè ad una "società dei criminali"; pertanto la funzione del carcere deve essere proprio quella di ridurre il criminale alle sue sole forze, di modo che egli venga punito "in modo individualizzato", cioè far sì che il detenuto viva la propria detenzione come una esperienza soltanto individuale. Tocqueville però non accetta l'impostazione religiosa che sta alla base del pensiero dei quaccheri, per cui il condannato deve essere solo di fronte a Dio, ma ritiene dannosa solo la reciproca corruzione tra i criminali, mentre è favorevole che loro comunichino con i "membri sani" della società. Per concludere, Tocqueville realizza un modello razionale di punizione, che ha alla base l'isolamento dei detenuti, ma risulta ispirato a principi di gradazione e umanità della pena.

24. Il modello philadelphiano nasce come proposta dei filantropi quaccheri per l'introduzione di riforme nelle prigioni di Philadelphia (la prima applicazione avvenne nel 1786 nel carcere di Walnut Street) e ha come elemento caratterizzante l'isolamento assoluto, che oltre a favorire nel recluso la meditazione e la preghiera, permetteva di evitare pericolosi contatti tra i condannati che avrebbero potuto corrompersi a vicenda. In un primo momento tale sistema prevedeva l'assoluta inattività, successivamente fu introdotto il lavoro all'interno della cella per mitigare la terribile condizione di solitudine imposta e per problemi di gestione economica degli istituti di pena. Proprio per risolvere questioni di natura finanziaria venne applicato nella prigione di Auburn nello Stato di New York un nuovo sistema di detenzione che prevedeva la separazione dei detenuti in celle individuali durante la notte e il lavoro comune, seppur in silenzio, durante il giorno. Carlo Ilarione Petitti di Roreto, in Della condizione attuale delle carceri e dei mezzi di migliorarla, in Gian Mario Bravo (a cura di), "Opere scelte", Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1969, rileva che veniva applicata una disciplina di tipo militare per garantire l'assoluta subordinazione dei detenuti alle regole dell'istituto: la minima infrazione comportava pesanti pene corporali.

25. In Piemonte, come desumibile dalle "Regie patenti" del 1939, venne sposata la concezione auburniana per quanto riguarda i criteri di costruzione e le regole da adottare per i nuovi istituti (quello di Alessandria nel 1846, quello di Oneglia nel 1848 e quello di Albertville nel 1853 nel territorio della Savoia poi passata alla Francia). Dato che i principi guida dovevano essere la segregazione notturna e il lavoro collettivo, in questi nuovi istituti dovevano trovarsi delle piccole celle per il pernottamento notturno, e dei laboratori per il lavoro diurno. Pian piano però venne constatato il fallimento di questo tentativo di riforma, per ragioni che vanno dalla mancanza di adeguate risorse finanziarie, alla superficialità e incompetenza del personale addetto al funzionamento degli istituti, che si caratterizzarono esclusivamente per la loro vocazione punitiva, l'ossessione della sorveglianza e le inutili vessazioni e punizioni dei reclusi. Vedi: Anna Capelli, "Il carcere degli intellettuali. Lettere di italiani a Karl Mittermaier", 1835 - 1865, Milano, F. Angeli, 1993.

26. Nel Granducato di Toscana, il Codice Criminale del 1786 si era molto ispirato ad alcune fondamentali idee - guida del pensiero illuminista, quali l'abolizione della pena di morte e delle mutilazioni corporali. Nel contempo, però, si fece ricorso sempre più alla pena dei lavori forzati, in particolare nei bagni penali di Livorno, Pisa e dell'isola d'Elba. Parallelamente a ciò, venne aperta nel 1816 una "casa di forza" a Volterra, e molte delle carceri toscane furono attrezzate per il lavoro dei detenuti (soppressione per sovrana risoluzione del 15 agosto 1835 del carcere fiorentino delle Stinche, apertura nel 1836 di una casa di correzione nell'ex convento delle Murate; apertura nel 1833 di una casa di pena femminile a S. Gimignano). Vedi: Anna Capelli, La buona compagnia, Milano, F. Angeli, 1988.

27. I bagni penali sono quegli stabilimenti penitenziari dove si sconta la pena ai lavori forzati. Già presso i popoli antichi, quando l'estremo supplizio era ritenuto troppo grave, si usava trarre in schiavitù coloro che si erano resi colpevoli di gravi reati, dapprima al servizio della vittima del reato (o della sua famiglia) ed in seguito al servizio dello Stato. Per primi furono i Fenici ad impiegare i condannati come forza propulsiva delle loro galee (la così detta "pena del remo"), ma anche i Romani conobbero la condanna ad metalla, quella ad opus metalli e quella in opus perpetuum, in sintesi delle pene ai lavori pubblici di cui le prime due si scontavano nelle miniere per conto dello Stato, mentre l'ultima per lavori di costruzioni in terra ferma oppure sulle galere militari. Per quanto riguarda la legislazione pre - unitaria, la maggioranza degli Stati contemplavano i lavori forzati; in particolare nel Granducato di Toscana, il codice criminale del 1786, abolì la pena di morte sostituendola appunto con la pena dei lavori forzati. Nel 1817 venne emanato un regolamento per i bagni penali, in cui era previsto, tra l'altro, che i condannati ai lavori forzati per un tempo superiore ai cinque anni, fossero trasferiti nelle saline e miniere dell'isola d'Elba, ed era prescritto inoltre che essi viaggiassero scalzi, portassero una doppia catena (poi abolita con un Sovrano Rescritto del 9 luglio 1833) e mostrassero un cartello indicante il tipo di reato commesso. Pian piano però il sistema della segregazione cellulare prese il sopravvento e, attraverso il decreto 4 marzo 1849 e la legge 5 maggio 1849 venne sostituita la pena dei lavori forzati con la pena dell'ergastolo o della reclusione. Per quanto riguarda invece gli Stati Sardi, con dei Regi bandi del 22 febbraio 1826 si dettarono le norme per i condannati alla disciplina dei lavori forzati. I bagni penali erano alle dipendenze del Ministero della Marina (passarono al Dicastero dell'Interno solo col decreto 29 novembre 1866), e i condannati che si fossero resi colpevoli di nuovi reati venivano giudicati da dei tribunali speciali (i delitti erano giudicati a terra dal magistrato supremo dell'ammiragliato, a bordo delle navi da un Consiglio di guerra. Tutto questo fino a quando con la legge 21 aprile 1877 vennero sostituiti dai tribunali ordinari). Possiamo dire che la pena ai lavori forzati si componga di tre elementi, e cioè la limitazione della libertà personale, l'obbligo di lavori faticosi a profitto dello Stato e la catena al piede (articolo 16 Codice Penale 1859). Inoltre il codice Penale Sardo del 1859, all'articolo 20 prevedeva che la condanna ai lavori forzati a vita comportasse la perdita dei diritti politici, nonché l'interdizione legale del condannato e la perdita della patria potestà. Per quanto riguarda invece la pena ai lavori forzati a tempo, l'art. 53 prevedeva una condanna da un minimo di dieci ad un massimo di venti anni, anch'essa con le stesse pene accessorie della condanna ai lavori forzati a vita, con l'esclusione però della perdita della patria potestà. I condannati erano impiegati prevalentemente in lavori all'aperto quali la costruzione e manutenzione di porti, nella cava di pietre nelle miniere e nella costruzione di strade e edifici pubblici; essi facevano vita in comune sia durante il giorno che durante la notte, col solo obbligo durante il lavoro di mantenere il silenzio con gli altri detenuti, non tanto per la paura di una reciproca corruzione quanto per impedire tumulti e rallentamento nei lavori. Era però vietato il lavoro insieme con gli operai liberi, sia per evitare il sollievo di cui i forzati avrebbero beneficiato attraverso questi contatti con il "mondo libero", sia per evitare agli operai liberi il riprovevole contatto con i forzati. Col passare del tempo furono sempre più numerose le critiche verso la pena dei lavori forzati, in particolare per il fatto che, nel modo in cui era organizzato, non perseguiva le finalità rieducative del condannato, anzi veniva percepito dai detenuti solo nella sua componente afflittiva e denigrante, e ciò perché per la scelta dei lavori non veniva presa in considerazione nessuna eventuale attitudine del condannato, perché non era prevista nessuna forma di retribuzione e per la voluta spettacolarizzazione e denigrazione che veniva fatta quando i forzati si trovavano a lavorare all'esterno (cartelli indicanti la tipologia di reato, catene ai piedi etc.). Da più parti molti cominciarono a chiedere l'abolizione dei lavori forzati (importanti furono alcune commissioni create proprio per studiare l'eventuale chiusura dei bagni penali, quale quella nominata con decreto del 16 gennaio 1862 che si pronunciò a favore della loro chiusura). Intanto con i decreti 26 giugno 1863 e 4 febbraio 1866 venne modificato in parte l'ordinamento dei bagni penali del 19 settembre 1860, in particolare abolendo le punizioni corporali ritenute troppo crudeli, come la punizione "del bastone" per gli adulti o "della verga" per i minori e per le donne. Infine con il decreto 7 marzo 1878 venne emanato il nuovo regolamento per i bagni penali, senza peraltro introdurre rilevanti novità rispetto alla precedente disciplina. Solamente quando attraverso il codice Zanardelli nel 1889 si arrivò all'unificazione penale, i bagni furono definitivamente aboliti (non vengono neppure menzionati nel regolamento carcerario del 1891), e il decreto attuativo del codice penale prevede espressamente che ai lavori forzati a vita sia sostituito l'ergastolo, mentre ai lavori forzati a tempo sia sostituita la reclusione forzata dai dieci ai venti anni, abolendo nei fatti anche i lavori forzati previsti nelle leggi penali militari per l'esercito e per la marina del 1865. Anna Capelli, La buona compagnia, cit.; Francesco Carfora, Lavori forzati, in "Digesto Italiano", Torino, Unione tipografico editrice, vol. 14, 1902-1905; Aristide Bernabò Silorata, Case penali, in "Digesto Italiano", Torino, Unione tipografico editrice, vol. 6, parte II, 1891.

28. Ciò era conforme all'insegnamento di Beccaria, il quale dice che "non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offeso, che è il freno più forte contro i delitti", Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Rizzoli, 1950.

29. Anna Capelli, La buona compagnia, cit., pag. 80.

30. Ivi, pag. 136.

31. Ibidem.

32. Ivi, pag. 140.

33. Sempre Anna Capelli riporta la testimonianza di uno studioso, Giovanni Vegezzi, che, come molti suoi colleghi del tempo, non consideravano abbastanza severe le condizioni di detenzione in quanto scriveva che "il delinquente fu trattato come un infelice fuorviato dalla forza d'inevitabili circostanze; quindi ebbe larghezze di vitto, comodità di riposo; gli si fornì lavoro con facilità d'impiegarne i proventi a procacciarsi cibi squisiti, e bevande spiritose; in una parola, eccetto la privazione della libertà, i detenuti di quella classe, fra cui si recluta il personale delle carceri, trovarono una migliore, più salubre e più confortevole vita", per cui "decrescendo il rigore delle leggi e la severità della disciplina carceraria crebbe a dismisura la somma dei delitti". Ivi, pag. 139.

34. La Capelli riporta il pensiero di Cattaneo, per il quale i delitti "non sono al tutto solitarie eruzioni nequitose o traviate nature; ma, più frequenti in certi tempi e certi luoghi, prendono fomento nello stato intimo della società". Ivi, pag. 137.

35. La pena di morte venne abolita in Toscana per decreto granducale dell'11 ottobre 1847.

36. Anna. Capelli, La buona compagnia, Milano, cit, pag. 308.

37. L'invio dei primi 16 corrigendi nell'isola venne disposto con la Sovrana Risoluzione del 9 aprile 1858.

38. Per Peri i vantaggi sperati derivanti dall'introduzione della colonia sono lo "sgravio dei penitenziari e un grande beneficio della pubblica finanza e della morale rigenerazione dei detenuti", Risposta del cav. Carlo Peri all'opuscolo del dott. Carlo Morelli, in "Saggio di studi igienici", Firenze, 1860, pp. 41 ss.

39. In particolare negli art. 15, 16, 17 del Codice Penale Toscano del 1853 è prevista la segregazione continua per i condannati all'ergastolo, alla casa di forza e al carcere.

40. Carlo Peri, op. cit., pp. 41 ss. "Una transizione fra la pena e la libertà per i condannati a qualunque specie di pena, che lo meritino per buona condotta, ed abbiano consumata almeno la metà della pena", Lettera del 19 dicembre 1860, riportata in Anna Capelli, Il carcere degli intellettuali. Lettere di italiani a Karl Mittermaier, cit.

41. Nel 1862 una Commissione di esperti composta di undici membri (tra cui lo stesso Peri) venne incaricata dal governo di elaborare un progetto di riforma penitenziaria, ed in particolare fu molto dibattuta la questione se le colonie penali agricole dovessero comparire come grado nella scala penale ovvero se fosse consigliato introdurle quale modo di commutazione di pena per i condannati risultati meritevoli di ciò. Alla fine nella commissione prevalse questa seconda ipotesi, soprattutto per cause ricercabili nella avversione al sistema misto di carcerazione (segregazione notturna e lavoro diurno in comune) adottato nell'isola di Pianosa, e per ipotizzati maggiori pericoli di evasioni rispetto agli "stabilimenti ordinari". Vedi: Antonio Santoriello, opera cit., cit. pag. 66.

42. Peri era talmente convinto degli effetti positivi dell'isolamento che per lui era "una verità constatata che i condannati nei primi giorni della segregazione rimangono assaliti da palese sbigottimento, in specie gli attuali che essendo tutti recidivi hanno luogo di fare il confronto fra il rigore della separazione e gli abusi cui dava luogo la comunanza". Inoltre Peri sosteneva che grazie al prolungato isolamento "il raccoglimento rende loro accette e fruttifere le conferenze coi direttori e coi visitatori officiosi; la solitudine invoglia alla lettura quelli che vi sono esercitati, e prepara e dispone alla istruzione quelli che non la possiedono; la vita metodica li tiene più sani; la mancanza di cattivi contatti li fa più subordinati e tranquilli; e per ultimo il lavoro diviene per essi una necessità, un sollievo, anziché una molestia, perlopiù la di loro opera si fa più proficua all'amministrazione, e più lucrosa nel loro stesso interesse". Pensieri riportati da Anna Capelli, Il carcere degli intellettuali. Lettere di italiani a Karl Mittermaier, cit.

43. Vedi: Anna Capelli, La buona compagnia, cit.

44. In particolare Carlo Morelli, Saggio di studi igienici sul regime penale della segregazione fra i reclusi, o della buona compagnia, introdotto e sperimentato in Toscana fin dall'anno 1849, Firenze, 1859. Osserva Morelli che una grande maggioranza dei reclusi era colpita da una "precoce senilità" accompagnata da una "caduta e vacillamento dei denti" ed inoltre "facile e precoce canizie".

45. Prof. Carlo Morelli, Le carceri penitenziarie della Toscana: studi igienici, Firenze, Tipografia di Nicola Fabbrini, 1860.

46. Ivi, pag. 70-72.

47. Ivi, pag. 88-93.

48. La frase è di Anna Capelli, "La buona compagnia", op. cit., pag. 329.

49. Ferdinando Fonseca, Delle condizioni agricole della Pianosa e dell'ordinamento delle colonie agricole penali in Italia, Firenze, tip. Carnesecchi, 1880.

50. Martino Beltrani Scalia, Sul governo e sulla riforma delle carceri in Italia, Torino, Tip. G. Favale e Comp., 1867; Paolo Onorato Vigliani, Progetto del nuovo Codice penale per il Regno d'Italia presentato al Senato il 24 febbraio 1874/ da O. Vigliani/ preceduto dalla relazione del Ministro, Milano, Fratelli Treves, 1874.

51. Adolfo De Foresta, La deportazione, Roma, Civitelli, 1872.

52. Diceva Garelli: "[...] finché l'Italia nostra avrà una delle sue cento isole incolte non vi dovrebbero essere altri luoghi di pena, altri lavori forzati fuorché gli agrari", Vincenzo Garelli, Delle colonie penali nell'arcipelago toscano, Genova, Tipografia del r. I. de' Sordo-Muti, 1865, pag.16.

53. Garelli era un convinto sostenitore della colonia penale, perché a suo modo di vedere, anche considerando la provenienza prevalentemente agricola dei condannati, portava ad una serie di vantaggi in quanto "si tolgono costoro dalle luridi prigioni e dai penitenziali, si restituiscono all'aria pura e ai lavori che furono e debbono ridiventare loro familiari, avremo, così adoperando, un mezzo più facile e più economico di correggerli". Garelli, op. cit.

54. Angelo Biagio Biamonti, Cenni storici, geologici e Botanici sull'isola di Gorgona nell'arcipelago toscano, Livorno, Tip. e Lit. di Gius. Meucci, 1873.

55. C. P. Volpini, Una lettera sulla Gorgona, Tip. e Lit. di Gius. Meucci, 1875.

56. Garelli, op. cit., pag. 719.

57. Interessantissimo è a tal proposito la spiegazione data dalle parole dell'illustre economista francese Baudrillart, riportate da Carfora, laddove viene fatto un confronto tra il lavoro libero e quello in condizione di schiavitù (comprendendo in quest'ultimo il lavoro coatto; il coatto anzi si trova in una situazione d'inferiorità anche verso lo schiavo perché lo schiavo è abituato al lavoro "colla docilità belluina di una bestia da soma", mentre il coatto al contrario è tutt'altro che avvezzo alle fatiche): "Il lavoro dello schiavo non vale la metà del lavoro dell'uomo libero. E la ragione è chiara: ciò che costituisce l'irrimediabile inferiorità del lavoro schiavo in confronto del lavoro libero è che dei due motori, che la natura ha messo in opera per farci lavorare, il timore e la speranza, la schiavitù non ne impiega che uno solo, il timore, e non ne trae neppure tutto quel profitto che sa cavarne la libertà responsabile di se medesima. Il timore delle pene corporali, quest'unico spediente del padrone di fronte allo schiavo inerte e ribelle, non serve ad altro che ad evitare l'eccesso della pigrizia e della negligenza, ma è incapace di ispirare una feconda energia. La preveggenza del libero lavoratore, che teme per sé e per i suoi, è bene altrimenti efficace; e se si aggiunge che egli ha ragione di sperare il miglioramento della sua condizione dal lavoro e dal risparmio, che allo schiavo o è vietato, o è concesso sotto forma di peculio in limiti ristrettissimi, si comprenderà di leggieri perché il lavoro libero sia stimato molto più produttivo del lavoro schiavo". Francesco Carfora, Colonia Penale, cit.

58. Sempre il Carfora, sull'argomento: "Né si dica che è cosa crudele esporre i condannati a quei pericoli, cui si rifiutano andare incontro i liberi operai, perché in questo, almeno per una volta, noi ci troviamo d'accordo coi positivisti nell'avversare certe morbose sentimentalità, che vorrebbero mettere alla pari i delinquenti e gli uomini onesti, perché anche noi riteniamo (...) che se per domare la natura ribelle, che contende agli uomini il trarre partito di certi tesori, da essa gelosamente custoditi, occorre un'ecatombe umana, molto meglio che questa sia di delinquenti che di onesti lavoratori, e che questi, divenuti pionieri di civiltà, si redimano colla morte di fronte alla umanità, che hanno così crudelmente offesa". Francesco Carfora, Colonia Penale, cit.

59. Ivi, pag. 721.

60. Le tabelle sono riportate da Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pp. 712.

61. Regio decreto del 6 gennaio 1887, n. 4318.

62. Idem art. 45, il quale aggiunge che dopo la sveglia i condannati "attenderanno in buon ordine alle pratiche di polizia prescritte attendendo la chiamata al lavoro".

63. Idem art. 46.

64. Eccetto che durante le giornate più lunge e più calde dell'estate quando il direttore potrà concedere ai condannati che svolgono dei lavori particolarmente faticosi una sosta di mezz'ora durante il pomeriggio. Idem Art 473. I condannati che lavorano all'aperto saranno equipaggiati anche di un cappello di paglia, il quale sarà ricoperto di una incerata gialla durante le stagioni più fredde (art. 513).

65. Idem art. 472.

66. Idem art. 48.

67. Idem art. 49.

68. Idem art. 50.

69. Idem art. 532. Anche in questo caso, il regolamento concede una certa flessibilità, in quanto a seconda delle circostanze locali e delle stagioni, a seguito di proposta del direttore e previa approvazione del Ministero, tali orari possono essere cambiati. (art. 533).

70. Per delle notizie storiche riguardanti l'Isola di Pianosa vedi: Fausto A. Foresi, Il porto di Pianosa. Dall'epoca romana a oggi, Il Tagliamare, 1999.

71. Pianosa in quel periodo fu la terra dove venne esiliato nel 7 D.C. il nipote di Ottaviano Augusto, Postumo Agrippa, fatto uccidere nel 14 D.C. su consiglio di Livia moglie dello stesso imperatore. Il nome "Agrippa" non è scomparso da Pianosa, in quanto oltre ai resti della villa romana, sono tutt'oggi presti delle terme denominate "Bagno di Agrippa", oltre che una diramazione del carcere, l'Agrippa appunto, famosa per avervi ospitato durante gli anni settanta i detenuti politici.

72. Fausto A. Foresi, opera cit., pag. 20.

73. Emanuele Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Tipografie A. Tofani e G. Mazzoni, 1833-1845, voce "Isola di Pianosa". In particolare erano gli abitanti di Marciana e di Campo, i quali "da molti anni solevano dalla loro Isola dell'Elba trasferirsi alla Pianosa nelle stagioni a tale oggetto più opportune". Continua Repetti dicendo che "cotesta specie di lavoranti avventurieri andava scegliendo qua e la delle piazzole di terreno capace alla sementa, quindi zappata la terra, e di rado adoperando l'aratro, vi spargevano sopra il grano nella quantità media di circa cento sacca (...). Dopo raccolta la messe si lasciavano quei campi senza alcun altra coltivazione per l'anno susseguente, e la si trasportavano dall'Elba a pascere i bestiami, i quali consistevano nella maggior parte in capre e pecore, in un minor numero di bovi e cavalli, che nel totale ascendevano a circa 1600 capi".

74. Il brano riportato è quello di Somier, L'isola di Pianosa nel Mar Tirreno e la sua flora, in "Rivista Geografica italiana e Bollettino della Società di studi geografici e coloniali in Firenze", Roma, Società Editrice Dante Alighieri 1909, pag. 538: "[...] Nel 1901-2 trovai ancora una di quelle caverne naturali, che apresi vicino all'ingresso del porto, abitata come poteva esserlo all'epoca della pietra. I suoi inquilini erano dei pescatori napoletani i quali venivano ad esercitare il loro mestiere a Pianosa, dimorandovi anni interi senza rimpatriare, e non avendo altra dimora che quell'antro e la loro barca scoperta. Ora però i pescatori napoletani non ci sono più, e la caverna è stata trasformata in magazzino [...]".

75. Ludovico Dworzak, l'organizzazione degli stabilimenti penitenziari agricoli, in "Rivista di diritto penitenziario", 1937, è del parere che "la scelta del sito influisca invece non poco sul mantenimento della disciplina della colonia. In particolar modo occorre evitare quanto possibile che la situazione dei terreni destinati ad una colonia penale agricola dia luogo a contatti con la popolazione libera (passaggi, strade pubbliche, ecc.) perché tale promiscuità conduce ai risultati più funesti. Analoghi motivi si oppongono all'impianto di colonie penali agricole in prossimità di grandi centri urbani (...). Sarà anche da evitare che i carcerati vengano inviati in prossimità dei luoghi da cui provengono. Tale prossimità distrae il condannato dal lavoro nello stabilimento e rende difficoltosa la sua rigenerazione psichica, mentre dall'altro lato gli è costante incitamento a clandestini contatti coi propri familiari e conoscenti".

76. Del tutto diverso fu invece per la vicina Capraia, dove era presente un paese che contava poco meno di 800 abitanti. È opportuno aggiungere che la richiesta di impiantare sull'isola uno stabilimento penale avvenne proprio dalle autorità locali, le quali credettero così di portare qualche beneficio economico agli abitanti, soprattutto sotto forma di nuove risorse finanziarie (per esempio dei proventi da dazio di consumo e di manodopera a basso costo per lavori edili ed agricoli); tutto questo si rese necessario per cercare di arginare la massiccia emigrazione che Capraia conobbe in quegli anni, soprattutto a causa della chiusura della locale Manifattura Tabacchi (regio decreto 30 giugno 1867, n. 3767) che rappresentava una delle principali attività economiche dell'isola, oltre che l'abolizione nel 1869 del regime di "porto franco" (regio decreto legge 6 dicembre 1868, n. 4736). Come se non bastasse le colture agricole vennero infestate nel 1850 da un fungo parassita, la crittogama, la cui diffusione portò all'abbandono di numerose attività agricole, che determinarono ulteriori motivi di emigrazione. In realtà le cose poi non andarono come sperato; la colonia, infatti, non portò alcuno dei benefici previsti, anzi fin da subito si creò una grande conflittualità tra Comune e la direzione della colonia, soprattutto a causa della inconciliabilità degli interesse portati avanti dalle due istituzioni e l'estraneità e diffidenza si mantenne sostanzialmente sino alla chiusura del carcere nel 1986 (D.M. 27-10-1986). Cfr. Fausto Brizi, L'isola ritrovata. Comune di Capraia isola, provincia di Genova (1861 - 1925), Genova, Fratelli Frilli Editori, 2005. Per la storia di Capraia vedi Alberto Riparbelli, Aegilon. Storia dell'Isola di Capraia dalle origini ai giorni nostri, Firenze [s.n.], 1973.

77. Antonio Santoriello, L'isola di Pianosa e la nascita delle colonie agricole penali nell'Italia liberale (1860/1889), in L. Martone (a cura di), opera citata, pag. 82.

78. Fausto A. Foresi, opera cit., pag. 79.

79. Leopoldo Ponticelli, La Pianosa: lettera del Comm. Dott. Leopoldo Ponticelli alla direzione della rivista di discipline carcerarie, Civitavecchia, Tipografia del bagno penale, 1880, pag. 17.

80. Francesco Carfora, Colonia Penale, in "Digesto Italiano", Torino, Unione tipografico editrice, vol. 7, 1897-1902, pp. 709.

81. Ludovico Dworzak, l'organizzazione degli stabilimenti penitenziari agricoli, cit., pag. 238.

82. Folco Giusti, Un'isola da amare. Capraia: storie di uomini e di animali, Roma, Le Opere e i Giorni, 2004, pag. 131. L'autore racconta l'incontro che ebbe con un detenuto - presumibilmente "sconsegnato" - all'Isola di Gorgona. Il soggetto in questione è un ergastolano al quale è stato assegnato una piccola casa, praticamente abbandonata, e un piccolo appezzamento di terreno per coltivare alcuni prodotti agricoli per il proprio fabbisogno e per la mensa del carcere, il quale riceve la "visita" degli agenti ogni due o tre giorni.

83. Francesco Carfora, opera cit., pag. 710, "Quivi le grandiose cucine e l'infermeria capacissima per ogni evento, l'archivio e la biblioteca. Poco distante la chiesa, a ridosso una magnifica lavanderia provvista di un'ampia cisterna, che offre acqua a profusione; di fronte un grandioso edifizio per uso cantina, che può contenere recipienti sino alla portata di 5000 ettolitri, con mura, sempre in tufo, dello spessore di metri 1,20, essendo il vino il prodotto migliore e più sicuro dell'isola, che può giungere a dare un reddito di circa lire 500.000. Li appresso, il macello con freschissimi ambienti per conservare le carni, e non lungi i magazzini ripieni di ogni sorta di strumenti necessari alla Colonia, e depositi di prodotti".

84. Filippo Saporito, L'isola di Pianosa e i suoi stabilimenti penitenziari, in "Rivista di diritto penitenziario", 1930, pag. 965.

85. Ludovico Dworzak, L'organizzazione degli stabilimenti penitenziari agricoli, cit., 1937. Egli disapprova la costruzione di stabilimenti troppo piccoli, in quanto non sarebbero vantaggiosi dal punto di vista economico, ma è contrario anche alla creazione "intere città penitenziarie", perché secondo lui esse renderebbero "impossibile l'individualizzazione, mut[erebbero] il lavoro carcerario in lavoro di fabbrica, privo di elementi di moralizzazione".

86. Francesco Carfora, opera cit., riporta che "sovra un totale di circa mille ettari, più di un quarto è incoltivabile od a bosco; del resto metà è a vigna (sistema francese) o a campo, e l'altra metà va a mano a mano dissodandosi, e l'opera è già a buon porto, non ostante la difficoltà del lavoro che apparisce evidente quando si pensi che la potenza dello stato arativo varia da 10, 15, 20 centimetri al più di profondità, ed eccezionalmente, in qualche ristrettissima zona, di mezzo metro o giù di lì; onde si dovette procedere ad un enorme lavoro di scasso e dissodamento per ottenere tanta superficie produttiva, a cui bisogna aggiungere l'opera assidua e laboriosa di trasporto del materiale, della cinta della macchia, della formazione delle vie, che percorrono diverse decine di chilometri, e sono benissimo tracciate e mantenute, e la perforazione di varie cisterne e pozzi, che dovettero farsi profondissimi".

87. Filippo Saporito, opera cit., pag. 966.

88. Ibidem.

89. Antonio Santoriello, opera cit., riporta, a titolo di esempio, che i castighi furono 9232 nel carcere di Alessandria, che la media nazionale era di 5500, ma solamente 337 a Pianosa, 120 a Gorgona e 215 a Capraia.

90. Ivi, pag. 81. In nota Santoriello riporta che nel volume del Ministero dell'Interno, Direzione generale delle carceri, Statistica delle case di pena, carceri giudiziarie, case di custodia per minorenni e istituti per il ricovero forzato, anno 1866 e 1867, vol. II, Firenze, 1870, p. XIX, il relatore commenta che "la mortalità è in proporzioni così piccole da essere inferiore a quelle delle popolazioni libere delle province più sane del Regno".

91. Carfora, opera cit., pag. 711. In particolare nel 1896 ci fu "un delitto nello stabilimento di Bitti (delitto contro le persone), uno in quello di Capraia (delitto contro le persone), e quattro in quello di Castiadas (due delitti contro le persone, uno contro l'Amministrazione della giustizia e uno contro la proprietà)", mentre l'anno successivo avvennero due delitti "nello stabilimento di Capraia (uno contro l'Amministrazione della giustizia ed uno contro la proprietà), tre in quello di Castiadas (due contro le persone ed uno contro la proprietà), ed uno in quello di Pianosa (contro la proprietà)".

92. Ibidem. Questi dati sono importanti se "si tenga presente che nelle case di reclusione al 1º gennaio 1896 si trovano 21394 condannati, e al 1º gennaio 1897 se ne trovavano 19738 e nelle case intermedie se ne trovavano 3193 al 1º gennaio 1896 e 3030 al 1º gennaio 1897, apparisce evidente che nelle prime il numero delle infrazioni oltrepassava quello dei condannati del 25 per cento circa, mentre nelle seconde era inferiore a questo numero del 50 per cento circa".

93. Ibid.

94. Ibid.

95. Ibid.

96. Ludovico Dworzak, l'organizzazione degli stabilimenti penitenziari agricoli, cit., pag. 238.

97. Ivi, pag. 242. Per lo studioso, il lavoro agricolo affinché possa portare a risultati soddisfacenti, oltre al requisito della corrispondenza con le attitudini personali del condannato, deve avere anche altre caratteristiche. In particolare "bisogna evitare di adibire i medesimi individui costantemente ed a lungo a lavori monotoni, quali ad es. gli sterri. Occorre perciò stabilire un turno per cui tutti i carcerati vengono occupati in lavori che sollevino lo spirito, che sveglino anche in individui male avvezzi al lavoro l'interesse e talvolta anche la proclività ad un dato genere di occupazione. Altrimenti si verificherà facilmente nel detenuto uno stato di depressione che lo rinsalda nel suo spirito antisociale, gli fa ricordare le vicende della sua vita antecedente e, non di rado, alimenta perfino le sue tendenze delittuose. È un errore credere che il solo permanere all'aria libera, ed il contatto con la natura bastino a provocare una rigenerazione morale e sociale. Non solo è vero che il lavoro agricolo può essere salutare solo ad individui fisicamente e mentalmente ad esso adatti, ma è vero anche che questi individui non ne ritrarranno vantaggio se il genere del lavoro loro assegnato non risponderà alla loro specifica mentalità". Infine lo studioso conclude dicendo che sarebbe opportuno che "i condannati adibiti al dissodamento della terra, al prosciugamento ecc., cioè a lavori di pura fatica, passano poi, dopo qualche tempo, all'opera agricola di coltura del medesimo terreno da loro predisposto in modo da godere essi stessi del frutto dei loro sforzi precedenti", in quanto è essenziale ribadire che "il lavoratore non può essere una rotella unanime di un meccanismo, un essere senza pensiero né volontà, un fantoccio; egli deve essere parte viva di una data organizzazione produttiva, consapevole che i risultati positivi o negativi dell'azienda dipendono, in certa misura, non soltanto dal suo lavoro puramente fisico, ma anche dalla sua forza creatrice, dal lavoro intelligente. Ciò vale per ogni genere di lavoro carcerario e naturalmente anche per quello negli stabilimenti agricoli penali".

98. Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pp. 719.

99. Vittorio Lollini, L'ammonizione e il domicilio coatto, Bologna, Fratelli Treves, 1882, pag. 129. "Se v'è taluno che nega all'ammonizione il carattere di pena, non v'è alcuno, ch'io sappia, che tale carattere neghi al domicilio coatto".

100. Secondo Carfora alle colonie per coatti viene dato impropriamente il nome di colonia in quanto nel significato di questo termine "si comprende quello di un lavoro in comune, esercitato secondo certe norme e certe discipline, ed in guisa da trasformare il luogo, in cui si esercita, o per lo meno da imprimere in esso tracce permanenti", ed invece i coatti, "pur essendo costretti a vivere in un luogo comune segregati dalla società, e godendo in esso di una certa libertà, che importa anche quella di dedicarsi al lavoro che preferiscono per proprio conto ed a proprio esclusivo vantaggio, non sono costretti a dedicarsi ad un determinato lavoro per conto dello Stato o per appalto; né potrebbero essere costretti; perché, quantunque, per ragioni di polizia preventiva, si apporti una certa limitazione alla loro libertà, in quanto ciò è necessario a garantire la società da un possibile pericolo, e non può loro consentirsi di abbandonarsi all'ozio, essi non sono già condannati, che si possono obbligare ad un lavoro determinato, che conferirebbe al loro allontanamento dalla società un carattere di pena, che non ha, né può avere". Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pag. 715.

101. Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pp. 718 ss.

102. Legge 15 agosto 1863 n. 1409. "Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette".

103. Idem, art. 5.

104. Art. 447, libro II, titolo VIII, legge 20 novembre 1859 n. 3783.

105. Regio decreto 25 agosto 1863, n. 1424."regolamento per l'esecuzione della legge sul brigantaggio e pel trasporto degl'individui soggetti a domicilio coatto".

106. Idem art. 12.

107. Idem art. 13.

108. Legge 20 marzo 1865 n.2248.

109. Idem art. 70.

110. Idem art. 70 e 922. Molti si opposero e criticarono questo sistema, per cui, come riporta Luciano Martone, op. cit., venne scritto "Una denunzia segreta; una procedura occulta, timida della luce, schiva di ogni controllo; indi la relegazione in un'isola, fra malvagia compagnia di gente o bestiale o imbestialita dall'iniquia condanna; cinti dal disprezzo e della diffidenza degli isolani; sommessi alle più odiose vessazioni, muniti di sussidi irrisori, con l'obbligo di procurarsi un lavoro troppo spesso impossibile; cose, non uomini, nella sconfinata balìa di mercenari aguzzini. Tale sinora il domicilio coatto. Se umanità e dottrina lo ripudiano, l'esperienza, ormai lunga, decisamente lo condanna", tratto da Il domicilio coatto. Appello del Comitato Milanese, in "Critica Sociale", VII (1897), n. 15, p. 226.

111. Idem art. 70.

112. Art. 38 del Regolamento 10 dicembre 1881.

113. L'onorevole Nocito nel 1877 rivolgendosi al Ministro dell'Interno considerava che i coatti nelle isole sono logorati dall'ozio, sono privi "di ogni cosa, sono laceri, nudi, disperati ed affamati [...] rassomigliano ad un antro di bestie feroci, che, non potendo vivere insieme, si mordono a vicenda e si dilaniano". Tratto da Mario Da Passano (a cura di), op. cit. Un altro intervento critico riguardo al domicilio coatto fu quello dell'Onorevole Rubichi: "Quella nota d'infamia la quale segue l'ammonito dovunque, la quale, se operaio, gli chiude la porta dell'officina, e se appartiene alle classi più elevate, lo mette fuori dal consorzio della gente onesta; quella nota d'infamia che impedisce ad ogni persona che si rispetti di avvicinarlo e di ricambiarne il saluto; quella nota d'infamia che lo mette sotto il pugno di ferro degli agenti della pubblica sicurezza, e ad ogni piè sospinto gli apre la via del carcere non è una pena?" in A. P. Camera dei Deputati, Discussioni, Legislatura XVI, tornata del 16 novembre 1888, On. Rubichi.

114. Emblematico a tal proposito è il "Canto dei coatti", "Addio compagni addio/sorelle spose madri/la società dei ladri/ci ha fatto relegar/sepolti in riva al mar. Siamo coatti e baldi/per l'isola partiamo/e non ci vergognamo/perché questo soffrir/è sacro all'avvenir." P. Gori, 1895, cit. in Zagaglia [L. De Fazio], I coatti politici in Italia, Roma, Tip. Edit. Sociale, 1895.

115. Il domicilio coatto venne sostituito dal confino con il regio decreto 6 novembre 1926, n. 1848 e il regio decreto 18 giugno 1931, n. 1773.

116. Il delegato Eugenio Pedrotti, direttore della colonia di Favignana affermava addirittura che: "Due sono le classi più pericolose dei coatti: gli affiliati alla camorra ed i socialisti" che egli diceva meno potenti dei camorristi, "perché setta nuova, ma per altro più a temersi, perché possono far proseliti nelle popolazioni; e perché li fanno certamente fra i coatti, che, versanti in istato di eccezionale esasperazione d'animo, trovano disposti ad accettare le novità comunque siano". L'ammonizione e il domicilio coatto, op. cit.

117. Vedi: L'ammonizione e il domicilio coatto, op. cit., pag. 137.

118. Secondo Lino Ferriani le colonie sono "luoghi di corruzione, centri di degenerazione, di rivolte, di prepotenze feroci, scuole di delitto per minorenni, ambienti dove l'odio si matura, si affina, si accumula per rovesciarsi poi bollente e veemente sulla società, quando a questa farà ritorno il coatto". "Giornale di Sicilia", consultabile in "Rivista Discipline Carcerarie", Firenze, Tip. Cenniniana, 1878.

119. Si tratta del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. (pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 257 del 8 novembre 1926), il quale venne modificato col regio decreto 18 giugno 1931, n. 1773, ma le norme riguardanti il confino di polizia rimasero sostanzialmente immutate.

120. Vedi: Alessandra Pagano, Il confino politico a Lipari, Franco Angeli, Milano, 2003.

121. Celso Ghini, Adriano Dal Pont, Gli antifascisti al confino, Editori Riuniti, Roma, 1971.

122. Ivi, pag. 46.

123. "L'ammonizione veniva comminata: ai 'diffamati' per i delitti contro la personalità dello Stato e contro l'ordine pubblico; per minaccia, violenza o resistenza alla pubblica autorità; per il delitto di strage; per i delitti di commercio clandestino o fraudolento di sostanze stupefacenti o di agevolazione dolosa dell'uso di stupefacenti; per i delitti di falsità in monete e in carte di pubblico credito; per i delitti di sfruttamento della prostituzione o di tratta di donne o di minori, per istigazione alla prostituzione o favoreggiamento di corruzione di minorenni; per i delitti contro l'integrità della stirpe commessi da persone esercenti l'arte sanitaria; per i delitti non colposi di omicidio, incendio, lesione personale; per i delitti di furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione e rapina, truffa, circonvenzione di persone incapaci; per la contravvenzione di abuso di sostanze stupefacenti; quando, per uno qualsiasi di questi reati, la persona infamata fosse stata sottoposta a procedimento penale terminato con sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove". Ivi, pag. 39.

124. Come riportano Celso Ghini e Adriano Dal Pont, op. cit., pag. 35, "dei cinque componenti di questa specie di tribunale, tre rappresentavano il potere esecutivo, - tra questi il Questore era contemporaneamente giudice e accusatore, dato che la commissione procedeva sulla base delle denuncie da lui presentate, - il quarto era l'esponente del partito fascista, e soltanto l'ultimo era un magistrato di carriera. La composizione delle commissioni era tale da garantire una sentenza conforme agli ordini di polizia".

125. L'art. 188 del Testo unico prevedeva che "contro l'ordinanza di assegnazione è ammesso ricorso ad una commissione d'appello, che risiede presso il Ministero dell'Interno, ed è composta dal sottosegretario di Stato al Ministero dell'Interno, che la convoca e la presiede, dall'avvocato generale presso la Corte d'Appello di Roma, dal capo della Polizia, da un ufficiale generale dell'Arma dei Reali Carabinieri e da un ufficiale generale della milizia volontaria per la sicurezza nazionale (...)".

126. L'art. 193 del Testo unico disponeva che "il confinato non può allontanarsi dalla colonia o dal Comune assegnatogli. In caso di contravvenzione, il confinato è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno, e il tempo trascorso in espiazione di pena non è computato in quello che rimane di confino".

127. La Carta di permanenza era una specie di tesserino che il confinato doveva tenere con sé al posto della carta d'identità (che veniva ritirata), la quale conteneva ulteriori prescrizioni rispetto a quelle previste nel testo unico (art. 189). Celso Ghini, Adriano Dal Pont, op. cit., pag. 47. "Alcune prescrizioni rispecchiavano con particolare evidenza l'intelligenza burocratica di chi le aveva formulate: c'era la proibizione di parlare di politica e il divieto di usare lingue straniere (...) [e] c'era il rischio di essere denunciati anche a usare il dialetto se il milite o il poliziotto che non avevano capito la conversazione si mettevano in testa d'aver sentito parlare in inglese o in turco! Vi era poi il divieto di tenere presso di sé manoscritti non vidimati dalla censura [...]". Infine, era stabilito che "l'assegnato al confino deve (...) uniformarsi a tutte le altre prescrizioni che l'autorità di pubblica sicurezza riterrà di fare" (art. 189).

128. Celso Ghini, Adriano Dal Pont, op. cit., pag. 51. "Né all'Archivio centrale di Stato né presso il Ministero dell'Interno esiste (...) un elenco generale dei confinati; all'Archivio centrale di Stato vi sono oltre 15.000 fascicoli personali di perseguitati antifascisti e al Ministero dell'Interno ve ne sono molti di più".

129. Per un elenco delle località adibite a confino vedi Celso Ghini, Adriano Dal Pont, op. cit., pag.387. Spesso i Comuni di terraferma ospitavano anche un solo confinato, che ovviamente aveva scarse possibilità di vita collettiva. La disciplina e la sorveglianza erano affidate ai carabinieri locali, e le condizioni di vita erano in generale meno dure che nelle colonie. Ivi, pag. 73. Quest'ultime dipendevano "da un direttore responsabile, funzionario di polizia col grado di commissario, e da un vice direttore. La direzione disponeva di un apparato burocratico per i vari servizi: amministrazione, trasmissione di atti e pratiche dal Ministero ai confinati, e viceversa, censura della corrispondenza in arrivo e in partenza, controllo dei libri e dei giornali. Vi era, inoltre, tutto l'apparato poliziesco e di vigilanza e sorveglianza per impedire le fughe e il passaggio clandestino di notizie dalla colonia all'esterno e viceversa. Infine, la milizia fascista, che aveva un proprio comando autonomo, assicurava la vigilanza sui limiti di confino e fungeva da corpo armato di repressione. I Carabinieri svolgevano la loro normale attività nei confronti della popolazione civile, fungendo da polizia giudiziaria, provvedevano alla traduzione dei confinati in stato di arresto e, in caso di bisogno, erano chiamati di rincalzo alla polizia e alla milizia fascista per il mantenimento dell'ordine".

130. Guido Neppi Modona, La parabola storica delle colonie penali, pag.13, in Mario Da Passano (a cura di), op. cit.

131. Franca Mele, Un nuovo cielo, una nuova terra. Le discussioni sulla deportazione nel Regno d'Italia dall'Unità al codice Zanardelli, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", Bologna, Il mulino, 1995.

132. In realtà durante il periodo fascista, l'art. 22 c.p., concedeva al Ministero di grazia e giustizia la facoltà di disporre che l'esecuzione delle pene avesse luogo in una colonia o in un altro possedimento d'oltremare; come si vede non si tratta di una vera pena alla deportazione, come precisa del resto lo stesso guardasigilli in una relazione riguardante tale articolo del codice penale, riportata da Giovanni Novelli, Colonia Penale, "Nuovo Digesto Italiano", Torino, UTET, vol. 3, 1938. "Il progetto attribuisce al Ministero di grazia e giustizia la facoltà di disporre che la pena detentiva perpetua venga eseguita in una colonia o in altro possedimento d'oltremare; il che può essere consigliato da ragioni attinenti a scopi di esemplarità e di maggiore sicurezza sociale. Data l'indole del provvedimento, che innegabilmente importa un maggiore rigore della pena, l'ammissione del lavoro all'aperto può essere disposta anche prima del termine ordinario. Non occorre avvertire che l'esecuzione della pena all'ergastolo, la quale si verifichi in un luogo piuttosto che in un altro, non opera la trasformazione di essa in altra specie di pena, ad esempio in quella della deportazione o della relegazione e perciò le comuni riserve e censure, che sogliono farsi per quest'ultime, non avrebbero fondamento alcuno nel caso accennato. Naturalmente le norme penitenziarie provvederanno ad escludere che possa verificarsi una promiscuità pericolosa fra gli ergastolani tradotti in colonia e la popolazione indigena e libera della colonia".

133. Cfr. G. Emilio Cerruti, Della deportazione come base fondamentale delle riforme carcerarie e della colonizzazione italiana: lettera al cav. Tancredi Canonico, Torino, stab. G. Civelli, 1872.

134. Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pag. 722.

135. Pietro Nocito, Il diritto penale e le colonie agricole, Siena, Stab. tip. di A. Mucci, 1868.

136. Angelo Biagio Biamonti, Sulle colonie agricole penali in Italia, in "Rivista di discipline carcerarie", Firenze, Tip. Cenniniana 1878.

137. F. Mele, Un nuovo cielo, una nuova terra, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", cit., pag. 382.

138. Esempi: progetto "Mancini" o "Pisanelli" nel 1863, progetto "De Falco" del 1873, progetto "Vigliani" del 1874, progetto "Mancini" del 1876.

139. F. Mele, Un nuovo cielo, una nuova terra, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", cit., pag. 400.

140. Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pag. 715.

141. Alfonso Aroca, L'oasi di Uou el Chebir, in "Rivista di diritto penitenziario", Roma, Direzione Gen. Per Gli Istituti di Prevenzione e di Pena, II, 1942.

142. Diceva Terruzzi, nel suo volume "Cirenaica Verde": "Trovai già bene avviate, alla fine del 1926, due colonie penali agricole alla Berka e a Coefia, sapientemente organizzate dall'infaticabile dott. Stagni, direttore dei servizi carcerari, che vi prodigava tutta la sua fervorosa attività. Queste due colonie, che erano ad un tempo un mezzo mirabile per educare al lavoro i detenuti indigeni e una efficacissima scuola di agricoltura pratica, ebbero da me, subito, il più favorevole interessamento. Non mi parve però che dovessero considerarsi come una istituzione permanente da sfruttare comunque per il reddito che potessero eventualmente dare, ma volli che fossero considerate come un mezzo per lo sviluppo della piccola colonizzazione intorno alla città di Bengasi. Pensavo, infatti che l'impiego, naturalmente molto economico, della mano d'opera carceraria, dovesse andare a favore della colonizzazione, e fissai il criterio che i detenuti dovessero essere impiegati al dissodamento e alla organizzazione di piccole aziende, da affidare poi, a non forte prezzo, a chi dimostrasse di essere in grado di farle prosperare, traendo vantaggio dal fatto di non dovere iniziare il lavoro dal nudo terreno, ma di doverlo soltanto sviluppare dopo che il compito più ingrato, non redditizio e spesso aleatorio, della preparazione, era già compiuto [...]. D'altra parte il Governo avrà, con il lavoro salutare dei detenuti indigeni, anticipato materialmente quei sussidi e quegli aiuti che normalmente dà per la colonizzazione. Da un'opera altamente educatrice e civilizzatrice sarà quindi ricavato un utile pratico per la economia della Cirenaica. La cosa è ora avviata ed io spero che possa avere tutto quello sviluppo, che io avrei voluto darle, con mezzi maggiori (...), così da dare un rapido e pratico impulso ad una produzione agraria, che direttamente influirebbe a migliorare le condizioni locali del piccolo commercio per i bisogni quotidiani delle famiglie italiane", discorso riportato da Tito Cicinelli, Creazione di colonie agricole per connazionali in Cirenaica, in "Rivista di diritto penitenziario", Roma, Direzione Gen. Per Gli Istituti di Prevenzione e di Pena 1932.

143. Tito Cicinelli, Creazione di colonie agricole per connazionali in Cirenaica, in "Rivista di diritto penitenziario", Roma, Direzione Gen. Per Gli Istituti di Prevenzione e di Pena 1932.

144. Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pag. 688. L'unico esempio del genere venne fondato in Italia a Valle di Pompei, grazie all'impegno dell'avv. Bartolo Longo. In sostanza i figli di coloro i quali avevano commesso un delitto, venivano condotti in questa colonia dove facevano vita in comune e svolgevano diversi lavori. Secondo Carfora, però, "quantunque [questi istituti] possono aver parvenza di mezzi atti ad evitare futuri delitti, costituiscono invece (...) un mezzo atto ad infiacchire uno dei validi freni contro il delitto, ed hanno in sé un principio di intrinseca ingiustizia, per il quale se tali istituti possono tollerarsi come istituti di mera beneficenza, non possono accettarsi come istituti di difesa contro il delitto, al quale apportano invece un deplorevole incoraggiamento [...]".

145. Importanti gli esempi del Belgio e della Francia. Vedi: Marie-Sylvie Dupont-Bouchat, Le colonie penali per minori in Belgio nel XIX secolo, e il saggio di Eric Pierre, Le colonie agricole per giovani delinquenti, entrambi in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell'Europa dell'Ottocento, cit.

146. In Italia un esempio di tale tipologia di colonia può essere l'istituto sito a Valle di Pompei, fondato il 20 ottobre del 1891. Essa trovò delle opposizioni sia da parte dei cultori delle scienze sociali, sia dai cultori delle scienze antropologiche; per "i primi perché vedevano nella vagheggiata istituzione un incitamento diretto al delitto, per l'affidamento che da essa derivava al delinquente di un appoggio ai suoi figlioli a causa del suo delitto stesso; nei secondi, perché vedevano nella eredità delle prave tendenze un ostacolo alla correzione dei giovinetti figlioli di delinquenti". Francesco Carfora, Colonia Penale, cit., pag. 718.

147. Ibidem.

148. Inizialmente la Gran Bretagna conobbe, nei primi anni del XVII secolo, come sostituto della pena di morte, la "trasposizione", concessa in un primo tempo a titolo di grazia, mentre in seguito pronunciata dallo stesso giudice. Successivamente, nel 1776, si sviluppò la colonizzazione penale extra - europea sotto il Regno di Carlo II, con l'invio dei condannati nei possedimenti del Nord America. Ma sicuramente, però, la più importante e famosa destinazione della deportazione inglese fu l'Australia, iniziata nel 1788 nei territori del Nuovo Galles del Sud. Dapprima l'interesse prioritario del Regno fu quello di esplorare queste nuove terre, costruendo le infrastrutture necessarie. Contemporaneamente vennero introdotte alcune riforme tendenti alla rieducazione dei condannati; importante è ricordare la facoltà attribuita al governatore, di rilasciare, a certe condizioni, i detenuti di buona condotta perché lavorassero liberamente, con l'ulteriore possibilità di assegnare i condannati ai colonizzatori liberi per i lavori agricoli. L'esperienza inglese della deportazione in Australia venne abbandonata praticamente nel 1853, soprattutto a causa del fatto che ormai i coloni liberi erano in numero notevole e iniziavano a non tollerare l'invio di condannati preposti al lavoro agricolo.