ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. 5: L'affermazione del carcere

Tommaso Buracchi, 2004

La società prepara il delitto, e il delinquente non fa che eseguirlo (1)

Prigionieri delle mura e della ragione (2)

1: L'esperienza penitenziaria statunitense

La situazione di relativo stallo nel definire e delineare un sistema penale efficiente ed efficace nell'Europa moderna ricevette, a partire dalla fine del XVIIIº secolo, un impulso di notevole portata dagli sviluppi che in questo settore vennero compiuti oltreoceano, negli Stati Uniti d'America. Prima di occuparci nel dettaglio delle innovazioni introdotte nel trattamento dei detenuti in questo paese, è opportuno delineare il contesto sociale, politico, religioso e culturale all'interno del quale esse hanno potuto svilupparsi. Nell'America del Settecento, tanto la povertà che il crimine non conobbero quell'attenzione politica che avrebbe invece caratterizzato il periodo post-rivoluzionario, "nel senso che la presenza del vagabondo, del folle, nonché del criminale non fu interpretata quale momento rilevatore di una situazione socialmente critica; di conseguenza la realtà dell'epoca ignorò una vera e propria politica sociale tesa alla risoluzione dei fenomeni sopra accennati" (3). A dominare incontrastato il problema del pauperismo fu infatti "un approccio di natura essenzialmente religiosa, accompagnato da rigide credenze circa un ordine sociale statico (tipico riflesso, questo, di un'economia esclusivamente agricola) unitamente ad un altrettanto accentuato e peculiare senso comunitario, proprio dei primi insediamenti colonici" (4). La Chiesa protestante costituiva un elemento di grande influenza nel condizionamento dell'opinione pubblica nei confronti del pauperismo; "questo fu infatti interpretato come fenomeno naturale, inevitabile e giusto, così come giusto e doveroso doveva considerarsi il soccorso agli indigenti, sempre però in un'ottica caritativa di tipo individuale" (5). Vi era la convinzione che la stratificazione sociale esistente riflettesse un ordine divino, per cui lo status di povero non doveva considerarsi né accidentale né fortuito, ma provvidenziale. "La presenza del povero doveva ritenersi un'opportunità offerta dalla provvidenza affinché attraverso la carità l'umanità potesse redimersi" (6). Non era ancora emersa la distinzione tra povertà colpevole e incolpevole, tra disoccupazione volontaria ed involontaria, tipica di una preoccupazione già politica e di una percezione del pauperismo in termini di realtà sociale problematica, che erano del tutto estranee al contesto statunitense. "Le ragioni di una valutazione del pauperismo ancora aliena da preoccupazioni politiche debbono essere individuate nella particolare situazione economica e, più significativamente, sociale" (7). Gli originari insediamenti colonici manifestarono difatti la capacità di assorbire, a livello sia politico che economico, le frange sociali emarginate, purché interne alla stessa comunità. Ben altra, invece, era la reazione nei confronti del vagabondaggio, o pauperismo 'fluttuante'; "l'ossessione che condizionò il pensiero dell'epoca non ebbe quale fulcro tanto il problema della marginalità quanto quello della mobilità di popolazioni indigenti" (8). Le difficoltà naturali affrontate e sofferte dai colonizzatori, ed il relativo isolamento delle varie comunità accentuarono questo processo di omogeneità culturale; il risultato finale fu una elevata impermeabilità sociale. Dunque, il pauperismo interno alla comunità era visto come un fenomeno naturale, e forte era il dovere morale di soccorrere i poveri in quanto membri della società (9). "Quello che emerge, quindi, come elemento caratterizzante il soccorso ai poveri, è l'impiego di mezzi non istituzionali, comunque non segregativi" (10). Ben diversa, invece, era la considerazione mostrata nei confronti del pauperismo non residente, nei cui confronti venivano a scaricarsi tensioni dettate dalla convinzione che a fondamento dell'ordine sociale dovesse regnare la stabilità della residenza. La società coloniale conobbe così una legislazione "tesa a limitare il fenomeno del vagabondaggio; normativa particolarmente severa anche se non sanguinaria come quella vigente in alcuni paesi europei e in particolare in Inghilterra" (11). Le linee della legislazione coloniale in materia di vagabondaggio e pauperismo spaziavano così tra forme di assistenza all'indigenza locale e residente e lotta all'immigrazione povera (12). Nelle colonie più densamente popolate, dove il fenomeno di costanti processi immigratori aveva proporzioni rilevanti, si assiste al sorgere, sia pure ancora limitato, dei tradizionali istituti europei di controllo e repressione del vagabondaggio: le Workhouses e le Houses of correction. "Il teatro di questa prima politica sociale è la Pennsylvania; gli attori principali le comunità quacchere" (13). Originariamente, in questa colonia come nelle altre, l'unica istituzione conosciuta era il Country jail, un fortino militare utilizzato per la sola carcerazione preventiva; "per quanto attiene al sistema sanzionatorio dominavano le pene corporali e in primo luogo quella di morte" (14). W. Penn, ispiratore della prima legislazione penale del 1682, abolì la pena di morte per tutti i crimini, ad eccezione dell'omicidio premeditato e volontario e dell'alto tradimento; "nella volontà del grande riformatore il country jail avrebbe dovuto mantenere il ruolo di carcere preventivo, mentre l'introduzione di una nuova istituzione - la house of correction - sul modello di quella olandese, avrebbe dovuto servire per internare i fellons (i trasgressori di quelle norme per cui non si comminavano né pene corporali, né la pena di morte) e coattivamente obbligarli al lavoro forzato" (15). A questa rivoluzionaria riforma nella legislazione penale concorsero doversi fattori: "la volontà politica, in primo luogo, di 'emanciparsi' dalla dipendenza, anche legislativa, dalla madrepatria; la necessità, poi, di proporre una ipotesi punitiva che in qualche modo si armonizzasse con la forte tensione etico-morale quacchera; il fascino, infine, che su una certa 'intelligenzija' cosmopolita e ancora culturalmente legata alla realtà europea avevano le esperienze più avanzate nella politica sociale" (16). L'esperimento, però, a livello fattuale, fallì: alla morte di Penn fu di nuovo introdotta la legislazione inglese, e con questa le pene corporali ed in particolare la pena di morte. Venne però abrogata la massima pena per il furto, per il quale si mantenne inalterata la pena dell'internamento per un periodo di tempo determinato nelle work-houses. La situazione penale nella Pennsylvania coloniale assunse quindi questo aspetto: da una parte, il jail mantenne l'originaria funzione di carcere preventivo; i prigionieri dovevano provvedere con le proprie sostanze al mantenimento, pagando un canone al jailer, il quale, a sua volta, non essendo retribuito con denaro pubblico, di fatto cercava di sfruttare economicamente la posizione di effettiva inferiorità dell'internato (17). "Solo nel 1736 si introdusse l'obbligo del mantenimento con denaro pubblico della popolazione in detenzione preventiva" (18). Le condizioni di sopravvivenza nelle jail erano, come si può facilmente dedurre, deplorevoli: non vi era nessuna separazione tra i criminali colti in flagranza e i meri sospettati; gli abusi dei guardiani, la violenza delle pene corporali per le infrazioni disciplinari e la brutalità dei rapporti tra la popolazione detenuta facevano parte del normale svolgimento della vita all'interno di queste istituzioni. Le houses of correction e le workhouses erano, originariamente, appendici architettoniche della jail, in cui la stessa disciplina non deve ritenersi molto diversa da quella imposta nel carcere preventivo. "Diversa è, invece, la popolazione che viene internata in questa istituzione: la maggior parte degli internati è costituita dai piccoli trasgressori della legge per i quali non era contemplata alcuna pena corporale; da coloro, poi, che avevano violato la legge sull'immigrazione e più in generale dagli oziosi e vagabondi" (19). Nel resto degli Stati Uniti la situazione istituzionale del controllo sociale sulla popolazione criminale ed indigente è assai simile a quella che abbiamo riscontrato in Europa nello stesso periodo. Come abbiamo detto, l'assistenza ai poveri, è bene ricordarlo, solo locali, aveva un carattere domestico e familiare, sotto forma di aiuto caritativo da parte della comunità. Nell'ipotesi in cui si fece ricorso all'assistenza attraverso il ricovero coatto, "il modello paradigmatico rimase ancora quello di tipo domestico-familiare. Significativo, in questo senso, il sistema istituzionale della almshouse o poorhouse che si struttura, anche architettonicamente, sul modello della casa colonica" (20). Il modello della vita domestica ispirò poi le regole della prassi istituzionale: "il personale e gli agenti, unitamente alle loro famiglie, vivono, infatti, all'interno della poorhouse; gli internati non indossano uniformi e l'unica forma di segregazione conosciuta - ma si ignora fino a che punto applicata - è quella tra donne e uomini; i pasti poi vengono consumati insieme agli stessi keepers e i ricoverati hanno libero accesso a tutti i locali" (21). In altre parole, gli internati nelle poorhouses, per lo più poveri residenti, orfani e vedove indigenti, formavano una famiglia, piuttosto che una comunità di internati. Tale modello di casa per poveri, col tempo, avrebbe poi contaminato la realtà istituzionale più generale (22). "Meno articolata si presenta, invece, la struttura del controllo sociale per quanto riguarda la devianza criminale" (23). Oltre al jail, che aveva natura essenzialmente processuale, si ricorse principalmente a pene corporali, soprattutto la frusta e la gogna; "questo tipo di sanzione penale, per la sua natura essenzialmente pubblica, evidenzia un'attenzione più spiccata al significato morale che puramente fisico della sofferenza inflitta; in altre parole rileva una struttura sociale in cui la reputazione e il senso dell'onore dovevano costituire valori fondamentali" (24). Le workhouses, come abbiamo già visto relativamente all'esperienza della Pennsylvania, dovevano originariamente servire per i piccoli trasgressori della legge penale nei cui confronti non venivano applicate le sanzioni corporali; col tempo, poi, ospitarono anche oziosi e vagabondi, e vennero utilizzate per il ricovero coatto dei poveri residenti, ed infine come carcere per debiti. "Su questo universo eterogeneo, ma comunque caratterizzato dalla precarietà e marginalità sociale, avrebbe dovuto operare la disciplina istituzionale" (25) al fine di imporre un processo rieducativo. "Nella pratica coloniale queste finalità furono completamente disattese" (26); difatti, i meccanismi principali del controllo sociale venivano tutti a modellarsi sull'istituzione allora fondamentale, la famiglia colonica. Attraverso il "ruolo che questa istituzionalmente aveva nell'educazione-repressione della devianza minorile" (27), la comunità familiare si poneva come agente di controllo dell'intera società. Il ruolo educativo della famiglia, i doveri dei genitori di reprimere i comportamenti 'devianti' dei figli verranno quindi proiettati all'esterno del problema minorile; "l'eventuale carenza familiare nel processo educativo trova l'autorità pronta a intervenire, sottraendo coattivamente, ad esempio, il minore dalla potestà dei genitori naturali e affidandolo al controllo, vuoi di un'altra famiglia, vuoi - soprattutto in un secondo momento - al soccorso pubblico" (28). Ed è per questa ragione che, già nel periodo coloniale, è possibile rinvenire ipotesi di internamento coatto in workhouses di minori che non avevano, ancora, propriamente violato la legge penale, ma che si erano mostrati carenti di una appropriata educazione. La famiglia, così, da 'istituzione' delegata al controllo della sola infanzia, "diventa il termine paradigmativo per il controllo sociale di tutte le altre forme di devianza" (29). Nel 1790 gli Stati Uniti d'America erano ancora un paese con meno di quattro milioni di abitanti e prevalentemente agricolo. Nel 1820 la popolazione rurale era più che raddoppiata, quella urbana più che triplicata. Allo sganciamento delle colonie d'America dalla madrepatria fece seguito un rapido e violento processo di trasformazione economica; "a cavallo del XIX secolo e in un arco di tempo relativamente breve, gli Stati Uniti d'America conobbero un accentuato ed incalzante processo di accumulazione capitalistica e le conseguenti trasformazioni socio-culturali a questo connesse" (30). La proprietà fondiaria venne ad assumere un diverso assetto; si assiste sia al dissolversi del grande latifondo che all'allentarsi dei rapporti che legavano la forza lavoro bracciantile alla proprietà latifondista. Il provvedimento che incise in maniera più rilevante sul vecchio assetto fondiario, basato sul sistema delle grandi proprietà coltivate con il lavoro dei salariati e degli schiavi, fu quello delle grandi confische effettuate, al culmine della guerra, sulle proprietà dei Tories. "Le terre espropriate vennero poi vendute a piccoli proprietari in frazioni che di solito non superavano i 500 acri. Nel contempo, sempre per fare fronte ai crescenti debiti di guerra, i diversi Stati vendettero pure a piccoli proprietari le vaste terre demaniali" (31). Se questo complesso intrecciarsi di fenomeni conobbe quale effetto principale una ridistribuzione più democratica della proprietà, certamente comportò anche un vasto processo di mobilità sociale: ampi strati di ex coloni, originariamente impiegati quali braccianti nel latifondo, furono costretti o indotti ad abbandonare le originali aree di residenza per trasferirsi verso le nuove terre incolte. "In questo periodo viene a cadere, quasi completamente, la vecchia legislazione coloniale contro l'immigrazione: l'ideale primitivo della comunità territorialmente stabile è così definitivamente infranto. In concomitanza alla disgregazione del vecchio assetto economico-fondiario, il periodo post-rivoluzionario è pure caratterizzato dalla rapida formazione di grossi patrimoni individuali non più fondati sulla proprietà immobiliare, ma sugli altissimi profitti derivanti da alcune attività commerciali" (32). Dietro l'impulso della rivoluzione furono poi abrogati anche gli atti di navigazione con i quali la madrepatria aveva monopolizzato il commercio con le colonie, aprendo così nuove vie allo scambio di merci. Emerge così, in questo periodo, accanto alle prime grosse concentrazioni capitalistiche, una vera e propria classe mercantile. L'attività manifatturiera era, essenzialmente, di tipo domestico-artigianale; nelle piccole comunità isolate e disseminate nell'entroterra esisteva, infatti, una rudimentale divisione del lavoro, con una quantità di produttori locali di merci destinate a minuscoli mercati autosufficienti. "Il punto nodale della spiegazione di questo ritardo nel decollo propriamente industriale è essenzialmente collegato alla scarsità di manodopera e al conseguente alto costo della forza-lavoro; ed è per questa ragione, infatti, che i limitati capitali disponibili privilegiarono operazioni commerciali e speculative legate ai traffici marittimi" (33). La situazione in parte mutò dopo l'embargo limitante il commercio con l'estero, adottato nel 1807 da Jefferson per timore di essere coinvolto nelle guerre europee; il conseguente crollo delle esportazioni e delle importazioni causò un'inevitabile lievitazione dei prezzi. Si aprirono, però, nuove possibilità di produzione per il mercato americano, in quanto al settore della produzione tessile cominciarono a rivolgersi quelle risorse che in passato erano state impiegate verso il commercio di esportazione. "In questa contingenza politica altri settori di attività manifatturiera si svilupparono con pari rapidità, sempre con l'intento di trarre profitto dalla pausa nelle importazioni" (34). Riassumendo, possiamo sintetizzare che le basi del futuro sviluppo industriale devono essere individuate nell'emergere, nel periodo post-rivoluzionario, di alcune costanti strutturali: una diversa ridistribuzione della proprietà fondiaria ed il conseguente determinarsi di un vasto processo di mobilità sociale; l'endemica scarsità di forza lavoro ed il conseguente determinarsi di un livello salariale elevato, ragione questa che porterà l'industria ad impiegare capitali più elevati comparativamente a quelli impiegati, a parità di produzione, nell'Europa dell'epoca; il determinarsi, in breve tempo, di grosse concentrazioni di capitale, grazie al commercio marittimo, alla presenza di notevoli ricchezze naturali ed in genere ai bassi costi nell'approvvigionamento delle materie prime. Basandosi su tali premesse, nei primi decenni del XIXº secolo l'impresa manifatturiera del nord-est degli Stati Uniti si affermò in una vasta serie di settori, dando origine ad un rapido e redditizio decollo industriale, determinato dall'impiego massiccio di capitali e dalla sempre più intensiva utilizzazione delle macchine. Ma le ridotte dimensioni del mercato del lavoro, se da un lato incentivarono l'impiego intensivo di capitali, dall'altro costituirono sempre un ostacolo frenante alla potenzialità produttiva. "Il territorio degli Stati Uniti poteva così dividersi in tre parti dove fiorivano tre tipi di società del tutto differenti: il Sud latifondista e schiavista, dove si produceva essenzialmente il cotone; l'Occidente agricolo, caratterizzato da una presenza dominante di liberi e piccoli coltivatori; le regioni del Nord-Est, invece, fortemente industrializzate" (35). La classe contadina che viveva nelle terre fertili dell'Occidente tendeva, sia economicamente che culturalmente, ad essere più legata agli interessi politici del Sud, nei cui confronti si esercitava la maggior parte del commercio di prodotti agricoli. Le terre ancora incolte nell'Occidente, d'altra parte, attiravano la maggior parte della manodopera immigrata, sottraendola così alla domanda di forza-lavoro delle industrie del Nord-Est. "Fu quindi il tentativo politico del capitale nordista di spezzare l'accerchiamento economico, in cui veniva di fatto a trovarsi, che determinò profondi mutamenti sociali, nonché il radicalizzarsi di quello scontro tra gli interessi politico-economici tra Sud e Nord che in seguito porterà alla guerra civile" (36). Questa profonda trasformazione della prima metà dell'Ottocento determinò, come abbiamo accennato, una nuova composizione delle classi sociali ed un processo disgregativo del vecchio assetto socio-culturale di tipo coloniale. "L'originalità del proprio universo sociale negava, recisamente, la possibilità che passate esperienze o realtà di altri paesi potessero, in qualche modo, risolvere i problemi allora emergenti" (37). L'euforia che nasceva dalla consapevolezza di vivere una realtà peculiare portò a considerare, da un lato, la lotta al pauperismo e la volontà di sconfiggere la criminalità come giusti movimenti di opposizione ai vecchi retaggi del periodo coloniale, a realtà legate al Vecchio Mondo, e, dall'altro, come problemi comunque risolvibili grazie al nuovo contesto economico. "Il mutamento è significativo e radicale: i fenomeni legati ai processi di marginalizzazione sociale, da inevitabili effetti dell'umana convivenza, cominciarono ad essere interpretati come problemi politici, come problemi, cioè, che potevano, anzi dovevano, trovare una positiva soluzione" (38). La diffusa convinzione dell'epoca di potere sconfiggere definitivamente il problema del pauperismo era supportata dalla coscienza di essere in presenza di una favorevole e forse mai verificatasi contingenza economica: il benessere e la prosperità a portata di tutti (39). Le commissioni di inchiesta, che nel decennio 1820-1830 furono costituite per studiare e successivamente relazionare agli organi legislativi la situazione reale del pauperismo negli Stati della Confederazione, dovettero, loro malgrado, constatare una situazione ben lontana dalle ottimistiche ipotesi che erano state formulate: gli Stati Uniti erano ancora un paese a relativamente alta densità di poveri. La causa principale di questa situazione era che "gli ampi processi di mobilità interna, l'abbandono di massa dal latifondo di braccianti verso il West, i tassi crescenti di immigrazione non riuscivano a trovare, nel breve periodo, uno sbocco occupazionale come forza lavoro industriale. In altre parole, almeno per un primo periodo, l'ipotesi manifatturiera e la fabbrica non furono in grado di assorbire completamente la manodopera che si rendeva disponibile" (40). D'altra parte, nel periodo iniziale di accumulazione, l'economia si presentava ancora come essenzialmente agricola, ed il livello salariale per la manodopera bracciantile era decisamente inferiore a quello degli addetti all'industria. "Non furono certamente queste le conclusioni a cui pervennero le commissioni di inchiesta allora interessate al problema del pauperismo" (41). L'analisi del problema ricalcò, singolarmente, lo stesso schema interpretativo che nei secoli precedenti aveva caratterizzato l'approccio dei paesi europei di fronte al dilagare delle classi marginali. "Infatti, la conclusione a cui si pervenne fu univoca: se la situazione economica è effettivamente in grado di permettere il pieno impiego, la causa principale del pauperismo non può che essere di natura individuale" (42). Si infranse così, definitivamente, la vecchia considerazione sociale del povero, tipica dell'epoca coloniale; si cominciò a parlare di pauperismo colpevole ed incolpevole, e più in generale di responsabilità soggettiva dello status di indigente e bisognoso (43). Il tema del pauperismo venne così intimamente connesso con il problema del comportamento deviante e criminale; connessione questa che tenderà a rimanere costante anche in avvenire (44). "In quest'ottica il problema della presenza di ampi strati marginali tra le classi meno abbienti veniva direttamente o indirettamente ricondotto ad un atteggiamento colpevole e quindi anche condannabile" (45). Il diffondersi di questa diversa coscienza del problema di fatto ribaltava completamente la considerazione sociale che del pauperismo la cultura americana coloniale aveva in precedenza espresso. Come abbiamo visto, "tutto il sistema del poor-relief pre-rivoluzionario, infatti, si fondava sulla mancata percezione del problema della povertà in termini politici nonché sull'assenza di ogni valutazione moralistica dello stesso; la radicata convinzione che la presenza dell'indigente dovesse richiamarsi ad un fenomeno naturale e quindi necessario del vivere sociale aveva portato allo svilupparsi di un sistema di assistenza fondato sul soccorso di tipo caritativo e privatistico" (46). È chiaro quindi che, nel momento in cui si cominciò ad attribuire un'origine viziosa, identificata sostanzialmente con la non volontà di lavorare, alla povertà, automaticamente il sistema portante che la società coloniale aveva espresso nei confronti del problema entrò in crisi. Si riteneva che "se lo stato di indigente colpiva quegli strati sociali degenerati dall'alcool e dalla pigrizia, il soccorso caritatevole non poteva che incrementare le cause produttive del fenomeno, inducendo la popolazione assistita e soccorsa a confidare più sulla generosità e benevolenza della collettività che sulle proprie forze e capacità lavorative" (47). Le proposte si orientarono così in senso univoco: l'abolizione progressiva dell'originario sistema assistenziale privatistico ed il potenziamento alternativo del soccorso pubblico attraverso l'obbligo al lavoro coatto. La presenza delle 'vecchie' poohouses e workhouses fu dunque rivitalizzata. "L'ipotesi istituzionale - il privilegiare cioè il momento dell'internamento - divenne così, nell'America della prima metà dell'Ottocento, la nota caratterizzante l'intera politica del controllo sociale" (48). La scelta segregativa, originariamente circoscritta alla soluzione del problema del pauperismo, venne infatti adottata nella lotta alle diverse forme sociali di devianza (49). Per quanto riguarda il problema del controllo sociale della devianza criminale, dunque, la situazione americana sino alla fine del XVIIIº secolo era rimasta, per certi aspetti, analoga a quella del periodo coloniale. Il jail aveva mantenuto la sua primitiva funzione di carcere preventivo; le workhouses e le houses of correction venivano utilizzate per punire i piccoli trasgressori, e col tempo divennero luogo di concentrazione di oziosi, vagabondi, di poveri residenti e talvolta di carcerati per debiti. A livello teorico, all'interno di questa istituzione avrebbe dovuto operare la disciplina del lavoro, finalizzata ad imporre coattivamente quel processo rieducativo tanto decantato in Europa. Nella prassi, tale finalità venne completamente disattesa; "lo stesso obbligo al lavoro forzato ... ricalcava ... il modello produttivo della grossa famiglia colonica" (50). Ora, tale forma di lavoro agricolo coatto appariva sempre più anacronistico; soprattutto a causa delle difficoltà tecniche ed economiche di introdurre, attraverso le macchine, un sistema lavorativo competitivo con quello allora dominante nel mondo della libera produzione, la casa di correzione venne sempre più ad assumere "la funzione atipica di istituzione carceraria, il ruolo, cioè, di un universo segregativo in cui venivano internati - ormai a solo fine punitivo - quei condannati nei cui confronti non potevano essere comminati altri tipi di sanzione" (51). La casa di correzione, in seguito alla progressiva riduzione dell'originaria finalità rieducativa attraverso il lavoro, perse ogni capacità di produrre profitto, rendendo così la propria esistenza un onere gravoso per le amministrazioni. Il sistema di assistenza privatistica era ormai in una situazione di crisi irreversibile; il momento dell'internamento divenne così la soluzione adottata: "l'effetto immediato e diretto fu un aumento incontrollabile della popolazione internata" (52). La situazione complessiva, alla fine del XVIIIº secolo, appariva contraddittoria, e non molto dissimile da quella descritta, a suo tempo, da Howard in Inghilterra: i jails, gli istituti di custodia preventiva, vuoti o semivuoti, le houses of correction e le workhouses rigurgitanti una popolazione quanto mai eterogenea (piccoli trasgressori della legge penale, veri e propri criminali nei cui confronti la legge non contemplava l'ipotesi di pene corporali, violatori delle norme sull'immigrazione, poveri non residenti, bisognosi locali, debitori). A questo punto, inevitabilmente, veniva a svanire la funzione risocializzante del lavoro coatto e produttivo che nelle istituzioni in oggetto avrebbe dovuto svolgersi, e "l'internamento istituzionale veniva a trasformarsi in pena vera e propria, ove il momento terroristico e intimidativo aveva decisamente il sopravvento sull'originaria finalità rieducativa" (53). Ed è nel tentativo di risolvere questo problema che la fantasia riformatrice del giovane stato americano perverrà alla sua invenzione più originale: il penitenziario. Il problema dell'antieconomicità del sistema delle case di lavoro era dovuto principalmente a due ragioni: gli alti costi di sorveglianza e la non produttività del lavoro internato. "Le soluzioni possibili erano quindi, astrattamente, due: trovare un sistema più economico di amministrazione, oppure aumentare la produttività del lavoro istituzionale" (54). Nel periodo che stiamo esaminando si privilegiò la prima alternativa; infatti l'eventualità di incrementare la produttività avrebbe richiesto l'impiego di grossi capitali al fine di industrializzare il processo lavorativo degli internati. Questa soluzione venne scartata per il semplice fatto che il contesto economico rendeva più vantaggioso un investimento di capitali nel libero mercato. Tale valutazione economica fu poi accompagnata da altre considerazioni di natura etico-sociale. Le sette quacchere furono protagoniste di questa rivoluzione nel settore della politica criminale. Nel 1787 venne fondata la 'Philadelphia Society for the Alleviating the Miseries of Public Prisons", caratterizzata da forte tensione morale e da fini dichiaratamente filantropici. "Fu ad opera di questa società filantropica e del suo incisivo e costante appellarsi alla pubblica opinione, che il legislatore ... cominciò a muoversi per realizzare quella istituzione in cui l'isolamento cellulare, la preghiera e la totale astinenza dalle bevande alcoliche avrebbero dovuto creare i mezzi per salvare tante infelici creature" (55). Venne così avviata la costruzione di un edificio cellulare nel giardino interno del carcere preventivo di Walnut Street, in cui si disponeva venissero internati in 'solitary confinement' i condannati a pena detentiva (56). "Tutti i filantropi quaccheri, mentre lottavano per la riforma dei codici, per l'abolizione delle crudeli e sanguinarie leggi penali del periodo coloniale, per l'applicazione dei principi illuministici alla legislazione del giovane stato americano, provvedevano, anche, a trasformare il carcere di Walnut Street nella prima ipotesi storicamente realizzata di penitenziario cellulare" (57). Il tema della certezza della repressione, contro la sua indiscriminata applicazione, ed il tema della retribuzione, contro l'irrazionale e politicamente irragionevole sproporzione tra delitto e pena, vengono così interpretati come espressione di una volontà puramente razionalizzatrice del sistema giuridico penalistico. La natura omogenea tra valore-reato e valore-pena, quindi la possibilità logica della loro comparazione, sono già un patrimonio acquisito. "In quest'ottica, lo stesso 'reato' deve essere interpretato come una 'variante particolare dello scambio' nel quale il rapporto, cioè il rapporto per contratto, si instaura post-factum, dopo la lesione della norma: la proporzione, quindi, tra delitto e pena è necessariamente retribuzione ... è, cioè, proporzione di scambio" (58). L'idea della privazione di un quantum di libertà, determinato in modo astratto, come ipotesi dominante di sanzione penale, è infatti in grado di realizzarsi solo con l'avvento del sistema capitalistico di produzione, di quel processo economico, cioè, in cui tutte le forme della ricchezza sociale vengono ricondotte alla forma più semplice ed astratta del lavoro umano misurato nel tempo. "La pena del carcere - come privazione di un quantum di libertà - diviene la pena per eccellenza nella società produttrice di merci. ... La libertà impedita (temporalmente) è in grado di rappresentare la forma più semplice ed assoluta di 'valore di scambio'" (59). La struttura portante della forma philadelphiana di esecuzione penitenziaria si fondava sull'isolamento cellulare (60) degli internati, sull'obbligo al silenzio, sulla meditazione e sulla preghiera. Analizziamone sinteticamente le caratteristiche essenziali. "Il carcere di questo tipo è, in primo luogo, un'ipotesi architettonica, nel senso di un progetto architettonico che si eleva a principio del processo educativo. Meglio: la scienza architettonica si trasforma, nel caso specifico, in scienza sociale. È il 'sogno' di Bentham che si materializza" (61). Le mura della cella divengono efficaci strumenti di punizione: mettono, infatti, il detenuto di fronte a se stesso, lo costringono ad entrare nella propria coscienza. "L'antica ipotesi penitenziaria canonica (ergastulum) rivive, così, in forme ancora più esasperate, nella nuova tecnica carceraria quacchera" (62). Ogni individuo si trasforma, necessariamente, nello strumento della propria pena; la coscienza stessa dell'internato provvederà a vendicare la società; il carcerato sarà costretto a riflettere sull'errore della sua vita, ad ascoltare i rimorsi della coscienza ed i rimproveri della religione. L'isolamento notturno e diurno è assoluto. "Il progetto architettonico unicellulare permette che il principio dell'isolamento possa essere condotto alle estreme conseguenze" (63). Il pericolo di contaminazione tra carcerarti, e tra internati e mondo esterno, viene impedito (64): fuori dalla quattro mura della cella il soggetto potrà muoversi solo se bendato o incappucciato. In questo modo vengono cancellate le conseguenze nefaste che derivano dalla concentrazione nello stesso luogo di condannati diversi tra loro. "Il tempo - vissuto nel silenzio più assoluto, scandito solo dai riti della pratica penitenziaria (somministrazione di cibo, lavoro, visite istituzionali, preghiere, ecc.) - tende a dilatarsi e diventare, quindi, assoluto, coscienziale; ben presto il detenuto ne perderà la nozione oggettiva, fisica" (65). La solitudine diviene uno strumento positivo di riforma, per mezzo della riflessione che suscita e del rimorso che non può mancare di intervenire. "La solitudine assicura una sorta di autoregolazione della pena e permette come una individualizzazione spontanea del castigo: più il condannato è capace di riflettere, più è stato colpevole nel commettere il suo crimine; ma anche più vivo sarà il rimorso e la solitudine dolorosa; in cambio, quando sarà profondamente pentito ed emendato senza la minima simulazione, la solitudine non gli peserà più" (66). La disciplina istituzionale si trasforma in disciplina del corpo, disciplina per imporre, quindi, una abitudine al controllo ed all'autocontrollo fisico. "Il disordine fisico infatti (come riflesso del turbamento morale) deve trasformarsi (leggi: educarsi) in ordine fisico (esteriore)" (67). La ragione analitica, quella che tende a frammentizzare il diverso per poi ricomporlo ad immagine dell'idea di essere civilizzato, ispira questo processo disciplinare: l'uomo del disordine deve trasformarsi nell'uomo macchina, nell'uomo disciplinato. Se la disciplina non dovesse riuscire a raggiungere il proprio scopo, il momento della violenza fisica non tarderebbe poi a materializzarsi in nuove forme: docce gelate per gli agitati, bavagli di ferro e forche di ferro per gli indomabili. L'impiego di questi oggetti non è indice della "volontà di 'aumentare' la sofferenza o il tormento del carcerato (in questo senso non sono strumenti di tortura) quanto di 'costringere' meccanicamente l'internato a 'modellare' il proprio corpo e il proprio spirito al regime disciplinare imposto" (68). L'istruzione religiosa diventa lo strumento privilegiato nella retorica della soggezione: l'etica cristiana, nella sua accezione protestante, è usata come etica di/per le masse. "Bible è la parola magica, sempre ricorrente, in questo universo" (69); mostrare segni tangibili di ravvedimento equivale a dare prova certa di reformation. "La pratica religiosa è quindi, in quest'ottica, essenzialmente pratica amministrativa" (70). I quaccheri confidavano nelle religione "come nel solo e sufficiente strumento pedagogico, per cui ritenevano la segregazione cellulare un mezzo capace di portare nuovamente il peccatore a Dio" (71). Nell'ambito dell'ideologia quacchera si sviluppa anche il principio della non pubblicità della pena; "se la condanna e ciò che l'ha motivata devono essere conosciute da tutti, l'esecuzione della pena deve al contrario avvenire nel segreto; il pubblico non deve intervenire né come testimonio, né come garante della punizione. La certezza che dietro le mura il detenuto sconta la sua pena, deve bastare a costituire un esempio" (72). Non più dunque quegli spettacoli di strada costituiti da detenuti che eseguono nelle città e per le strade lavori pubblici. "Il castigo e la correzione ... sono processi che si svolgono tra il prigioniero e coloro che lo sorvegliano (73). Processi che impongono una trasformazione dell'individuo tutto intiero - del suo corpo e delle sue abitudini, per mezzo del lavoro quotidiano cui viene costretto; del suo spirito e della sua volontà, per mezzo della cure spirituali di cui è oggetto" (74). Il lavoro è un premio: è infatti negato o sospeso a chi non collabora al processo educativo. Se il prigioniero sa fare un mestiere che può essere agevolmente svolto nella cella, gli è concesso di lavorare come stimolo alla buona condotta; questo lavoro è valutato come una ricompensa, la cui privazione è interpretata come una punizione. Il lavoro è infatti l'unica possibile alternativa all'inerzia, all'ozio forzato: è l'unica àncora di salvezza per sfuggire la follia altrimenti certa (75). In questi tipi di carcere si fabbricano scarpe, stivali, si impagliano sedie, si lavora la stoppa, si cuciono le divise: tutti lavori che richiedono tempo, abilità manuale e pochissimi utensili. "È l'unico lavoro che può essere praticato da un operaio solo, in un locale angusto, con economici strumenti di lavoro: ogni operazione deve quindi essere compiuta manualmente con un dispendio di energie che è sproporzionato al risultato" (76). Questo lavoro coatto non persegue fini economici (77): i fautori del sistema philadelphiano sono pienamente coscienti che attraverso questa attività lavorativa (non produttiva) il carcere non potrà mai essere autosufficiente, né il carcerato potrà mai 'pagarsi' la pena. Perché il lavoro possa essere produttivo, per produrre manufatti concorrenziali a quelli prodotti sul mercato libero, bisognerebbe introdurre in carcere le macchine; ma è proprio questo che non si vuole, perché si ritiene che lo Stato non abbia nessun diritto di interferire nel lavoro del libero operaio. Nel sistema di internamento cellulare, quindi, l'impiego della forza lavoro carceraria non poteva che essere, necessariamente, antieconomico, in quanto di tipo artigianale. "D'altra parte, il lavoro, in questa ipotesi penitenziaria, non perseguiva, neppure idealmente, alcuna funzione economica; al contrario era interpretato come strumento puramente terapeutico" (78); esso era, come l'isolamento, un agente di trasformazione carceraria. Attraverso il sistema philadelphiano "venivano in primo luogo drasticamente ridotte le spese di sorveglianza e, in secondo luogo, questo rigido stato segregativo di tipo individuale a priori negava la possibilità di introdurre un tipo di organizzazione industriale nelle prigioni" (79). Il problema assillante degli alti costi di conduzione fu così in parte risolto, ed è questa una delle ragioni del rapido diffondersi di questo modello di esecuzione. Le preoccupazioni di natura economica trovarono poi, a livello ideologico, la propria sublimazione nelle formulazioni più estremistiche del pensiero protestante. I riformatori che introdussero e supportarono questa nuova forma di internamento erano fermamente convinti "che il solitary confinement fosse in grado di risolvere ogni problema penitenziario; esso infatti impediva quella promiscuità tra i detenuti che si rivelava un fattore criminogeno di effetto disastroso oltre a promuovere - attraverso l'isolamento e il silenzio - quel processo psicologico di introspezione che veniva ritenuto il veicolo più efficace per il ravvedimento" (80). Il regime philadelphiano imponeva ai prigionieri lunghi periodi di silenzio e di isolamento, consistenti in una prolungata deprivazione sensoriale. "Questo trattamento è pensato, originariamente, non solo per disciplinare gli individui, ma soprattutto per spogliarli, letteralmente, di tutte le impressioni malvagie e delle cattive associazioni che conducono alla commissione del reato, e per ricreare, in questo modo, una sorta di tabula rasa" (81). L'individuo, una volta ricostruito, può entrare in contatto con un ambiente totalmente controllato, in cui ha la possibilità di sperimentare solo esperienze autorizzate e positive (il lavoro, l'educazione, l'istruzione morale) mentre tutte le fonti di impressioni negative (la pigrizia, gli altri detenuti, il mondo esterno) sono state vigorosamente cancellate. "La prigione, apparato amministrativo, sarà nello stesso tempo una macchina per riformare gli spiriti. Quando il detenuto entra gli viene letto il regolamento; nello stesso tempo gli ispettori cercano di fortificare in lui le obbligazioni morali ch'egli ha; gli rappresentano l'infrazione in cui è caduto rispetto ad esse, il male che ne è conseguentemente risultato per la società che lo proteggeva e la necessità di fornire una compensazione coll'esempio e coll'emendamento. Essi l'impegnano poi a fare il suo dovere con gaiezza, a condursi decentemente, promettendogli o facendogli sperare che, prima dello spirare del termine della sentenza, potrà ottenere il rilascio se si comporterà bene" (82). "Se qualcosa può risvegliare nello spirito dei condannati le nozioni di bene e di male, condurli a riflessioni morali e rialzarli un poco ai loro propri occhi, è la possibilità di ricevere qualche ricompensa" (83). Per tutte queste procedure che rettificano la pena man mano che si svolge, le istanze giudiziarie non possono avere autorità immediata. "Si tratta in effetti di misure che, per definizione, possono intervenire solo dopo il processo e vertere solo su materia diversa dalle infrazioni. Indispensabile autonomia, di conseguenza, del personale che gestisce la detenzione, quando si tratti di individualizzare e di variare l'applicazione della pena" (84). Tutto ciò e divenuto possibile in quanto la prigione, luogo di esecuzione della pena, è anche luogo di osservazione degli individui puniti, in due sensi: sorveglianza, certo, "ma anche conoscenza di ogni detenuto, della sua condotta, delle sue disposizioni profonde, del suo progressivo miglioramento; le prigioni devono essere concepite come un luogo di formazione di un sapere clinico sui condannati" (85). "Insieme al condannato l'amministrazione riceve un rapporto sul crimine, sulle circostanze in cui è stato commesso, un riassunto dell'interrogatorio dell'imputato, delle note sul modo in cui si è comportato prima e dopo la sentenza. Altrettanti elementi indispensabili se si vuole determinare quali saranno le cure necessarie per distoglierlo dalle sue antiche abitudini. Durante tutto il tempo della detenzione egli verrà osservato, e la sua condotta annotata, giorno per giorno" (86). Questa conoscenza degli individui, continuamente aggiornata, permette di ripartirli nella prigione non tanto in funzione dei loro crimini, quanto delle disposizioni di cui danno prova. "La prigione diviene una sorta di osservatorio permanente che permette di distribuire le varietà del vizio o della debolezza" (87). Il sistema philadelphiano veniva considerato, in seguito a tutte le caratteristiche sinora elencate, il più umano e civile tra quelli conosciuti; i fatti dimostravano però una realtà totalmente diversa. Questo sistema di esecuzione aveva quali effetti diretti della sua applicazione un tasso crescente di suicidi e di pazzia, come risultato del permanere dei detenuti in una condizione di assoluta solitudine per lunghi periodi di tempo. Per molti soggetti, l'isolamento costituiva uno shock tremendo, come testimoniano gli innumerevoli casi di soggetti che si trovavano a dover affrontare allucinazioni di ogni genere. Ai danni cerebrali, si aggiungevano anche quelli fisici, causati dal permanere dei detenuti in locali angusti, poco aerati, e dalla impossibilità di svolgere adeguato movimento ed esercizi fisici. Gli oppositori del modello philadelphiano sostenevano che i prigionieri, "mentre sono condannati alla più spaventevole e dura prigionia, godono nel contempo di troppa libertà di usare del loro tempo nella cella solitaria nella quale sono rinchiusi e non vengono assuefatti a un lavoro costante" (88). In secondo luogo la durezza della prigionia è tale per cui i reclusi, dopo qualche tempo, "cadono nella malinconia e nel pianto, fenomeni questi che a torto vengono presi come manifestazione di pentimento, mentre sono segni di disperazione e spesso si risolvono in vere e proprie alienazioni mentali" (89). Lo stesso Bentham, inventore del Panopticon, aveva sempre mostrato delle riserve sul solitary confinement. "Questo gli sembrava una penitenza utile per qualche giorno per domare uno spirito di ribellione, ma assolutamente inidoneo ad essere prolungato nel tempo. Inoltre la solitudine gli appariva costosa per l'eccessivo numero di celle indispensabili alla sua realizzazione concreta" (90). Secondo i sostenitori dell'ipotesi philadelphiana, invece, le pregiudizievoli influenze dell'assoluta solitudine sul corpo e sulla psiche dei condannati potevano essere corrette e rimosse: le prime, oltre che attraverso la spaziosità e la salubrità della cella, tramite la possibilità di svolgere, una o più volte alla settimana, del moto all'aria aperta, in appositi e segregati recinti; le seconde tramite un ordine di visite da parte di direttori, medici, cappellani, maestri e custodi, di modo ogni detenuto avesse almeno mezz'ora al giorno di 'onesto' colloquio per potere temperare la durezza della solitudine perpetua. Il contatto con persone di specchiata fede religiosa era visto con favore in quanto ritenuto utile al processo rieducativo, ed infatti queste ultime erano incoraggiate a visitare i carcerati ed a influenzarli positivamente. "Ma la crisi definitiva dell'ipotesi philadelphiana non fu determinata tanto da considerazioni umanitarie, che pure non dovettero mancare, quanto da un rilevante cambiamento del mercato del lavoro" (91). Di fronte al processo di industrializzazione, prese piede l'opinione che il fine della disciplina carceraria dovesse essere non solamente di educare a buoni proponimenti, ma soprattutto di mettere i detenuti in condizione di mantenersi tramite il proprio lavoro, riducendo così anche gli eccessivi costi che l'amministrazione penitenziaria era stata costretta, fino a quel momento, ad affrontare. Agli inizi del XIXº secolo, come abbiamo visto, assistiamo, nel Nord America, "ad un domanda di forza lavoro di proporzioni superiori ad ogni altra conosciuta in Europa durante il mercantilismo. Se, da un lato, l'importazione di schiavi neri era diventata più difficile a causa della nuova legislazione, dall'altro lato la disponibilità di nuove terre ed il rapido sviluppo industriale avevano creato un vuoto nel mercato del lavoro che non poteva essere certo colmato dal crescente flusso immigratorio europeo" (92), con un inevitabile aumento del livello salariale già, per altro, assai consistente. Si prese atto che le reali possibilità di trovare facilmente un impiego ben retribuito riducevano in America le occasioni di commettere crimini contro la proprietà, mentre la stessa recidiva era fortemente scoraggiata dalle occasioni di lavoro offerte, per necessità economiche, anche agli ex-condannati. Si fecero così sempre più pressanti - soprattutto da parte degli amministratori responsabili della giustizia penale - "le accuse nei confronti del sistema penitenziario vigente, che attraverso la realizzazione del solitary confinement non solo privava il mercato di forza lavoro, ma attraverso l'imposizione di un lavoro antieconomico diseducava gli internati, riducendo in questi ultimi le originarie capacità lavorative" (93). Tale situazione, se da un lato destò, come abbiamo detto, la preoccupazione dei riformatori 'illuminati', per le conseguenza nefaste che la forma di esecuzione philadelphiana esercitava sulla psiche dei reclusi, dall'altro lato interessò sempre più la classe imprenditoriale, seriamente impensierita dalla scarsità della forza-lavoro reperibile sul mercato per la nuova produzione industriale. "La condizione penitenziaria negli Stati Uniti agli inizi del diciannovesimo secolo era molto simile a quella esaminata da Howard in Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento. Predominavano considerazioni di natura finanziaria" (94). Per queste ragioni si cominciò ad introdurre - meglio, a reintrodurre - il lavoro produttivo nelle carceri; "in un primo momento si mantenne però inalterato il sistema di isolamento cellulare, viziando così negativamente l'intera esperienza" (95). Infatti, l'obbligo per gli internati di lavorare solo ed esclusivamente all'interno delle proprie celle costituiva un ostacolo insormontabile alla possibilità di introdurre l'organizzazione manifatturiera; il carcere rimaneva così un investimento improduttivo, non potendo competere con la produzione libera (96), e nello stesso tempo non educava gli internati a quelle abilità e capacità professionali che erano richieste all'operaio moderno. "Il primo razionale tentativo di pervenire ad un'esecuzione penale capace di superare queste contraddizioni fu sperimentato, per la prima volta, nel penitenziario di Auburn (97), che nel tempo, per la diffusione che ebbe, divenne in pratica sinonimo di amministrazione penitenziaria americana" (98). Questa nuova forma di trattamento dei detenuti si fondava su due criteri fondamentali: l'isolamento cellulare durante la notte ed il lavoro comune durante il giorno, in un regime di silenzio assoluto per evitare ogni tipo di interazione tra i detenuti. Il regime della day-association e night-separation combinava le istanze pedagogico-rieducative, su cui si era fondato l'esperimento philadelphiano (volontà di negare ogni rapporto tra i carcerarti per impedire il contagio del morbo delinquenziale), con la nuova 'ossessione' riformatrice: il lavoro produttivo (99). "Fu così che le prigioni diventarono nuovamente imprese economicamente vantaggiose" (100). Lavoro forzato in comune "diverrà, così, nell'universo carcerario, la nuova 'parola d'ordine'" (101). Conseguentemente, l'emergente istituzione si trovava a dover organizzare e gestire momenti di vita collettiva. A questo fine, basandosi sul modello e sullo stile di vita militare, fu imposta ai detenuti una rigida uniformità (102): nella cella, una branda, un secchio, pochi utensili di latta uguali per tutti sono i soli oggetti forniti dall'amministrazione; "i prigionieri devono poi indossare un'uniforme e i capelli devono essere rasati" (103). L'amministrazione penitenziaria stessa tende a strutturarsi in termini gerarchico-militari; spesso, infatti, i carcerieri provengono dalla marina o dall'esercito, indossano uniformi, hanno adunate ad ore particolari e montano la guardia come le sentinelle. "Le norme disciplinari ordinano, poi, a tutto la staff carcerario di comportarsi con gentlemanly manner come fossero ufficiali. I loro rapporti con gli internati, infatti, devono essere improntati a quel distacco che caratterizza i rapporti tra graduati e truppa" (104). La disciplina del corpo si realizza nell'azione irreggimentata: "gli internati non possono infatti camminare, bensì devono sempre procedere in ordine chiuso o in fila per uno, guardando le spalle di chi precede, con il capo leggermente inclinato a destra e i piedi incatenati che si muovono all'unisono" (105). Anche l'orario giornaliero è mutuato da quello militare, scandito dal suono di una campana, cui devono corrispondere predeterminate reazioni ed attività da parte degli internati. Il momento disciplinare si ritualizzava nella retorica punitiva di tipo corporale, esigenza connessa alla governabilità di una collettività coattivamente amministrata. In particolare, la frusta era considerata il mezzo disciplinare più efficace ed allo stesso tempo più umano: non era infatti pregiudizievole alla salute (106), ed educava ad una vita spartana. Inoltre, provocava l'immediata sottomissione del trasgressore senza interrompere l'attività lavorativa. "Provoca sofferenza (e quindi è temuta) senza pregiudicare irrimediabilmente l'integrità fisica (leggi: lavorativa) del trasgressore; ipotesi disciplinare, quindi, che contrariamente alla sanzione della 'cella d'isolamento' (accompagnata dalla diminuzione del vitto o dalla privazione della luce o dalla impossibilità fisica di coricarsi) non 'distrugge' forza-lavoro" (107). Per contro, il carcere auburniano presentava quali inconvenienti la difficoltà di vigilare durante la vita in comune, l'impossibilità di imporre un silenzio totale, la possibilità di contaminazioni e la necessità, appunto, di pene severe per i violatori della regola del silenzio. Permaneva l'obbligo del silenzio più assoluto (108), al fine di prevenire i contatti, le comunicazioni, i processi osmotici e contaminanti tra gli internati e di costringerli ad una forzata meditazione, il che poi comportò il potenziamento delle funzioni attribuite tanto alla disciplina quanto all'educazione in generale. La regola del silenzio, oltre ad impedire le relazioni corruttrici, aveva il pregio di assuefare alla riflessione, come ad una morale coazione sulla volontà, per costringere gli animi indisciplinati e ribelli all'obbedienza ed alla sottomissione. Vantaggio del sistema di Auburn, secondo i suoi partigiani, era il fatto che esso costituisse una ripetizione della società stessa. "La costrizione non vi è assicurata con mezzi materiali, ma soprattutto con una regola che bisogna imparare a rispettare e che viene garantita da una sorveglianza e da punizioni" (109). "L'originalità del nuovo sistema consisteva, quindi, essenzialmente nell'introduzione di un tipo di lavoro di struttura analoga a quello allora dominante nella fabbrica" (110). A questo risultato si pervenne gradualmente: in un primo momento, ai capitalisti privati fu permesso di assumere in concessione le istituzioni carcerarie stesse, con la possibilità di trasformarle, a proprie spese, in fabbriche; in un secondo momento si aderì ad uno schema di tipo contrattuale nel quale le organizzazioni istituzionali erano gestite dalle autorità amministrative, rimanendo, invece, sotto il controllo degli imprenditori sia la direzione del lavoro che la vendita dei manufatti, per pervenire poi, in una successiva fase, al sistema in cui le imprese private appaltatrici si limitavano a dirigere la sola collocazione dei prodotti sul mercato. Quest'ultima fase segnò il momento di compiuta industrializzazione carceraria. "Ma le peculiarità di questo tipo di esecuzione non si limitavano solo al settore economico, ma più specificatamente investivano fenomeni come l'educazione, la disciplina e le modalità stesse di trattamento: effetti, questi, direttamente riconducibili alla presenza del 'lavoro produttivo' nell'esecuzione della pena" (111). Il momento disciplinare, ad esempio, mutò radicalmente: difatti, lo stesso lavoro produttivo, nel momento in cui imponeva regole necessarie di interazione fra gli internati, determinando i tempi ed i modi stessi dell'agire dell'operaio, di fatto sostituiva alla disciplina fondata sulla semplice sorveglianza la disciplina interna dell'organizzazione del lavoro. "Secondariamente, ci si accorse che era più facile stimolare gli internati al lavoro attraverso l'aspettativa di 'privilegi' che attraverso la sola minaccia di 'punizioni'" (112). Venne così a strutturarsi un tipo di esecuzione penale che dietro allo schermo ideologico del trattamento finalizzato alla rieducazione faceva della capacità lavorativa il vero parametro per la valutazione della buona condotta (113). Sul criterio fondamentale dell'attitudine ad apprendere nuove tecniche di lavoro si cominciò a contrapporre gli internati per condanne brevi a quelli a lungo termine, destinando questi ultimi ad istituzioni speciali dove il lavoro veniva organizzato in modo più produttivo, anche se era richiesto un grado più alto di abilità e quindi, appunto, un tempo più lungo di internamento. "Per la stessa ragione, anche se in senso diverso, si appuntarono le critiche nei confronti delle pene brevi, ritenute, ormai, diseducative e soprattutto improduttive" (114). Il lavoro carcerario, quindi, nell'ipotesi di Auburn, sfugge, sia pure per un istante, tanto alla sua originale dimensione ideologica (lavoro come unica soluzione al soddisfacimento dei bisogni materiali del non-proprietario) quanto a quella pedagogica (lavoro forzato come modello educativo), per definirsi invece in termini più economicistici: lavoro carcerario come attività produttiva da sfruttare imprenditorialmente (115). Il progetto però, ben presto, fallisce: le pressioni delle organizzazioni sindacali, e le difficoltà nell'industrializzare completamente il carcere, impedirono che il penitenziario potesse trasformarsi completamente e definitivamente in fabbrica. Vediamo come. Il lavoro carcerario si trovava, nonostante tutto, in una precaria situazione finanziaria; a peggiorare questo stato di cose intervenne il processo di rapida industrializzazione allora in corso nella libera produzione; grossi investimenti, nuove e sempre più efficienti macchine provocarono una sensibile riduzione dei costi di produzione e quindi anche dei prezzi delle merci, riducendo ulteriormente i già esigui margini di profitto che l'amministrazione ricavava dal lavoro carcerario. "A questo processo economico corrispose quindi, nello specifico della realtà penitenziaria, un deteriorarsi della situazione generale; infatti, di fronte all'escalation progressiva dei deficit, l'amministrazione penitenziaria oppose un altrettanto progressiva riduzione dei costi di gestione, abbassando, in questo modo, lo stand di vita della popolazione carceraria fino al livello minimo di sussistenza" (116). La riforma penitenziaria automaticamente arretrò, e la pena tornò ad essere una forma di 'distruzione' della forza lavoro. A ciò contribuì anche il dissenso di quelle forze sociali che temevano che il nuovo tipo di esecuzione della pena allentasse, "se non addirittura vanificasse, il momento punitivo della sanzione penale. Questa posizione si ammantò, poi, di panni umanitari e filantropici, palesando, ipocritamente, il timore che lo sfruttamento privato potesse 'abbrutire' l'internato, allontanando così la possibilità di una sua 'educazione' morale" (117). A tali proteste, poi, si erano aggiunte quelle del movimento sindacale, che giudicava sleale la concorrenza intrapresa tramite la collocazione sul libero mercato di manufatti prodotti, a costi assai ridotti, dai carcerati. Le organizzazioni operaie chiesero a più riprese che venisse abolita la competizione del lavoro dei detenuti, in quanto i loro prodotti, immessi nel mercato ad un prezzo di poco superiore al costo della materie prime, costituivano una minaccia alla stessa sopravvivenza degli operai liberi (118). L'effetto generale della protesta operaia nei confronti dello sfruttamento del lavoro coatto "fu un aumento insopportabile delle sofferenze dei detenuti, ovvero l'introduzione di energiche limitazioni allo sfruttamento della manodopera carceraria, come, ad esempio, l'obbligo che il lavoro si svolgesse senza l'ausilio delle macchine, che si lavorasse con sistemi di produzione sorpassati o, infine, ci si impegnasse a produrre solo per commesse governative e non per il libero mercato" (119). Agli inizi del nuovo secolo, la discussione sull'impiego del lavoro carcerario poteva dirsi completamente sopita. Si verificò infatti "un processo di obsolescenza dello sfruttamento privato del lavoro penitenziario" (120), cui fece riscontro un impiego sempre più massiccio di sistemi di impiego della popolazione internata non concorrenziali al lavoro libero. Ciò, sia per le "difficoltà crescenti incontrate dal capitale privato nell'industrializzare il processo produttivo penitenziario in quelle forme che potessero risultare ancora concorrenziali al rinnovo tecnologico in atto nel mondo della libera produzione" (121), sia per il crescente peso delle organizzazioni sindacali nella vita economico-politica statunitense. Agli inizi del nuovo secolo i penitenziari cessarono quindi di essere imprese produttive, come attestano i sempre crescenti deficit riscontrati nei bilanci. "Da allora in poi il lavoro carcerario si connota di funzioni istituzionali; diviene, in un primo momento, punizione del corpo, si trasforma, poi, in privilegio concesso ai meritevoli, forma di riproduzione interna dell'istituzione, arma di divisione tra i reclusi" (122). Possiamo a questo punto asserire che la storia del carcere americano, nel suo sorgere, è anche storia dei modelli di impiego della popolazione internata. "In questo modo è riconfermata la stretta dipendenza tra il 'fuori' e il 'dentro', ...tra i processi economici del/nel libero mercato del lavoro ed organizzazione penitenziaria". (123) Si delineano così due sistemi penitenziari radicalmente diversi, due modi di sfruttamento della forza lavoro diametralmente opposti (124). Il carcere cellulare philadelphiano ripropone, in scala miniaturale, il modello ideale della società borghese del primo capitalismo. "Il lavoro non deve quindi essere necessariamente produttivo, quanto strumentale al disegno allora egemonico, alla volontà cioè di 'trasformare' il criminale in 'essere subordinato'. A questo fine l'educazione al lavoro, di tipo artigianale e svolto in un opificio, deve passare attraverso un processo produttivo essenzialmente manuale, dove il peso del capitale fisso è quasi assente. L'organizzazione della produzione è completamente a carico dell'amministrazione penitenziaria e questa, non retribuendo in alcuna forma il costo del lavoro, può affrontare il mercato in termini assolutamente concorrenziali alla produzione del libero mercato, senza dovere per questo industrializzare il processo produttivo. "L'ipotesi penitenziaria di Auburn propone, invece, un modello di lavoro subordinato sul tipo di quello industriale. Dove regna il silent system vengono infatti introdotte le labor saving machines, il lavoro in comune, la disciplina di fabbrica" (125). L'imprenditore contraente entra nel carcere, organizza efficientemente la produzione, provvede ad industrializzare le officine, retribuisce parzialmente il lavoro, produce manufatti non più artigianali e provvede personalmente a collocare il fatturato sul libero mercato. Oltre agli aspetti meramente economici, grande fu l'attenzione rivolta da studiosi, filosofi, riformatori e filantropi alla realtà penitenziaria americana nella prima metà dell'Ottocento; si riscontrano, infatti, innumerevoli resoconti di ispezioni, rapporti e visite, compiuti per approfondire la conoscenza dell'universo penale. "Il carcere diviene così l'orto botanico, il giardino zoologico ben ordinato di tutte le 'specie criminali'; il 'pellegrinaggio' in questo santuario della razionalità borghese - in questo luogo, cioè, in cui è possibile una osservazione privilegiata della mostruosità sociale - diviene a sua volta una necessità 'scientifica' della nuova politica del controllo sociale" (126). L'universo dei visitatori è assai svariato: stranieri stravaganti, ambasciatori dei paesi europei interessati alla riforma penitenziaria, utopisti, riformisti, penitenziaristi. Tuttavia uno solo è l'intento che li anima: l'osservazione, la conoscenza del criminale, come condizione necessaria per la risoluzione di un'avvertita preoccupazione sociale del tempo, la lotta alla criminalità dilagante. Va sottolineata, in questa impostazione, "la capacità di sfuggire all''illusione repressiva', all'ossessione di potere contenere con la semplice violenza penale un processo essenzialmente oggettivo. La riforma dei codici, l'allontanarsi dai principi penali dei vecchi codici inglesi, l'abolizione della pena di morte e di molte pene corporali, l'invenzione del carcere come sistema portante dell'intero controllo sociale sono concreta testimonianza di questo diverso rapportarsi alla criminalità" (127). Il problema del violento inurbamento, il tema della disgregazione della famiglia colona, il fenomeno della gioventù abbandonata, da un lato; le iniziative per moralizzare la società, un nuovo regime istituzionale per rieducare e reinserire le frange più deboli del tessuto sociale, dall'altro sono i momenti fondamentali di questa originale 'rivoluzione'. Il carcere, dunque, viene a gestire un ruolo strumentale, subordinato alla esigenza allora insorgente dell'analisi della criminalità. Tale novità non è marginale: la criminologia - come scienza della criminalità - è innanzitutto, nelle sue origini, conoscenza del criminale. Va sottolineato: conoscenza del criminale, non del trasgressore della norma penale. "L'interesse per il criminale si autolimita quindi all'interesse per quel deviante che può essere studiato, analizzato, classificato, manipolato, trasformato al di fuori e prescindendo dalla realtà sociale in cui ha vissuto e in cui tornerà a vivere" (128). Il criminale quindi si trasforma nel deviante istituzionalizzato, in ultima istanza nel carcerato (129). "Le mura del grande laboratorio - non più fortezza inaccessibile, come un tempo, alla curiosità dei sudditi - si trasformano in qualche cosa di relativamente trasparente" (130). Una parvenza di democraticità accompagna così i primi passi del penitenziario: i buoni cittadini possono verificare di persona l'impiego del patrimonio pubblico, prendere atto dell'impegno civile e religioso che ispira l'azione dello staff, constatare l'ordine che regna nell'universo istituzionale, compiacersi della dolcezza del trattamento e del comportamento remissivo degli internati. La realtà dei fatti si sarebbe mostrata, però, diversa, quantomeno non all'altezza delle aspettative. Questo, dunque, il contesto sociale, economico e culturale all'interno del quale venne alla luce il moderno sistema penale statunitense, che abbiamo esaminato sinora, e queste le modalità e le ideologie in base alle quali tale sistema si avviò al suo sviluppo, alla sua concreta realizzazione. Le innovazioni introdotte oltreoceano avrebbero poi avuto una grande influenza anche per quanto riguarda la gestione della criminalità nel Vecchio Continente; esse, infatti, sarebbero state adottate come esempi, spunti, modelli in base ai quali sarebbe stata compiuta la complessa e problematica riforma del sistema punitivo europeo: vediamo come.

2: La riforma carceraria europea

A cavallo tra il XVIIIº ed il XIXº secolo, specialmente in Inghilterra, si assiste ad una ripresa delle attività a sostegno della riforma carceraria e, in generale, a sostegno di riforme a favore dei poveri. Analizzeremo adesso nel dettaglio le vicende affrontate in terra anglosassone, dato che esse forniscono un quadro piuttosto rappresentativo dell'evoluzione che la questione penale subisce in Europa nel corso dei primi decenni dell'Ottocento; basandoci sulle linee base di questi sviluppi, esamineremo in un secondo momento, a livello più generale e globale, gli eventi che caratterizzeranno la problematica questione penale, criminale e carceraria in ambito Europeo. La rinascita degli ideali filantropici in Gran Bretagna ha le sue radici nell'impatto che il movimento evangelico ebbe negli anni Novanta del Settecento tra i dissidenti quaccheri (131). "Gli evangelici interpretavano gli avvenimenti contemporanei come un avviso della necessità di riforma personale, interiore. Il loro attivismo aveva un'intensità particolare perché serviva bisogni sia individuali sia sociali, perché autoriforma e riforma sociale erano solo aspetti di un medesimo progetto" (132). Il forte dinamismo della loro filantropia doveva molto all'enfasi che essi ponevano sull'efficacia delle buone opere. "Credevano che l'uomo potesse conquistare la redenzione attraverso la filantropia: ...di conseguenza ... si dedicarono a una serie di attività benefiche" (133). L'appello all'attivismo sociale lanciato dagli evangelici ebbe un effetto notevole sui quaccheri, dato che "l'attacco al materialismo li richiamava dal successo del mondo verso i rigori eroici del proprio passato" (134). La filantropia fornì così uno sfogo emotivo indispensabile per uomini e donne le cui passioni erano completamente soggiogate ad ideali religiosi; "la filantropia era un mezzo essenziale per alleggerire la corazza dell'autodisciplina" (135). La lotta per la riforma carceraria divenne una vocazione spirituale, contribuendo a risolvere le tensioni religiose e i turbamenti interiori scatenati dalla rinascita evangelica degli anni Novanta. "La ripresa della campagna di riforma dopo il 1815 non si può tuttavia spiegare solo in questi termini. La filantropia non è solo una vocazione morale, è anche un atto di autorità che crea un legame di dipendenza e di obbligazione fra ricco e povero. Necessariamente diviene perciò un atto politico, compiuto non solo per soddisfare uno stimolo personale, ma anche per indirizzare i bisogni di chi governa e di chi è governato" (136). Si comprende meglio la tendenza politica alla base del rinnovato tentativo di riforma della vita dei poveri tramite la disciplina se la si considera sullo sfondo della crisi sociale dell'epoca. "Per i sostenitori della riforma carceraria e per le classi medie in genere il rapido incremento del tasso di criminalità e del numero di persone che ricevevano l'assistenza pubblica alla fine delle guerre napoleoniche era il segno piò ovvio di questa crisi" (137). Durante il periodo della disoccupazione di massa che seguì la smobilitazione e la depressione del commercio dopo il 1815, i costi dell'assistenza raddoppiarono. Ugualmente rapido fu l'aumento del numero delle persone processate. "Fra il 1810 e il 1819 ... questo drastico incremento provocò il caos nelle carceri" (138). I prigionieri erano tenuti in catene e vessati con esazioni arbitrarie da parte dei guardiani; nonostante i ripetuti avvisi da parte dei riformatori sui pericoli di contatti, i detenuti giovani, le persone in attesa di giudizio ed i condannati erano ancora rinchiusi insieme. Scarsi erano i tentativi di imporre qualche forma di disciplina. "Non sorprende quindi che la subcultura carceraria continuasse a regnare indisturbata: era ancora un'usanza comune che i detenuti distruggessero le masserizie delle celle la notte prima di essere portati alle navi per la deportazione; scontri di pugilato, la simulazione farsesca di processi, gioco d'azzardo e anche rapporti sessuali con prostitute erano sopravvissuti alle censure dei riformatori" (139). Nelle carceri mancavano una dieta regolare, riscaldamento e coperte. Il sovraffollamento che seguì il 1815 avrebbe potuto essere accompagnato dallo scoppio di epidemie se non fosse stato adottato il programma igienico di Howard: "durante gli anni 1815-1819 l'uso generalizzato di muri a calce, la quarantena per i malati e l'introduzione di bagni e uniformi, almeno per i detenuti che arrivavano in condizioni di estrema sporcizia, impedirono la diffusione del tifo" (140). Tuttavia il sovraffollamento portava, necessariamente, a abbandonare l'isolamento (141). "Per i quaccheri e gli evangelici che sostenevano la riforma carceraria le statistiche criminali non erano solo sintomo di una sovrabbondanza di mano d'opera o di difficoltà momentanee, ma di una erosione molto più grave della disciplina sociale" (142). Sostennero che una delle cause principali della criminalità fosse la distruzione di piccole imprese artigianali e la costruzione di nuove fabbriche (143). "Contrariamente ai piccoli imprenditori, essi sostenevano, i proprietari di grandi fabbriche non si preoccupavano di sorvegliare i giovani operai dopo le ore di lavoro e lasciavano che nei capannoni della tessitura e nelle stanze per la filatura ragazzi e ragazze stessero insieme con pericoli per la loro morale" (144). Si palesava così l'ansia dei filantropi per i rischi della recente industrializzazione, per il distacco fra ricchi e poveri e per il venir meno del controllo personale. Essi si interessarono alla delinquenza minorile ritenendola una manifestazione particolarmente significativa di una crisi più generale; tale forma di delinquenza era dovuta non solo alla disoccupazione o alla miseria in quanto tali, ma al collasso della disciplina familiare sotto il peso delle tensioni economiche. I riformatori vedevano il criminale 'tipo' come un soggetto alienato dai valori dei ricchi, privo di educazione religiosa ed abituato dalla nascita ad una vita delinquenziale da genitori depravati. Nello stesso periodo, la stampa radicale stava tentando di politicizzare la questione del crimine e della pena; affermava che i veri genitori del crimine erano la povertà e la miseria, e che "quando qualcuno diviene rapinatore per necessità, ciò accade perché non ha potuto sopportare di essere un mendicante o perché ha deciso di sfidare la morte piuttosto che divenire uno scheletro a causa della fame" (145). I veri criminali, quindi erano i burocrati, ed i 'mercenari' del governo che si ingrassavano con le tasse estorte ai poveri (146). "Poiché la crisi delle prigioni dopo il 1815 coincideva con un diffuso malcontento popolare e una forte polemica dei radicali nei confronti dell'amministrazione della giustizia, i sostenitori della riforma carceraria ... non poterono evitare di interpretare l'aumento della criminalità come un segno della più profonda alienazione politica e sociale dei poveri" (147). Allo stesso modo furono costretti a considerare gli abusi nelle carceri non solo come problemi amministrativi ma come questioni politiche; la filantropia dei sostenitori della riforma carceraria era così animata anche dalla necessità di individuare una strategia atta a riportare l'ordine sociale. "I riformatori sapevano che la severità della depressione economica aveva indotto molti poveri 'rispettabili' a darsi al crimine. Pur non mettendo in discussione la necessità di imprigionare anche queste persone, essi comprendevano i dubbi espressi dagli stessi poveri sulla legittimità di punire la povertà" (148). Una vasta proporzione di vittime della legge penale era spinta al delitto dall'indifferenza della società (149). Punire le vittime di tale indifferenza significava commettere una enorme ingiustizia. Se interpretassimo le iniziative dei filantropi solo come un gesto politico calcolato, tuttavia, denigreremmo la loro effettiva preoccupazione morale; eppure "la loro opera venne necessariamente integrata nella strategia governativa di controllo sociale" (150). I riformatori inglesi insistevano sull'inutilità di una repressione troppo feroce a scopi deterrenti, e ammonivano che "il tollerare abusi perché avevano valore deterrente significava rischiare di compromettere la legittimità della pena stessa" (151). Tuttavia, l'aumento del tasso di criminalità registrato in questo periodo aveva convinto molti magistrati che il rimedio alla dissoluzione sociale in atto non stesse nelle riforme, ma nel terrore. I riformatori, "di fronte a critiche dure e crescenti contro il loro umanitarismo smidollato, ... continuarono a insistere sull'importanza fondamentale di difendere la reputazione delle istituzioni giudiziarie fornendo ai prigionieri almeno l'essenziale" (152). A molti magistrati scettici, questa posizione appariva assurda; a loro pareva che, seguendo questi consigli, lo Stato dovesse assumersi nei confronti dei detenuti obblighi che non si accollava neppure per la manodopera libera. Gli stessi riformatori erano coscienti di questa contraddizione. "Come potevano giustificare il concetto dell'impegno dello stato verso i prigionieri in un periodo in cui esso stava rinunciando al proprio ruolo di controllo dei rapporti di lavoro, in un periodo in cui la regolamentazione dei salari ... stava cadendo in disuso, le autorità più influenti sulla legislazione sui poveri stavano dibattendo pubblicamente se lo stato avesse qualche obbligo nell'alleviare la povertà, le classi dirigenti negavano che esso avesse il diritto di intervenire nell'economia di mercato per proteggere la salute e la moralità degli apprendistati?" (153). Nel complesso, la dottrina del laissez-faire non rendeva il momento propizio ai riformatori. Tuttavia la loro opera non venne meno; fu inaugurata una campagna per fissare norme per il trattamento dei detenuti e criteri uniformi di disciplina. Difatti, il decentramento dell'amministrazione aveva permesso "un'applicazione ingiusta e ineguale dei rigori disciplinari nei vari istituti di pena del paese. In alcuni luoghi i detenuti erano rinchiusi in isolamento assoluto e costretti a lavorare otto ore al giorno, in altri i prigionieri condannati per gli stessi crimini erano lasciati liberi di riunirsi e non erano obbligati a lavorare" (154). Si voleva porre rimedio a tale anomalia tramite una legislazione nazionale applicata da ispettori stipendiati; la legittimità delle istituzioni statali, si pensava, poteva essere difesa solo centralizzando il controllo e l'amministrazione nelle mani di professionisti. Nel 1823, in base a tali premesse, si giunse all'approvazione del Gaols Act, il quale però, a causa delle resistenza della magistratura (155), non sortì gli effetti voluti. I riformatori lottarono anche per ridurre la severità del codice penale: la motivazione era che "l'arbitrio e la crudeltà nell'infliggere le pene erodevano il rispetto pubblico per la legge" (156). La legge era in teoria troppo severa, ed in pratica non abbastanza dura. "Le impiccagioni scoraggiavano la pubblica accusa dal perseguire e le giurie dal condannare e incoraggiavano invece frequenti concessioni di grazia. ... Nello stesso tempo, ... quando era applicata, la pena di morte provocava il risentimento e l'opposizione dei poveri" (157). I sostenitori delle riforme ritenevano che la cooperazione dell'opinione pubblica con la giustizia fosse il fondamento dell'ordine sociale. Le classi dirigenti, tuttavia, mostrarono di non recepire la portata di tali ammonimenti, e maturarono invece uno spirito vendicativo nei confronti dei continui attacchi al loro modo di gestire la questione del pauperismo e della criminalità. "Un altro segno dell'umore delle classi dirigenti era costituito da un evidente indurimento dell'opinione pubblica nei confronti della questione della pena" (158). Si diffuse l'opinione che la filantropia, liberando le prigioni dalla sporcizia e dalle malattie, avesse sminuito l'efficacia deterrente della detenzione; i magistrati si convinsero che nulla, se non il terrore della sofferenza umana, sarebbe riuscito a prevenire il crimine. Si constatava che la condizione dei prigionieri era infinitamente preferibile a quella di gran parte dei contadini e degli operai liberi, e, di conseguenza, i magistrati si preoccuparono di rendere la detenzione quanto più solitaria, scomoda e tediosa possibile, attraverso l'irrigidimento della disciplina. Ogni tipo di lettura fu vietato, "con il pretesto che costituiva un divertimento e distraeva i detenuti dalla riflessione sulle loro colpe. Le visite vennero ridotte a dieci minuti; un guardiano, munito di clessidra, si poneva tra il prigioniero e il suo visitatore con l'ordine di calcolare il tempo e ascoltare eventuali critiche contro la prigione" (159). I detenuti vennero obbligati, durante le ore di esercizio, a camminare in silenzio e in coppia lungo un percorso circolare; anche la dieta venne fortemente ridotta. Furono insomma adottate tutte le misure possibili ed immaginabili per terrorizzare i detenuti e, di riflesso, i potenziali criminali. Venne introdotta la ruota a pedali, un enorme cilindro rotante cui erano applicati gradini, come le assicelle di un'elica. "I detenuti salivano i gradini della ruota, facendola girare con i piedi mentre si reggevano a una sbarra per tenersi dritti" (160). Alcune ruote erano adatte per macinare grano o sollevare acqua, ma la maggior parte di esse non facevano che 'macinare aria'. "I giudici espressero per la ruota un entusiasmo senza limiti. Uno di essi osservò che essa costituiva la punizione più tediosa, angosciosa e salutare che fosse mai stata escogitata dall'ingegno umano" (161). Oltre alle imposizioni finora esaminate, si applicò un allargamento del regime del silenzio, parallelamente ad una lotta durissima contro quel che sopravviveva della subcultura carceraria. "Il numero delle punizioni comminate per trasgressioni alle norme disciplinari crebbe paurosamente. ... Ferri, pane e acqua, celle sotterranee e frusta punivano qualsiasi tentativo di parlare o protestare" (162). L'incremento nell'uso di misure deterrenti faceva seguito all'aumento del tasso di criminalità; come abbiamo rilevato, il numero di persone rinchiuse in carcere per crimini di lieve entità aumentò considerevolmente. Durante gli anni Quaranta i delinquenti minori (vagabondi, bracconieri, ladruncoli, disturbatori e ubriachi abituali) ammontavano a più della metà della popolazione carceraria, mentre i detenuti in attesa di giudizio o quelli che scontavano condanne per delitti gravi rappresentavano solo il 25%; il resto era costituito da disertori e debitori. "Il rafforzamento della disciplina carceraria era quindi finalizzato soprattutto alla repressione della delinquenza minore e dei delitti collegati al mondo del lavoro: vagabondaggio, allontanamento dal lavoro, distruzione di utensili, furto di legname e di prodotti dei campi, abbandono del tetto coniugale, ubriachezza molesta, condotta sregolata, bracconaggio e risse" (163). Il carattere occasionale, stagionale e temporaneo che sempre più di frequente il mercato del lavoro rurale stava assumendo, costituiva una delle cause dell'aumento della criminalità. "Siccome i lavoratori non erano più alloggiati e nutriti dai loro datori di lavoro durante la stagione morta, le prigioni rurali si riempivano, nei mesi invernali, di giovani lavoratori: questi seguivano le squadre addette al raccolto fino all'autunno e poi rubavano pollame per essere condannati a un periodo di detenzione presso qualche casa di correzione quando non potevano più trovare lavoro" (164). Il crimine rurale costituiva quindi un segno della rottura del vincolo di unione che esisteva in passato tra il lavoratore ed il suo datore di lavoro (165). Una simile rottura si manifestò anche nelle aree industriali, con la scomparsa di quella paterna sorveglianza che i padroni esercitavano sui loro giovani apprendisti (166). Sullo sfondo di questa scena, i magistrati e gli uomini politici interpretarono così il crimine come manifestazione di una continua crisi nella disciplina del mercato del lavoro e nei rapporti di classe. "Anche quei coltivatori e quegli industriali che avevano tutto da guadagnare dall'eliminazione dei rapporti paternalistici, dall'introduzione di macchinari che riducevano la mano d'opera e dall'abbassamento dei salari, erano preoccupati per i costi sociali di queste misure che si traducevano in un aumento della criminalità e del pauperismo" (167). Come i filantropi che durante gli anni Settanta del secolo precedente si erano preoccupati delle conseguenze del 'lusso', i loro successori del decennio 1820-1830 si rendevano perfettamente conto della contraddizione esistente tra la loro ansia per una società stabile ed il desiderio di trasformare le basi economiche e tecnologiche del proprio rapporto con le classi inferiori. "La violenza stessa di tale trasformazione minacciava le fondamenta della loro egemonia" (168). Il dilemma sorgeva dalla necessità di perseguire la trasformazione in senso capitalistico della società senza distruggerne la stabilità. "In questo contesto va collocata l'introduzione della ruota, del regime di silenzio e della dieta a pane e acqua. La severità di tali provvedimenti rifletteva il desiderio dei magistrati e degli uomini politici degli anni Venti di ricostituire un'economia di mercato che, come ricordavano nostalgicamente, nel passato si era basata sulla stabilità sociale" (169). Essi inoltre comprendevano che, in un libero mercato del lavoro, lo Stato avrebbe dovuto assumere funzioni disciplinari in precedenza assolte, in maniera paternalistica, dai datori di lavoro. In questa ottica, le nuove leggi contribuivano ad aumentare la frequenza dei processi per delitti minori (170). "Questa nuova forma di severità nei confronti di delitti minori fu accompagnata da provvedimenti intesi a migliorare l'azione della polizia" (171). I vecchi corpi di polizia tendevano ad ignorare i delinquenti minori, poiché il loro arresto non procurava alcuna ricompensa (172). Venne così istituito un nuovo corpo, con lo scopo specifico di catturare i criminali minori, in genere ubriachi, vagabondi, prostitute e ladruncoli (173). "Il legame tra crimine e società fu cementato nella sua forma moderna dalla comparsa della polizia. Per la prima volta era stata creata un'istituzione con l'esplicito obiettivo di occuparsi dei trasgressori della legge con la massima prontezza. Ciò significava che i metodi moderni per punire i criminali sarebbero stati integrati da metodi moderni per controllare il crimine" (174). I nuovi corpi di polizia europei non somigliavano molto ai loro antenati. Erano organizzati su base burocratica e seguivano norme di procedura rigorose. "In precedenza la polizia aveva fatto fronte al crimine in maniera intermittente, dispiegandosi in certi punti in cui il crimine era particolarmente intenso o reagendo a eventi criminosi specifici. Invece la caratteristica del moderno corpo di polizia era la sorveglianza costante di tutta la popolazione e la prevenzione del crimine in termini generali" (175). La polizia è un apparato che deve essere coestensivo all'intero corpo sociale, per la minuzia dei dettagli che prende in carico. Il potere poliziesco deve vertere su tutto; "L'oggetto della polizia sono quelle cose di ogni istante, cose da poco; ... siamo, con la polizia, nell'indefinito di un controllo che tenta idealmente di raggiungere il pulviscolo più elementare, il fenomeno più passeggero del corpo sociale: l'infinitamente piccolo del potere politico" (176). E per esercitarsi, questo potere deve attuare una sorveglianza permanente, esaustiva, onnipresente, capace di rendere tutto visibile, rendendo se stessa invisibile. "Essa deve essere come uno sguardo senza volto che trasforma tutto il corpo sociale in un campo di percezione" (177). Per organizzare questa incessante osservazione della popolazione, gli apparati di polizia utilizzarono rapporti e registri, e crearono ben presto, come vedremo, archivi criminali centralizzati che divennero il deposito di informazioni di ogni genere, da vagliare ed esaminare in continuazione (178). Un immenso testo poliziesco tende a ricoprire la società grazie ad una complessa organizzazione documentaria; "quello che si registra sono condotte, attitudini, virtualità, sospetti - una permanente presa in carico del comportamento degli individui" (179). Tuttavia, anche i poveri beneficiavano di una più rigida applicazione della legge, nella misura in cui erano essi stessi vittime della criminalità. Se la polizia avesse protetto solo i datori di lavoro e i ricchi, sarebbe stato impossibile farla operare nelle strade; era necessario assicurarsi la cooperazione, seppure riluttante, dei membri 'rispettabili' delle classi lavoratrici. L'accresciuto numero di arresti per crimini minori attuati dalla polizia, in aggiunta all'effettivo incremento del tasso di criminalità, provocò, inevitabilmente, un ulteriore sovraffollamento delle prigioni (180), che già da tempo lamentavano problemi in relazione all'eccessiva presenza di popolazione carceraria. Nello stesso periodo, venne inoltre centralizzata l'amministrazione delle prigioni, per evitare disparità di trattamento dei detenuti nelle varie regioni del paese; si chiese l'istituzione un Ispettorato nazionale alle carceri, quale unico mezzo per combattere l'inevitabile tendenza della disciplina carceraria a divenire una serie di abitudini fiacche e distratte. "Nel 1835 un ispettorato venne finalmente istituito, ma i suoi poteri restarono assai limitati; per non limitare le prerogative della magistratura, agli ispettori si conferì solamente il potere di rendere pubblici gli eventuali abusi e non di chiudere le prigioni o di ordinare dei mutamenti" (181). Di conseguenza, i loro rapporti finirono per essere solamente una serie di inconcludenti lagnanze. Gli ispettori, però, evitarono saggiamente qualsiasi accusa diretta contro i giudici, e la loro documentazione sugli abusi contribuì a diminuire il favore per le tradizioni di amministrazione locale. "Gli ispettori furono così in grado di accrescere i loro poteri" (182). La costituzione di un ispettorato istituzionalizzò il movimento di riforma; da allora in poi, le voci più influenti a favore della riforma si levarono all'interno del sistema carcerario stesso, dagli ispettori, dai cappellani e dai direttori. Si assistette ad un vasto movimento di professionalizzazione degli apparati di controllo dell'ordine pubblico e di gestione delle carceri: "la professionalizzazione della riforma fu accompagnata dalla ristrutturazione dei membri della polizia e del personale di custodia" (183). Le possibilità di imporre una più rigida disciplina ed una più attenta sorveglianza nelle strade dipendevano dal reclutamento di uomini che avessero attitudini ad un esercizio scrupoloso dell'autorità; un gran numero di ufficiali a mezza paga e di sottufficiali cominciò ad intraprendere la carriera carceraria, portando con sé l'abitudine al comando che avevano appreso durante il servizio militare. "L'introduzione di uomini usi alla disciplina fornì il personale necessario alla centralizzazione e razionalizzazione del meccanismo preposto all'ordine pubblico" (184). La concessione a ufficiali di cariche precedentemente riservate a piccoli commercianti attesta l'accresciuta importanza che le classi medie attribuivano alle prigioni. "Coloro che si specializzarono nell'amministrazione carceraria furono poco alla volta considerati elementi indispensabili e quindi funzionari pubblici rispettabili" (185). Per una borghesia che non poteva più dare per scontato l'ordine pubblico, le persone con esperienze dirette nel trattare i poveri divenuti criminali divennero particolarmente preziose. Si assiste così ad un cambiamento nella composizione sociale dei funzionari delle carceri ed al mutamento delle loro funzioni. "Contemporaneamente, le usanze carcerarie del Settecento che avessero connotazioni di tipo familiare vennero abbandonate" (186). Cominciò a fare la sua comparsa un linguaggio privo di connotazioni familiari; "la parola 'cella' sostituì la parola 'appartamento' con i suoi nessi con l'abitazione domestica. ... Nel linguaggio ufficiale si diceva 'popolazione carceraria, non più famiglia. I comandi divennero sempre più simili a quelli militari; il nuovo personale, proveniente dalla carriera delle armi, usava il linguaggio di una parata o del reggimento" (187). La direzione delle prigioni doveva essere resa il più possibile simile a quella di un battaglione, con la stessa gradualità di responsabilità tra gli ufficiali, la stessa inflessibile regolarità estesa anche alle cose più minute, la stessa sollecitudine nelle punizioni, la stessa accurata suddivisione del tempo. La militarizzazione della disciplina carceraria non fu raggiunta però senza contrasti, sia con le vecchie guardie, che ricavavano un buon profitto da una serie di attività illegali (188) all'interno della prigione, sia con i detenuti, che ovviamente si opponevano con ogni mezzo alla restrizione di libertà che fino a quel momento erano state concesse loro. Si tentò di impedire qualsiasi forma di fraternizzazione tra le guardie, i prigionieri e le loro famiglie (189). "L'inaugurazione di Pentonville nel 1842 rappresentò il punto culminante dei tentativi di rafforzare il controllo sociale" (190). Nonostante le innovazioni proposte, ed in parte adottate, le carceri non imponevano ancora una disciplina sufficientemente rigorosa. I prigionieri lavoravano nelle celle da soli, ma le porte durante il giorno rimanevano aperte, guardiani e sorveglianti circolavano liberamente nei corridoi, raccoglievano il lavoro finito, ne consegnavano di nuovo e istruivano gli inesperti. "I sorveglianti erano in genere detenuti che mantenevano i contatti per una rete di resistenza alle guardie" (191); essi agivano da spie dei movimenti dei funzionari, in modo da impedire a questi di scoprire e reprimere disobbedienze e irregolarità. In questo modo i prigionieri divenivano i sorveglianti delle guardie, piuttosto che viceversa. Inoltre, per imporre l'isolamento, non sarebbe bastato introdurre un rigoroso regime di silenzio ed abolire il sistema dei sorveglianti, ma sarebbe stato necessario sviluppare una architettura che ponesse il detenuto nella sua cella sotto gli occhi dell'autorità; era l'intera struttura dei vecchi edifici ad essere inadatta ad una sorveglianza continua degli internati. La soluzione a tale problema venne trovata, come avevamo annunciato, e come del resto avverrà, tra breve lo vedremo, per gli altri stati Europei, in America, rifacendosi all'esperienza penitenziaria philadelphiana che abbiamo esaminato poc'anzi, e che armonizzava le esigenze di una continua sorveglianza con l'imperativo di un rigoroso isolamento. Il progetto di Pentonville si basò in gran parte su questo modello penitenziario (192). Anche l'altro modello, quello di Auburn, venne preso in considerazione, ma fu immediatamente scartato perché si basava sullo sfruttamento del lavoro dei prigionieri - non desiderato, peraltro, in un mercato del lavoro già oberato di manodopera - a scapito del loro emendamento morale; veniva inoltre criticato l'eccessivo uso della frusta per mantenere la disciplina del silenzio durante il lavoro in comune. "Il sistema di Philadelphia al contrario poneva anzitutto l'enfasi sul pentimento e il rimorso raggiunti grazie all'isolamento; il mantenimento dell'ordine si basava poi non sulla frusta ma sulla forza soggiogante dell'isolamento stesso" (193). Così, secondo le impressioni dell'epoca, mentre il sistema di Auburn avrebbe suscitato sentimenti vendicativi, quello di Philadelphia avrebbe indotto l'abitudine alla sottomissione (194). Si comprese, però, che i detenuti non potevano essere sottoposti a periodi lunghi di isolamento senza rischi per la loro salute. Nel progetto per la costruzione del nuovo penitenziario di Pentonville, si propose che il periodo di isolamento assoluto potesse durare, al massimo, diciotto mesi. "Il modello americano venne modificato anche in un altro particolare" (195). In base al modello philadelphiano, i detenuti venivano rimandati in seno alla società una volta scontata la loro pena; gli inglesi mostrarono serie preoccupazioni circa il rapido aumento del numero dei detenuti rilasciati. Si decise perciò che i detenuti di Pentonville trascorressero un periodo probatorio in isolamento, per poi essere imbarcati per la deportazione (196); il periodo trascorso a Pentonville era solo una pena preliminare. La prigione era condotta con la precisione di una macchina: la colazione di 450 uomini poteva essere distribuita in dieci minuti. Al loro ingresso i detenuti venivano spogliati di qualsiasi effetto personale e dei vestiti, per separarli in maniera anche fisica dal loro passato; venivano poi rasati, per lo stesso motivo, oltre che per motivi igienici e perché fosse più difficile identificare i propri compagni di pena. L'atto finale del rituale consisteva nell'assegnazione di una matricola. L'esercizio fisico veniva svolto in cortili, piccoli spazi circondato da mura attorno a un posto di osservazione. Ciascuno entrava da solo in uno di essi e cominciava a marciare all'intorno con passo rapido. A Pentonville vi era una regola per ogni cosa, da ciò che era permesso scrivere in una lettera alla collocazione delle caraffe sulle mensole. Comunque, vi erano molti oppositori del regime d'isolamento (197). Nello stesso apparato burocratico si sviluppò una opposizione a tale sistema, sia per gli alti costi che sarebbe stato necessario affrontare per trasformare le prigioni esistenti secondo il modello cellulare, sia per i dubbi emersi sulla moralità di questa pratica. Si riteneva che il crimine fosse "troppo legato all'economia, ai mutamenti tecnologici, alla situazione della famiglia delle classi lavoratrici e a altri fattori incerti e incontrollabili perché fosse possibile influenzarne permanentemente e profondamente l'andamento con qualsiasi sistema di disciplina carceraria" (198). Tuttavia, come esperimento di una forma di disciplina mai applicata in passato, Pentonville si dimostrò un grande successo, suscitando emulazione in altre carceri inglesi ed europee. "Sebbene le critiche dei sostenitori del sistema di una vita in comune trascorsa in silenzio continuassero a farsi sentire, Pentonville rappresentò il trionfo del regime di isolamento" (199). I cappellani trovavano che l'uso delle celle individuali conferisse loro uno straordinario potere sulla psiche dei delinquenti; il digiuno e la limitazione dei privilegi di ricevere lettere e visite si dimostrarono strumenti di controllo efficaci quanto le catene e la frusta. "Catene e frusta continuarono a servire per punire gli atti di insubordinazione più gravi, ma le nuove 'micro-pene' rappresentarono un'aggiunta necessaria all'arsenale di strumenti di controllo, perché le antiche punizioni corporali non erano più ritenute adatte per quelle trasgressioni minori - strizzare gli occhi, far segni con la testa, incidere iniziali sulla tazza e altre simili - provocate dalla nuove norme" (200). Ma non tutte le cose andavano secondo le aspettative dei sostenitori del sistema dell'isolamento. "Ben presto i commissari di Pentonville cominciarono a ricevere rapporti dal medico del carcere sugli effetti psicologici dell'isolamento. I detenuti si recavano da lui lamentandosi di allucinazioni" (201); numerosi furono i casi di pazzia e di crisi depressive. Ogni anno da cinque a quindici detenuti venivano condotti da Pentonville la manicomio; se non guarivano, vi erano confinati fino a che non avessero scontato la condanna. Le autorità si assicuravano che forme di pazzia simulata non consentissero di sfuggire al penitenziario. In un primo momento si cercò di ovviare a questi 'inconvenienti' riducendo il periodo di isolamento assoluto da diciotto a nove mesi, abolendo gli scompartimenti separati nella cappella, i recinti individuali per gli esercizi fisici e le maschere che i detenuti dovevano portare nei corridoi per evitare di riconoscersi tra di loro. Alcuni detenuti non mostravano segni di sofferenza per il silenzio e la solitudine, ma la maggior parte riportava conseguenze di vario tipo. "Dopo la liberazione, i detenuti erano identificabili dai segni lasciati dalla prigione, i vestiti dati loro all'uscita, la testa rasata e il pallore della pelle. Vi erano poi i segni interiori: chi osservò qualche prigioniero dopo il rilascio, notò che molti soffrivano di crisi isteriche e di pianto. Altri trovavano assordante il rumore delle strade e chiedevano cotone da mettere nelle orecchie; altri ancora spaventavano i familiari con un torpore e un'indifferenza che passavano solo dopo alcune settimane" (202). Anche per questi motivi, "la fiducia nel potere di riforma del sistema di Pentonville sopravvisse a stento agli anni Quaranta. Nel decennio successivi si ricominciò nuovamente a sostenere che le 'classi pericolose' non erano in grado di ravvedersi, e benché l'isolamento restasse un elemento essenziale della disciplina carceraria per il resto del secolo, esso venne mantenuto più come strumento di terrore che di riforma" (203). Questi, dunque, gli sviluppi verificatisi in Inghilterra, esemplificativi di quanto avvenne nel Vecchio Continente; ma affrontiamo il fenomeno ad un livello più generale, approfondendo elementi sinora solo accennati. Nel resto dell'Europa dell'Ottocento, la situazione economica e sociale era, come in Gran Bretagna, assai problematica. Anche nelle zone meno sviluppate, aumentava a dismisura l'esercito industriale di riserva, e, con esso, il pauperismo e la criminalità. Dopo la rivoluzione e l'esperienza giacobina, in un momento in cui l'organizzazione della classe operaia è ai suoi primi passi, il terreno della criminalità, della soluzione violenta individuale, è quello privilegiato su cui avviene lo scontro di classe. "La grande disoccupazione, la disorganizzazione delle masse, la misera estrema che fa di questo periodo quello in cui il salario reale ha raggiunto forse il punto più basso dall'inizio dello sviluppo capitalistico in poi, ogni cosa spinge alla mendicità, al furto, in certi casi alla violenza e al banditismo, a forme primitive di lotta di classe come gli incendi nelle campagne, la rivolta contro le macchine e così via" (204). Il radicarsi di un'economia capitalista fa sorgere nella classe media emergente nuovi e più rigidi atteggiamenti nei confronti della criminalità e delle altre forme di illegalità messe in atto dalle classi subalterne, quali l'evasione fiscale e il mancato pagamento del canone locatizio, il contrabbando, la caccia e la pesca di frodo. "Tali forme di illegalità, diffuse e comunemente accettate nell'economia terriera dell'Ancien règime, iniziano a essere sentite come vere e proprie violazioni del diritto e, quindi, a essere sempre meno tollerate" (205). Di fronte a queste nuove istanze, il terrorismo non lineare della giustizia penale - con i suoi innumerevoli tribunali, i conflitti di giurisdizione, la mancanza di un apparato di polizia ben organizzato e le infinite possibilità di scappatoie giudiziarie - diviene a un tempo eccessivamente severo e inefficace. "Ciò che si invoca è un sistema di giustizia penale più razionale e certo, che possa contare su forme di controllo estese e capillari, su una procedura penale sistematica e uniforme e su un apparato sanzionatorio attentamente modulato per dare adeguate risposte alla criminalità. Non si ha di mira né l'eccesso né la mitezza, bensì la certezza dell'applicazione del diritto penale per tutti i cittadini" (206). Ciò, non solo per scoraggiare in maniera nuova e più efficace la delinquenza, ma anche per limitare il potere arbitrario del sovrano. "A questo duplice fine sono dirette le grandi riforme del diritto penale che si diffondono in Europa all'inizio dell'Ottocento, introducendo le codificazioni, la previsione e la definizione tassativa dei reati e della proporzione delle pene, e la riorganizzazione della procedura penale" (207). Si verifica una trasformazione sostanziale nella fenomenologia criminale: "sono infatti in progressivo incremento i reati contro la proprietà commessi da delinquenti professionali, indice di una maggiore pericolosità, soprattutto se si considera che lo sviluppo dei porti, la costruzione di magazzini e grandi officine sottopongono la proprietà di beni mobili a una situazione di rischio sempre maggiore" (208). Incremento demografico e sviluppo economico erano riusciti a imporre una nuova struttura sociale, e in particolare avevano determinato un'urbanizzazione estesa di molte nuove zone. "Ma non solo le dimensioni dei centri urbani nel secolo XIX erano in così netto contrasto con il periodo precedente: c'era anche la presenza di tanta evidente povertà urbana nonostante il manifesto sviluppo economico" (209). Uno degli elementi cruciali di questa nuova urbanizzazione era la divisione graduale che si affermò "tra coloro che chiamiamo i poveri che lavorano e coloro che il sistema aveva reso completamente inutili. Questo secondo gruppo, i Lumpen, era nato nel secolo XVIII, ma nel periodo successivo finì per costituire una vera e propria sub-cultura della povertà, con tradizioni proprie e perfino con proprie radici storiche" (210). La classe in questione era soprattutto un prodotto, non già dell'arretratezza, bensì del progresso; erano i 'rifiuti umani' prodotti dalla trasformazione sociale che accompagnò la nascita del capitalismo industriale (211). Con il tempo, non li si sarebbe più potuti considerare disoccupati, perché non avevano nessuna idea del lavoro come modo alternativo di esistenza. "Entrarono invece a far parte dell'esercito dei vagabondi urbani, che viveva in modo irregolare e semi-organizzato alla base della piramide sociale. Il proletariato, così come si sviluppò come classe, era circondato da parassiti umani, individui che lo sfruttavano in molti modi diversi" (212). Le comunità operaie utilizzavano i Lumpen solo per eseguire incarichi particolari e disdicevoli (213), che in realtà molto spesso erano crimini di vario tipi, ma in qualche modo accettati e quindi 'legali'. Non sorprende quindi che gran parte delle vittime dei crimini di strada commessi dai membri di questa classe di criminali Lumpen appartenesse anch'essa alle classi inferiori (214). "Nonostante le lamentele continue riguardo alle attività dei ladri negli ambienti benestanti, la gran parte dei furti era commessa a danno dei poveri. ... Nella mentalità popolare la criminalità ottocentesca veniva ora associata completamente ad una popolazione criminale specifica, con usanze, abiti, comportamenti e perfino sistemazione geografica distinti" (215). Come abbiamo visto, "lo schema generale della riforma penale si era iscritto, alla fine del secolo XVIII, nella lotta contro gli illegalismi: tutto un equilibrio di tolleranza, di appoggi e di interessi reciproci, che sotto l'Ancien Règime aveva mantenuto gli uni a fianco degli altri gli illegalismi dei differenti strati sociali, era venuto a rompersi. Si era allora formata l'utopia di una società universalmente e pubblicamente punitiva i cui meccanismi penali, sempre in attività, avrebbero funzionato senza ritardi, né mediazioni, né incertezze: una legge, doppiamente ideale perché perfetta nei suoi calcoli e inscritta nella rappresentanza di ogni cittadino, avrebbe bloccato, all'origine, tutte le pratiche di illegalità. Ora, nella svolta tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX, e contro i nuovi codici, ecco sorgere il pericolo di un nuovo illegalismo popolare" (216). Meglio, gli illegalismi popolari si sviluppano secondo nuove dimensioni: si inseriscono in un orizzonte politico generale, si articolano esplicitamente su lotte sociali, instaurano una rete di comunicazione tra le proprie diverse forme ed i propri diversi livelli. Tutto ciò ha supportato la grande paura nei confronti di una plebe che si ritiene criminale e sediziosa, insieme al mito della classe barbara, immorale e fuorilegge; il crimine diviene così fatto esclusivo di una certa classe sociale. Non è più il crimine a rendere estranei alla società, ma il crimine stesso è dovuto al fatto che si è nella società come estranei, che si appartiene a quella classe sociale degradata dalla miseria. "In queste condizioni sarebbe ipocrita o ingenuo credere che la legge è fatta per tutti in nome di tutti; ... è più prudente riconoscere che è fatta per alcuni e verte su altri" (217). In linea di principio essa obbliga tutti i cittadini, ma si rivolge principalmente alle classi più numerose e meno illuminate; nei tribunali non è la società tutta intera a giudicare uno dei suoi membri, ma una categoria preposta all'ordine ne sanziona un'altra votata al disordine (218). I contemporanei si convinsero dell'esistenza di una classe criminale professionale intorno agli anni Venti, e "si premurarono di distinguere tra i crimini commessi dai delinquenti abituali e quelli che scaturivano dalla criminalità della classe operaia. Questi ultimi, si pensava, erano evidentemente un sottoprodotto di tensioni continue, un atto disperato di persone che non si abbandonavano mai a tali gesti se non in momenti di crisi acuta. Invece il crimine professionale era un fenomeno affatto diverso (219), legato solo in modo indiretto alla povertà delle classi inferiori, e considerato un problema sociale in sé e per sé" (220). La professionalizzazione del crimine fu un altro dei fattori che influenzò la formazione, che abbiamo in parte già esaminato, di un nuovo apparato di polizia; vediamo come. Abbiamo visto come, nei primi decenni dell'Ottocento, si era fatta strada nella società la chiara consapevolezza che il crimine aveva mutato forma. "Da un lato, una parte significativa dell'opinione pubblica riteneva che il crimine commesso dai poveri che lavoravano, diversamente dalla criminalità professionale, poteva essere tollerato, perché chi lo perpetrava seguiva una condotta illecita mancando temporaneamente di attività più lecite. La criminalità della classe operaia era considerata semplicemente un'estensione dell'accattonaggio, unico mezzo di sopravvivenza dei lavoratori disoccupati" (221). La classe criminale professionale era quindi definita in primo luogo in base al suo rifiuto di lavorare, che portava necessariamente al delitto come conseguenza logica di tale decisione. Tuttavia, nel corso dell'Ottocento, nacque anche un'altra concezione del crimine. "Molti scrittori borghesi cominciarono a cancellare le distinzioni tra povero che lavora e povero criminale per poter spiegare la nascita dell'agitazione politica di massa in nome della classe operaia" (222). Le masse stavano infatti cominciando a sfidare l'egemonia politica della borghesia (223); era stata la borghesia a invocare l'autorità della legge per affermare i propri diritti politici, ma adesso sembrava che la classe operaia stesse imponendo la propria libertà politica attraverso la negazione della legge e dell'ordine. "Gli osservatori percepivano la degradazione della vita delle masse operaie come una profezia che si realizzava da sé, e quindi consideravano la violenza politica e il crimine una cosa sola" (224). In sostanza, il problema della criminalità era parte integrante del problema della disciplina e del controllo sociale. "Crimine individuale e crimine politico nascevano entrambi dalla riluttanza o dal rifiuto delle classi inferiori di rispettare l'autorità, e dalla loro negazione dei vincoli morali e culturali che giustificavano lo status quo. La spaccatura tra popolazione lavoratrice e non lavoratrice si era accompagnata a una spaccatura nella natura del crimine. Ogni gruppo commetteva il proprio genere di crimine; i lavoratori commettevano crimini politici, i non lavoratori commettevano crimini personali. Le classi al potere dovevano escogitare un metodo particolare per affrontarli entrambi" (225). La reazione delle classi dominanti fu, dunque, quella di ridurre al minimo le distinzioni circa il problema del crimine; il metodo pratico escogitato per fare fronte ai criminali fu la polizia. "Ancora intorno al 1830, il problema della violenza politica di massa restava distinto dal problema della criminalità. Ma la violenza politica cominciava a sfuggire di mano e l'esercito sembrava incapace di controllare grandi masse di dimostranti in modo pacifico" (226). La nuova epoca di agitazioni politiche esigeva nuove forme di controllo delle masse. Lo sviluppo di un sistema di polizia avvenne così come risposta alle agitazioni politiche ed alla violenza politica di massa, che rivelavano alle classi al potere una crisi della legge e dell'ordine. "Nel 1797 un ex mercante di Glasgow diventato magistrato, Patrick Colquhoun, pubblicò A Treatise on the Police of the Metropolis. Il libro fece scalpore; ebbe sette edizioni in dieci anni e fu tradotto in diverse lingue straniere. La reazione alla sua pubblicazione non fu dissimile dalla risposta avuta dal libro di Beccaria sul diritto penale. Per molti versi, il libro apriva un territorio del tutto nuovo" (227). In primo luogo, l'autore sottolineava come la presenza di un nutrito corpo di polizia non costituisse una minaccia per la libertà. A livello amministrativo, si proponeva una completa separazione tra polizia e magistratura; quest'ultima avrebbe avuto la funzione di controllare la prima. "Sul piano del controllo del crimine, l'autore chiedeva l'istituzione di un servizio d'informazioni organizzato, la creazione di un archivio dei criminali conosciuti e la pubblicazione di una 'Police Gazette' per informare il pubblico degli ultimi avvenimenti nel campo del crimine e dell'investigazione" (228). La polizia era l'organizzazione ideale per difendere la sicurezza nei periodi di disordini di massa proprio a causa delle tattiche illegali e amorali che aveva sempre usato per combattere l'elemento criminale. "Le energie della folla erano controllabili se si sorvegliavano attentamente i suoi capi, se si conoscevano i loro motivi e obiettivi e se si tenevano gli agitatori lontano dalla scena" (229). La polizia aveva utilizzato, sin dall'inizio, spie ed informatori in grado di venire a conoscenza di ogni piano criminoso, e pronte a rivelarlo dietro un adeguato compenso. "Si preferiva arrestare e trattenere illegalmente diversi criminali conosciuti, anziché rischiare un confronto armato con una folla numerosa e inferocita. La polizia, diversamente dall'esercito, si era specializzata nell'uso di comportamenti e abiti civili in modo da confondersi nella folla che doveva controllare, e questo era un prolungamento naturale della sua tattica di travestirsi per prendere in trappola criminali travestiti anch'essi. La comparsa dell'esercito sul luogo di una dimostrazione era sufficiente a scatenare la violenza, mentre la polizia con i suoi metodi non veniva notata dalla folla" (230). Nonostante i vantaggi evidenti del ricorso alla polizia per reprimere i disordini civili così come per combattere il crimine, un corpo nazionale di polizia non si sviluppò rapidamente in nessun paese europeo; fino a metà Ottocento, i corpi di polizia rimasero piuttosto scarsi in rapporto alla popolazione che dovevano proteggere. Tuttavia, gli effetti disciplinari conseguenti alla comparsa di una organizzazione deputata esclusivamente al controllo meticoloso di ogni aspetto della devianza politica e criminale consentirono alla società industriale di affinare ulteriormente il modello sorveglianza-punizione, fino a renderlo indispensabile alla sopravvivenza del sistema stesso. Ed è in questo contesto che si afferma la necessità di modificare il sistema carcerario. La svolta reazionaria della restaurazione corrisponde, almeno nei paesi più avanzati, al saldarsi di un fronte in cui ormai la borghesia vittoriosa si congiunge con i resti teorici e pratici del vecchio assolutismo. La borghesia si avviava a divenire la classe egemone della nuova struttura sociale imposta dalla rivoluzione industriale; momento portante di tale ascesa fu la formulazione di codici che formalizzassero i nuovi rapporti di potere che si erano andati consolidando. Il generale movimento verso al codificazione, che caratterizza la prima metà del XIXº secolo (231), mostra un intenso bisogno di unificazione e di certezza, sia per la gravità con cui le norme incriminatrici incidono su fondamentali beni del cittadino, sia per l'esigenza, rivendicata in modo nettissimo da filosofi e giuristi dell'epoca, di lasciare il minimo margine possibile all'arbitrio del giudice, deferendo alla legge ogni limitazione della libertà. Inoltre il vasto movimento di reazione manifestatosi contro le esistenti istituzioni penali e la spinta crescente contro leggi e procedure penali oppressive ed inique, alimentavano il movimento riformatore da un punto di vista sostanziale: i codici apparivano infatti la garanzia di un contenuto nuovo rispetto alle preesistenti forme di diritto. Il diritto, appunto, rivestiva un ruolo fondamentale di questo processo. Le "conquiste borghesi, quindi, sono assai più rivolte a consolidare l'egemonia della propria classe sull'insieme della struttura sociale e quindi oggettivamente contro proletariato, in quanto tale, che a garantirsi nei confronti di uno stato assoluto il quale, d'altronde, nella misura in cui fa suoi tali principi, è sempre più in mano borghese" (232). La vecchia gestione della questione punitiva viene così ad essere rivoluzionata in base ai nuovi criteri dei rapporti capitalistici di produzione. La borghesia "trovava nella pena detentiva scontata lavorando una sorta di concretizzazione materiale della sua concezione della vita basata sul valore-lavoro misurato dal tempo" (233). Le masse popolari, per contro, consideravano la struttura carceraria con occhio tutto diverso (234). "L'emergere di un incipiente potenziale politico delle classi subalterne impedisce, dalla Restaurazione in poi, di considerare la questione criminale e carceraria in particolare come slegata dallo scontro di classe più in generale. Il terribile aumento delle recidive è ciò che spinge i vari governi europei, nei primi decenni del XIXº secolo, ad occuparsi sempre più intensamente della questione della riforma carceraria, inviando osservatori presso altri paesi e principalmente negli Stati Uniti. Gustave de Beaumont e Alexis de Tocqueville visitarono il penitenziario di Philadelphia nell'ottobre del 1831. Era quello il momento in cui il principio del solitary confinement era seriamente minacciato dal nuovo modello penitenziario del silent system di Auburn. Nella loro successiva opera, del 1832, sul sistema penitenziario americano: "On the Penitentiary System in the United States and Its Application in France", riportarono le impressioni di quella visita istituzionale, le minuziose annotazioni sul trattamento dei detenuti e le registrazioni scritte dei colloqui con i membri dell'amministrazione nonché un'inchiesta tra gli internati (235). Le prime ricerche statistiche sulla criminalità che nascono, non a caso, in questo periodo, mostrano un rapido aumento dei delitti contro la proprietà. Come abbiamo visto, uno degli scopi principali che dovevano essere raggiunti, in passato, con il lavoro coatto, era un effetto livellatore verso il basso sui salari esterni, effetto che, tuttavia, solo parzialmente veniva raggiunto attraverso un puro e semplice meccanismo economico, e cioè la disponibilità della forza lavoro non libera, ma che era prodotto più che altro dall'impressione terroristica offerta dal carcere come destino obbligatorio per chi si rifiutava di lavorare o di lavorare a condizioni particolarmente dure. Adottato il principio della less elegibility, un lavoro esterno era pur sempre preferibile al carcere. "Anche se, storicamente, si è cercato di fare del lavoro carcerario un lavoro produttivo, nei fatti questa volontà è stata quasi sempre frustrata" (236). Il lavoro penitenziario, infatti, non ha mai effettivamente raggiunto la finalità di creare utilità economica, o se lo ha fatto è stato per lassi di tempo troppo brevi ed in presenza di congiunture economiche passeggere. Come attività economica, quindi, l'ipotesi penitenziari non è mai stata redditizia. "Più correttamente possiamo affermare che le prime realtà storicamente realizzate di carcere si sono strutturate (per quanto concerne la loro organizzazione interna) sul modello della manifattura, sul modello della fabbrica" (237). Ma una finalità, se vogliamo atipica, di produzione, cioè di trasformazione in qualcosa di più utile, il carcere, almeno nella sua origine storica, l'ha perseguita con successo: la trasformazione del criminale in proletario. "L'oggetto di questa produzione non sono quindi state tanto le merci, quanto gli uomini" (238). Il carcere può essere interpretato come una macchina capace di trasformare, dopo l'attenta osservazione del fenomeno deviante (239), il criminale violento, agitato, irriflessivo in un detenuto disciplinato, in un soggetto meccanico, attraverso l'apprendimento forzato della disciplina di fabbrica (240). "Nel periodo che si esamina ora, caratterizzato da disoccupazione e pauperismo crescenti, l'unico effetto intimidatorio possibile, per chi non ha in nessun caso possibilità di trovare lavoro, è di tipo politico, nel senso di stornare il disoccupato, il vagabondo, ecc. dallo sforzo di sopravvivere commettendo reati, mendicando e così via" (241). Ma dato che la posta in gioco per il disoccupato e per il povero di questi primi decenni dell'Ottocento è la sopravvivenza stessa, e non più solo la contrattazione delle condizioni dello sfruttamento, l'effetto intimidatorio diventa estremamente difficile da ottenersi, poiché basta che il carcere assicuri appena il minimo vitale perché la situazione detentiva divenga già migliore di quella libera. "Si moltiplicano così, in questo periodo, le proteste per l'opera riformatrice del tardo Settecento, meritoria sì per certi aspetti, ma che troppo ha migliorato le condizioni di vita interne al carcere" (242). Si sostiene che non è possibile che un carcerato possa godere di un tenore di vita pari a quello di un qualsiasi artigiano esterno (243). "Accade così che nelle carceri i detenuti cominciano ad ammalarsi e anche a morire per l'inedia; la politica maltusiana tende ad attuare i propri naturali risultati di genocidio del proletariato. È in questo clima che l'attenzione dei riformatori si rivolge allora alle esperienze americane" (244). La situazione della carceri Ottocentesche, come abbiamo in parte già potuto rilevare osservando la situazione inglese, non era certamente buona: la maggior parte di esse erano insalubri, la disciplina era mantenuta con metodi inumani, le misure igieniche erano assai scarse, il lavoro non era ancora ordinato in modo legale e regolare; vi era la confusione degli accusati con i condannati, dei giovani con gli adulti, degli uomini con le donne; inoltre, le leggi in materia carceraria di solito comprendevano le sole generalità, ragione per cui spesso i regolamenti interni alteravano la natura delle pene comminate dai giudici, alleviando quelle che dovevano essere più gravi od inasprendo quelle che dovevano essere più miti. Negli stabilimenti carcerari della prima metà dell'Ottocento, l'unica preoccupazione è quella di cautelarsi contro le evasioni, a tutto scapito della salubrità, della circolazione dell'aria e della luce; le costruzioni sono in genere insufficienti, "i condannati sono costretti in locali angusti ed antigienici, in una opprimente promiscuità, in celle fetide, che emanano esalazioni pestilenziali e provocano malattie sovente mortali. La disciplina è mantenuta da custodi educati al sospetto ed al rigore, che circolano per i vari locali accompagnati da feroci mastini, addestrati a scagliarsi sui detenuti riottosi; costante è poi l'uso dei ferri e dei ceppi per coloro che si mostrano inclini a sottrarsi alla disciplina carceraria" (245). Il XIXº secolo si apre così all'insegna del rinnovamento; "in ogni paese europeo si mobilitano schiere di esperti, commissioni di studio, si approntano questionari di inchiesta, si elaborano proposte, si sollecitano modifiche. Le invocazioni alla 'riforma' sono unanimi. Chi visita le carceri ne esce disgustato: sporcizia, fetore, promiscuità, assordante indisciplina. Gli illuminati indicano in questa degradazione il fallimento dei programmi rieducativi, ammoniscono che queste carceri non fanno che riprodurre la criminalità e favorire la recidiva" (246). In seguito all'aumento dei tassi di criminalità, "le carceri esistenti non erano affatto in grado di fronteggiare l'estensione della pena detentiva" (247). In gran parte, le costruzioni utilizzate in precedenza per i detenuti in attesa di giudizio venivano ora utilizzate per coloro che si trovavano in esecuzione di pena detentiva; il numero crescente delle condanne, specialmente negli anni venti, portò ad un sovraffollamento nelle principali prigioni europee. Non erano disponibili né tempo né denaro per la costruzione di nuove carceri, e le vecchie non erano abbastanza capienti. "L'unica alternativa diveniva quindi attrezzare costruzioni d'altro tipo come carceri di emergenza; inoltre ... i governi stavano in quel momento riducendo la stanziamento destinato al mantenimento dei detenuti" (248). Ci si trovava quindi di fronte a condizioni deplorevoli (249). Il fatto è che dopo la decadenza delle case di correzione, nessuna ipotesi di trattamento dei detenuti era stata sostenuta e praticata. Le case di correzione, agli inizi dell'Ottocento, si trovavano in gravissime situazioni economiche; i deficit delle amministrazioni erano altissimi, poiché la comparsa delle macchine filatrici aveva ridotto di molto la possibilità di produrre con i vecchi sistemi ad un costo concorrenziale. Ciò provocò un ritorno al metodo terroristico della gestione delle prigioni, che avrebbe caratterizzato buona parte del XIXº secolo. "Le condizioni di vita nelle carceri, già pessime a causa di una deliberata politica di privazioni e del numero rapidamente crescente dei condannati senza un aumento corrispondente degli stanziamenti, furono rese ancor più intollerabili dai mutamenti del sistema del lavoro carcerario" (250). Le case di correzione non costituivano più un affare redditizio; i profitti, che avevano arricchito chi gestiva il lavoro carcerario quando gli uomini erano pochi e le paghe alte, ora scomparvero; le entrate divennero insufficienti anche solo per il mantenimento dei detenuti e dei custodi. "La rivoluzione industriale rendeva sempre più difficile ottenere un profitto reale da una massa di detenuti corrotta e ammassata insieme indiscriminatamente; l'introduzione delle macchine aveva talmente annullato il valore del lavoro manuale che non era neppur più possibile concepire un sistema remunerativo di produzione, senza macchine, nelle carceri" (251). I riformatori contemporanei attribuivano le deficienze del sistema carcerario dell'inizio del XIXº secolo ad una amministrazione incompetente ed inefficace, alle gestione delle carceri come imprese private, alla detenzione dei condannati insieme agli imputati in attesa di giudizio, alla detenzione di donne ed uomini insieme. "Le carceri erano imprese commerciali gestite dai custodi e dagli ufficiali di polizia, che fornivano merci cattive a prezzi maggiorati ai detenuti che se lo potevano permettere, abbandonando gli altri al loro destino di malattia, di inedia e di morte" (252). Tali abusi, gradatamente, un paese dopo l'altro, scomparvero ma rimaneva il problema fondamentale; quali principi e quali metodi avrebbero dovuto presiedere al trattamento dei detenuti? "Gli autori dell'epoca mettevano in rilievo il fatto che la gran parte dei detenuti provenivano dagli strati più bassi della società, e che il problema quindi consisteva nel progettare un tipo di trattamento che avesse effetto intimidatorio su quegli strati" (253). Il compito era assai arduo; ovunque allora si levavano proteste per il fatto che la ridotta differenza tra le condizioni di vita in carcere e la normale esistenza della popolazione era una delle massime cause della rapida crescita della popolazione carceraria (254). I più poveri, in genere lavoratori a giornata, si lamentavano che i carcerati stavano meglio di loro, e che potevano gettare più pane di quanto loro riuscissero a guadagnarsi. Si giunse così a concludere che se il carcere avesse fornito un'esistenza più comoda di quella che gli operai urbani e rurali potevano permettersi col loro lavoro, esso avrebbe perduto ogni funzione deterrente, e coloro che erano usciti dal carcere sarebbero stati spinti a commettere nuovi reati per tornarvi (255). Da questa impostazione derivò la convinzione che la mera privazione della libertà non costituisse una pena efficace per le classi inferiori; si giunse infatti alla conclusione che condizione necessaria per il reinserimento del detenuto fosse la piena sottomissione all'autorità. I detenuti dovevano rassegnarsi ad una esistenza tranquilla, regolare e laboriosa; in questo modo la pena sarebbe anche divenuta più tollerabile, ed una volta che questa routine fosse divenuta un'abitudine, sarebbe stato compiuto il primo passo verso la correzione. "Non è tanto ai fini dell'ordinato svolgersi della vita carceraria che si richiede l'obbedienza, ma per il bene del condannato stesso, che deve apprendere a sottomettersi volontariamente al destino delle classi inferiori" (256). Il metodo pratico suggerito per ottenere questo fine consisteva nell'indurre i condannati a risparmiare, accreditando loro il valore del pane che erano in grado di non consumare immediatamente; "i condannati venivano in questo modo addestrati a risparmiare anche in tempi di bisogno e di miseria, in preparazione di tempi ancora peggiori" (257). Tutti condividevano l'opinione che non si dovesse fornire ai reclusi niente più del minimo vitale. "Il limite superiore del tenore di vita dei detenuti era così determinato da quello inferiore della popolazione libera" (258). Il meccanismo, un tempo soddisfacente, per cui la nutrizione ed il mantenimento dei detenuti erano affidate a imprenditori economicamente interessati al loro benessere fisico e alle loro capacità di lavorare, aveva ora conseguenze disastrose. "Poiché il vitto era stato ridotto ai minimi termini, nelle carceri in questo periodo si registrano in gran quantità casi di decessi per inedia, ci si nutre delle candele e persino dei rifiuti" (259). Si considerava sufficiente acquistare il cibo meno caro disponibile e cuocerlo nella maniera più semplice; non vi era alcun servizio sanitario, poiché spesso il sovrintendente doveva pagare egli stesso il medico e le medicine con il suo magro salario. "Un condannato alla galera di 30 anni aveva le stesse possibilità di vita di un uomo libero di 62 o 63 anni, la mortalità tra i detenuti era infatti altissima se si considera che la maggior parte di loro era nel pieno del vigore fisico. ... La loro mortalità era ... cinque volte maggiore di quella della popolazione libera" (260). Inoltre, molti detenuti venivano rilasciati in uno stato di salute talmente grave che morivano poco tempo dopo. Il sistema carcerario europeo ormai funzionava sulla base dell'ipotesi che lo Stato non poteva far fronte ai costi attraverso lo sfruttamento del lavoro dei condannati, e le case di correzione si trovarono improvvisamente del tutto dipendenti dai sussidi. "Questi, naturalmente, si cercò di tenerli al livello più basso possibile e v'erano essenzialmente due modi per farlo: uno era di continuare con il sistema d'appalto ma conferendolo non più al migliore offerente ma a chi richiedeva il minor sussidio per le spese di generali e per il mantenimento dei detenuti; l'altro era la gestione diretta da parte dell'amministrazione pubblica" (261). Quest'ultima possibilità poteva essere combinata, inoltre, con l'occupazione di soldati ritiratisi dalla vita militare, in modo da avere una fonte di agenti di custodia a poco prezzo; oltretutto, ciò avrebbe contribuito all'introduzione nelle carceri dell'ordine militare e della disciplina. "Nella nuova situazione economica, la concorrenza sul libero mercato tra i prodotti del lavoro carcerario e quelli del libero mercato divenne un problema serio; in realtà esso lo era sempre stato: durante il mercantilismo erano le corporazioni a porre difficoltà allo sfruttamento del lavoro carcerario, specialmente rifiutando di accettare apprendisti provenienti dalle carceri, e tuttavia si trattava di un'opposizione che non riusciva a raggiungere il suo scopo a causa della scarsità di forza-lavoro e perché spesso le merci prodotte nelle carceri erano di qualità superiore" (262). Ora, le cose erano radicalmente cambiate, ed il lavoro in carcere venne violentemente attaccato sia dai lavoratori che dagli imprenditori, perché i prodotti venduti a prezzi inferiori costituivano una concorrenza scorretta nei confronti delle merci prodotte con lavoratori liberi, i quali si sarebbero impoveriti e sarebbero stati spinti sulla strada del crimine, ottenendo un effetto opposto a quello, intimidatorio, voluto. Inoltre, ora che occupare i detenuti non era più economicamente vantaggioso, essi venivano sempre più frequentemente lasciati in ozio, facendo emergere così tutta l'irrisolta questione dello scopo della pena, che andava assumendo sempre più un aspetto repressivo e terroristico. Le carceri venivano trasformate in strumenti razionali ed efficienti di terrore, rivolti contro le classi inferiori, "strumenti che non avrebbero portato il condannato alla morte ma che lo avrebbero segnato per sempre con il marchio del terrore" (263). Fu in Inghilterra che il lavoro carcerario, da fonte di profitto, divenne metodo punitivo (264). "Il lavoro in carcere divenne così uno strumento di tortura e le autorità furono sempre più abili nell'inventare sistemi nuovi: occupazioni di carattere esclusivamente punitivo venivano rese estremamente faticose e prolungate poi per periodi di tempo assolutamente insopportabili" (265). In questo quadro i problemi dell'organizzazione penitenziaria vengono visti ed affrontati come questione del tutto avulsa dalla realtà sociale; il fenomeno della delinquenza viene considerato come un fatto ineliminabile, che deve necessariamente esistere, che sorge dal nulla e di cui pare sia proibito ricercare le cause e le componenti politico-sociali. Non una parola viene spesa sui presupposti dell'ordinamento penitenziario, sul codice penale, sulle categorie di coloro che con maggiore frequenza finiscono in carcere e sui reati per cui vengono condannati. Si ricava l'impressione di una "totale assenza di una volontà politica di affrontare la riforma delle strutture carcerarie, o, meglio, si ha l'impressione di una precisa volontà di perpetuarle, in quanto strumenti congeniali all'assetto sociale" (266). Nel corso del XIXº secolo, se qualcuno commetteva un delitto od un crimine era, si pensava, perché non lavorava. "Se avesse lavorato, cioè se fosse stato preso nell'ingranaggio disciplinare che fissa l'individuo al suo proprio lavoro, non avrebbe commesso il delitto. Allora come punirlo? Ebbene, con il lavoro" (267). Il paradosso consiste nel fatto che di questo lavoro, presentato come desiderabile e come mezzo di reinserimento del delinquente nella società, ci si serve come di uno strumento di persecuzione fisica, imponendo al condannato l'attività più incolore, monotona, violenta, faticosa e, al limite, mortale. I detenuti trasportavano pesanti macigni da un luogo ad un altro per poi riportarli indietro, azionavano pompe dalle quali l'acqua usciva nuovamente alla sua fonte, oppure macchine ad energia umana (treadmills). Un semplice tipo di treadwheel venne studiato da William Cubitt nel 1818: tale macchina a gradini, di cui abbiamo già delineato le caratteristiche essenziali, veniva considerata un successo "non solo perché metteva a disposizione uno strumento facile e poco caro per costringere i detenuti al lavoro, ma anche perché aveva una notevole funzione deterrente verso coloro che avrebbero potuto considerare il carcere ultimo rifugio" (268). Tale innovazione venne introdotta in ogni carcere riformato, dove veniva usata per macinare grano, pompare acqua, fornire l'energia per battere la canapa, tagliare il sughero o per azionare altre macchine, oppure, infine, senza scopo alcuno. "La tread-wheel o il crank erano semplici strumenti che potevano essere sistemati in una cella e il cui significato reale, pur avendo parvenza di strumenti di lavoro, era il tormento, la tortura" (269). A cavallo tra la prima e la seconda metà dell'Ottocento, trionfa in Inghilterra, e si diffonde in tutta Europa, il principio terroristico, e con esso quello dell'isolamento cellulare e del lavoro inutile. I principi di giustizia allora vigenti imponevano una concezione della pena detentiva come qualcosa di più della mera privazione della libertà, e comportavano una certa quantità di asprezza e di sofferenza; "la fame, la flagellazione e il lavoro duro avrebbero svolto il loro compito, cosicché non vi sarebbe stato nessuno talmente povero e miserabile da non far tutto ciò che era in suo potere per starsene fuori dalle mura del carcere" (270). La possibilità che il carcere potesse perdere i suoi effetti intimidatori giaceva al di là della sfera del pensiero razionale. Nel Vecchio Continente, dunque, come si può facilmente intuire dalla gravità e dall'importanza della situazione che abbiamo sinora esaminato, "gli anni trenta e quaranta del secolo diciannovesimo furono caratterizzati ... da una discussione assai ampia sulla 'miglior' forma di carcere" (271); la discussione sulla riforma penitenziaria si fuse con quella sui due sistemi applicati negli Stati Uniti, che divenivano poi più di due per i vari possibili incroci che generavano ulteriori nuove soluzioni (272). "Partecipavano a queste discussioni uomini che, pur portatori di un'ormai diversa ideologia, continuavano nella loro attività la tradizione dei philosophes illuministi: cultori di scienze umane le più varie, essi erano spesso autori di saggi, relazioni, giornali di viaggio, progetti di riforma su temi diversi tra loro ma che essenzialmente riguardavano l'organizzazione complessiva, nelle sue mille particolari sfaccettature, della nascente civiltà borghese ed in particolare del suo Stato" (273). Le posizioni di entrambe le esperienze statunitensi partivano, come abbiamo rilevato, dal presupposto della necessità di evitare la corruzione del contatto tra le varie categorie di detenuti, corruzione che si diceva essere alla base del fenomeno indicato allora come il più preoccupante della questione penale, l'aumento delle recidive. "Se da un lato i sostenitori del sistema d'Auburn, peraltro in minoranza, denunciavano il notevole aumento dei casi di follia e suicidio che si verificavano nei penitenziari condotti secondo il modello philadelphiano dell'isolamento continuato, i sostenitori di quest'ultimo facevano proprie le teorie quacchere sulla grande efficacia morale della meditazione e del conforto di persone di sani e provati sentimenti la cui frequentazione il pur rigido sistema prevedeva" (274). Accusavano inoltre il sistema del silenzio di essere di assai difficile attuazione, e di costringere i guardiani all'uso eccessivo della violenza (275) per far rispettare le regole agli internati (276). Molti si opponevano al progetto d'isolamento, sostenendo che la solitudine "abbrutisce i sentimenti non meno della pena fisica e, come ogni punizione, infligge dolore anche se di tipo psicologico. Non otterrà perciò mai il consenso e il rispetto dei detenuti e riuscirà solo a suscitare la loro resistenza e il loro risentimento" (277). Era inutile sperare che gli uomini cambiassero lasciandoli soli con la propria coscienza (278). L'isolamento era un ingegnoso strumento di tortura intellettuale, che distruggeva il corpo attraverso le agonie della mente. "I criminali incalliti si sarebbero ... rotolati nel lusso della vendetta, mentre prigionieri veramente pentiti sarebbero stati portati alla pazzia dalle torture procurate dai sensi di colpa" (279). La rieducazione doveva essere un processo sociale; il contatto con il mondo esterno era necessario a mantenere vivi nel delinquente il senso di vergogna e la capacità di reintegrarsi. "Spezzando i legami con la società, l'isolamento finiva semplicemente per aumentare il grado di alienazione del criminale" (280). Tuttavia, "i visitatori europei ritennero il sistema auburniano poco severo, anche perché i detenuti erano stimolati al lavorare certamente più dall'aspettativa di privilegi e ricompense che per il timore della disciplina" (281). "Il sostanziale disinteresse della cultura europea per il problema del lavoro in carcere (282) si manifesta nel fatto che la differenza fondamentale tra i due sistemi - l'essere nell'uno possibile l'attuazione di un vero e proprio processo lavorativo produttivo e nell'altro no - passava di solito inosservata, o perlomeno non come discriminante essenziale" (283). Assai più importante era invece la considerazione che il sistema philadelphiano, con l'esosa pretesa degli stabilimenti cellulari, richiedeva una grossa spesa; questa fu poi la ragione per cui anche diversi Stati, che in linea di principio avevano mostrato il loro favore per tale soluzione, di fatto non l'attuarono (284). Mentre i classici sistemi penitenziari di Philadelphia e di Auburn, nei quali il lavoro svolge rispettivamente una mera funzione punitiva ovvero è organizzato secondo schemi produttivistici e competitivi, entrano in funzione, in Europa il dibattito sui pregi e sui difetti dei due sistemi si svolge su un terreno prevalentemente ideologico e moralistico: "mancavano infatti nell'Europa della prima metà dell'ottocento i presupposti economici e di mercato per una qualsiasi utilizzazione o strumentalizzazione produttivistica del lavoro carcerario" (285). Le posizioni dei vari stati, a favore di uno o dell'altro sistema, vennero discusse in una serie di congressi internazionali sui problemi penitenziari: il fatto che alle istituzioni privative della libertà personale venisse dato un tale rilievo, che allo studio dei modi per perfezionarle si dedicassero praticamente tutti i pensatori, i filosofi, ed i filantropi dell'Europa intera, stava a dimostrare come il carcere si fosse guadagnato un ruolo egemonico all'interno dell'universo punitivo; ruolo che, proprio nel periodo che stiamo esaminando, sarebbe andato sempre più consolidandosi, tanto che, alla fine dell'Ottocento, tutte le altre vecchie forme punitive possono dirsi definitivamente abbandonate (286). A partire dalla seconda metà del XIXº secolo "in tutti i paesi borghesi, l'istituzione carceraria si allinea, ormai matura e pronta alla bisogna, tra i vari momenti dell'organizzazione sociale capitalistica" (287): è la definitiva consacrazione del carcere moderno. Comunque, nonostante gli innumerevoli dibattiti sulla questione, che proseguirono e si inasprirono anche dopo che una decisione fu presa, la linea che finì per prevalere nel corso dei Congressi penitenziari internazionali (288) fu quella del sistema dell'isolamento continuo: questo, proprio a seguito del disinteresse di società oberate di manodopera (289) per il lavoro forzato che era possibile ad Auburn, e del favore "per l'atteggiamento terroristico che di fatto la scelta per il modello philadelphiano esprimeva, nella consapevolezza dell'orrore che al reo potenziale avrebbe ispirato la prospettiva di trascorrere in continua solitudine - spesso accompagnata da qualche 'lavoro' inutile e ripetitivo ch'era invece vera e propria tortura fisica - cinque, dieci, venti anni di condanna" (290). La disputa sui due sistemi, che si solleva in tutta Europa, coincide poi con il sollevamento reazionario sui temi della criminalità. Il sistema philadelphiano, che aveva avuto scarsa fortuna in America (291), è dunque accolto in maniera sempre più favorevole in Europa, "perché corrisponde perfettamente a quell'esigenza di carcere punitivo e deterrente, senza uso di un lavoro 'utile', che era andata formandosi in Europa e in particolare in Inghilterra" (292). Il lavoro, nel sistema dell'isolamento cellulare, è un lavoro che ha conservato il solo aspetto ripetitivo, faticoso, monotono, in una parola, ancora, punitivo, del lavoro esterno, ma che è completamente inutile. Il grave declino delle condizioni di vita all'interno delle carceri si accompagnò così ad un uso sempre più limitato del lavoro produttivo (293). Inoltre, le stesse masse popolari avvertivano chiaramente la minaccia di concorrenza al lavoro libero rappresentata dal lavoro carcerario, specie nella situazione corrente di elevata disoccupazione. Il movimento operaio - analogamente a quanto sarebbe avvenuto alcuni anni dopo negli Stati Uniti - divenne per lunghi anni uno dei principali ostacoli al lavoro dei detenuti. La costruzione di carceri penitenziarie, tuttavia, se fu oggetto di approvazione entusiastica da parte di quasi tutti coloro che intervennero nella discussione (il dibattito verteva sulla scelta tra ipotesi philadelphiana o auburniana, non sulla scelta del modello di carcere), fu però caratterizzata da ritardi, esitazioni, dubbi, per cui, se si guarda più alle realizzazioni pratiche, che alle parole, si può dire che il sistema carcerario nel suo complesso fu assoggettato a non eccessive modifiche (294). Con tutti questi limiti, gli anni quaranta furono gli anni del trionfo del sistema separate. In sintesi, oltre all'esigenza di una pena terroristica, militarono in favore dell'introduzione della segregazione cellulare gli indici sempre crescenti di popolazione carceraria e l'impossibilità di un'utilizzazione economicamente vantaggiosa della forza lavoro detenuta. In questi anni furono avviati i classici esempi di Pentonville, che abbiamo esaminato poc'anzi, Preston e Reading. La realtà americana, come abbiamo potuto vedere, conobbe limitate esperienze di segregazione cellulare, che si ebbero solo in alcuni penitenziari e che vennero abbandonate perché fu più vantaggioso trasformare le carceri in fabbriche; "lo scopo della pena si limitava, quindi, alla semplice privazione della libertà e all'obbligo di un lavoro coatto non retribuito o sottopagato, così che il fine principale della pena detentiva ... sembrava, in effetti, essere più la produzione di manufatti che la rieducazione di esseri umani" (295). Ciò che occorreva, invece, alla società europea, con il suo esercito industriale di riserva, era una pena che riuscisse a terrorizzare anche le masse che morivano di fame. "Questa necessità di una pena intimidatrice ebbe un ruolo importante nell'introduzione della segregazione cellulare in Europa: il senso di completa dipendenza e di bisogno determinato dall'isolamento cellulare veniva infatti considerato il tormento più insopportabile che si potesse infliggere al condannato" (296). Il primo momento penitenziario, se si prescinde dalla funzione ispettiva, cioè del carcere come osservatorio privilegiato della marginalità sociale, si caratterizza, infatti, per una tensione verso una progressiva riduzione della personalità criminale ad una dimensione omogenea: a puro soggetto, cioè, del bisogno, attraverso la riduzione del carcerato a soggetto coattivamente privato delle sue relazioni intersoggettive. "Astratto dalla sua dimensione reale, ridotto a soggetto completamente irrelato dal sociale, il carcerato si sente 'solo' di fronte ai bisogni materiali" (297). Una volta ridotto il carcerato a soggetto astratto, una volta annullata la sua diversità, una volta messolo di fronte a quei bisogni materiali che non può più soddisfare autonomamente ma solamente tramite l'amministrazione penitenziaria, una volta compiute tutte queste operazioni, al soggetto internato viene imposta l'unica possibile alternativa alla propria distruzione, alla propria follia: la forma morale della soggezione (298). Questa operazione trova poi nei processi di classificazione delle 'specie' criminali e nella norme disciplinari della segregazione cellulare gli strumenti più idonei. "L'isolamento ... tende, tanto fattualmente che ideologicamente, a contrapporsi, da un lato, a quella che era sempre stata la gestione caotica e promiscua del carcere di prevenzione, e, dall'altro lato, ad impedire la spontanea coesione-unione tra i diseredati, tra i membri della stessa classe" (299). Coesione-unione doppiamente pericolosa: perché alimenta la sub-cultura carceraria, cioè un complesso di valori alternativi; perché possibile veicolo della diffusione di un ordine, di una disciplina diversa da quella istituzionale. L'isolamento, il colloquio costante con la propria coscienza, riducono progressivamente, fino alla completa distruzione, ogni 'struttura del se': "è così esorcizzata, per sempre, la paura della contaminazione criminale" (300). Sradicato dal suo universo, il detenuto in isolamento progressivamente prende coscienza della propria debolezza, della propria fragilità, del suo assoluto dipendere dall'amministrazione; prende cioè coscienza del suo essere totale soggetto del bisogno. In questo modo si attua la "trasformazione del 'soggetto reale' (criminale) in 'soggetto ideale' (carcerato)" (301). Contemporaneamente, il momento disciplinare coattivamente propone-impone al carcerato, in scala miniaturiale, il meccanismo dell'universo sociale perfetto: "un insieme, cioè, di rapporti gerarchizzati, piramidalmente orientati" (302). La regola del silenzio sembra avere una doppia valenza, rimasta praticamente immutata nei secoli: livellare, e quindi rendere uguali tutti di fronte alla norma e al dovere, e differenziare con premi e privilegi (il non silenzio, la partecipazione ad una vita più collettiva), e quindi creare un regime di discriminazione e individualizzazione assai efficace. "Inoltre, ingrediente fondamentale della deterrenza, il regime del silenzio può graduare la punizione fino a livelli di orrore inimmaginabile, senza esercitare alcuna violenza visibile sul condannato" (303). Il nuovo sistema sanzionatorio persegue così finalità normalizzatrici, non punitrici ma correttrici, dirette a indurre conformità piuttosto che ad esigere retribuzione o espiazione. La normalizzazione si avvale di mezzi di valutazione dell'individuo rispetto ad un modello di condotta desiderato: mezzi di conoscenza delle azioni individuali, di osservazione dei movimenti, di valutazione e di misurazione del comportamento rispetto ad una regola. Ogni scostamento dalle norme prefissate, oltre ad essere rilevato e registrato, viene sottoposto ad un rimedio tempestivo ed individualizzante. In una società già avvezza ai meccanismi disciplinari, la prigione appare giusta in tutta la sua evidenza fin dall'inizio. La funzione del carcere, così, oltre ad essere quella di isolamento e di privazione della libertà, è anche quella disciplinare, di trasformazione degli individui. Le tecniche penitenziarie di isolamento, lavoro, trattamento individualizzato, e gli sconti di pena previsti in relazione ai progressi fatti dal detenuto nel corso del programma di rieducazione sono tutti elementi caratteristici del processo disciplinare. La nascita della prigione disciplinare porta all'emergere "di un nuovo corpus di informazioni e di saperi sulla persona del criminale, fino ad allora del tutto ignorato. Le pratiche carcerarie dell'isolamento, dell'osservazione, della valutazione individuale fanno si che i rei non siano più concepiti in modo astratto, ma come soggetti da studiare in quanto dotati di caratteristiche, peculiarità e differenze concrete" (304). La prigione prende carico di tutti gli aspetti dell'individuo: il suo addestramento fisico, la sua attitudine al lavoro, la sua condotta quotidiana, la sua attitudine morale, le sue disposizioni. La prigione non ha esterno né lacune, non si interrompe finché il suo compito non è finito, la sua azione sull'individuo è ininterrotta: disciplina incessante. Inoltre, essa ha un potere quasi totale sui detenuti, ha i suoi meccanismi interni di repressione e castigo. Il suo metodo di azione è la costrizione di una educazione totale: "in prigione il governo può disporre della libertà della persona e del tempo del detenuto; quindi si intende facilmente la potenza dell'educazione che, non solamente in un giorno, ma nella successione dei giorni, perfino negli anni può regolare per l'uomo il tempo della veglia e del sonno, dell'attività e del riposo, il numero e la durata dei pasti, la qualità e la razione degli alimenti, la natura e il prodotto del lavoro, il tempo della preghiera, l'uso della parola e, per così dire, fin quello del pensiero, questa educazione che, nei semplici e corti tragitti dal refettorio al laboratorio, dal laboratorio alla cella, regola i movimenti del corpo e, perfino nei momenti di riposo, determina l'impiego del tempo, questa educazione che in una parola prende possesso dell'uomo tutto intero, di tutte le facoltà fisiche e morali che sono in lui e del tempo in cui egli esiste" (305). "In questi termini si può affermare che la prigione conduce alla scoperta del 'delinquente', ossia del tipo di criminale la cui biografia, carattere e ambiente di provenienza lo marchiano come 'diverso'. La prigione mira ad individualizzare i rei, a giungere ad una loro intima conoscenza, e a determinare il rapporto tra il carattere ed il comportamento delittuoso. A questa stessa matrice si può far risalire anche la nascita della scienza criminologica, la quale, appunto, si incarica di indagare le radici della criminalità e di descriverle in ogni sfaccettatura" (306). I riformatori ritennero sinceramente di avere realizzato i loro intendimenti umanitari attraverso l'applicazione inflessibile della segregazione cellulare; contrari ad una pena che fosse di tormento per il condannato, in quanto ne desideravano la redenzione, "non avrebbero mai sopportato un ritorno alle pene corporali, anche se, per la verità, non avevano ancora completamente abbandonato l'idea che il carcere dovesse anche intimidire" (307). In difesa dell'isolamento cellulare i riformatori facevano osservare come l'intemperanza e l'assenza di riflessione fossero le cause principali del crimine; "solo nella sua cella, il criminale viene assalito dai rimorsi della sua coscienza, è tormentato da una reazione violenta di sentimenti, nella sua anima si agita un conflitto tra le cattive abitudini contratte e le emozioni della sua indole migliore (il che, sfortunatamente, poteva portare alcuni alla follia) e a questo stato segue, il pentimento e al rigenerazione dello spirito" (308). La segregazione cellulare era un sistema che serviva anche egregiamente alle amministrazioni penitenziarie per mantenere la disciplina. "Quando, infatti, imperava ancora il vecchio regime carcerario, l'amministrazione aveva dovuto far fronte a masse crescenti di detenuti, sempre pronti a rivoltarsi contro il sistema disciplinare, ragione questa che aveva comportato un'altrettanto progressiva violenza da parte dell'apparato repressivo" (309). Indubbiamente, il nuovo sistema rendeva il governo delle carceri molto più agevole, in quanto l'intero apparato disciplinare unitamente alla stessa architettura del penitenziario cellulare avevano ormai di fronte un detenuto isolato e solo. "Bisogna anche tener presente come la segregazione cellulare rendesse finalmente possibile un atteggiamento nei confronti del criminale più obiettivo e sereno, senza per questo dover allentare la disciplina interna" (310). Tuttavia, "l'esperienza non ha potuto che dimostrare il completo fallimento della segregazione cellulare, un metodo probabilmente adatto per un essere eccezionale - criminale o meno - ma certamente non idoneo per educare una collettività di individui normali" (311). Se per qualcuno questa pena poté anche essere di aiuto nel prendere coscienza dei propri errori, certamente, per la grandissima maggioranza dei carcerati, quest'esperienza ha voluto dire malattia, sofferenza, follia e soprattutto una maggiore emarginazione dal contesto sociale. Numerose strutture penali, riproduzioni più o meno fedeli dei modelli base, vennero costruite in questi anni in Europa ed in Nord America. È utile considerare questo fenomeno anche alla luce della tendenza all'abolizione della pena di morte, che provocò dovunque vasti cambiamenti legislativi. "Non c'è contraddizione fra la tendenza umanitaria della legge penale e la severità del sistema penitenziario. Stando a un più stretto esame, le due tendenze si combinano e si sostengono l'un l'altra: la drastica riduzione dell'applicabilità della pena di morte rende necessaria la custodia degli individui considerati altamente pericolosi; d'altra parte, non è stata accettata la tendenza ad abolire la pena di morte senza cooperanti garanzie che l'individuo, salvato da morte fisica, non sia confinato in uno stato di morte civile" (312). La giustificazione posta è quella di una riedificazione morale attraverso la sofferenza e la meditazione, un processo favorito dal completo isolamento e dalla negazione o quasi della minima autonomia. Ma già all'inizio del decennio successivo gli entusiasmi per il sistema cellulare cominciarono a venire meno. "In primo luogo l'isolamento assoluto si era rivelato, all'esperienza pratica, come un obiettivo impossibile da raggiungere" (313). Nonostante le barriere tra detenuto e detenuto nelle cappelle e l'obbligo del cappuccio per i detenuti ogni volta che lasciavano le loro celle, era risultato che le comunicazioni avevano luogo lo stesso. "Inoltre il sistema dell'isolamento era stato caratterizzato da tutta una serie di abusi commessi da direttori i quali non avevano compreso il suo vero spirito ed avevano fatto ricorso al solitary confinement soltanto come pena" (314). Infine, gli sbandierati miglioramenti morali dei carcerati, che avrebbero dovuto derivare dal sistema cellulare, erano lontani dal manifestarsi. I cappellani, poi, non riuscivano a comprendere in cosa propriamente dovesse consistere il proprio intervento, e non si davano la minima cura di assistere il condannato al fine di migliorarlo. "Benché il favore verso l'isolamento continuasse a caratterizzare i costruttori di prigioni, una reazione si andava delineando nella opinione pubblica e nella classe politica" (315). Da un lato una nuova generazione di riformatori tornava al vangelo della salvezza 'preventiva' dal crimine attraverso l'industria; dall'altro cresceva a vista d'occhio la disillusione nelle possibilità di riforma morale dei carcerati attraverso il sistema esistente di disciplina carceraria. "L'attenzione cominciava ad essere portata non tanto sull'isolamento come fonte di miglioramento del comportamento dei detenuti, quanto sulla possibilità loro offerta di passare in carcere un tempo inferiore a quello previsto nella sentenza di condanna, qualora si fossero ben comportati" (316). Il sistema ruotava assai più sullo svolgimento di un onesto lavoro che sulla separazione e sul silenzio. "La ispirazione originaria era ormai venuta meno del tutto, lasciando dietro di sé un generale disincanto circa la possibilità di un miglioramento morale conseguibile nel carcere" (317). Nonostante l'entusiasmo iniziale, quindi, in molti paesi il sistema della segregazione cellulare non fu adottato, anche per gli enormi costi che tale innovazione avrebbe comportato. Si cercò però di ottenere gli stessi vantaggi in modo più semplice e meno dispendioso: per isolare tra loro i detenuti che vivevano ancora tutti insieme, fu imposta la regola del silenzio assoluto. "Gli internati erano anche obbligati a rimanere seduti o fermi al loro posto nelle ore in cui erano liberi dal lavoro, sabati e festività comprese" (318). Ma i risultati di questo nuovo metodo non soddisfacevano le aspettative: infatti i carcerarti "non avevano che una sola preoccupazione, di stabilire, cioè, qualche forma di contatto con gli altri compagni di sventura" (319). I dubbi a proposito del sistema penitenziario aumentarono dopo la sospensione della deportazione nel 1853. Anche in questo caso sarà utile analizzare più dettagliatamente l'esperienza inglese, in quanto la più rappresentativa dei mutamenti che l'istituto della deportazione stava in patria sul attraversando. In conseguenza delle proteste delle colonie australiane e delle polemiche valore deterrente che poteva avere inviare un condannato in una colonia sempre più stabile e prospera, il governo inglese cominciò, dal 1848, a sostituire la deportazione con la detenzione in una rete nazionale di prigioni. "Fra il 1848 e il 1863 la detenzione, usata in passato per delitti minori, venne trasformata in una pena inflitta anche per i crimini maggiori" (320). Le autorità si vennero quindi a trovare nelle necessità di gestire condanne a lunghi periodi detentivi; alla metà degli anni Cinquanta condanne lunghe erano divenute comuni, in sostituzione della deportazione, ormai abbandonata. "I delinquenti erano infatti mandati ai lavori forzati in una serie di prigioni apposite, gestite dal governo, e messi a cavar pietre per opere pubbliche, a costruire argini o a lavorare nei cantieri regi. Questo periodo di lavori forzati faceva seguito a sei mesi di isolamento a Pentonville" (321). Scontata la condanna, i detenuti erano rilasciati in libertà vigilata, con l'obbligo di presentarsi a intervalli regolari alla polizia, di mantenere una occupazione fissa e di evitare legami con altri ex-detenuti. "Le prime persone ad ottenere la libertà vigilata furono rilasciate nel 1853 fra il timore generale" (322); l'opinione pubblica era preoccupata dal fatto che non si potesse più liberare il paese dai criminali incalliti con la deportazione nelle colonie. "I detenuti in libertà vigilata si videro esclusi da quasi tutte le occupazioni e dovettero subire le vessazioni della polizia e gli insulti della stampa" (323). Molti di loro non avevano opinioni politiche, ma vennero ben presto additati quali fonti di potenziali pericoli per lo stato; alcuni di essi riferirono episodi di molestie da parte della polizia e di ripulsa da parte dei datori di lavoro. "Come le persone in libertà vigilata, così anche i detenuti ancora in carcere non accolsero favorevolmente la sospensione della deportazione e la sostituzione con lunghi periodi detentivi" (324); per loro il cambio poneva fine drasticamente alla possibilità di iniziare una nuova vita nelle colonie. Alla metà del secolo, i penitenziari furono così sconvolti da disordini, rifiuti in massa di lavorare, assalti di gruppo alle guardie e tentativi di fuga, intesi a fare pressioni affinché fossero eliminate le novità nelle sentenze e riprendessero le deportazioni. "Se i direttori rifiutavano di cedere alle loro richieste, tuttavia i disordini fecero comprendere che la loro autorità dentro i penitenziari non era assoluta come si pensava. Le sommosse rivelarono che essi potevano garantire l'ordine solo finché rispettavano quella sorta di codice di equità stabilito dai detenuti" (325). Tutte le volte che tentavano di modificare le consuetudini carcerarie, le autorità si trovavano di fronte all'opposizione attiva dei prigionieri. Solo dopo qualche anno i disordini nelle carceri e l'ansietà pubblica cominciarono a diminuire. "L'opinione pubblica si abituò gradatamente all'abolizione delle deportazioni e al rilascio di ex-detenuti in patria" (326). I direttori dei penitenziari fecero del loro meglio per riacquistare la fiducia del pubblico nelle loro istituzioni. "Consci che l'opinione pubblica era favorevole a una maggiore severità, essi ridussero le diete e imposero restrizioni sempre più dure ai detenuti in libertà vigilata" (327). Si cominciò a revocare tale istituto a chi non si presentava al controllo; venne costituito un contingente speciale della polizia, addetto alla sorveglianza dei detenuti in libertà vigilata, ed incaricato di tenere schede segnaletiche a disposizione dei tribunali. "Alla fine degli anni Sessanta venne introdotto l'uso di fotografare gli ex detenuti, e durante gli anni Novanta si cominciarono a prendere le impronte digitali allo scopo di facilitare l'identificazione e la sorveglianza di 'criminali abituali'" (328). Questi tentativi di estendere la sorveglianza esercitata all'interno del penitenziario ai delinquenti rilasciati provano quanto fosse profonda la disillusione nelle possibilità redentrici dei penitenziari, e sono indice di un mutamento nella strategia del controllo sociale. "Avendo rilevato che vi erano delinquenti che resistevano a qualsiasi sforzo rieducativo, lo stato adottò l'espediente di identificare questa sottopopolazione il più accuratamente possibile, controllando i suoi movimenti nelle vie e mettendola in condizione di non nuocere nuovamente. Nell'ambito di questa strategia le carceri non furono più usate allo scopo di riformare, ma per porvi i delinquenti in una sorta di quarantena" (329). In tal modo i penitenziari, che erano stati istituiti negli anni Quaranta come strumenti per modificare il carattere umano, sopravvissero sino al tardo Ottocento in virtù della loro funzione repressiva. "L'isolamento, introdotto come strumento di riforma, venne conservato come strumento di punizione" (330). Abbiamo esaminato il processo che portò all'abolizione della deportazione come modalità punitiva; resta solo da aggiungere che tale istituto nel 1852 fu definitivamente abrogato (331). Restano inoltre da esaminare, nel dettaglio, le modalità attraverso cui si realizzò il declino di un'altra forma di punizione, soppiantata anch'essa dall'affermazione del modello carcerario. Nei precedenti capitoli abbiamo visto come la condanna al remo delle galere abbia cominciato a diffondersi tra il quindicesimo ed il sedicesimo secolo; "in alcune legislazioni condanna a tempo, in altre a vita, quando le navi erano a riva, era generalmente consentito ai galeotti di scendere a terra" (332), a patto di portare la catena e di non farsi vedere mai insieme in più di due. Già alla fine del Seicento, la galera, il più antico dei bastimenti latini, aveva fatto il suo tempo, in quanto troppo costosa, poco adatta alla guerra navale ed a resistere a lunghe navigazioni, specie in caso di maltempo. Nonostante questo, essa venne a volte mantenuta in servizio anche dopo che la sua utilità era grandemente scemata. "Esigenze 'primarie' di prestigio ed esigenze 'secondarie' di utilità, in un quadro di progresso tecnico della navigazione non distribuito in modo omogeneo tra tutte le marine, fanno sì che le galere siano utilizzate ancora alla fine del Settecento" (333). Quando il sistema della navigazione mutò e al remo ebbe a sostituirsi la vela, la pena della galera venne quasi dovunque mutata in quella dei lavori forzati, da svolgersi in pubblico dentro gli ergastoli. "Questa non rappresentava del resto una novità assoluta, in quanto, anche in precedenza, quando ancora le galere esistevano ed erano operative, a volte si era fatto ricorso ai galeotti oltre che per remare, anche per svolgere altri lavori in servizio alle navi" (334). La definizione di 'bagno', applicata sia ai bagni marittimi che a quelli di terraferma, non è altro che la conseguenza dell'origine marinara di quella pena. "La situazione dei bagni all'inizio dell'Ottocento non si distingue, quanto a separazione dei condannati, condizioni igieniche, vita dei detenuti ecc., da quella esistente all'interno della carceri" (335). Con una sola, rilevante differenza: i condannati al bagno godevano in genere di una libertà di movimento assai più ampia rispetto ai condannati al carcere (336). Il letto dei forzati era costituito soltanto da tavolati di legno pullulanti di insetti, ubicati in cameroni al piano terra. I prigionieri più miserabili non avevano neanche di che coprirsi; la moralità non era molto alta, l'omosessualità alquanto diffusa. Però, "la libertà di cui godevano i forzati consentiva loro di procacciarsi in città tutto quello di cui avevano bisogno (posto che avessero avuto il denaro necessario). E spesso essi si recavano, insieme ai loro custodi, in bettole e postriboli" (337). Assai ampi erano i poteri che gli addetti al bagno avevano sui forzati, e molto severi i regolamenti interni (338). Sulle condizioni di vita nel bagno influiva, tuttavia, la necessità che il lavoro forzato fosse il più produttivo possibile, esigenza questa che con l'andar del tempo comportò una attenuazione delle norme disciplinari. Lo stesso Howard, visitando alcune galere italiane, ne fornì un quadro idilliaco, non si sa quanto rispondente al vero. "Certo è che le tensioni erano gravi, continue ed ogni tanto sfociavano in sollevazioni aperte sia a terra che durante la navigazione". (339) Il declino di tale forma di sanzione non avrebbe comunque tardato a realizzarsi. I lavori svolti dai galeotti, come, ad esempio, la nettezza urbana nelle pubbliche strade, vennero progressivamente ridotti, principalmente per motivi di decenza, dato che molti cittadini si lamentavano dello spiacevole spettacolo dei detenuti dimentichi a tal punto di ogni pudore da sfidare la pubblica ignominia, o ridotti ad un tale stato di umiliazione e di avvilimento da suscitare un sentimento di compassione piuttosto che un effetto deterrente (340). "La riduzione al minimo delle possibilità di lavoro per i forzati ... e la diffusione generalizzata ... della pena detentiva da scontare in isolamento erano due decisioni nei fatti preparatorie della completa soppressione di questo tipo di pena, nonostante la chiara volontà ... contraria dei forzati i quali, ogni volta che se ne presentava l'occasione, mostravano di preferire la pena del bagno a quella della detenzione carceraria in isolamento" (341). Nella pratica, la vecchia pena del remo, assai dura, si era andata trasformando dovunque in una pena di reclusione, che di marinaro conservava ormai solamente un elemento marginale, il fatto cioè che l'internamento, per lo meno nella maggior parte dei casi, avesse luogo in una località di mare. "Alla fatica del remo si era cercato dovunque di sostituire altri tipi di lavoro (spurgo dei porti, 'scasso' di terreni incolti, pulizia delle strade, raccolta del sale nelle saline, ecc.), ma con esiti assai spesso incerti (il lavoro da svolgere era dovunque scarso e spessissimo i forzati restavano inoperosi)" (342). Furono, comunque, le nuove teorie penitenziarie ad apportare al bagno il colpo definitivo e ad imporgli il destino di sparizione al quale esso era riuscito a sottrarsi per molto tempo. "Una volta infatti 'costruita' una teoria della pena detentiva basata sull'isolamento (più o meno completo) e questa teoria accettata, almeno sul piano dei principi, in tutti gli stati, come l'unica idonea ad affrontare il grave problema del trattamento dei criminali (anche al fine di impedire le recidive), il bagno, dove l'isolamento era impraticabile non soltanto per ragioni architettoniche (sempre modificabili) ma per ragioni sostanziali (la sua essenza era il lavoro in comune, spesso al fianco di lavoratori liberi e svolto all'esterno del reclusorio) era destinato inevitabilmente alla estinzione" (343). "Il carcere divenne la pena principale in tutto il mondo proprio nel momento in cui la base economica su cui era sorta la casa di correzione veniva distrutta dalle trasformazioni economiche" (344). La rivoluzione industriale del primo Ottocento, con le sue istanze di libero scambio e laissez-faire, assesta il colpo finale al vecchio regime sociale mercantilista, rapidamente smantellato in tutti i paesi. Nello stesso tempo, l'introduzione del macchinario industriale, delle prime forme di produzione di massa conferisce al lavoro in fabbrica le stesse caratteristiche di quello svolto dai detenuti nelle istituzioni penitenziarie, senza però comportare gli stessi costi. "In tale contesto, le esigenze di riforma degli istituti penali e di miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti crollano insieme ai presupposti economici sui quali sono state edificate. Da questo punto di vista economico, le nuove carceri nascono già obsolete. Comunque, la crisi provocata dalla rivoluzione industriale del primo Ottocento, con i suoi alti tassi di disoccupazione, il suo pauperismo dilagante e le sue politiche inconsistenti, conduce anche a un vertiginoso aumento dei tassi di criminalità, motivo per cui la questione penale assurge, in po' in tutti i paesi, a tema della massima importanza" (345). La detenzione diviene ora un sistema razionale di deterrenza che, al posto del lavoro e della correzione del singolo individuo, si basa sul terrore e sulla degradazione. "Il carcere ottocentesco costruisce su solide fondamenta, suo presupposto è il controllo diretto di ogni episodio deviante, suo obiettivo irrinunciabile è la definitiva separazione tra lavoratore onesto dedito al risparmio e scialacquatore irrispettoso della proprietà. In passato le due figure si erano sovrapposte fino a confondersi; ma ora la tolleranza e la solidarietà offerte agli extra-legali vanno estirpate, i reciproci ammiccamenti rigidamente impediti" (346). "Il lavoro in carcere cessa di essere uno strumento di addestramento professionale ed una fonte di reddito per trasformarsi in tormento costante e fine a se stesso" (347). I detenuti sono lasciati in silenzio e in solitudine per lunghi periodi di tempo, senza che ciò produca, normalmente, alcun effetto correttivo, e con un'unica conseguenza certa: la diffusione di un senso sempre crescente di terrore e di deprivazione per una eventuale condanna alla prigione. Negli stati ottocenteschi, comunque, la reclusione in carcere è 'la' pena per eccellenza. "Essa, soprattutto quando è 'combinata' con il lavoro è divisibile (se ne può modificare a volontà la intensità e la durata); è 'apprezzabile' (tutti soffrono per la perdita della libertà che le si accompagna, anche coloro che sarebbero pronti a sfidare pene forse più severe, ma più rapide, al limite anche coloro che sarebbero disposti ad affrontare la pena di morte); è 'remissibile' e fino ad un certo punto riparabile. È 'istruttiva' ed 'esemplare' in quanto, a differenza della pena capitale, che produce una impressione profonda, ma più o meno passeggera, dà luogo ad una impressione durevole. È infine 'rassicurante' poiché il sistema delle prigioni è ben organizzato e tale da rendere impossibili le evasioni, con il conseguente 'turbamento' dell'ordine pubblico che ne consegue. Infine la pena del carcere - e del lavoro - è la sola che si presti ad un tentativo diretto di emenda morale" (348). La storia e la politica contribuiscono a tenerne vivo l'interesse (349) ed a diffondere l'immaginario della prigione ed a 'poetizzarne' la spazio. Il terreno, già alla fine del Settecento, era stato preparato con gli spazi onirici del romanzo 'nero' o 'gotico', con le 'prigioni immaginarie' disegnate dal Piranesi, con le scene di detenzione contenute nelle opere del marchese De Sade. "La ossessione delle mura, delle cripte, degli internamenti forzosi, delle procedure inquisitorie corrisponde da un lato al risveglio di una rivolta contro l'arbitrario del potere, dall'altro ad una presenza diffusa del fascino e della violenza dello stesso potere, al quale la 'ragione' ogni volta osannata come 'liberatrice', spesso tuttavia pericolosamente indulge" (350). Il carcere dunque ha vinto definitivamente sugli altri mezzi di pena e viene a trovarsi, anche, al centro di un grande interesse culturale. Manca però una spiegazione univoca, convincente ed universalmente riconosciuta sulle motivazioni che hanno condotto, attraverso il tempo lungo del secolo decimottavo, alla 'vittoria' di questo modello di pena. Da un lato, le ragioni di questo trionfo vanno ricercate "all'interno stesso del sistema tradizionale delle pene e della loro evoluzione nel corso del tempo, evoluzione che, se ne ha via via rese alcune obsolete tecnicamente o psicologicamente, ne ha estese e dilatate altre" (351). Dall'altro, la causa della affermazione della pena carceraria va ricondotta anche alla "necessità delle società fondate sullo scambio di merci di avere a loro disposizione una sorta di 'regolatore coercitivo' del mercato del lavoro, ruolo e funzione assolti alla perfezione dagli istituti di internamento, carcerari e non" (352). Inoltre la prigione assurge al ruolo di "strumento attraverso il quale le società borghesi realizzano al grado più alto il bisogno, per esse vitale, di sorveglianza e di disciplina dei cittadini" (353). La pena del carcere assunse differenti forme e gradazioni secondo la gravità del reato e la posizione sociale del condannato; le differenze di classe nell'esecuzione della pena non vennero abolite nella prima metà del XIXº secolo, anche perché "le classi superiori non erano ancora riuscite a convincersi dei vantaggi che potevano derivare dal sacrificio, sull'altare dell'ideologia della giustizia e dell'uguaglianza, di quelli fra i suoi membri la cui posizione non poteva più a lungo esser difesa" (354). L'argomentazione secondo cui le classi superiori sono più sensibili alla pena e che più grande è la possibilità di sofferenza delle loro famiglie - argomento che era già stato rigettato da Beccaria - fu nuovamente utilizzato per salvaguardare i tradizionali privilegi dell'aristocrazia (355). Intorno alla metà del secolo XIXº avevano ormai preso forma i principali elementi del sistema carcerario moderno. "Le ultime vestigia dell'amministrazione locale e volontaria erano state rimosse con il trasferimento di tutte le prigioni ... sotto il controllo di una commissione centrale" (356). Le altre forme di pena erano ormai definitivamente state abbandonate. "La detenzione era ormai divenuta la punizione per tutti i delitti gravi, eccetto gli omicidi" (357). Erano state inoltre gettate le fondamenta del moderno sistema di concessione della libertà provvisoria ed erano stati allestiti archivi criminali con fotografie ed incartamenti. I dormitori, le case di lavoro, le scuole professionali ed i centri di assistenza crollarono sotto i picconi dei demolitori in seguito al mutare delle tendenze filantropiche. Le carceri erano divenute una massiccia e minacciosa presenza, simboli della forma estrema del potere statale. Il penitenziario si inserì in una serie di istituzioni integrate per funzione e simili per disegno e disciplina; non era casuale che penitenziari, manicomi, case di correzione, scuole sperimentali, dormitori pubblici e riformatori apparissero simili e che i loro sistemi disciplinari avessero molto in comune. "Dato che costituivano gli elementi complementari e interdipendenti della stessa struttura di controllo, era essenziale che le loro diete e le loro privazioni fossero calibrate su scala ascendente ... in cui le pene inflitte all'ultimo gradino servivano a rafforzare gli effetti di quelle inflitte al primo" (358). Il ricorso ai servizi del boia era divenuto raro, aveva cessato di far parte dell'universo quotidiano, ed andò lentamente perdendo il suo antico significato di ordine rituale e simbolico. "La pubblicità, che aveva caratterizzato per secoli la pena e che era considerata dallo stesso Cesare Beccaria parte inalienabile di essa, venne lentamente meno" (359). Le esecuzioni pubbliche erano state sostituite da esecuzioni entro le mura delle prigioni, e ad annunciarle non restava che il modesto atto, di sinistro valore, di innalzare una bandiera nera sopra il luogo di detenzione. "Anche in Francia, l'unico paese occidentale, che conservò fino alla vigilia della seconda guerra mondiale l'abitudine di eseguire la pena in pubblico, ... si fece in modo già nel XIX secolo di evitare grandi affluenze di pubblico, allestendo l'orribile spettacolo all'alba e in zone periferiche scarsamente popolate. Nelle carceri, come nelle strade, la cerimonia dell'esecuzione divenne assai breve. Il cadavere del condannato fu sottratto quanto più possibile alla curiosità pubblica" (360). "Il passaggio dai supplizi, coi loro smaglianti rituali, la loro arte composita di cerimonia della sofferenza, a pene in prigioni nascoste entro massicce architetture e custodite dal segreto delle amministrazioni, non è il passaggio ad una penalità indifferenziata, astratta e confusa; è il passaggio da un'arte di punire ad un'altra, non meno sapiente della prima. Mutazione tecnica. Di questo passaggio, un sintomo e riassunto" (361): la sostituzione della catena dei forzati con la vettura cellulare. La catena, all'inizio del XIXº secolo, aveva grande importanza come spettacolo: da una parte, il cammino verso la detenzione manteneva il carattere di cerimoniale di supplizio, congiungendo in una sola manifestazione due forme di castigo; dall'altra, conservava la dimensione di spettacolo pubblico (362). "In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa; erano i saturnali del castigo; la pena vi si mutava in privilegio. E per una tradizione molto curiosa, che sembra sfuggire ai riti ordinari del supplizio, richiamava nei condannati meno i segni obbligati del pentimento, che non l'esplosione di una gioia folle che negava la punizione. All'ornamento dei collari e dei ferri, i forzati aggiungevano collane di nastri, di paglia intrecciata, di fiori o di tela preziosa" (363). La catena assume i toni del girotondo, della danza. I forzati cantano canzoni di marcia, si concretizza l'affermazione del delitto, l'eroizzazione nera, l'evocazione di terribili castighi e dell'odio generale che li circonda. "Il supplizio, invece di portare i rimorsi, eccita la fierezza; la giustizia che ha inferto la condanna, viene ricusata, e biasimata la folla che viene a contemplare quelli che crede siano pentimenti o umiliazioni" (364). Naturale che un tale spettacolo venisse presto abolito, per gli stessi motivi che avevano portato all'abolizione dei supplizi: eccessiva brutalità e non utilità per le masse. Venne così adottata una vettura accuratamente progettata, una specie di Panopticon su ruote (365). Infatti, "i sostenitori della segregazione permanente non esitano ad affermare che, se questa vuole conseguire i suoi fini, deve essere estesa anche alla fase del trasporto dei detenuti da un luogo all'altro" (366). In Francia nel 1836 ed in Inghilterra nel 1838 vennero introdotte vetture cellulari per questo genere di trasporti. Nel passaggio di questa prigione su ruote c'è quel qualcosa di misterioso e di lugubre che Bentham aveva richiesto per l'esecuzione dei decreti criminali, e che lascia nello spirito degli spettatori un'impressione più salutare e durevole della vista dei cinici e gioiosi viaggiatori della catena. Inoltre essa funziona, durante le pur poche giornate di trasporto, come un meccanismo di correzione. Ma torniamo alla questione prettamente carceraria. "Se interpretiamo la storia della riforma carceraria come una serie di buone intenzioni snaturate da conseguenze non volute, non possiamo che considerarla un fallimento. La riforma fu invece un successo" (367). Nel 1860 la maggior parte dei prigionieri in Europa e nell'America settentrionale vivevano secondo le norme volute, a suo tempo, da Howard. "Fu tuttavia un successo pieno di paradossi. Il movimento avviato da Howard istillò nella mente degli scettici borghesi delle classi medie l'idea che le prigioni avrebbero dovuto rieducare; ma i riformatori non dovettero mai convincere quegli strati sociali che i penitenziari assolvessero veramente a quella funzione e in realtà si accorsero di non dover neppure tentare un'opera di convinzione" (368). È significativo notare come pochi di loro si curassero di falsare il tasso di recidività per non mettere in discussione i penitenziari. La fiducia nel potenziale riformatore della detenzione dimostrata dalle classi medie sopravvisse alle ripetute prove del suo fallimento. L'opinione pubblica sembrava accettare le dichiarazioni dei riformatori, secondo i quali gli abusi e le torture psicologiche che venivano perpetrati in carcere alla fine sarebbero stati evitati da un'ispezione attenta e da una maggiore professionalità e responsabilizzazione del personale di custodia. "La fiducia nel valore deterrente dei penitenziari non è del resto diminuita di fronte alle prove che il tasso di criminalità non varia in modo significativo in rapporto al grado di severità nelle prigioni" (369). Il penitenziario, insomma, non era all'altezza delle promesse fatte dai riformatori Ottocenteschi. Tuttavia, il consenso non venne mai a mancare. La natura di questo consenso era però curiosa, "poiché esso non si basava sulla dimostrazione dell'efficacia di queste istituzioni come strumenti di repressione o di riforma: gli oppositori avevano rivelato a sufficienza le loro deficienze" (370). Non si può tuttavia concludere che il consenso fosse basato semplicemente sulla mancanza, pur effettiva, di alternative. Nessuna istituzione poteva sopravvivere alle numerose critiche che si attirarono i penitenziari solo perché nessuno riusciva a ideare qualcosa di più adatto. "L'appoggio costante ai penitenziari non si spiega se si ritiene che derivasse dalla fiducia nelle sue possibilità di controllare il crimine. In realtà tale appoggio era la conseguenza di un più vasto bisogno sociale. I penitenziari erano graditi perché i riformatori riuscirono a presentarli non solo come una risposta al crimine, ma soprattutto come la via d'uscita alla crisi sociale di un'intera epoca, come parte di una più ampia strategia di riforme politiche, sociali e legali intese a rinsaldare su nuove basi l'ordine sociale" (371). I penitenziari, perciò, pur criticati per le inefficienze funzionali (372), continuarono a trovare appoggi perché erano considerati un elemento di quella più vasta concezione dell'ordine sociale che, a partire dagli anni Quaranta dell'Ottocento, si accattivò l'assenso consapevole delle classi al potere. I sostenitori della riforma carceraria insistevano sulla enorme gravità che la questione del crimine aveva raggiunto, e collegavano quest'ultima con le profonde trasformazioni economiche e sociali del periodo. "A sostituzione del concetto tradizionale di crimine come espressione della malvagità umana e come peccato, i riformatori resero popolare un nuovo linguaggio allarmistico che interpretava il crimine come segno di una società in crisi" (373). La criminalità era quindi divenuta l'espressione dell'estraniamento di un'intera classe (374). "L'analisi basata sul condizionamento ambientale implicava che i ricchi dovessero avere qualche responsabilità nel determinare le cause sociali del crimine e questa premessa ha contribuito a generare un'ondata di attivismo filantropico dominato dal senso di colpa" (375). Molti storici sostengono che questa tradizione sia sorta da un nuovo senso di affinità con i poveri e da una repulsione ad accettare le crudeltà insite nei rapporti di classe dell'epoca. Tuttavia, rileggendo le pagine dei maggiori pensatori dell'Ottocento, ci si trova di fronte a una continua insistenza sull'ordine pubblico, piuttosto che sull'umanità. "Se la dottrina sociale della nuova filantropia assumeva spesso toni arretrati e paternalistici, in pratica le soluzioni proposte costituivano un attacco all'ordine sociale tradizionale, perché questo si basava su di uno stato debole, sulla tolleranza del disordine popolare e su una tacita accettazione delle consuetudini e usanze popolari" (376). I riformatori insistevano sulla fragilità di questo ordine, specialmente sulla sua dipendenza delle manifestazioni rituali di terrore, che, essi sostenevano, servivano solo a garantire una riottosa acquiescenza da parte dei poveri. "In un periodo di rapidi mutamenti economici e sociali ciò non era più sufficiente a garantire l'ordine sociale in quanto occorreva, a questo scopo, qualcosa di più di un paternalismo logoro e falso, sorretto dalle impiccagioni" (377). La stabilità sociale doveva invece fondarsi sul consenso popolare, mantenuto da sensi di colpa al pensiero di commettere azioni antisociali piuttosto che sulla deferenza e sulla paura. Molti ponevano in rilievo una realtà fatta di paternalismo logoro e corrotto e la fragilità di un ordinamento che su di esso si basava. Le probabilità di collasso sociale si profilavano con particolare gravità. Si cercò così di creare un nuovo concetto di pena che implicasse una strategia più rigorosa e razionale per il mantenimento dell'ordine sociale. Questo approccio "proponeva un rafforzamento del consenso popolare tramite un allargamento del diritto di voto e dei diritti civili e religiosi, ... ma contemporaneamente prevedeva un più severo intervento della legge nei confronti dei trasgressori. Contrariamente alla concezione paternalistica dell'ordine, che consentiva solo limitati diritti politici ma tollerava la presenza di un più vasto arco di privilegi popolari consuetudinari, il liberalismo estendeva i diritti politici formali riducendo drasticamente il grado di tolleranza nei confronti dei disordini popolari" (378). L'estensione dei diritti civili doveva essere compensata dall'abolizione dei privilegi tacitamente riconosciuti ai detenuti; questo era il solo modo per ampliare le libertà e rafforzare il consenso popolare senza compromettere la sicurezza dello stato (379). I criminali erano considerati meccanismi imperfetti le cui coscienze potevano essere rimodellate grazie all'isolamento in una istituzione totale. La fiducia nel malleabilità umana trovava una formulazione pratica grazie alla professione medica; nei manicomi nel caso dei malati di mente, nelle case di lavoro nel caso dei poveri, negli ospedali nel caso dei malati, nei penitenziari nel caso dei criminali. In ciascuna di queste istituzioni i poveri avrebbero dovuto essere curati da immoralità, malattie, pazzia o propensione al crimine e insieme da altri difetti del corpo e della mente tramite l'isolamento, le esortazioni ed un regime di addestramento all'obbedienza. "Nei penitenziari lo strumento di cura era costituito dal pentimento. Il rimorso, sostenevano i riformatori, poteva essere risvegliato solo in un ambiente la cui intrinseca benevolenza facesse da base all'autorità morale dello stato e costringesse i prigionieri a riconoscere la propria colpa. L'isolamento sembrava offrire questa perfetta unione di umanità e terrore, realizzava l'utopia liberale di una pena tanto razionale da indurre i trasgressori ad autopunirsi con il tormento silenzioso della propria mente" (380). Gli ideali dei riformatori implicavano la possibilità di ricostituire un universo morale comune tra punitori e puniti, esprimendo un desiderio profondamente sentito dalle classi medie verso un ordine sociale basato sulla riconciliazione rispettosa degli interessi di tutti (381). "In realtà il rifiuto da parte dei riformatori dell'idea di incorreggibilità offriva l'opportunità di riconoscere i criminali come esseri umani aventi diritto alla protezione da estorsioni, brutalità e malattie. La richiesta dei prigionieri di protezione da parte della società fu condizionata alla disponibilità a ravvedersi. I riformatori estesero effettivamente gli obblighi dello stato verso i prigionieri, non però sulla base di un pieno riconoscimento dei loro diritti di esseri umani. Il loro diritto a un trattamento giusto restava condizionato alla disponibilità a rientrare nell'ambito del consesso civile" (382). Nel corso del XIXº secolo si assiste alla nascita di un percorso, tutt'oggi in pieno svolgimento, di razionalizzazione e burocratizzazione del processo penale. Si compie una amministrativizzazione degli apparati penali, che necessitano di bilanci, di personale professionalizzato, di una rete capillare di istituzioni e di organismi, di approfondite conoscenze tecniche e sociologiche. "A partire dalla fine del Settecento, la monopolizzazione della pena da parte degli organismi centrali di uno Stato sempre più burocratizzato è un processo che fa da contrappunto alla nascita" (383) della reclusione, la quale presuppone una gestione amministrativa e finanziaria di cui le autorità locali erano prive. Durante tutto l'Ottocento, "un profondo conflitto per il controllo e la gestione dei processi penali oppone le autorità centrali - che ricorrono a diversi mezzi, quali ispezioni, regolamentazioni e contributi statali - e le giurisdizioni locali, tradizionalmente competenti. È solo con il passare del tempo che la gestione finanziaria degli apparati penali cessa di dipendere, almeno in parte, da privati - le associazioni benefiche, le chiese, ecc. - e diviene un onere pubblico, che incide sulle entrate fiscali dello Stato" (384). A tale fenomeno si affianca quello della crescita delle infrastrutture penali, un fenomeno da mettere in relazione con il tramonto delle sanzioni corporali e capitali, e, in parte, con la crescita della popolazione e l'innalzamento dei livelli di criminalità. "Assistiamo alla nascita e all'emergere di categorie professionali all'interno della sfera penale. ... La 'pena', intesa in senso lato, si trasforma in un processo complesso, differenziato, che coinvolge numerosi apparati istituzionali, ciascuno dei quali latore di interessi e obiettivi distinti, che si basano spesso su supporti sociali differenti" (385). Il risultato più palpabile che si ha con lo sviluppo dei processi di centralizzazione, burocratizzazione e professionalizzazione è quello di creare dei sistemi penali capaci di gestire, in maniera soddisfacente, un numero sempre più consistente di autori di reato. "Una volta diventato 'professionista' il personale carcerario tende a sostituire il giudizio morale sul reato commesso dai detenuti con un giudizio puramente formale, fondato su parametri valutativi di carattere burocratico, di modo che i detenuti vengono trattati non per i reati commessi, ma in virtù della loro condotta istituzionale. ... Invece di comunicare in termini di oltraggio morale, di passioni punitive o di sentimenti di vendetta, gli operatori in campo penale tendono a neutralizzare l'emotività scatenata dal processo penale e ad agire professionalmente, lasciando la questione morale alle Corti e all'opinione pubblica" (386). Nel prossimo paragrafo esamineremo, a grandi linee, le principali posizioni e le principali teorie che influenzarono il problema del trattamento della criminalità, nel periodo immediatamente successivo all'affermazione della privazione della libertà personale quale modello dominante di pena.

3: Ulteriori sviluppi

Intorno alla metà del secolo XIXº l'affermazione del sistema penitenziario sembrava, dunque, ormai definitiva; invece, vedremo, era il momento del suo abbandono. "Mentre il sistema penitenziario 'classico' contava, per l'emenda del reo, sull'isolamento, ... (una nuova corrente di pensiero) ... poneva con particolare rilievo l'accento sulla liberazione condizionale, nella quale vedeva l'espediente più efficace per indurre al miglioramento e giungere con una buona condotta a meritare una abbreviazione di pena" (387). Partendo da questo assunto, analizziamo nel dettaglio le posizioni delle due scuole criminalistiche, quella Classica e quella Positivista, che si successero nel periodo durante il quale il carcere venne ad assumere quel ruolo dominante, che ancora oggi detiene, all'interno dell'universo penale. La serie dei grandi sistemi ebbe termine, come abbiamo visto, con Hegel. Lo splendore dell'Illuminismo stava venendo affievolendosi, mentre il pensiero si orientava sempre più verso lo psicologismo e lo storicismo. "Ispiratrice della filosofia del diritto rimase tuttavia, durante il primo quarto del secolo decimonono, la tradizione illuministica. Specialmente la filosofia del diritto penale ... non seppe guardare molto più in là della vecchia tradizione. Il Romagnosi in Italia e il Feuerbach in Germania non fecero che recare a perfezione dottrine, che ormai avevano conquistato l'universale consenso" (388). In questo periodo di vivaci dibattiti, che accompagnarono le profonde riforme legislative, la Scuola classica del diritto penale si impose; essa trovò nelle dottrine del diritto naturale la sua base filosofica, e nel bisogno di demolire i residui delle antiche istituzioni criminali il suo motivo pratico. "Tutto il secolo decimottavo non era stato che uno sforzo per spostare il centro di gravità dallo Stato all'individuo e la proclamazione dei diritti dell'uomo ne fu la conclusione" (389). Anche i codici penali dovevano compiere tale svolta; di qui l'assunto essenziale della Scuola classica, che fu quello di introdurre nel sistema penale le estreme deduzioni dell'astratto individualismo. Di qui, contro le incertezze e gli arbitri delle antiche legislazioni, la consacrazione assoluta del principio 'nulla poena sine lege', la somma cura nel definire i singoli delitti, la paziente ricerca delle espressioni più atte ad eliminare i dubbi di interpretazione, la sottile casistica delle circostanze di reato, l'introduzione nei codici delle garanzie della difesa accompagnate dalla sanzione di nullità del procedimento in caso di inosservanza delle stesse e la campagna per la moderazione delle pene e l'umanizzazione dei sistemi penitenziari. La scuola classica del diritto penale (390) ebbe come principio fondamentale ed inamovibile "il concetto della pena intesa quale retribuzione della colpa. Non il criminale, dunque, quanto il crimine andava analizzato, catalogato e codificato in modo rigoroso e permanente. La condanna doveva servire, infatti, oltre che a scoraggiare il delitto, anche a individualizzare drasticamente la colpa" (391). In tal senso, veniva rifiutata a priori ogni teoria socio-politica del delitto, attribuendo al diritto una sorta di infallibilità metafisica che trovava riscontro nella imparzialità garantita dalla minuziosa casistica del codice penale. "Retribuzione, dunque, che privilegia soprattutto gli aspetti punitivi - simbolici e ideologici - della pena, avversando a chiare lettere le concezioni utilitaristiche che mirano a rendere vantaggiosa per la società (in termini di lavoro e sfruttamento della manodopera coatta) la punizione dei delinquenti" (392). Maturata nell'ambiente politico-culturale determinato dall'Illuminismo, la Scuola classica ferma la propria attenzione sui presupposti razionali della punibilità contro gli arbitrii e le crudeltà dell'epoca. Muovendo dal postulato del libero arbitrio, cioè dell'uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni, essa pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto, e, conseguentemente, la concezione etico-retributiva della pena. Il diritto penale è incentrato su tre principi fondamentali. Quello della volontà colpevole, secondo cui il reato è una violazione cosciente e volontaria della norma penale (393); quello dell'imputabilità, che richiede, affinché si abbia la volontà colpevole, che l'agente abbia la concreta capacità di intendere il valore etico-sociale delle proprie azioni e di determinarsi liberamente alle medesime, sottraendosi all'influsso dei fattori esterni ed interni; infine, quello della pena come necessaria retribuzione del male compiuto e, come tale, afflittiva, personale, proporzionata, determinata ed inderogabile. Un sistema penale così concepito doveva esercitare anche un'azione di prevenzione, in quanto gli individui, messi di fronte a leggi giuste e chiare, essendo in grado di scegliere liberamente, più difficilmente avrebbero compiuto azioni criminose; colpire il reo nei suoi diritti tanto quanto il delitto da lui commesso ha colpito i diritti altrui è necessario e sufficiente per trattenere i consociati dal delinquere, essendo annullato qualunque vantaggio derivante dal reato. La Scuola classica elabora i principi garantisti del pensiero illuministico liberale, della proporzionalità della pena e della funzione retributiva di essa, e stabilisce in primo luogo i limiti al diritto di punire da parte dello Stato, garantendo, sul piano teorico, con l'affermazione del principio di legalità, le garanzie del cittadino rispetto allo Stato, ancorando la legge a saldi presupposti. Il problema della legalità si raccorda al fondamento della pena: se la minaccia della pena è finalizzata all'esercizio di un'azione di deterrenza psicologica, è necessario che i cittadini siano portati preventivamente a conoscenza delle conseguenze penali derivanti dalle proprie azioni. La pena ha funzione retributiva, e la sofferenza inflitta al reo è la contropartita al disordine creato dall'azione delittuosa. Il punto di forza della Scuola classica diverrà dunque la proporzionalità tra reato e pena. I teorici della dottrina classica rivolsero una grande attenzione alla storia filosofica, con l'intento di classificare le varie teorie penali e di esaminarle criticamente in rapporto alle nuove tendenze. Pellegrino Rossi, uno dei più tipici rappresentanti della Scuola classica di diritto penale, divide le teorie sul diritto di punire in due classi, a seconda che risalgano al principio morale oppure abbiano come base un interesse materiale (394). Rossi confutò in maniera definitiva le teorie utilitariste, dimostrando che l'utile non è sufficiente a giustificare il fatto della pena. "Non di meno il Rossi non disconobbe il valore dell'elemento utilitario della pena; escluse soltanto che l'utile possa considerarsi come un principio generatore di diritti, quando non è che un motivo, una misura, un limite al loro esercizio, non causa ma occasio" (395). L'autore confutò anche le teorie dei giusnaturalisti, nonché quelle che facevano capo al contratto sociale. Secondo la sua impostazione, esiste un ordine morale obbligatorio per tutti gli esseri umani, che deve trovare applicazione nella società in cui essi vivono. Egli fonda il sistema della giustizia penale, ed il diritto di punire, "sull'idea di un ordine morale pre-esisente in tutte le cose, eterno, immutabile, il quale comprende tutto ciò che è bene in sé medesimo. Nei confronti del delitto la società, entro i limiti di quel dovere che le impone di conservarsi, ha il diritto di rendere male per male" (396). Sorge così un ordine sociale, obbligatorio quanto quello morale, da cui derivano tutti i doveri ed i diritti inerenti alla vita sociale dell'uomo. "Fine diretto ed essenziale della giustizia umana non può essere che il ristabilimento dell'ordine sociale turbato dal delitto" (397). La pena è dunque la retribuzione fatta da un giudice legittimo, con ponderazione, misura del male per il male. Contro tale dottrina della giustizia assoluta e contro il concetto di pena come retribuzione di male per male si schierò il Carmignani, creando un dissidio interiore alla Scuola classica; secondo questo autore, "i delitti si puniscono non per altro fine che quello di impedire che sia scossa la sicurezza a cui tendono gli uomini per mezzo dello stato sociale" (398). Il mezzo per indurre i delinquenti ad astenersi dalle loro malvagie azioni non poteva essere trovato che nella natura stessa delle cause che spingono a delinquere. "Essendo gli uomini così fatti che temono il dolore più di quanto non cerchino il piacere, ne consegue che il dolore è un mezzo atto a trattenerli dal delitto. Onde le pene non sono altro che ostacoli politici contro il medesimo. Le azioni criminose sono punite non perché siano state compiute, ma affinché altre non se ne compiano" (399). In altri termini, si parla di prevenzione assoluta; la pena è la punizione che l'ordine costituito sancisce se la sicurezza sociale è violata. Antonio Rosmini, altro illustre esponente della scuola classica, accoglie il principio dell'intimidazione come ragione della pena, ma pone come fondamento del diritto di punire un eterno principio di giustizia. La causa volontaria di un male deve sopportarne la pena. "Il diritto di difesa, in quanto diritto di arrecare un danno, non è altro che un caso particolare del diritto penale inteso come diritto di infliggere una pena meritata" (400). In base a questa posizione, l'uomo, in quanto essere intelligente, può sempre giudicare il suo eguale; la conclusione è che il diritto di punire altro non è che il già citato diritto di difesa. La responsabilità penale viene definita dal Rosmini quel tanto di pena esemplare che l'autore di un delitto deve attendersi dalla società. Essa esige determinate condizioni soggettive ed oggettive: le prime consistono nel fatto che il soggetto sia responsabile moralmente, il che può ben verificarsi per l'uomo, trovandosi esso nella possibilità di determinare le sue affezioni e le operazioni che ne conseguono; le seconde richiedono che la responsabilità penale abbia per causa un'ingiuria dannosa. Inoltre, Rosmini ammette "che si possano usare determinate cautele contro il soggetto considerato pericoloso, come esigere da lui certe guarentigie, impedirgli certi atti, vegliare sulla sua condotta. ... Ma questi provvedimenti non avranno mai il carattere di pene, non potendosi parlare di responsabilità penale, ma solo di attività di polizia" (401). La dottrina di Rosmini può giudicarsi un compromesso tra le due correnti in cui si divideva la scuola classica. In sintesi, egli pose nella intimidazione la ragione delle pene, concependo la funzione penale come repressione della spinta criminosa mediante l'esemplarità. La scuola classica era giunta al suo apogeo ed aveva già cominciato a ripetersi; i principi fondamentali erano ormai posti. Ci si dedicò allora al perfezionamento formale ed alla applicazione dei principi ai casi particolari, aprendo così la via alla produzione più propriamente scientifica (402). Massimo esponente di questo periodo fu Francesco Carrara. Secondo la sua teoria, nelle materie del giure penale esiste un ordine inalterabile: delitto, pena, giudizio. "L'imputabilità penale è un concetto preliminare a quello di delitto, risultante dal concorso di varie condizioni: che il soggetto sia moralmente imputabile, che l'atto contenga un valore morale, che dal medesimo derivi un danno sociale e che esista una legge positiva che lo vieti. Di qui la definizione del delitto come infrazione della legge dello Stato promulgata per proteggere la sicurezza dei cittadini, risultante da un atto esterno dell'uomo, positivo o negativo, moralmente imputabile. Ne consegue che il delitto non è un semplice fatto ma un ente giuridico" (403). La pena è quel male che, in conformità alla legge dello Stato, i magistrati infliggono a coloro che sono formalmente riconosciuti colpevoli di un delitto. La pena quindi deriva dalla necessità in cui si trova la società civile di esercitare coattivamente la tutela dei diritti. Il suo fine primario è quindi il ristabilimento dell'ordine esterno, ossia il conseguimento del bene sociale, fine che non esclude certi effetti o risultati secondari. Carrara formulò una radicale critica del sistema penitenziario, pur approvando, in linea di principio, la finalità di emenda del delinquente, ed il fatto che la pena non dovesse essere un male, ma un beneficio del condannato. Tuttavia, respinte "le fallaci teorie dell'espiazione, del terrore e della vendetta, era impossibile trovare un fondamento razionale al diritto punitivo che non fosse nella tutela giuridica, imposta dalla suprema legge dell'ordine, legge che vuole che i diritti umani debbano essere difesi contro le 'rie passioni' e che non possano esserlo senza la minaccia e la irrogazione di una pena ai violatori dei diritti" (404). Egli non avversava la brama di emendare i colpevoli, ma non ammetteva che ciò prevaricasse la giustizia punitiva. "Ed infatti, se l'emenda è il fine esclusivo del diritto penale, la società nulla dovrebbe poter fare nei confronti di un reo per avventure già 'corretto'. Essa non dovrebbe avere in questo caso il diritto di punirlo, o di rinchiuderlo in un carcere, e se lo avesse già fatto, dovrebbe immediatamente rilasciarlo" (405). Merito della Scuola classica è la razionalizzazione di principi oggi ritenuti fondamentali (406); tre però sono i grandi limiti. Innanzitutto, con l'escludere ogni valutazione della personalità dell'agente, essa relega il diritto penale ed il reo nella sfera astratta di un diritto naturale razionalistico lontano dalla realtà naturalistica, individuale e sociale, in cui essi invece sono immersi. Il postulato egalitario dell'uomo assolutamente libero ha portato ad ignorare - anche per il timore che l'ammissione di varianti personali nella responsabilità e, quindi, nel trattamento, riaprisse le porte all'incertezza, all'ineguaglianza ed all'arbitrio del giudice - gli innegabili condizionamenti sull'agire umano ad opera di fattori extravolontari ai fini della graduazione della responsabilità e della individualizzazione della pena. La società, così, è stata deresponsabilizzata sia riguardo alle cause sociali della criminalità, sia riguardo alla ricerca dei mezzi di prevenzione speciale. In secondo luogo, i classici limitano la difesa sociale contro il delitto alla sola pena quale unico strumento di prevenzione generale e speciale; si ignora, cioè, qualsiasi forma di misura neutralizzatrice e risocializzatrice, adeguata alla personalità dell'agente (407). Infine, non si rivolge nessuna attenzione all'esecuzione della pena ai fini del recupero sociale del delinquente. In definitiva, tutto il diritto penale classico guarda al comportamento passato, non al possibile comportamento futuro; questo perché l'atto di volontà, sin tanto che è libero, non può giustificare alcun giudizio di previsione sulla sua ripetibilità. Fino alla metà del XIXº secolo, la Scuola classica, di fatto, imperava, e con essa l'aspetto esemplare e simbolico-istituzionale della pena campeggiava, dunque, monumentale e anacronistico, di fronte alle critiche e agli strali di altre scuole che, nei loro assunti, anticipavano un assetto istituzionale più conforme agli interessi capitalistico-borghesi in via di formazione. "È il caso della scuola positiva, tutta tesa ad individuare e discutere sia la figura del delinquente che i fattori antropologici, sociali e naturali della devianza criminale" (408). Il XIXº secolo è l'epoca in cui trionfa il metodo positivista, basato sulla certezza che la scienza possa offrire la soluzione ai dubbi che riguardano l'origine e l'essenza di tutte le cose. "La spiegazione teologica, già messa in crisi dall'Illuminismo, è confutata definitivamente dal Positivismo, che con metodo induttivo assegna un nuovo ordine al mondo" (409). Ma prima di analizzarne le caratteristiche fondamentali, vediamo le origini della filosofia positivista, e come essa abbia potuto affermarsi e diffondersi. Il positivismo e l'antropologia criminale derivano, in buona misura, dalla corrente materialistica sviluppatasi nel corso del secolo decimottavo. "Il materialismo è una concezione monistica per la quale non esiste lo spirito né come realtà assoluta né come realtà relativa, ma soltanto la materia. Ciò che risulta dalle varie combinazioni della materia è la Natura. L'uomo è opera di questa Natura, esiste in essa, e, sottoposto alle sue leggi, non può liberarsene e non può uscirne neppure mediante il pensiero. La sua vita non è che una successione di movimenti necessari collegati fra loro e dipendenti da cause interne come il sangue, i nervi, i muscoli ed altre simili materie solide e fluide; oppure da cause esterne, come l'aria, gli alimenti e in genere tutti gli oggetti che fanno impressione sui nostri sensi" (410). L'uomo è un essere puramente fisico, la cui moralità non è che un aspetto risultante dalla considerazione di certi effetti delle azioni umane. Perciò l'anima non esiste come sostanza e le sue cosiddette facoltà si riducono, come tutto il resto, a materia in movimento. Scopo dell'uomo è quello di conservare e rendere felice la propria esistenza. "Onde la necessità di distinguere il bene dal male, la virtù dal vizio, e il giusto dall'ingiusto: distinzioni le quali non sono fondate né sopra convenzioni umane, né sopra un principio soprannaturale, bensì sui rapporti eterni ed invariabili che corrono fra gli esseri umani viventi in società" (411). Si ha così una 'morale naturale' con un contenuto di doveri, che non sono imperativi categorici, ma semplici massime derivanti dall'esperienza e dalla ragione, e riflettenti l'adozione dei mezzi necessari al raggiungimento dei fini umani. "E si ha pure una 'legge politica', forza risultante dalla somma delle volontà dei consociati e diretta a fissare la condotta dei singoli, i diritti e i doveri. I delitti, infine, non sono che le azioni o le omissioni che la legge stessa punisce" (412). Per i materialisti non può esistere libertà, né morale né naturale, né interna né esterna, non il caso né la contingenza; ma solo la più assoluta necessità. "Demolito il soggetto, l'oggetto occupa, da solo, il posto dell'Assoluto; e misticismo e fatalismo sono le indeclinabili conseguenze di questa concezione del reale" (413). La volontà non è che una modificazione del cervello, modificazione per cui quest'organo si dispone a mettere in moto una serie di altri organi. E poiché sarebbe assurdo pensare ad una modificazione del cervello non dovuta ad alcuna causa, bisogna necessariamente concludere che l'atto volontario deve sempre essere fatto risalire ai suoi motivi, cioè a tutto ciò che può agire sui nostri sensi. La volontà dunque non è mai senza motivi. Altro assurdo è la pretesa libertà di scelta (414). "Il motivo che ci spinge ad agire è indipendente da noi e necessario. ... Simile a un nuotatore trasportato dalla corrente, l'uomo s'illude di essere libero solo perché ora acconsente, ora no, ad essere trasportato; crede di essere padrone della propria sorte, perché è costretto ad agitare le braccia per non affogare. Ma, in verità, è sempre un trascinato, lo voglia egli o no. Volentem ducunt fata, nolentem trahunt" (415). Ma, essendo le azioni umane sempre necessitate, quale posizione rivestono il merito ed il demerito? Secondo il barone Von Holbach, massimo rappresentante della corrente materialista, "imputare un'azione a taluno vuol dire attribuirgliela, riconoscere cioè che quel tale ne è l'autore. E ciò è possibile di fare anche quando si debba riconoscere che l'azione di cui si tratta fu l'effetto di un agente necessitato" (416); distinguere il merito dal demerito implica un giudizio di stima delle azioni umane, unicamente in vista degli effetti vantaggiosi o nocivi che ne derivano: in entrambi i casi non è necessaria la supposizione della libertà del soggetto cui si riferiscono. Il sorgere del rimorso nell'autore di una cattiva azione altro non è che un sentimento doloroso provocato dalla rappresentazione delle conseguenze, presenti o future, dell'atto compiuto. "Se queste conseguenze fossero tutte e sempre vantaggiose, il rimorso non sorgerebbe mai" (417). Le nozioni di giusto ed ingiusto conservano integralmente il loro valore, ma, anziché sulla libertà, si fondano sull'utilità sociale. Quanto alla responsabilità penale, possiamo, pur considerando gli uomini necessitati nelle loro azioni, distinguere "una condotta che conviene da una condotta che non conviene alla convivenza sociale: la prima sarà da noi consentita e lodata, la seconda biasimata e impedita. La società può e deve adunque impedire ai propri membri di nuocersi a vicenda; e ciò fa ... mediante le pene legali, che sono motivi capaci di contenere o di distruggere gl'impulsi derivanti dalle passioni" (418). Poco importa che il delitto, come tutti gli altri atti, non sia libero; la legge penale tende a creare il timore della pena e a far sì che questo timore entri nel meccanismo generale della causalità. Non è fondamentale la volontarietà o meno dell'azione criminosa (419), ma la "reazione che il temperamento delle varie specie di delinquenti presenta alla minaccia delle pene. Se vi saranno degli uomini così mal costituiti da restare insensibili ai motivi della pena, essi dovranno venire eliminati dalla società, non potendosi contestare a questa il diritto di toglier loro il potere di nuocere" (420). L'unica ragione della pena deve ricercarsi nel male che il criminale ha compiuto. Anche la misura della pena dipende da questo principio. "E giuste saranno perciò le pene, se proporzionate alla gravità del danno prodotto dal delitto" (421). Condizione essenziale di questa impostazione è che la società, prima di minacciare le pene, abbia posto in essere tutti gli altri motivi di cui dispone per influire sulla volontà degli uomini - educazione, istruzione, mezzi di sussistenza e simili. "La società, è poi, più che ingiusta, insensata, quando punisce coloro che non hanno fatto che seguire quelle inclinazioni che essa stessa, con l'esempio, l'opinione pubblica e le sue istituzioni, ha cospirato a far sorgere" (422). Come possiamo notare, questa dottrina contiene in germe buona parte dei motivi che il positivismo svilupperà nella seconda metà del XIXº secolo. Come abbiamo detto, "realizzati in un primo momento pressoché tutti i suoi postulati, la scuola classica del diritto penale parve non avere altro da dire. Essa continuava tuttavia, fino all'esasperazione dei più minuti dettagli, a perfezionare le proprie teorie (423), quando una nuova corrente di studi, sorta dal risveglio del naturalismo, destò e fermò l'attenzione dei cultori del diritto criminale" (424). La scuola positiva affonda le proprie radici filosofico-culturali nel Positivismo metodologico, che si sviluppò nel XIXº secolo in opposizione al razionalismo illuministico (425). L'antropologia e la psichiatria, rimaste sino ad allora scienze secondarie, passarono in prima linea nella considerazione degli studiosi e dei tecnici, facendo spostare il centro della ricerca dal delitto al delinquente. "Anche altre scienze più generali, come la psicologia collettiva, la statistica, l'economia e la sociologia, opportunamente compulsate, fornirono dati e motivi importanti, che determinarono negli studi criminalistici un orientamento interamente nuovo" (426). La corrente di pensiero positivista non deve considerarsi soltanto un metodo di ricerca, il metodo induttivo in opposizione al metodo deduttivo, poiché essa, pur dichiarandosi agnostica (427) verso tutto ciò che trascende l'esperienza, implica una generale concezione del mondo alla cui base sta una forma di realismo primitivo. Fondatore del primo sistema di filosofia positiva fu Auguste Comte; egli affermò che non più la teologia e la metafisica, ma solamente le scienze positive potessero offrire le basi del nuovo ordine sociale. "Propose perciò un'esposizione enciclopedica del sapere scientifico ed elaborò un'acuta classificazione delle varie discipline" (428). Altro fondatore del positivismo fu John Stuart Mill, il quale affermò che tutte le conoscenze debbono la loro origine all'esperienza, e costruì un sistema di logica esclusivamente induttiva. Grazie a Charles Darwin, ed al suo concetto di evoluzione naturale, assurse a i massimi fasti la biologia. Herbert Spencer spiegò la formazione dell''a priori' mediante l'accumulazione dell'esperienza attraverso le generazioni: onde ciò che è a priori rispetto all'individuo sarebbe, rispetto alla specie, a posteriori. "La legge della conservazione della specie, come quella che si fonda sulla selezione e sulla sopravvivenza dei migliori, implica la supposizione che ogni individuo sia assoggettato agli effetti prodotti dalla propria natura: il che val quanto dire che ogni individuo debba fruire delle conseguenze favorevoli che derivano dalle sue azioni, e su lui debbano ricadere le contrarie" (429). La giustizia umana dovrà quindi basarsi su un semplice concetto: libertà di ognuno limitata solo da uguali libertà degli altri. È quindi la legge di evoluzione quella che costituisce il fondamento del diritto penale. Su queste premesse di base venne fondata la "'scuola positiva di diritto penale', ... che, presa immediatamente posizione contro la scuola classica, oppose all'astratto individualismo di questa la necessità di più efficacemente difendere il corpo sociale contro lo straripare della delinquenza, antepose insomma gli interessi sociali a quelli dell'individuo" (430). Con la Scuola positiva, il problema del fondamento del diritto di punire passò in seconda linea; l'applicazione delle pene fu spiegata come una reazione naturale dell'organismo collettivo contro una forma di attività anormale di una parte dei suoi componenti, oppure come semplice difesa degli interessi sociali giuridicamente protetti contro gli attacchi antisociali (431). Il conflitto sociale venne privato di tutti i suoi significati sociali e sociologici, ed assunse il solo carattere della naturalità. Il problema della responsabilità crebbe d'importanza: "non solo dalla scuola positiva non si volle più mescolata col concetto di responsabilità ogni idea di colpa morale e si prescindette perciò dalla condizione della libertà del reo, ma ... si proclamò il principio della necessità del delitto come corollario a quello della anormalità antropologica del delinquente o come deduzione da una generale concezione materialistica" (432). Anche il problema della pena fu profondamente dibattuto; spiegato il diritto di punire come una reazione naturale dell'organismo sano sulla parte malata, spogliata la responsabilità da ogni fondamento morale, la pena perse il suo carattere tradizionale e si ridusse ad un provvedimento utilitario mutabile non secondo la natura e la gravità della trasgressione, ma secondo l'indole del reo, la sua riadattabilità all'ambiente sociale e la sua pericolosità. Per la Scuola positiva il delitto appare, nel determinismo universale dei fenomeni, manifestazione necessitata di determinate cause e non estrinsecazione di una scelta libera e responsabile del soggetto. Muovendo dal postulato del determinismo causale, i positivisti pongono a base del diritto penale non più la responsabilità etica ma la pericolosità sociale del soggetto e la concezione difensiva della sanzione penale, con un radicale capovolgimento dei capisaldi della Scuola classica. Infatti, si sposta il centro del diritto penale dal reato in astratto al delinquente in concreto, in quanto ciò che interessa non è più il reato come ente giuridico staccato dall'agente, ma il reato come fatto umano individuale, che trova la sua causa nella struttura biopsicologica del delinquente e che, perciò, altro non è che l'indice esteriore della pericolosità del soggetto. Per la Scuola classica l'idea generale del delitto è quella di una violazione della legge; un atto diviene delitto solo quando urta con la legge: può un atto essere dannoso, ma se la legge non lo vieta, non può essere addebitato come delitto a chi lo esegue. Per la Scuola positiva, invece, il reato è visto come un fatto sociale, un atto umano determinato non dal libero arbitrio e dalla volontà di nuocere alla società, ma piuttosto da bisogni, da istinti, da moventi, da responsabilità che sono, spesso, della stessa società. La figura del reato è tratta così non più da dati e concetti essenzialmente speculativi ed astratti, ma soprattutto dallo studio della figura e della personalità del delinquente. Alla volontà colpevole, all'imputabilità, alla responsabilità morale viene sostituito il concetto di pericolosità sociale, intesa come probabilità che il soggetto, per certe cause, sia spinto a commettere crimini. Infine, la pena retributiva è sostituita da un sistema di misure di sicurezza, moralmente neutrali. Razionalmente aberrante e praticamente inutile è punire chi delinque perché spinto da forze che agiscono dentro e fuori di lui. Perciò i delinquenti vanno sottoposti a misure utilitaristiche di difesa sociale, volte a prevenire ulteriori manifestazioni criminose mediante il loro allontanamento dalla società - e persino la loro eliminazione fisica - e, nei limiti del possibile, il loro riadattamento alla vita sociale. Alla fine dell'Ottocento l'orientamento dominante della scienza penalistica "tende a cancellare dal diritto penale ogni traccia di condanna morale e ad attribuirgli, invece, un carattere puramente tecnico con finalità di trattamento e rieducazione" (433). Merito della Scuola positiva è di avere messo a fuoco il problema della personalità del delinquente nei suoi condizionamenti bio-psico-sociologici; di avere calato il reato ed il reo dentro la realtà individuale e sociale, dando vita agli indirizzi criminologici, antropologici e sociali; di avere aperto le frontiere alla difesa sociale. Ciò, non solo introducendo, accanto al concetto tradizionale della difesa dell'ordine giuridico e della prevenzione generale, l'idea innovatrice della prevenzione speciale e della risocializzazione del delinquente, e sostituendo allo strumento unico e rigido della pena una più ampia ed elastica tipologia di misure criminali adeguabili alla personalità del delinquente; ma anche avvertendo l'esigenza di una prevenzione generale e speciale 'sociale', attraverso i sostitutivi penali, che possono eliminare le ragioni della sanzione eliminando le stesse ragioni del delitto. Nella seconda metà del XIXº secolo, dunque, la filosofia positivista si affermò, stimolata dalle nuove acquisizioni delle scienze sperimentali. "Questo pensiero riformatore ritenne l'uomo in grado di condizionare lo sviluppo umano, come quello naturale, e che quindi anche il delitto potesse essere combattuto attraverso un'appropriata politica sociale" (434). La forza del determinismo causale, essi pensavano, avrebbe mostrato l'inadeguatezza dei metodi ancora dominanti di lotta al crimine, con la loro fede retributiva nel principio di stretta equivalenza tra reato e pena. "Prins, il più rappresentativo teorico belga di questo indirizzo scientifico, affermò come i magistrati si perdessero ancora in operazioni aritmetiche, in complicati calcoli, in vuote formule legali, in discussioni puramente accademiche, così da dimenticare completamente la dimensione tutta sociale della loro funzione" (435). Il diritto penale era una scienza sociale, e come tale doveva fondarsi sullo studio di una fenomenologia sociale. "Per questi riformatori, quindi, la scienza del delitto fu essenzialmente scienza della società" (436). Liszt, il più conosciuto rappresentante di questo indirizzo in Germania, definì infatti il delitto come un fatto necessitato sia dalla società in cui il criminale vive, sia dall'indole delinquenziale che questi in parte eredita e in parte sviluppa durante la sua vita; da ciò consegue che l'esecuzione penale non può fondarsi sulla sola azione criminosa, ma deve considerare questa quale elemento rivelatore dell'intera personalità del delinquente. Per Liszt la pena è un mezzo per raggiungere uno scopo, ed è da lui chiaramente individualizzata. Essa è rivolta verso tre mete: risocializzazione dei delinquenti che ne abbiano bisogno e ne siano suscettibili; intimidazione di quei delinquenti che non hanno bisogno di risocializzazione; neutralizzazione dei delinquenti che non sono suscettibili di risocializzazione (437). Un giudizio comparativo tra la procedura penale, che fu allora profondamente riformata, e l'ormai obsoleto diritto penale fece sì che i nuovi riformatori giudicassero negativamente quest'ultimo. "La pena deve ... perseguire una funzione rieducativa o di prevenzione speciale, in quanto deve essere un avvertimento per il futuro; la pena rientra infatti nel programma più generale di moralizzazione della società" (438). Tanto il principio della pena retributiva, quanto le sofisticate pratiche processuali erano state il prodotto delle rivoluzioni borghesi. "L'indipendenza del potere giudiziario e la razionalizzazione del diritto penale furono eccellenti strumenti nella lotta contro i residui del feudalesimo e del regime assolutista" (439). La fine del diciannovesimo secolo pone termine al periodo di lotte tra gli ultimi residui del feudalesimo e la nuova classe borghese; non appena quest'ultima si impossessò della macchina governativa ed amministrativa, si impegnò sempre meno nel processo di formalizzazione del diritto penale per garantire il suo nuovo potere politico. Infatti "non era più necessario proteggere la borghesia dagli arbitrii dell'amministrazione aristocratico-feudale, dal momento che queste due forze vennero in larga misura a coincidere. L'originale problema politico di proteggere il cittadino nel processo penale cominciò così a diventare una questione di natura ormai meramente tecnico-legale" (440). Questo mutamento nell'indirizzo politico coincise con lo svilupparsi di un approccio essenzialmente sociologico al diritto penale. "Le statistiche sui rapporti tra la criminalità e i processi economici rivelarono come il crimine dovesse considerarsi un fenomeno sociale e, inoltre, la questione carceraria non fu più interpretata nel senso ristretto di strumento per proporzionare la pena al reato ma fu orientata nella prospettiva di strumento per incidere sul futuro del criminale, cioè nella prospettiva della rieducazione e nella determinazione delle forme opportune per rendere possibile questo processo" (441). Estremizzando, questa nuova teoria non poteva che arrivare alla conclusione che, nella normalità dei casi, il reato è il momento sintomatico che evidenzia la necessità che il criminale sia internato in un'istituzione idonea allo scopo. "Da un punto di vista teorico il giudice ideale avrebbe dovuto essere pienamente consapevole della responsabilità che la società ha in ogni delitto e quindi non avrebbe potuto che assolvere coloro che riuscivano a giustificare in termini di causalità sociale i propri attentati alla proprietà; infine avrebbe dovuto assicurare a costoro quella condizione economica necessaria per potere intraprendere una vita nuova ed onesta" (442). Ma i riformatori non arriveranno mai a questi estremi; si limiteranno, invece, ad insistere sulla necessità di una nuova politica sociale e ad invocare una completa razionalizzazione della giustizia penale ancora completamente dominata da concezioni teologiche. "La popolazione detenuta che non si riteneva di dover sottoporre ad un processo di risocializzazione doveva essere fatta uscire dalle prigioni attraverso l'uso sempre più esteso di un apparato sanzionatorio alternativo alla pena detentiva ed attraverso l'applicazione di sanzioni pecuniarie" (443). Le pene detentive di breve periodo non potevano che essere rifiutate, in quanto non adatte al trattamento rieducativo; i criminali che si riteneva potessero essere rieducati dovevano essere trattati con la massima cura ed attenzione perché la tesi secondo cui la società è sempre in qualche modo colpevole del delitto era connessa alla volontà di restituire, comunque, al consorzio civile il grado più elevato di soggetti. "La rieducazione del condannato, infatti, era interpretata come un buon investimento" (444). L'unica ipotesi in cui il criminale doveva essere allontanato dalla società per un periodo indeterminato si aveva solamente quando ogni speranza di risocializzarlo fosse venuta meno. La Scuola positiva assegna un ruolo di centralità all'individuo nella sua concreta fisicità ed individualità, e conduce la sua battaglia per l'affermazione di una rigorosa definizione della personalità del reo e delle cause della delinquenza. "La borghesia, protagonista del nuovo corso economico e politico, e ammalata di vecchi complessi d'inferiorità, sembra trovare nelle teorie positiviste la legittimità al potere che tende ad affermare, così come il sovrano di un tempo fondava la legittimità del proprio potere in una dimensione metafisica ed ultraterrena. Esaurita la spinta riformatrice, umanitaria seppur utilitaristica, del pensiero illuminista, la borghesia sembra trovare il suo principale presupposto ideologico nella demonizzazione delle classi subalterne" (445). Il razionalismo di stampo illuminista è, in un certo senso, raccolto ed amplificato dal pensiero positivista, che ripone una fiducia infinita nel metodo scientifico induttivo e sperimentale, ritenuto valido per indagare il corpo umano e la vita dell'uomo con la stessa precisione scientifica attribuita alle scienze matematiche e naturali. "Il principio cartesiano, secondo cui l'unione tra la psiche e il corpo risiede nella ghiandola pineale, è ripresa, seppur con modalità diverse, dai positivisti che indagano sul fondamento materiale dello spirito" (446). Si intensifica lo studio dell'uomo nel complesso delle sue funzioni biologiche, psichiche e comportamentali, ma anche degli aspetti ritenuti patologici, abnormi, mostruosi, in sintesi l'uomo nei suoi caratteri degenerativi. "Ecco allora il dilagare della scienza antropometrica che seziona il corpo del delinquente alla ricerca di anomalie che possano dimostrare l'origine costituzionale del delitto" (447). Non solo la delinquenza vera e propria, ma anche comportamenti sessuali e di costume in genere che si discostavano dai canoni morali del tempo, movimenti politici e di ribellione sociale come l'anarchia ed il brigantaggio, erano considerati comportamenti criminosi, o comunque espressione di personalità abnormi, individuabili attraverso l'osservazione dell'anomala conformazione fisica, biologica e costituzionale. Dopo aver definito le caratteristiche generali della nuova teoria, analizziamo le singole posizioni dei maggiori esponenti della Scuola positiva. Secondo Carlo Cattaneo, "mentre le scienze sperimentali facevano enormi progressi, la filosofia era rimasta ferma presso i sepolcri dei pensatori antichi. Per rimetterla in cammino, si proponeva quindi di reagire contro le astruserie ideologiche, di badare soltanto ai fatti e di rinnovare l'applicazione del metodo sperimentale inaugurato da Galileo" (448). Roberto Ardigò sostenne che l'evoluzione costituisse un passaggio dall'indistinto al distinto. La causa di ogni atto volontario è la sensazione, una realtà psichica che è al tempo stesso rappresentazione e sentimento; le idee risultano da somme di sensazioni, e la volontà, per cause diverse, si eccita e si trasforma in attività. "Dato questo meccanismo psicologico, parrebbe doversi concludere non esservi più posto per la libertà. Ma Ardigò non giunge a tale conclusione" (449), proclamando che il positivismo, senza negare la causalità del volere, trova e dimostra nell'uomo la libertà (450), sebbene una libertà relativa e contingente, prodotta anch'essa dall'evoluzione. Ad una libertà relativa non può che corrispondere una responsabilità relativa; come il volere non è mai assolutamente libero, così la responsabilità è sempre relativa. Verso il 1850 si svilupparono, specie in Germania, in viva opposizione all'idealismo romantico, le dottrine naturalistiche. E risultato di questo movimento fu una nuova metafisica ferocemente realistica. Esplicativa di questa nuova corrente è la teoria del meccanicismo universale di Luigi Buchner, il quale sostiene che man mano che l'uomo progredisce nella conoscenza della natura, vede scomparire il caso e l'arbitrio, che vengono surrogati da leggi e dalle loro svariatissime combinazioni. Lo stesso vale per il mondo morale: chiunque cerchi di penetrarne le leggi, troverà dappertutto la necessità. "Quanto al delitto, la statistica dimostra che le cattive azioni degli uomini si svolgono differentemente secondo le modificazioni della società circostante" (451), che, cioè, la società prepara il delitto, ed il delinquente è soltanto lo strumento attraverso il quale esso viene eseguito (452). Dunque, se il delitto è un prodotto della società, il reo è degno soltanto di pietà, e la giustizia, così com'è, rischia di tramutarsi nel suo contrario. Perciò, invece di applicare le pene, si dovrebbero modificare le circostanze sociali, in modo da modificarne il risultato e diminuire così il numero dei delitti. Tuttavia, nella causazione del delitto entra anche il fattore individuale, non come vera e positiva colpevolezza, ma solo in veste di malattia o errore. Da qui l'indagine sull'importanza delle eredità fisiologiche. In questo ambito si inserì l'opera di Cesare Lombroso. Il suo contributo specifico recato alla scienze criminali fu l'osservazione del delinquente (453). "Il motivo pratico che informò la sua pubblicazione più importante, L'uomo delinquente, venuta alla luce nel 1878, fu quello di risolvere la contraddizione fra il dilagare della recidiva e l'abitudine di giudicare il reato in astratto, prescindendo cioè dal carattere dell'agente" (454). Fino a quel momento non si era prestata attenzione alle voci dei direttori delle carceri, che definivano i condannati come uomini differenti dagli altri, ed a quelle degli alienisti, che ritenevano impossibile scindere la pazzia dal delitto. Mentre, nel passato, tutto l'interesse dei penalisti era indirizzato alla perfetta formulazione scientifica dell'entità astratta del delitto, lo studio positivo del delinquente doveva costituire l'oggetto di nuove ricerche; il metodo impiegato non era diverso da quello adottato per studiare ogni altro oggetto della natura, cioè il confronto dei dati dell'anatomia con quelli della fisiologia, della biologia, della tecnologia e della linguistica. Compiendo tali ricerche, "Lombroso ritenne di aver scoperto un tipo umano anormale, il delinquente nato, che definì in base ad elementi prevalentemente somatici e fisiologici e ad analogie coi selvaggi e con le razze colorate, spiegandone le anomalie con le leggi dell'atavismo e della degenerazione" (455). L'opinione che fosse possibile indurre da segni esteriori e visibili il tipo di delinquente era tutt'altro che nuova: Seneca dà prova di condividerla in alcune sue osservazioni, e nel Medioevo, presso alcuni popoli, nel caso che tra due prevenuti se ne fosse sospettato uno, veniva applicata la tortura al più deforme. Le ricerche fisionomiche furono poi in grande onore durante il rinascimento. Infine Gall, tramite la frenologia, "pretese di assegnare rispettivamente a ciascuna parte del cervello una diversa facoltà dell'anima e di dedurre quindi le varie facoltà da determinate conformazioni esterne del cranio" (456). Ma Lombroso, distanziandosi da tali precedenti, e raccogliendo un enorme materiale scientifico tramite una larga esperienza diretta, dette vita ad una nuova scienza, l'antropologia criminale: essa consiste nello studio dell'uomo delinquente effettuato con i metodi naturalistici con cui l'antropologia generale studia l'uomo normale, cioè utilizzando e sviluppando nozioni di anatomia, fisiologia, psicologia, etnologia, demografia e perfino filologia (457). Questa scienza si ispira alla constatazione empirica di una certa corrispondenza tra il fisico ed il morale, tra la fisionomia ed il carattere; nell'uomo delinquente si trovano combinate anomalie fisiopsichiche in numero maggiore ed in forma più grave che nell'uomo di condotta corretta e normale. Per spiegare queste deviazioni il Lombroso assegnò massima importanza alla degenerazione ereditaria, e, poiché essa assume aspetti rispondenti a forme primitive, le chiamò ataviche (458). Quando Lombroso, antesignano del moderno criminologo, padre indiscusso della scienza dei devianti, dell'antropologia criminale, aprì il cranio del brigante Vilella, ed il suo occhio si posò, sezionò, catalogò, nel punto dove si erge, normalmente, la piccola cresta, qualcosa apparì, lì dove non doveva essere: una vistosa anomalia, che aveva l'aspetto di una fossa, la fossetta occipitale mediana vermiana. Questa diversità, sostenne Lombroso, accomunerebbe il cervello dei delinquenti a quello degli animali inferiori (459). L'idea di personalità tipica del criminale lo aveva colpito per la prima volta osservando i tatuaggi dei soldati, quelli disonesti, a detta della sua esperienza, molto più tatuati degli onesti. In seguito Lombroso aggiunse alla iniziale categoria del delinquente nato quella del pazzo morale, del delinquente epilettico, del delinquente d'impeto, del delinquente pazzo e del delinquente occasionale, aprendo però così la via ad un lungo ed inconcludente dibattito circa la migliore classificazione dei delinquenti (460). Lombroso affermò la naturalità e la necessità del delitto, un fenomeno inevitabile come la nascita e la morte; di conseguenza, il diritto di punire non era che la necessità naturale della difesa: difesa pura e semplice, senza intromissione di elementi morali, quella stessa difesa che l'uomo esercita quando è assalito dalle belve. L'opera di Lombroso ha un impatto enorme sulla pratica penale: il travaso dell'antropologia nelle aule di giustizia diventa marea; nei dibattimenti penali non si riesce a fare a meno del supporto di psichiatri e criminologi per investigare, frugare, accertare intorno all figura del reo che finisce per essere oscurata dallo stesso dire su di esso, incitamento ossessivo a pronunciare i discorsi della scienza. Lombroso si occupa anche direttamente della questione carceraria; raccoglie una serie di documentate testimonianze andando a decifrare le grafie rozze ed incerte con cui i detenuti incidono sulle pareti delle celle i loro pensieri e le loro angosce. I palinsesti criminali, sostiene Lombroso, ci rivelano che gli scopi del carcere quasi mai vengono raggiunti: si crede di impedire l'associazione tra prigionieri quando invece accade il contrario. Nel carcere si realizza una nuova forma di cameratismo, si origina una vera e propria tradizione carceraria che diventa linguaggio ed organizzazione del vivere, e che si trasmette di volta in volta ai nuovi arrivati. La prigione è luogo della comunicazione e dell'apprendimento della delinquenza per chi sta dentro, per chi sta fuori e per chi passa dall'una all'altra condizione. Titolo di perenne gloria per Lombroso sarà aver studiato l'uomo, cristallo di rifrazione delle cose stesse che, deforme, le deforma, limpido e puro, le riverbera limpide e pure. Egli compie una operazione "che trasforma il problema della criminalità; sposta l'accento dalla 'malvagità' alla 'pericolosità' del delinquente. La società deve ora porsi il problema della gestione dell'esistenza del criminale dopo che egli sia stato condannato. Se il crimine è dovuto non a libera scelta dell'autore, ma ai tratti patologici dell'individuo, non è più possibile impostare la questione della pena sul concetto di riparazione. Ha senso allora occuparsi dell'individuo prima che il carattere patologico criminale si manifesti in modo da evitarne gli effetti, e, dopo, per impedire che egli possa di nuovo nuocere" (461). La sua teoria dell'atavismo lo porta ad affermare il diritto-dovere della società a difendersi dal delinquente, ma, proprio per la patologizzazione dell'atto criminale, gli è impossibile parlare di recupero in quanto il crimine è per lui effetto di natura perversa. Per Lombroso, il delinquente, deresponsabilizzato, agisce perché dominato da impulsi atavici che hanno prevalso sui meccanismi della civilizzazione. "La 'terapia' proposta da Lombroso è la relegazione ai margini sociali (manicomio criminale) per affermare il diritto della società a difendersi dall'individuo delinquente. Attraverso diverse motivazioni si giunge ad un modo analogo di concepire la pena: essa è neutralizzazione del delinquente. Diversi sono inoltre i modi e i tempi di questa neutralizzazione, ma, sostanzialmente - una volta respinta l'utopia del recupero del 'soggetto di diritto' - rimane solo l'ipotesi della distruzione dell'individuo" (462). Discepolo di Lombroso, Enrico Ferri cercò di instaurare una nuova fase nell'evoluzione della scienza criminale. Secondo questo autore, la scuola tradizionale si basava su tre principi aprioristici: che l'uomo fosse dotato di libero arbitrio; che il delinquente fosse fornito di sentimenti ed idee come ogni altro uomo; che l'effetto principale delle pene fosse quello di limitare il numero dei delitti. A tali principi il Ferri contrappose le sue conclusioni: che il libero arbitrio era un'illusione soggettiva; che il delinquente non era un uomo normale, ma costituiva una classe speciale in seguito ad anormalità organiche ed acquisite, e rappresentava nelle società moderne le primitive razze selvagge; che la statistica provava come l'aumentare ed il diminuire dei reati dipendesse da altre ragioni e non dalle pene sancite dai codici ed applicate dai magistrati. Il diritto penale, quindi, avrebbe dovuto essere trasformato in un ramo della sociologia, e fondato sui dati forniti dalla psicologia, dall'antropologia e dalla statistica. "La sociologia avrebbe dovuto dividersi in due branche, l'una comprendente le scienze dell'attività umana normale, l'altra quelle dell'attività umana anormale. E quest'ultima branca, con l'appellativo di sociologia criminale, avrebbe dovuto assorbire e soppiantare il diritto penale" (463). Secondo l'autore, essendo il delitto, come ogni fatto naturale, frutto di pura necessità, diveniva assurdo parlare di libertà; crollavano, di conseguenza, tutte le costruzioni giuridiche basate sulla volontarietà, sulla colpa e sul dolo. Ma con questo non si intendeva proclamare l'irresponsabilità degli atti umani. Le scienze sociali spaziano tra due poli, l'individuo e la società; negata l'origine e la base della responsabilità nell'individuo, non rimane che individuarla nella società. "L'individuo, di qualunque specie, non esiste come tale, per sé stante ... ma bensì come membro, come elemento di una società" (464). La società, come ogni altro organismo, si trova nella necessità di provvedere alla propria conservazione. "Di qui il diritto di punire, un diritto che non avrà più il significato mistico che ebbe finché lo si confuse con l'ordine morale, ma che, tuttavia, non può essere posto in dubbio" (465). Per questo autore, "l'unica ragione naturale ed il criterio fondamentale della repressione dei delitti stanno nella necessità imprescindibile della propria conservazione ... e per ciò codesta funzione preservativa del delitto, nell'individuo e nella società, è e deve essere indipendente da ogni elemento di colpa morale nel delinquente, cioè nell'individuo anormale od ammalato, che dalle proprie condizioni organiche e psichiche, permanenti o transitorie, ereditarie od acquisite, si rende, con la complicità dell'ambiente fisico e sociale, autore di un attacco alle condizioni naturali di esistenza dell'individuo o della società" (466). Ne consegue che non è più necessario distinguere tra azione ed azione: l'uomo è sempre responsabile verso la società per il solo fatto che vive in essa. Ad ogni azione segue la reazione; la sanzione sociale non è che un caso particolare della reazione naturale. "Stabilita la responsabilità sociale assoluta, cioè estesa ad ogni azione dell'uomo per il solo fatto che esso vive in società, sorge la domanda, se tale responsabilità sia sempre in ogni caso identica. Il Ferri ammette che l'indole e l'intensità della responsabilità possono variare in funzione delle diverse circostanze dell'individuo agente, dell'atto compiuto e della società reagente" (467). Costruì così una nuova teoria delle forme e dei gradi della sanzione. Quattro erano le forme da applicarsi, secondo i casi, tenuta presente la classificazione dei delinquenti: mezzi preventivi, mezzi riparatori, mezzi repressivi, mezzi eliminativi. Quanto al grado, andava determinato in base a due norme integrantisi a vicenda: qualità più o meno antisociale dell'atto e qualità più o meno antisociale del delinquente, la prima desumibile dalla qualità del diritto violato e dai motivi dell'azione, la seconda dalla classificazione dei delinquenti. "Il Ferri stabilisce le seguenti categorie di criminali: pazzi, nati, per abitudine acquisita, d'occasione e per passione; e dichiara adatti, alle prime due, i mezzi eliminativi, alle ultime due, i mezzi riparatori e repressivi temporanei, e, alla mediana, i mezzi repressivi a tempo indeterminato" (468). In sostanza, il Ferri sosteneva che ai vari criteri della scuola tradizionale andasse sostituito un nuovo criterio, quello della pericolosità del delinquente. Il classico contrasto tra prevenzione e repressione è così risolto a favore della prima; sebbene il Ferri sostenga che la pericolosità debba essere desunta anche dall'azione criminosa, essa resta comunque soltanto l'indice esteriore di una potenza bruta che costituisce un pericolo per la società. "Le quattro forme della difesa sociale non esauriscono il programma dei mezzi di cui la società dispone contro il delitto. Efficacia assai maggiore che non la sanzione vera e propria posseggono quei numerosi provvedimenti legislativi di ordine economico, politico, giuridico, religioso, famigliare ed educativo, che hanno per fine al prevenzione indiretta, vale a dire la rimozione delle svariatissime cause del delitto. Onde nulla è più utile alla lotta contro la delinquenza dello studio accurato di queste cause e dei mezzi con cui possono essere rimosse" (469). Per Ferri, il mezzo più potente per combattere il delitto consisteva nel rimuoverne le cause, ed illustrò quindi la teoria dei sostitutivi penali, basati appunto sull'intento di prevenire i delitti mediante opportuni interventi. A questo proposito, approfondiamo la concezione della pena come trattamento terapeutico di quella malattia sociale che, secondo i positivisti, è la criminalità. Confrontandola con la teoria dell'emenda, per quest'ultima abbiamo visto come la pena, pur non perdendo del tutto il suo carattere afflittivo, cessa di essere un 'male'. "Viceversa, attraverso l'idea di pena 'curativa' o 'terapeutica' il concetto di sanzione penale subisce un'ulteriore, e più radicale, trasformazione; ad essa fa capo la tendenza a far scomparire, in prospettiva, il diritto penale, e a sostituirlo con un sistema di trattamento medico" (470). Mentre la teoria dell'emenda è guidata dall'idea di una redenzione morale del colpevole (inteso come colpevole, in ultima analisi, morale), l'altra concezione si fonda su una considerazione del delinquente come di un malato da curare, e della delinquenza come di una malattia da cui la società deve difendersi. "Il fondamento teorico su cui tale corrente di pensiero elabora la propria concezione del sistema penale è quindi l'idea della difesa sociale" (471). Non si castiga perché l'uomo sia libero e perché la legge di giustizia obblighi a reprimere la condotta antisociale dell'uomo: il fondamento del diritto di punire si trova nella necessità di garantire la stabilità dei rapporti sociali contro la perturbazione criminale. Il teorico della difesa sociale è, appunto, il giurista più rappresentativo della Scuola positiva italiana, Enrico Ferri. Egli concepisce il delitto prima come un fatto sociale che come un 'ente giuridico' (472); prima di studiare il delitto come infrazione della legge penale, bisogna studiarlo e conoscerlo come azione, cioè come fenomeno naturale e sociale, per rilevarne le cause altrettanto naturali e sociali e per valutarlo come espressione anti-sociale di una data personalità delinquente. "Per tale motivo, a suo dire, la Scuola positiva si è opposta all'illusione - che imperversò nel medioevo, ma che continuò anche colla Scuola classica - che il rimedio più efficace contro il delitto fosse la pena, o feroce (prima di Beccaria) o mitigata (dopo di lui). Per porre riparo alla delinquenza, bisogna indagare le cause, soprattutto sociali, perché più modificabili dal legislatore e queste cause o eliminare, se possibile, o attenuare con una rete di provvedimenti ... che sono tutti al di fuori del codice penale e consistono nelle pratiche riforme di ordine educativo, familiare, economico, amministrativo, politico ed anche giuridico (di diritto privato e pubblico)" (473). È necessario prevenire il manifestarsi della criminalità, prima di ricorrere all'attività punitiva. Tale teoria, detta dei sostitutivi penali, si fonda sull'idea che le pene hanno una potenza repulsiva dal delitto assai limitata, per cui è naturale che il sociologo criminalista chieda altri e diversi mezzi di difesa sociale. "E ciò non solo nel campo repressivo (dopo il delitto), ma con nuove forme di sanzione, quali sono le misure di sicurezza per i cosiddetti 'moralmente irresponsabili'; ma anche e soprattutto nel campo della prevenzione indiretta o sociale anche più che della prevenzione diretta o di polizia" (474). Visto che le pene mancano quasi totalmente allo scopo loro attribuito di difesa sociale, bisogna ricorrere ad altri provvedimenti, che possano sostituirle nella soddisfazione della sociale necessità dell'ordine; di qui il concetto dei sostitutivi penali. Nel campo criminale, tali sostitutivi dovrebbero divenire i primi e principali mezzi di quella preservazione sociale della criminalità, a cui le pene serviranno ancora, ma in via secondaria. "Vale a dire che lo scopo di evitare i delitti invece che colle pene si otterrà con questi provvedimenti; i quali adunque, nei limiti della loro efficacia, sono veri sostitutivi, anziché cooperatori delle pene" (475). Mentre la pena, per la sua funzione etico-retributiva, deve essere sempre proporzionata al fatto reato, la misura di sicurezza può prescinderne; la prima guarda al passato rappresentando la giusta punizione per il fatto stesso di aver violato la legge penale, la seconda, invece, al futuro, svolgendo una funzione essenzialmente preventiva e di difesa sociale. Il presupposto per l'applicazione della pena è l'imputabilità, cioè la presenza nel soggetto di una certa capacità intellettiva e volitiva; per la misura di sicurezza, invece, si richiede che il soggetto, normale o anormale, sia pericoloso, cioè abbia rivelato una probabilità altamente qualificata di ricadere nel reato. L'istituto della pericolosità sociale (476) e delle relative misure di sicurezza ad esso collegate risponde ad un criterio di prevenzione speciale attuato non per punire il colpevole, ma per sottoporlo ad un provvedimento idoneo ad agire sulle stesse cause che lo hanno spinto al reato, ovvero sulla pericolosità sociale. Le pene saranno l'ultimo e imprescindibile riparo contro le inevitabili manifestazioni dell'attività criminosa. Ferri così sottolinea la necessità primaria della prevenzione rispetto alla repressione; "se gli illuministi affermavano che prima di punire bisogna prevenire, Ferri pone addirittura la pena come un mezzo sussidiario rispetto ai mezzi preventivi" (477). Tale autore sostenne che una delle cause della decadenza della Scuola classica fu il fatto che gli imputati venissero considerati come vittime della tirannide statale, e che alla scienza criminale il Carrara attribuisse il compito di limitare gli abusi del potere, onde ne derivò una menomazione dei diritti della società di fronte ai delinquenti. "La Scuola positiva invece affermò la necessità di ristabilire l'equilibrio fra i diritti dell'individuo e quelli dello Stato" (478). Se il medioevo aveva visto solo il delinquente, e la Scuola classica soltanto l'uomo, la realtà imponeva di guardare l'uomo delinquente, non disconoscendo nel delinquente i diritti insopprimibili dell'uomo, ma non dimenticando neppure le insopprimibili necessità della difesa sociale. La Scuola positiva affermava inoltre che lo Stato non doveva assolvere, direttamente, nessun compito filosofico, religioso né etico, poiché questi non erano di sua competenza, ma doveva solo organizzare giuridicamente la difesa sociale repressiva contro la delinquenza. La pena, dunque, come ultima ratio di difesa sociale repressiva, non deve proporzionarsi soltanto alla gravità obbiettiva e giuridica del delitto, ma deve adattarsi anche e soprattutto alla personalità, più o meno pericolosa, del delinquente, con la segregazione a tempo indeterminato, cioè sino a quando il condannato non sia riadatto alla vita libera e onesta (479), "così come l'ammalato entra nell'ospedale non per un termine prefisso di tempo - che sarebbe assurdo - ma fino a quando non sia riadattato alla vita ordinaria" (480). Mentre le leggi penali del Medioevo, cedendo all'illusione psicologica che il castigo sia il rimedio del male, seguirono una ostinata progressione di ferocia penale per tutti i delinquenti, senza distinzione, le leggi penali scaturite dalla Scuola classica andarono all'eccesso opposto di una mitezza crescente, anche di fronte ai delinquenti più pericolosi. Le sanzioni, invece, debbono essere estranee a qualsiasi pretesa di infliggere un castigo proporzionato ad una colpa morale. "Nessun giudice umano può misurare la colpa morale di una umana creatura" (481). I positivisti venivano accusati di eccessiva indulgenza, di essere addirittura nemici della libertà umana, o meglio del libero arbitrio. In realtà l'iniziale tripartizione dei 'delinquenti' su cui si incentra la dottrina lombrosiana (rei nati, rei d'occasione, rei per passione) lascia agio a giudizi e interpretazioni estremamente articolati circa la natura e le misure da adottare verso i criminali. "In particolare, come insiste più volte lo stesso Lombroso, il fatto che i positivisti si applichino con tanta cura all'indagine dei fattori climatici, somatici, naturali, ecc. nel loro influsso sui delinquenti, non esclude del tutto elementi di responsabilità individuale, ma anzi li completa e li chiarifica" (482). Ciò che reiteratamente affermano i positivisti è il concetto della distinzione e differenziazione all'interno della categoria dei criminali, ad ogni classe dei quali vorrebbero corrispondesse un'adeguata misura di sorveglianza, sicurezza, punizione o rieducazione. "Il concetto teologico di male e di perversione morale, così caro alla scuola classica, viene pertanto irriso dalla loro analisi empirica: al suo posto deve subentrare un'osservazione accurata dei fenomeni delinquenziali, purgata di ogni prevenzione morale e di ogni giudizio aprioristico. ... Tuttavia, proprio in forza della loro distinzione pregiudiziale tra devianza, criminalità biologica e delinquenza occasionale, i positivisti potranno giungere ad un concetto di istituzione penitenziaria differenziale strutturata in 'caselle' - previa individuazione e osservazione del caso singolo - nella quale siano compresenti: manicomi criminali per delinquenti irrecuperabili pazzi; case di pena rieducative; istituti di prevenzione e reinserimento sociale dei minori; istituti di sicurezza (difesa sociale) destinati ai delinquenti irrecuperabili ... fino alla neppur troppo larvata proposta di pena di morte per i delinquenti più incalliti e pericolosi" (483). D'altro canto la progettazione di un tale edificio penitenziario riguarda essenzialmente, quanto alla pena privativa della libertà o al lavoro coatto, le sole categorie antropologicamente e biologicamente inclini al delitto; per tutte le altre vengono contemplati essenzialmente interventi preventivi (i sostituivi penali formulati da E. Ferri). "Per i positivisti, dunque, tracciare la netta demarcazione tra rei di natura e rei per altri fattori occasionali (metereologici, ideologici, emozionali, ambientali, economici, ecc.) significa costruire una penologia scientifica basata sulla catalogazione dei delinquenti e sul rimedio (terapia) alle insorgenze patologiche curabili" (484). Il crimine, come ogni altra malattia, diviene pertanto curabile: in certi casi si tratterà di interventi sociali, in altri di terapie mediche o psichiatriche. L'assimilazione della criminologia alla psichiatria è così tracciata nelle sue linee portanti. "Ne consegue, però, anche, che tutti coloro i quali non possono, o per cause biologiche o per motivi sociali irriformabili, essere riammessi nel consesso dei sani devono, perciò stesso, venire isolati e segregati rispetto alla comunità civile. Il concetto di pericolosità sociale implica di conseguenza la difesa - anche spietata se del caso - da parte della società verso coloro che deviano dalla norma" (485). D'alto canto, poiché la nozione di incorreggibilità criminale presuppone all'opposto quella di recuperabilità, per lo meno nei confronti dei criminali occasionali e poco pericolosi, tale difesa assume una funzione pedagogica e normativa, che trascende il carattere punitivo e assegna alla pena un ruolo terapeutico generale. "L'indubbio merito della sociologia criminale consiste nell'aver costruito una scienza (e una casistica) della criminalità (meglio: dei criminali) e, per estensione, della devianza assai più flessibile di quella neoliberale o classico-illuministica. Da questo momento in poi la pena (o la cura), e la segregazione (o la terapia) del trasgressore (folle, deviante o delinquente) si configurano essenzialmente come tutela e difesa della società verso e contro gli anormali" (486). Ad essere stigmatizzato e punito non è dunque tanto l'atto, quanto il comportamento ed il soggetto ad esso corrispondenti. La sociologia criminale ha l'ambizione di delineare una scienza complessiva dei comportamenti sociali, politici e culturali (anormali e, per converso, normali) che vigono nella società civile, identificata totalmente con la società borghese capitalistica. "Pur criticando in apparenza il sistema dominante e paludandosi, populisticamente, di riferimenti socio-economici alle cause della criminalità, la sociologia criminale ... scivola ... sempre di più verso il tecnicismo e il formalismo. ... Ciò che resta, in ultima analisi, è il tecnicismo dei rimedi volti a difendere la società sana, operosa e normale dai 'rei' identificati, senza mediazione, con i reati" (487). La sociologia criminale ha inteso tracciare una deterministica genealogia dei comportamenti sociali, in accordo con la supposta, perfetta, trasformazione naturale; "il delinquente rappresenta il residuo atavico (fossile vivente o rudere dell'organismo civile) nella società evoluta: l'equazione tra criminale e primitivo (o 'pre-uomo') viene fatta ad ogni piè sospinto. Costumi, gerghi, codici ristretti, abitudini sessuali, tatuaggi, ecc. vengono analizzati e campionati per dimostrare 'irrefutabilmente' tale tesi" (488). Ma se il positivista può comprendere la natura 'barbara' o addirittura 'animalesca' di certi delitti maturati in seno ad una classe non ancora evolutasi allo stadio civile, non per questo li tollererà o li assolverà. "Da questa comprensione del determinismo sociale, che mirabilmente fa rima con lo sviluppo e le trasformazioni dell'organismo naturale, la scuola positiva trae certezze assolute e indefettibili che ricordano, in ultima analisi, altre dommatiche e altre convinzioni teologiche di cui pure si professa nemica irriducibile. La sensazione è che per distruggere la fede religiosa essa abbia dovuto creare la fede nella scienza, o almeno in alcuni suoi principi sacralizzati" (489). Tale inclinazione verso gli schemi dottrinari, in cui vennero ossificati i risultati e le ricerche empiriche, ebbe conseguenze metodologiche e ideologico-politiche assai rilevanti, specie per quanto riguarda la valutazione dei delitti politici, dei movimenti sociali spontanei, della violenza di classe. La scuola lombrosiana fornì un fecondo contributo ideologico-conservatore e autoritario-riformista sia alla borghesia che all'organizzazione operaia socialista, allora dilacerata dal dibattito su illegalismo o parlamentarismo. Tale scuola, specie per mezzo delle sue teorie più popolari, ha dato un fondamento scientifico naturalistico alla tesi secondo cui solo piccole trasformazioni non violente possono mutare in meglio la società, appianando contraddizioni e sanando ingiustizie. "In questo senso la sociologia criminale è essenzialmente un'ideologia dell'ordinamento e del controllo sociale, che tende a legittimare, con la teoria darwiniana, lo status quo e le sue manifestazioni, relegando nella barbarie e nell'atavismo comportamenti e insorgenze non ammesse e codificate dalla società legale" (490). "I giudizi di valore da cui la scuola partì per giudicare e condannare gli anarchici terroristi, le sommosse di piazza, e, in genere, tutti coloro che non stavano alle regole del gioco politico legale, vennero gabellati per principi naturali determinati e giustificati dalla giusta e coerente (ovvero normale) evoluzione sociale. Porsi contro le regole dominanti significava quindi andare 'contro natura', manifestando comportamenti, istinti, inclinazioni propri della patologia organico-sociale" (491). Così, poiché la violenza o il delitto contro la proprietà sono una manifestazione barbara, quelle classi che la esercitano o la propugnano non sono civili. Le implicazioni ideologiche e morali di tale assunto non potevano che incrementare le differenze e le spaccature tra 'classi pericolose', marginali ed extralegali, e ceti industriali emergenti; "in secondo luogo si forniva un'arma ideologica formidabile, sia al padronato che al riformismo opportunista, atta a criminalizzare tutte quelle istanze non allineate e non remissive alla 'dolce frusta' del parlamentarismo e della repressione legittimata. L'operaio civile doveva avere il suo prototipo nell'uomo compiuto: quello cioè 'privo di tare ereditarie e ataviche', che potevano viceversa orientare in senso violento, irrazionalistico e brutale, i comportamenti degli esseri di 'livello inferiore', identificati coi proletari e sottoproletari" (492). Ci si trova davanti alla formulazione del razzismo sociale: per crescere, ottenere i suoi diritti, emanciparsi, e poi, magari, liberarsi dalle catene dello sfruttamento e del lavoro salariato, la buona classe operaia deve imparare e acquisire i sani comportamenti della maggioranza non deviante. "Spinte e impulsi magari anche lodevoli che però esulano dalla norma - qui tutt'uno con la medietà e la mediocrità del sistema antropologico-sociale dominante - finiscono per essere stigmatizzati come anormali e dunque giudicati riprovevoli e controproducenti" (493). Vengono perciò codificati dalla sociologia criminale dei criteri definiti oggettivi, che fungono da indicatori discriminanti della anormalità e della normalità, i quali servono a selezionare in tutti i campi istituzionali, dalla psichiatria alla criminologia, i comportamenti cosiddetti devianti, tracciando al loro interno una linea di demarcazione semplice quanto ferrea: da una parte i recuperabili, dall'altra gli incorreggibili. "Coloro che non si piegano alle leggi dell'evoluzione sociale possono (anzi devono) essere corretti e resi innocui con ogni mezzo, poiché non solo danneggiano la società civile, ma frenano e inquinano coi loro caratteri atavici o prematuri (intempestivi e quindi dannosi) la naturale linea di sviluppo dell'umano progresso. Sono in certo qual senso, anche se inconsapevolmente e irresponsabilmente, nemici dell'umanità e dell'evoluzione. Non a caso dal razzismo sociale alla selezione artificiale (ovvero eliminazione fisica degli 'inutili' e dei 'dannosi') il passo fu breve. ... Una volta conferito alla natura il potere di legiferare in campo sociale e istituzionale, ogni teoria, purché congeniale agli interessi dominanti, diveniva 'scientifica'" (494). La Scuola positiva presentava anche altri grandi limiti. Nell'attacco alla concezione penale propria della Scuola classica, il pensiero di questi riformatori ha messo in risalto quei ritardi culturali e quelle deficienze che si riteneva fossero le conseguenze inevitabili di un'ipotesi retributiva, ma ha poi dimenticato che in quello stesso periodo i fautori della teoria classica stavano anche combattendo le disumane condizioni ancora prevalenti nell'applicazione del diritto penale. "In questo modo, questo nuovo indirizzo non faceva che alimentare l'illusione che una determinata prassi penale altro non fosse che l'effetto automatico di una altrettanto determinata teoria, per cui era sufficiente contestare quest'ultima per far venire meno la prima" (495). In secondo luogo, "il positivismo, portato alle sue estreme conseguenze, creerà una sorta di scientismo, sicché la fede assoluta sulle possibilità del metodo scientifico, induttivo e sperimentale, si trasformerà in un fideismo mascherato, talvolta, da scienza esatta" (496). Con le sue generalizzazioni e schematizzazioni la Scuola positiva ha deresponsabilizzato l'individuo, ponendosi all'estremo opposto della Scuola classica, che deresponsabilizzava la società. Inoltre, agganciando il reato al suo autore, ed incentrando il diritto penale sulla pericolosità del delinquente, su tipologie criminologiche di autori e su momenti tipicamente personali, essa ha rimesso in discussione, a favore della discrezionalità del giudice ed in nome della difesa sociale e della giustizia concreta, le garanzie di legalità e di certezza giuridica. Infine, ha posto in discussione il fondamentale principio del 'nulla poena sine delicto', in quanto, una volta sostituita la colpevolezza con la pericolosità sociale, dovrebbero essere sottoposti a misure di sicurezza anche i pre-delinquenti, cioè i soggetti che, pur non avendo ancora commesso reati, risultino socialmente pericolosi. Nel cinico concetto di selezione naturale, il positivista presume di riassumere il compito della giustizia penale, e non si accorge che la società quando respinge da sé un individuo e se ne libera sopprimendolo, apre, e non chiude, la propria piaga con il riconoscere definitivamente quella insufficienza che si esprimeva nell'individuo soppresso. Il Carrara, dalla sua posizione classica, sostiene che "il quesito involge tutto il problema del libero arbitrio" (497), e che dalla risoluzione di esso dipende la giustificazione del principio della retribuzione. Per avere retribuzione, occorre che vi sia responsabilità, e quindi volontà libera. "Né può giustificarsi diversamente una graduazione della pena in proporzione alla gravità del reato" (498). I positivisti, negando il libero arbitrio, negano anche lo scopo di retribuzione della pena. Tuttavia, "non è sempre chiaro come possano conciliarsi i concetti di responsabilità e di determinismo, in argomentazioni alquanto contorte dove, dopo aver parlato della pena come una conseguenza dell'azione antigiuridica del singolo, esclusa la colpa del reo come giustificazione della sanzione, se ne ammette però l'implicazione, si considera 'dura necessità' la punizione da parte della società per un male di cui nessuno ha colpa" (499). La teoria della Scuola positiva porta, così, a sacrificare l'individuo alla società, dimenticando il valore irriducibile della persona umana; la responsabilità scompare di fronte alla nozione di pericolosità del delinquente e, senza riserve, non il più responsabile, ma il più pericoloso è punito. La Scuola positiva è dunque ambivalente. "Infatti, vi è in essa la tendenza fondamentale a porre al margine la funzione punitiva, a studiare primariamente le cause sociali dei delitti, a tenere in considerazione le motivazioni di ordine soprattutto sociale che hanno spinto un uomo a delinquere, ecc.; ora, questo determinismo sociale - il quale ha una connotazione umanitaria derivante dalla sua lontana origine illuministica - si è presentato politicamente come 'progressista', e si è accompagnato all'idea socialista secondo cui la delinquenza ha la propria origine primaria nella miseria, e quindi in determinati rapporti di classe della società; riformata la società, anche la delinquenza sarebbe scomparsa" (500). D'altra parte, altri elementi della Scuola positiva, portano invece a sottolineare l'aspetto repressivo della difesa della società, e a sottovalutare la garanzia dei diritti individuali. I due aspetti sono, tuttavia, collegati tra loro, in quanto una graduale sostituzione del sistema punitivo con un sistema curativo dei delinquenti, considerati come dei malati sociali, dei pazzi, degli anormali ecc., porta ad un aumento dei poteri di intervento dello Stato, e ad una diminuzione dei limiti posti alla sua autorità a tutela dei diritti individuali. Il punto terminale del processo ideale che conduce ad un superamento del diritto penale, o alla sua abolizione, o alla sua sostituzione con altri mezzi di controllo e di difesa sociale è costituito da quelle correnti sociologiche che hanno elaborato la teoria della devianza (501), e che, ancora ai giorni nostri, si trovano nel bel mezzo del dibattito sulla validità delle loro asserzioni e sulla opportunità delle loro conseguenze e delle loro implicazioni. Quanto all'influenza esercitata sullo specifico carcerario dalla scuola positiva, essa da un lato rafforzò il significato simbolico-istituzionale del carcere che la scuola classica aveva, per senescenza interna, fatto decadere; dall'altro dette nuovo impulso fattuale al ruolo materiale-produttivo della segregazione; infine portò a far coesistere la concezione retributiva con quella utilitaristica. La nostra analisi storica è adesso giunta al termine; la pena detentiva diviene dunque, alla metà del XIXº secolo, la colonna portante dell'intero sistema repressivo. La pena non è più diretta a straziare il corpo del reo, ma è invece diretta alla sua anima. "Analogamente, anche l'obiettivo della pena subisce una trasformazione. Da vendetta per il reato commesso essa diviene uno strumento che cerca di trasformare il 'criminale' che l'ha commesso" (502). Con la nascita della prigione si delinea un nuovo interesse, volto alla conoscenza della persona del criminale, alla comprensione delle sue matrici delinquenziali e alle possibilità di intervento per correggerle. L'epicentro della giustizia penale non è più costituito dal reato, ma dalle questioni che riguardano il carattere, l'ambiente familiare, la storia e la provenienza dell'individuo. "Ciò comporta, in definitiva, l'ingresso nel processo penale di esperti - psichiatri, criminologi, assistenti sociali etc. - allo scopo di raccogliere conoscenze sul soggetto che possano metterne in luce le anomalie e predisporre un programma correzionale ad hoc. Muta anche il modo di trattare i delinquenti - da punitivo a 'correzionale' - finalizzato, cioè, a produrre individui normali e conformi" (503). Il potere si basa sull'accumulo di conoscenze, su interventi di routine e gradualità delle pene. "Si preferisce, ora, una regolamentazione pervasiva e continuata nel tempo, anziché una repressione brutale e saltuaria, e con questi mezzi si mira a un recupero degli individui pericolosi, non al loro annientamento" (504). Alla fine dell'Ottocento, il periodo dell'antropologia criminale, quello delle orecchie ad ansa, delle grosse mandibole, delle facce patibolari viene sorpassato; l'antropologia criminale si fonda su una base diversa, la psicologia. Solo questa scienza è in grado di fornire una soddisfacente classificazione dei delinquenti. Cade la differenza antropologica tra l'uomo onesto e l'uomo delinquente; c'è dunque una virtualità del delitto che tocca un po' tutti. "Nessuno può essere sicuro che il bruto che dorme in lui un giorno non si risvegli. Nessuno può dire: io non commetterò mai nessun delitto" (505). La concezione della criminalità mutò anche in conseguenza ai rivolgimenti politico-economici di fine secolo; la condizione economica delle classi subalterne in Europa migliorò considerevolmente nella seconda metà del diciannovesimo secolo e in modo particolare nell'ultimo ventennio; l'Europa entrava allora in un periodo di prosperità praticamente ininterrotto fino al 1914" (506). La partecipazione di masse sempre più estese nel consumo di beni in precedenza inaccessibili fu la diretta conseguenza sia di un aumento dei redditi più bassi, che di una nuova produzione di generi di largo consumo (507). La prosperità non caratterizzava solo alcune regioni lasciando le altre in miseria, ma era un fenomeno equamente diffuso a livello geografico; inoltre, nei momenti di crisi, i diversi governi misero in atto una politica di assistenza nei confronti delle classi più povere. "Il riflesso che questi fenomeni economici ebbero sulla criminalità fu notevole" (508). Grazie al pieno impiego e alla conseguente relativa prosperità, il numero dei reati e delle condanne diminuì un po' ovunque. Il valore della forza lavoro aumentò nuovamente; la forte espansione della produzione industriale, che caratterizzò l'era dell'imperialismo, non poté che favorire il più alto assorbimento della manodopera disponibile. "Per questa ragione l'internamento nelle carceri di un numero così alto di persone apparve sempre più insensato e sembrò quindi corretto adoperarsi per limitare questo fenomeno" (509). Abbreviare la vita di un cittadino o prolungarne irragionevolmente l'internamento, quando ognuno doveva ormai essere considerato, almeno dal punto di vista morale, come libera e responsabile cellula produttiva, non poteva che considerarsi un grave perdita per la società. La nuova politica criminale portata avanti dal movimento di riforma tese, dunque, a limitare, per quanto possibile, il momento dell'internamento, attraverso un sempre più esteso impiego delle sanzioni pecuniarie, nonché delle sanzioni alternative alla pena privativa della libertà e, in modo particolare, attraverso una politica finalizzata alla risoluzione di quelle contraddizioni sociali più direttamente responsabili del prodursi della criminalità. "La tendenza a sostituire una diversa tipologia sanzionatoria alla pena carceraria fu accompagnata da una sensibile diminuzione sia della durata che della severità delle pene detentive" (510). Le pene più severe sono in costante diminuzione verso la fine del secolo, mentre la lunghezza media della pena carceraria mostra una tendenza a diminuire in favore delle pene cosiddette brevi. "Con l'inizio del nuovo secolo questo processo si arresta, mentre la tendenza ad una prassi penale più indulgente si manifesta nell'uso più liberale dell'istituto della sospensione della pena per un periodo di prova e nell'aumento delle pene pecuniarie" (511). Con il miglioramento generale del livello di vita anche la situazione penitenziaria migliorò; la costruzione, ad esempio, di carceri fornite di celle individuali portò ad una nuova edilizia penitenziaria, eliminando così in parte l'eccessivo affollamento nonché le conseguenze igienico-morali connesse a questo fenomeno. Anche l'alimentazione dei detenuti fu in parte migliorata e maggiore attenzione fu posta al problema della salute. "Ed infine le catene ed altri strumenti di costrizione fisica, in precedenza utilizzati per mantenere la disciplina nelle carceri, cominciarono ad essere usati sempre più raramente" (512). La nuova letteratura penitenziaristica, che insisteva nel trattare il crimine come una questione medico-psicologica (513), nel ribadire, cioè, la necessità sociale di guarire, quando possibile, il delinquente o di isolarlo dal consorzio sociale quando nessuna terapia poteva essere sperimentata con successo, trovò ampie schiere di proseliti. "I criminologi di questa nuova scuola riformatrice fecero proprio, comunque, il vecchio principio secondo cui il livello di vita all'interno delle carceri deve sempre essere inferiore a quello delle classi più povere nella società libera" (514). Il problema divenne meno drammatico alla fine del secolo, perché il progresso nelle condizioni materiali e un generale miglioramento nella vita delle classi più povere portò necessariamente anche ad un elevamento delle condizioni nelle carceri senza per questo far venir meno la linea di demarcazione tra il livello di vita all'interno e all'esterno del penitenziario. Comunque, "mantenere questa linea netta di demarcazione finì con l'imporre limiti molto angusti alle stesse possibilità di riforma o quantomeno finì per subordinare questa alle possibili crisi di mercato" (515). La pena detentiva, poi abbiamo detto, venne a subire una concorrenza incalzante da parte delle pene pecuniarie, che, col tempo, divennero una reale alternativa alla privazione della libertà. Tale fenomeno non deve considerarsi "un effetto di nuove tipologie normative, come la violazione delle norme in tema di circolazione stradale, quanto la conseguenza di una più generale politica criminale volta a sostituire alla pena detentiva quella pecuniaria" (516). Abbiamo visto come la dottrina illuministica della retribuzione avesse attribuito alla pena pecuniaria la funzione di sanzione penale destinata alla classe dominante; lo stesso Beccaria la approvò, almeno da un punto di vista teorico, anche se dubitò che questa potesse essere applicata a tutti, in considerazione della povertà assai diffusa in larghi strati della popolazione. "E questa fu la vera ragione che rese praticamente impossibile un uso allargato delle pene pecuniarie durante il mercantilismo" (517). Bentham patrocinò un'applicazione sempre più estesa di questa pena attraverso una serie di argomentazioni che verranno poi riprese nella metà del XIXº secolo, sia pure in forme e modi diversi; egli affermò come la pena pecuniaria "avesse la virtù della perfetta economicità in quanto, oltre ad evitare ogni sofferenza superflua all'autore del reato, soddisfaceva anche la vittima e infine permetteva la più perfetta applicazione pratica del principio della proporzione tra delitto e pena" (518). Montesquieu sottolineò come la pena pecuniaria dovesse essere proporzionata alle capacità economiche del condannato, ma ciò nonostante la miseria delle classi inferiori rimase sempre, fino alla metà del secolo XIXº, un ostacolo insuperabile all'introduzione estensiva di questa sanzione (519). "In linea di massima, comunque, nella prima metà del XIX secolo, l'uso delle pene pecuniarie fu di limitate proporzioni anche perché la necessità eventuale di convertire queste in pena detentiva avrebbe ulteriormente complicato il meccanismo processuale; come giustificazione teorica si obiettò che l'uso diffuso della sanzione pecuniaria avrebbe avuto un effetto negativo dal punto di vista economico in quanto si veniva a interferire sulla libera circolazione monetaria, riducendo così la ricchezza della nazione" (520). Fu soltanto nella seconda metà del secolo, con la diminuzione degli indici di disoccupazione e l'elevazione del livello di vita che la storia della pena pecuniaria subì un cambiamento radicale. Infatti, molte delle iniziali difficoltà si attenuarono e l'enfasi crescente che veniva a porsi sul benessere materiale indubbiamente costituì una circostanza favorevole per sostituire le pene detentive di breve periodo con sanzioni di natura pecuniaria. "Se il denaro diventa misura di tutte le cose è ragionevole pensare che lo Stato possa premiare e punire, dando e togliendo ricchezza: Bonneville, un procureur francese della metà del secolo, affermerà, infatti, che la virtù e la ricchezza, il vizio e la povertà debbono considerarsi concetti tra loro antitetici, ma speculari, così che se alla virtù deve seguire la ricchezza, al vizio e alla criminalità deve seguire lo impoverimento" (521). Le ragioni a favore della pena pecuniaria furono sorrette da considerazioni economiche; la pena pecuniaria, infatti, non costa nulla allo Stato pur realizzando la massima efficacia penale: il sistema economico non è privato della sua forza-lavoro, la famiglia del condannato non deve essere mantenuta dalla pubblica beneficenza e la società, rappresentata dallo Stato, è pienamente risarcita per il danno commesso dal reato invece di essere costretta a sostenere gli alti costi di una esecuzione penitenziaria. Tuttavia, l'introduzione delle pene pecuniarie comportò alcune difficoltà nel processo di razionalizzazione del diritto penale. "Il problema principale consisteva nella difficoltà di determinare l'ammontare di una pena pecuniaria che potesse, nel contempo, essere proporzionata alle condizioni economiche del reo e al danno provocato dall'atto criminoso: la pena, infatti, se non poteva eccedere la capacità economica del condannato doveva essere però comunque superiore ai benefici che a questi erano derivati dalla commissione del reato" (522). Nel diciannovesimo secolo una soluzione che non pregiudicasse seriamente l'uno o l'altro di questi requisiti non fu trovata, con il risultato che le prigioni continuarono ad essere piene di condannati che non erano stati in grado di fare economicamente fronte alla sanzione loro inflitta. "Da un punto di vista formale questa gente doveva considerarsi detenuta per debiti e non in esecuzione di pena, in quanto era stata privata della libertà per non aver adempiuto un'obbligazione pecuniaria e perché lo Stato la tratteneva in carcere fino a quando non avesse risolto il debito contratto" (523). Le alterne fortune che tale forma di sanzione ha conosciuto nel corso della sua storia dimostrano che i limiti entro i quali il sistema della pena pecuniaria può svilupparsi ed i tipi di reato ai quali può applicarsi non dipendono tanto dalle teorie o dalla consuetudine legislativa e giudiziaria di ogni singolo paese, quanto dalla situazione socio-economica generale e da quella delle diverse classi sociali (524). Il sistema delle pena pecuniarie contribuirà, in seguito, a svuotare le carceri ed a ridurre i costi ed il lavoro dell'amministrazione penitenziaria, nonché a razionalizzare la stessa amministrazione della giustizia (525). Quanto al lavoro penitenziario, esso è venuto perdendo ogni significato economico nei paesi capitalistici ad alto sviluppo industriale; nei primi anni del Novecento "le carceri più piccole erano ancora utilizzate per le condanne brevi, mentre il numero limitato di detenuti e un troppo rapido alternarsi dei carcerati presenti rendeva ogni ipotesi di un razionale processo produttivo praticamente impossibile" (526). I grandi stabilimenti non incontravano queste difficoltà, ma necessitavano di investimenti su grossa scala se si voleva che la produzione carceraria potesse competere con quella del libero mercato. "L'opposizione a questa eventualità fu così energica sia da parte del mondo degli affari sia da parte dei sindacati operai che il lavoro penitenziario si limitò alla produzione di quel solo fatturato richiesto dalla amministrazione carceraria o da altre amministrazioni dello Stato" (527). Inoltre, il personale di custodia era ormai diventato pubblico dipendente, quindi stipendiato, e come tale non aveva più alcun interesse privato nei confronti del lavoro dei detenuti. Lo Stato si accontentava "solo di una parziale copertura delle spese penitenziarie, per cui il momento puramente terapeutico del lavoro non poté che prendere progressivamente il sopravvento" (528). In ogni caso, venne a crearsi un circolo vizioso: la maggior parte degli internati erano, infatti, operai più o meno specializzati che per lunga inattività forzata regredivano da punto di vista professionale; se si fosse voluto dare loro qualche strumento per sopravvivere una volta dimessi, si sarebbe dovuto istruirli professionalmente, cosa che assai di rado accadde. "I carcerati vennero così sempre più spesso costretti a lavorare nell'agricoltura" (529); in questo modo uscivano di prigione completamente dequalificati ed impossibilitati ad affrontare il mondo competitivo della produzione. "La retribuzione del lavoro carcerario fu avversata non diversamente da quanto lo era stata l'introduzione nelle carceri di un lavoro economicamente competitivo. Pagare il salario al carcerato avrebbe infatti significato considerare questo tipo di lavoro né più né meno di un qualsiasi lavoro libero" (530). Le condizioni igieniche e più in generale il problema della salute del detenuto trovano un limite obiettivo nella stessa edilizia carceraria, essendo in parte quella ereditata dal passato, soprattutto per quanto concerne le possibilità di movimento, la ventilazione e l'illuminazione. "Sebbene i moderni criminologi siano ben lontani dal concordare sulla validità della segregazione cellulare, le amministrazioni penitenziarie hanno proceduto autonomamente, costruendo e ricostruendo gli edifici penitenziari sul modello cellulare a tal punto che oggigiorno la maggior parte delle prigioni seguono questo schema" (531). Così se la questione dell'isolamento cellulare è cessata di essere il tema principale di discussione e di polemica, la segregazione notturna è pressoché universalmente accompagnata dal lavoro in comune durante il giorno, per le necessità imposte dalla nuova produzione. Si è ampiamente diffusa l'idea che la disciplina dovrebbe essere mantenuta da misure costruttive piuttosto che da metodi meramente repressivi, dall'incoraggiare, cioè, il detenuto a mantenere un determinato comportamento piuttosto che tenerlo, attraverso pene corporali, in terrorem. La validità e l'efficacia di questi propositi è, a tutt'oggi, ancora da dimostrare: la situazione attuale, se non permette di guardare al futuro con eccessiva fiducia, può, e deve, essere uno stimolo per ripensare il sistema penale come lo intendiamo oggi, vista la sua riconosciuta inefficacia ed inefficienza, magari non scartando a priori una radicale modifica dell'intero apparato punitivo contemporaneo.

4: Conclusioni

"Dal XIVº al XIXº secolo erano state utilizzate nei sistemi Europei di giustizia penale cinque forme fondamentali di pena: esecuzione capitale, brutalità fisica, pene pecuniarie o confisca di proprietà, bando e detenzione" (532). Queste cinque forme venivano usate simultaneamente e rimasero in vigore fino alla fine del primo periodo moderno, ma la loro efficacia era grandemente variata col passare dei secoli. La pena capitale finì per essere applicata raramente e solo in casi estremi, in base a considerazioni morali ed in base al suo scarso effetto deterrente. Le pene corporali vennero, come abbiamo visto, pesantemente criticate dal movimento riformatore Illuminista. Le sanzioni pecuniarie si erano dimostrate, per lungo tempo, assolutamente inapplicabili, visto che nei tribunali si presentava un numero crescente di nullatenenti o quasi. La deportazione, poi, non era più una forma di pena funzionale. Delle cinque forme principali di pena, solo la detenzione conservava la sua efficacia alla fine del primo periodo moderno. A partire dal XIXº secolo, vengono messi definitivamente in crisi i vecchi interessi sostanziali e lo stile personalistico di fare giustizia, per lasciare spazio a criteri formali e razionali: "sono i principi di uniformità, proporzionalità, uguaglianza davanti alla legge e applicazione rigorosa delle norme ad assumere ora un ruolo centrale nelle procedure penali" (533). A cavallo tra il XIXº ed il XXº secolo, poi, i classici ideali illuministi del rigore e della giustizia formale iniziano a vacillare di fronte a nuove concezioni che danno minore importanza all'uguaglianza formale, alla proporzionalità tra fatto di reato e pena e all'applicazione rigorosa delle norme, per privilegiare, al contrario, risultati sostanziali, la necessità di operare valutazioni caso per caso e l'utilità di fornire risposte professionali flessibili. Secondo molti penalisti e criminalisti contemporanei, lo scopo della pena deve essere la difesa sociale; i sostenitori di tale posizione concepiscono il trattamento penale come un oggetto che deve essere affrontato solamente sulla base di un approccio scientifico al problema, freddo e scevro da ogni emozione. Il risultato finale, la difesa sociale, appunto, è spesso considerato come un obiettivo di tipo differente da quelli della vendetta o della retribuzione: di questi ultimi si dice infatti che sono caratteristici dei primordi dell'attività punitiva. Tuttavia, "è impossibile contrapporre la 'difesa sociale' alla 'vendetta' o alla 'retribuzione'; ogni gruppo sociale, ogni società politica organizzata, impone delle pene a coloro che trasgrediscono le sue regole - regole che si sono sviluppate poiché una determinata società ha creato e adottato certi valori sociali fondamentali e che devono quindi essere difesi contro ogni aggressione" (534). Questi valori vengono considerati essenziali per la sopravvivenza o per la stabilità sociale, e quindi ogni tentativo di porli in pericolo viene visto come un torto che deve essere prevenuto attraverso la pena, la cui esecuzione diviene non solo ristabilimento del dovere di obbedienza, ma costituisce anche una reazione di difesa contro i trasgressori. Le norme il cui rispetto viene garantito dal potere politico, poiché sono racchiuse in un codice penale, sono quelle che vengono ritenute desiderabili dai gruppi sociali che hanno il potere di legiferare: "fondamentalmente, quindi, lo scopo di ogni pena è la difesa di quei valori che il gruppo sociale dominante di uno Stato considera validi per tutta la società" (535). Ad un livello più ampio, "le censure morali sono nozioni negative nell'ambito delle formazioni ideologiche dominanti. Non hanno senso fuori dalle ideologie settoriali che le costituiscono e dai contesti culturali, politici ed economici che generano, sostengono e impongono il loro uso. Le censure della devianza sono elementi cruciali per il discorso dei dominanti; forze impiegate per disciplinare ciò che essi indicano come deviante o dissenziente. Anche se presentate come mere descrizioni in forma legale, tecnica o universalistica, esse sono diffamazioni organizzate in quelli che sono conflitti essenzialmente politici e morali. La loro funzione generale è di esprimere, denunciare e regolare, non di spiegare. I loro tipici risultati non sono una descrizione adeguata di un conflitto sociale, ma piuttosto la separazione fra 'rei' e 'non-rei'. Esse separano il deviante, il patologico, il pericoloso, il politicamente inaccettabile e il criminale dal normale e dal buono. Esse intimano l'alt, e sono legate al desiderio di controllare, prevenire o punire" (536). Dato che rappresentano i valori e la correttezza contro l'errore ed il pericolo, esse danno simultaneamente una giustificazione per le azioni repressive contro i rei e per i tentativi di educarli o di costringerli ad adottare le abitudini od il modo di vita voluti. Il loro richiamo frequente a principi morali generali conferisce loro un potenziale politico intrinseco nella lotta costante per l'egemonia, insieme col potenziale per mobilitare le forze della legge, dell'ordine e della purezza morale contro i settori della popolazione subordinata presi di mira. "In società sostanzialmente suddivise in classi in termini di reddito, potere e ideologia, è inevitabile che il blocco di classe economicamente dominante, che possiede i mezzi di comunicazione di massa e che tiene le redini del potere politico avrà la maggior capacità di asserire le sue censure nel discorso morale e politico del tempo" (537). Comunque, le pene sanguinarie e le torture inflitte in passato non significano che coloro che ne facevano uso fossero dei sadici assetati di sangue, ma testimoniano piuttosto che essi non riuscivano a concepire un modo più efficiente per assicurare la protezione dei valori sociali che dovevano essere garantiti: "il carattere delle pene, quindi, è inestricabilmente associato con i valori culturali dello Stato che le pone in essere ed è da questi dipendente" (538). "L'urgenza di controllare tutte le forme di criminalità e di reprimere le condotte illegali costituisce solo una piccola parte dei fattori che contribuiscono a rivestire di una determinata forma le istituzioni penali; ... la condotta delinquenziale non è l'unica determinante del tipo di reazione penale messa in atto da una determinata società" (539). Ciò in quanto non è tanto il reato o la sua conoscenza criminologica a influire sul tipo di decisione politica da intraprendere, quanto, piuttosto, i diversi modi in cui il problema della criminalità viene ufficialmente percepito e affrontato politicamente; in secondo luogo, le forme di controllo della criminalità, quelle relative al tipo di processo e di pena adottati, la severità delle sanzioni e la frequenza con la quale vi si ricorre, il regime istituzionale e le modalità con cui si condanna sono aspetti determinati dagli accordi sociali e dalla tradizione, piuttosto che dal tipo di criminalità esistente. "Di conseguenza, quando il sistema penale affronta il problema del controllo della criminalità, lo fa in maniera fortemente mediata da considerazioni indipendenti dal fenomeno, quali convenzioni culturali, valutazioni di carattere economico, dinamiche istituzionali e ragioni di politica generale. ... La pena, pertanto, è una precisa successione legale di eventi, ma la sua esistenza e il suo campo di intervento dipendono da un più vasto contesto di forze e circostanze sociali, che si presentano in varie forme" (540). Per esempio, il carcere moderno presuppone l'esistenza di strutture architettoniche definite, di dispositivi di sicurezza, di tecniche disciplinari e dello sviluppo di sistemi di organizzazione del tempo e dello spazio; nonché dei mezzi sociali per finanziare, costruire e gestire un'organizzazione tanto complessa. La pena è sicuramente una istituzione giuridica, amministrata da organismi statali, ma ciò non esclude che essa si fondi su modelli di conoscenza, di funzionamento e su parametri emotivi più complessi, e che si saldi strettamente a queste radici sociali per il mantenimento della sua legittimazione e della sua capacità operativa. Comunque, "se è vero che i fattori storici e sociali modellano la penalità, è vero anche il contrario. Le sanzioni e le istituzioni penali non sono semplici variabili dipendenti che chiudono un processo di causalità sociale. Come tutte le istituzioni, la pena interagisce con il proprio ambiente, contribuendo, a sua volta, a dare forma a quell'insieme di elementi che costituiscono il mondo sociale" (541). "I sistemi penali moderni possono porsi l'obiettivo di operare in maniera razionale e non emotiva, ma, a un livello più profondo, a reggere la punizione è sempre una spinta emotiva, un desiderio di vendetta" (542). Il fatto che la pena non sia una semplice reazione naturale, ma una ricca esperienza spirituale, è provato, appunto, dalla varia e complessa coscienza che l'umanità ne ha avuto nel corso della storia. "Ma, pur essendo una esperienza spirituale, la pena non cessa di essere una reazione. Pretendere che essa sia soltanto vendetta o retribuzione o espiazione o emenda o intimidazione, è vedere il particolare e non l'universale. Essa può essere, volta a volta, ciascuna di queste cose e tutte insieme. Ma è sempre reazione contro il delitto, cioè quella speciale forma di attività spirituale, che, in noi, si oppone ad un'altra forma di attività, che noi giudichiamo delittuosa" (543). Come tale, la pena non ha neppure bisogno di opporsi al fatto compiuto del delitto. Si oppone, piuttosto, a ciò che sopravvive del delitto, alla coscienza che di questo permane nel delinquente o al disgustoso ricordo che la società ne serba, per negare quella coscienza od annientare quel ricordo con l'instaurazione di una realtà rispecchiante l'ordine giuridico. Tutto ciò che possiamo dire è che il bisogno di vendetta è meglio guidato oggi di un tempo; la cieca passione non è più lasciata libera di agire, ma è contenuta entro certi limiti: non la si vede più scagliarsi contro gli innocenti per ottenere comunque soddisfazione. Ma è rimasta pur tuttavia l'anima della penalità. "La pena, quindi, è un vero e proprio atto di difesa per quanto istintivo e irriflesso. E, se è vero che lo Stato moderno ha un monopolio quasi totale della vendetta e controlla l'amministrazione della giustizia, è altrettanto vero che nella penalità è coinvolta una popolazione molto più vasta che le fornisce il supporto sociale e conferma l'importanza e il valore dell'operato istituzionale" (544). Pertanto, mentre comunemente si ritiene che le categorie di soggetti coinvolti nella penalità siano due - coloro che controllano e coloro che sono controllati - se ne può individuare una terza, il pubblico, che svolge un ruolo cruciale, in quanto dai suoi sentimenti oltraggiati nasce la motivazione della risposta punitiva. Il delitto, infatti, avvicina le coscienze oneste e le concentra, è un'espressione collettiva che rinforza le stesse passioni, rinsalda l'ordine morale e sociale. Dunque la pena non è mai una mera risposta alla commissione di un reato e al male che esso provoca in quanto, oltre alla immediata finalità di controllo della criminalità, essa gioca un ruolo molto più essenziale, contribuendo al mantenimento del sistema e dell'ordine morale, prevenendone l'erosione ed il tracollo. "Il sistema delle pene e delle loro concrete modalità di esecuzione è andato divenendo, nei tempi moderni, uno degli elementi che meglio consentono di cogliere le scelte fondamentali di una società, i postulati da essa individuati per la composizione dei conflitti, per la riaffermazione dei valori e per la conservazione dei privilegi a essa connessi" (545). La mancata punizione delle violazioni della coscienza collettiva indebolisce la morale sociale, ed anche la sovranità e l'autorevolezza di un particolare ordine morale e legale, e le forme di governo che lo supportano. La pena, che, come abbiamo detto, non limita la sua funzione al controllo della criminalità, è il segno che le autorità hanno il controllo della situazione, che le convenzioni poste a fondamento della vita sociale conservano la loro forza e la loro vitalità. "Lasciare i colpevoli impuniti, o, cosa equivalente, non riuscire a mantenere l'ordine legale, può portare velocemente all'erosione dell'autorità politica ... mentre punirli significa, al tempo stesso, riaffermare il potere e porre un freno alle condotte delinquenziali" (546). "L'importanza di queste parole è che l'ordine morale e la solidarietà discendono interamente dal loro riconoscimento da parte della collettività" (547). Da un lato, è innegabile la storicità della pena, fatto avvalorato da un consistente materiale indicativo dei sostanziali mutamenti delle modalità punitive nel corso del tempo; dall'altro, però, la pena, intesa come processo sociale, resta pur sempre un'entità astorica, immutabile. "Sono l'organizzazione sociale e la coscienza collettiva a cambiare nel corso del tempo, alterando, di conseguenza, i sentimenti e le passioni che si accompagnano alla commissione di un reato: differenti passioni e differenti tipi sociali danno origine a modalità punitive diverse" (548). La punizione, quindi, continua a essere tanto un'espressione dei sentimenti collettivi quanto un mezzo per rinforzarli, ma le forme con cui essa si esprime mutano; a mutare storicamente non sono i meccanismi e le funzioni sottostanti alla pena, ma le sue forme istituzionali. La punizione, nel suo aspetto meramente deterrente, non è in grado di controllare in modo coercitivo i comportamenti individuali; una minaccia di conseguenze sgradevoli prospetta semplicemente l'esistenza di ostacoli reali rispetto ai desideri del reo. "Come tale, la minaccia non è niente di più che il rischio professionale nella carriera del delinquente. ... Ovviamente i risvolti penali del reato possono essere gravi, ma resistere alla tentazione ... può essere altrettanto difficile; spesso se tutto quello che è in gioco è il mero calcolo degli interessi, la tentazione vince. Una legislazione costruita con questi caratteri strumentali può garantire solo una limitata forma di controllo" (549). La minaccia può addirittura rivelarsi controproducente, in quanto rischia di suscitare sentimenti ostili senza fare niente per migliorare le qualità morali del soggetto cui è inflitta. "Il sistema penitenziario, per quanto riguarda la sua efficacia, non può essere concepito e valutato come una struttura separata dalla società, ma va visto a sua volta interconnesso con le attività deputate a produrre sicurezza e trattamenti fuori dal penitenziario" (550). Questo è tanto più vero se si considera che il sistema della giustizia penale ha un debole impatto sull'andamento della criminalità, che dipende in larga parte dall'andamento dei problemi sociali, piuttosto che da quelli penitenziari; che non è tanto la severità delle leggi ad influenzare la gravità e la persistenza dei reati, quanto la probabilità percepita di essere arrestati, puniti e stigmatizzati; che, in generale, la migliore deterrenza per le azioni antisociali è quella di sviluppare alternative prosociali attrattive e motivanti per i soggetti coinvolti, e di migliorare la coerenza e la continuità tra il sistema delle risposte sociali esterne ed i meccanismi di risposte cognitive interne all'individuo. Il sistema penitenziario, concepito isolatamente, non può produrre effetti rilevanti sul crimine, sul recidivismo, sull'esplosione di reati gravi (551). Per produrre deterrenza, sicurezza e riabilitazione, è necessario mettere al centro degli interventi la persona reale, con le sue esperienze, le sue informazioni, il suo sistema di comunicazione, le sue strategie di senso, le sue motivazioni. "La paura della punizione può essere utile, ma non è mai sufficiente a motivare un cambiamento durevole, per il quale sono necessarie la costruzione e l'esperienza di alternative prosociali attrattive e coinvolgenti, condivise con altri nel proprio ambiente di vita" (552). In questo senso, una punizione di tipo pedagogico riceve il suo significato positivo o negativo dallo scopo e dal contesto emozionale nell'ambito dei quali si realizza. La pena può essere accettata quando si realizzi in un contesto di perdurante apertura, risultando espressione di un avvicinamento, di un porsi in relazione con l'altro; la punizione deve essere eseguita nel senso di un avvicinamento impegnativo, e non di estraniazione. Il 'criminale' può riavvicinarsi alla società solo se è quest'ultima a compiere il primo passo; la risposta del 'delinquente' è condizionata dalla precedente iniziativa della società, tesa a risanare la frattura tra sé stessa e colui che l'ha offesa, violata. Il 'riscatto' del reo è possibile solo all'interno di un clima di perdono, messo in atto dalla società non come conseguenza del pentimento del criminale, ma come condizione indispensabile per ottenerlo (553). La conversione dell'uomo è l'adeguata condotta di risposta all'offerta di riconciliazione da parte della società; punto di arrivo della conversione, perciò, non è una conformità alla norma, ma piuttosto un ricostituito rapporto personale con la società. "Solo sulla base di questo rinnovato rapporto di comunione si sviluppa anche la fedeltà alla legge (non viceversa)" (554). "Le sanzioni perdono legittimità se alla loro applicazione consegue sul piano sociopsicologico un effetto escludente e discriminante" (555). Lo scopo dichiarato di qualsiasi sanzione può essere soltanto il valore umano fondamentale del rapporto interpersonale; è possibile punire solo se si prende con coerenza in considerazione il legame (o il nuovo legame) che deve essere reso possibile tra l'agente di reato ed il contesto sociale. Le sanzioni non devono accrescere la forza centrifuga della colpa, bensì debbono superarla secondo un orientamento contrario, con un programmato intento centripeto. Effetto delle sanzioni non può quindi essere l'accelerazione del moto di allontanamento del reo dalla società, bensì l'appoggio al movimento di ritorno ad essa: risocializzazione contro discriminazione. La visuale della giustizia deve orientarsi al futuro dell'uomo, non al suo passato; l'avvenire che l'uomo responsabilmente costruisce è la migliore risposta alla colpevolezza del passato. Tutto questo dovrebbe convincere dell'importanza di tornare al vero significato della pena, che è quello di edificare la sensibilità morale e censurare tutte le violazioni perpetrate ai suoi danni. "La natura della pena sta nella trasmissione di un messaggio morale e nel rendere noto a tutti il forte sentimento condiviso che la sostiene. La sua funzione precipua non è quella di fare scontare al colpevole la colpa facendolo soffrire, né di intimidire con mezzi comminatori gli eventuali imitatori, bensì di rassicurare quelle coscienze che la violazione della norma ha potuto, ha dovuto necessariamente turbare" (556). La sofferenza è solo un contraccolpo della pena, non ne è l'elemento essenziale. Comunque, "i livelli di sofferenza inflitti al colpevole non sono fini a se stessi, ma sono un segno della forza del messaggio morale" (557). Il castigo deve quindi essere un segnale concreto che veicoli la disapprovazione ed il rimprovero della società nei confronti del trasgressore, un segno materiale tramite il quale si traduce uno stato interiore, quello della coscienza pubblica che esprime il sentimento che l'atto riprovato ha suscitato in essa. In questo senso, se si vuole comunicare un rimprovero morale in modo efficace, occorre che il pubblico ne possa comprendere il significato e percepirne la forza. Il linguaggio della penalità deve quindi adattarsi al suo destinatario. "Di conseguenza, il linguaggio pratico della pena - o, meglio, le modalità concrete attraverso cui si manifesta il rimprovero morale - deve calibrarsi sulla sensibilità di una data società" (558). La pena è, dunque, una istituzione che contribuisce ad edificare e supportare il mondo sociale, producendo categorie e classificazioni autoritative, in genere condivise dai consociati, e grazie alle quali essi comprendono se stessi e gli altri. "A loro modo, le pratiche penali creano un contesto culturale che fornisce dichiarazioni e prassi che fungono da griglia interpretativa e valutativa per la condotta di ogni cittadino, e danno un senso morale al vissuto individuale. La penalità, pertanto, in quanto azione sociale, regola direttamente la condotta; d'altro canto, essa regola indirettamente il senso, il pensiero e l'atteggiamento di noi tutti - e di riflesso, ancora una volta, la condotta - attraverso uno strumento differente: quello del significato" (559). La penalità interpreta gli eventi, definisce condotte, classifica azioni, e una volta formulati questi giudizi con l'autorità della legge, li proietta in modo coercitivo sui rei e sul pubblico (560). "Ogni relazione penale e ogni circostanza in cui viene esercitato il potere penale contiene implicitamente un'idea dell'autorità sociale, della persona (autore di reato), e della natura della comunità e dell'ordine sociale che la pena protegge e cerca di ri-creare" (561). La punizione, quindi, è una dimostrazione pratica e concreta delle verità ufficiali: è una rappresentazione drammatica e performativa del modo in cui stanno le cose, a prescindere da qualsiasi atteggiamento individuale da parte del deviante nei loro confronti. "E attraverso il suo esempio, la sua ripetizione e le sue pratiche, la punizione contribuisce a costruire un regime sociale in cui le forme di autorità, le relazioni interpersonali e comunitarie sono di fatto quelle esistenti (562). La penalità definisce la natura della personalità normale e della relazione che dovrebbe intercorrere tra il soggetto e il suo comportamento. "È per tale ragione che nell'epoca moderna i tribunali insistono sul fatto che gli individui sono di norma padroni delle proprie azioni, sono capaci di discernere, di volere, di intendere, di ragionare - in altre parole sono soggetti fondamentalmente liberi -, e i giudici si comportano di conseguenza" (563). La prassi penale quotidiana propone visioni della personalità, conferendo loro una realtà istituzionale. Chi compare davanti a un magistrato è analizzato, trattato e compreso in base a parametri implicitamente contenuti nelle norme. Non importa quale sia la reale identità di un individuo: la legge lo inquadra in un modo predefinito e lo giudica di conseguenza (564). La sanzione penale non è, come possiamo concludere in base a tutte queste considerazioni, semplicemente quella istituzione trasparente e lampante volta al controllo della criminalità, cui siamo abituati a pensare. "La funzione della pena nella società moderna non è per nulla scontata. Essa costituisce qualcosa di profondamente problematico e difficile da comprendere nella sua essenza. Il fatto che, al contrario, possa apparire come qualcosa di ben definito è da imputarsi più all'effetto oscurante, e allo stesso tempo rassicurante, prodotto dalle istituzioni, che alla razionalità lineare delle pratiche penali" (565). Le forme assunte dalla pena nel mondo moderno si sono circondate di un senso di inevitabilità che è contemporaneamente legittimazione dello status quo. "Una volta date per scontate le forme di pena, l'esigenza di riflettere in maniera approfondita su di esse, al di fuori di schemi stereotipati e predefiniti, è progressivamente venuta meno" (566). Ci si continua a chiedere quale sia il modo migliore di organizzare un carcere, senza chiedersi invece perché si debba applicare proprio tale misura, perché non si possano applicare forme diverse di pena. "Le istituzioni penali forniscono risposte preconfezionate agli interrogativi sul rapporto crimine-società, definendo in che cosa consista la criminalità, come debba essere perseguita, quale sia la punizione adeguata, quali emozioni possano essere espresse, chi abbia il diritto di punire e quale la fonte di tale legittimazione" (567). Di conseguenza, domande difficili e problematiche non vengono più sollevate; le risposte sono già date; agli esperti, ed a coloro che amministrano la giustizia, non resta che perfezionare i dettagli. "Ogniqualvolta un nucleo complesso di problemi, di bisogni e di conflitti riceve una definizione in chiave istituzionale, i loro fondamenti problematici e spesso instabili si dissolvono; al loro posto emergono solo le categorie e le forme di azione pensate dalle istituzioni. Attraverso l'uso ripetuto e il riconoscimento della loro autorità, tali modalità stabilite di azione creano un proprio 'regime di verità' che, a sua volta, funge da supporto alla struttura istituzionale, e preclude qualunque critica che potrebbe minarne le basi" (568). L'esistenza stessa di un sistema penale induce a trascurare la pensabilità di soluzioni alternative e a dimenticare che le istituzioni sono convenzioni sociali che non rispondono ad ordine naturale. "Tuttavia, sia le istituzioni sia la loro organizzazione non sono incrollabili né al riparo dalle critiche, particolarmente quando non riescono a soddisfare i bisogni, a risolvere i conflitti o a dare risposte convincenti alle situazioni incerte" (569). Queste considerazioni contribuiscono a minare la fiducia nel progresso penale, ed a far sentire come irrinunciabile la necessità di una riforma. "Oggi le carceri sopravvivono semplicemente perché ormai dotate di una vita istituzionale propria quasi indipendente che consente di sopravvivere a dispetto della schiacciante evidenza della loro scarsa funzionalità sociale" (570). I moderni metodi punitivi non sono né ovvi né di per sé razionali, e richiedono pertanto di essere rivisitati. "Se, un tempo, le istituzioni penali sembravano avere una loro intrinseca giustificazione, al tramonto del XX secolo esse si rivelano sempre più palesemente inadeguate. ... Oggi, la pena non sembra avere più un futuro, o, almeno, non sembra poter rinviare a una prospettiva differente e preferibile rispetto a quella odierna" (571). L'andamento della criminalità può essere controllato a patto che la società si trovi in una situazione tale da poter offrire ai suoi membri un certo livello di sicurezza e un soddisfacente livello di vita. Solo allora il passaggio da una politica penale repressiva ad un programma riformatore può essere tolto dalla sfera di un impegno umanitario per essere collocato in una prospettiva costruttiva e realistica di impegno ed azione sociale. Le alternative che si presentano sono essenzialmente due: o verso una politica penale repressiva e terroristica o verso la negazione della società punitiva e quindi verso una politica della prevenzione. "I termini dell'alternativa possono essere così chiariti: definitiva 'morte' del carcere o sua 'risurrezione' come apparato del terrore repressivo" (572). Il carcere come sistema portante di controllo sociale nasce con il sistema stesso di produzione capitalistica e, in particolare nel momento di accumulazione originaria, adempie ad una funzione oggettiva precisa: "educare le masse di ex-contadini in proletariato, attraverso l'apprendimento coatto della disciplina del salario. Strumento di socializzazione primaria, il penitenziario si struttura sul modello produttivo allora dominante (originariamente la manifattura, successivamente la fabbrica) e da questo mutua la propria organizzazione interna, in particolare le forme e i modi di sfruttamento della forza lavoro detenuta" (573). Ma già agli inizi del XXº secolo, nei paesi a capitalismo più avanzato, il carcere cessa di avere qualsiasi funzione 'reale', come mezzo, cioè, di 'ri-educazione', per mantenere enfatizzata una dimensione puramente ideologica, come strumento di modulazione del terrore repressivo. "Il controllo sociale, l'egemonia del capitale sul lavoro, si esercita ormai attraverso altri strumenti che non siano quello coercitivo dell'internamento. Assistiamo da più di mezzo secolo ad un costante processo di fuga della sanzione detentiva verso altri strumenti di controllo in libertà sul deviante e sul delinquente. "Il nuovo criterio direttivo è quello della capillarità, dell'estensione e della pervasività del controllo. Non si rinchiudono più gli individui: li si segue là ove essi sono normalmente rinchiusi: fuori dalla fabbrica, nel territorio. La struttura della propaganda e dei mass-media, una nuova e più efficiente rete di polizia e di assistenza sociale, sono i portati del controllo sociale neocapitalistico" (574). È da questo preciso momento che inizia la lenta agonia del carcere, è da questo momento che, svuotato di ogni funzione reale, feticcio ormai del dominio di classe, il carcere lotta contro la sua morte. Ma ciò che più importa, continua a esistere, a sopravvivere. Il sistema carcerario contemporaneo finisce per oscillare sempre più tra la prospettiva della sua estinzione e quella della sua trasformazione in strumento del terrore, alieno definitivamente ad ogni funzione oggettiva di rieducazione. Oggi il carcere non ha più, e non potrà mai più avere, alcuna funzione reale e oggettiva di apparato di rieducazione; la sua funzione si è ormai atrofizzata a pura ideologia. Per tutto il Novecento, la riforma penale e penitenziaria ha assunto ovunque "un andamento 'a forbice', nel senso della progressiva diminuzione (singolarmente e nella massa) delle pene carcerarie, da un lato, e dell'aumento di repressione per certe categorie di reati e di rei (soprattutto nei momenti di crisi politica), dall'altro. In parole più chiare, in quanto non più strumento principale di controllo sociale, il carcere vede sempre più ridotta la popolazione direttamente soggetta al suo potere, ma, nello stesso tempo, come strumento ormai solo 'ideologico', tende a sopravvivere quale unica risposta per quelle forme di devianza che socialmente vengono ... interpretate come politiche e/o per quei soli soggetti nei cui confronti si è sperimentato il completo fallimento di un controllo sociale di tipo non-istituzionale" (575). Ciò che più colpisce è che questo processo di progressiva divaricazione tra funzione oggettiva, in regresso, e funzione ideologica, in espansione, del carcere tende a presentarsi come un dato costante: si assiste alla riaffermazione dell'essenzialità del carcere nella pratica contemporanea del controllo sociale da un lato, ed alla fine di ogni utopia rieducativa e risocializzante della pena privativa della libertà dall'altro. "Il carcere moderno - persa ogni finalità rieducativa - sembra inequivocabilmente orientato a sopravvivere solo ed unicamente come carcere 'custodialistico' per un universo di internati sempre più contenuto proprio nel momento in cui il controllo sociale si proietta all''esterno' delle sue mura, verso un universo sociale sempre più dilatato. La diminuzione costante e irreversibile della popolazione detenuta può essere interpretata come uno dei segni rivelatori dell'obsolescenza del carcere. "Un carcere che vede sempre più ridotta la popolazione detenuta e che vede proporzionalmente crescente quella in attesa di giudizio certamente è un'istituzione che mostra sia di avere smarrito il suo ruolo dominante nella politica del controllo - nel senso che questa si esercita ormai 'al di fuori' e 'altrove' - sia di avere definitivamente perso ogni possibilità di recuperare una funzione rieducativa, nel senso anche dell'antinomicità di questa nei confronti di una maggioranza di detenuti che non è in esecuzione di pena" (576). Ristretta e contenuta la popolazione carceraria a quella sola fascia di criminali ritenuti particolarmente pericolosi, si propone, dunque, un progetto articolato di razionalizzazione penitenziaria in un'ottica solamente custodialistica, cioè ci si orienta verso la realizzazione di un progetto carcerario dominato unicamente dall'esigenza di 'massima sicurezza'. Il bisogno di prigioni speciali è stato avvertito, per la prima volta, negli Stati Uniti; questa nuova organizzazione dello spazio concentrazionale si è poi diffusa a macchia d'olio in tutti i paesi occidentali (577). "Originariamente il 'carcere di massima sicurezza' è un'idea architettonica atta ad impedire le rivolte, ma con questo di originale: l'idea di un nuovo spazio della segregazione diventa ben presto la nuova 'idea di segregazione'. Il 'progetto architettonico' diventa immediatamente 'progetto politico'; il suo linguaggio ha un preciso contenuto culturale che fa di questa nuova economia degli spazi una 'macchina' del controllo" (578). Nuova economia degli spazi, cioè nuova economia del potere. Bentham idealizzò la struttura panoptica come archetipo della necessità disciplinare del capitalismo di concorrenza; vedere-non essere visti, ecco la chiave del nuovo potere: è attraverso di essa che si snoderà poi la pratica educativa della soggezione del corpo alla disciplina del capitale. Ma con dolcezza. Nell'America dei primi anni del Novecento nasce il carcere 'a palo telefonico', quale risposta alla domanda politica di carceri più sicure. Non tanto il bisogno di controllo quanto di sicurezza; non più la sorveglianza soffice, panoptica, quanto l'estrema difesa dal contagio. "Alla disciplina diffusa si contrappone il cordone sanitario. Ma con violenza" (579). Non più, allora, vedere senza essere visti, ma reprimere incasellando, chiudendo, isolando: ritorno inaspettato ad una violenza che i riformatori di due secoli prima escludevano. Militarizzazione progressiva, difesa immediata, quando non attacco senza preavviso, sono le caratteristiche dell'ennesima macchina del potere. L'isolamento totale accascia il detenuto, lo spoglia di qualsiasi riferimento psicologico, annulla la volontà: l'unico recupero ammesso è quello di una morte che liberi dalla sofferenza della deprivazione sensoriale, dell'angustia della cella insonorizzata, dell'immobilità del corpo. La struttura architettonica del penitenziario deve essere uno spazio facilmente militarizzabile, uno spazio immediatamente trasformabile in una trincea sicura contro l'azione di massa dei rivoltosi. "È la distruzione preventiva, non necessariamente cruenta, di ogni resistenza-coscienza politica dei detenuti. A livello psicologico - ridotta o annullata attraverso l'isolamento la possibilità di interazione tra gli internati - sia assiste ad una drastica riduzione del livello di sopravvivenza istituzionale, all'annullamento di ogni volontà" (580). Si tratta di rendere non problematico, a qualsiasi prezzo, l'universo della marginalità criminale. "Il carcere di massima sicurezza rappresenta l'atto ufficiale della morte dell'ideologia penitenziaria: la ri-educazione, il carcere come 'laboratorio del principe' ove tentare il grande 'esperimento'; il suo apparire coincide con la definitiva morte del 'mito della risocializzazione del detenuto'. Il carcere sicuro pone i termini della scommessa presente e futura: 'morte' del carcere o sua 'risurrezione' come apparato del terrore repressivo" (581). La pena privativa della libertà, al suo sorgere, opera un'inversione rivoluzionaria nella pratica punitiva. Il carcere moderno, come pena, capovolge l'idea stessa di difesa sociale: da distruzione, annientamento, a reintegrazione sociale del trasgressore. Il trasgressore risarcisce il danno pagando con il proprio tempo salariato e, nel contempo, nella pena come esecuzione, si assoggetta a quella disciplina che lo reintegrerà nel politico come soggetto docile, non più delinquente. Il carcere appare così come il modello della società ideale: "l'eliminazione dell''altro', l'eliminazione fisica del trasgressore (che in quanto 'fuori dal gioco' diventa distruttibile); la politica del controllo sociale attraverso il terrore si trasforma - e il carcere è il fulcro di questa mutazione - in politica preventiva, in contenimento quindi della distruttività. Dall'eliminazione, quindi, all'integrazione del criminale nel tessuto sociale" (582). Il tema centrale diventa la pericolosità sociale del potenziale aggressore della proprietà. L'organizzazione interna del carcere, la comunità silenziosa e laboriosa che l'abita, il tempo inesorabilmente scandito tra lavoro e preghiera, l'isolamento assoluto del singolo carcerato-lavoratore, l'impossibilità di qualsiasi forma di associazione tra gli operai-internati, la disciplina del lavoro come disciplina 'totale' diventano i termini paradigmatici di quello che dovrebbe essere la società 'libera'. "Il 'dentro' assurge a modello ideale di quello che dovrebbe essere il 'fuori'" (583). Il carcere assume quindi la dimensione di progetto organizzativo dell'universo sociale subalterno: modello da imporre, dilatare, universalizzare. La pena è, così, dolce, in quanto disciplina, in quanto educazione. La pena di morte, le sanzioni corporali vengono meno, sia perché comportano il sacrificio di un 'bene', sia perché attraverso di esse non si può esercitare alcuna disciplina (584). Ma con il carcere di massima sicurezza, viene meno l'idea di disciplina in uno spazio temporale contrattualmente determinato. Non più retribuzione né rieducazione, ma solo annientamento e distruzione. "Il carcere, persa anche idealmente la funzione per cui era stato l''inverso', il 'contrario' della pena che annienta, svuotato di quella funzione che lo aveva voluto macchina di disciplina, perché ora la disciplina è altrove, diventa l'erede di ciò che aveva negato: la pena svincolata da ogni rapporto contrattuale, la pena che non trasforma" (585). Da strumento di reintegrazione a macchina di annientamento del trasgressore. Il carcere di massima sicurezza è il luogo di quell'annullamento, quello spazio della segregazione che diventa vuoto normativo, mancanza di regole nella loro presenza assoluta. All'interno della sua architettura estrema, soffocamento della psicologia individuale, moltiplicazione degli effetti della deterrenza e frammentazione della coscienza: puro annientamento dell'oppositore, un campo di concentramento che denuncia la presenza di una guerra interminabile. Indipendentemente da queste considerazioni, il carcere, pur essendo considerato il grande scacco della giustizia penale, si consolida nel tempo a causa degli importanti effetti che esso è in grado di ottenere ad un livello politico più ampio. Nonostante i suoi difetti - "l'incapacità di ridurre i tassi di criminalità, la tendenza a produrre recidiva (586), a organizzare un milieu criminale, a immiserire le famiglie dei detenuti ecc.". (587) - noti a tutti, tanto che le prime critiche rivolte nei loro confronti risalgono ai primi decenni dell'Ottocento, la risposta ufficiale è sempre stata a favore della pratica penitenziaria. Ciò perché la prigione è una istituzione profondamente radicata, strettamente connessa a pratiche disciplinari più ampie, intrinseche alle società moderne. Inoltre la fabbricazione della delinquenza - che verosimilmente non è mai stata intenzionale, non è mai stata il risultato di una strategia machiavellicamente progettata, ma che non cessa per questo di produrre i suoi effetti - è un fenomeno utile ad una strategia di dominio politico, "in quanto separa nettamente il crimine dalla politica, crea una spaccatura all'interno della classe lavoratrice (tra operai 'onesti' e sottoproletari 'delinquenti'), incrementa la paura nei confronti della prigione e legittima l'autorità e i poteri della polizia" (588). In un sistema di dominio che si basa sul rispetto della legge e della proprietà, è essenziale che illegalità e comportamenti criminali non si diffondano e, soprattutto, non si colleghino con obiettivi politici. "Nell'età delle economie di mercato e dell'arretramento della democrazia sociale, la nuova sensibilità si fonda sull'accumulazione egoista, sull'espansione personale, sul rozzo individualismo e sull'intraprendenza volgare per la sopravvivenza. Tale sensibilità culturale non solo conduce al crimine, ma richiede essa stessa la severa censura dei crimini degli altri. Questa è l'età dell'avanzamento privato tramite l'accusa, della sopravvivenza tramite il biasimo, del progresso attraverso l'umiliazione, e della discesa tramite la denigrazione. La censura sta divenendo il modo di essere della cultura politica tipica delle economie del libero mercato. Viviamo oggi in una cultura dove il crimine deve proliferare e dove la censura/punizione del crimine della classi subalterne sta diventando epidemica", per giustificare l'aumento di controlli e di sorveglianze generalizzati da parte dello Stato. "La fabbricazione non intenzionale di una classe delinquenziale può rivelarsi vantaggiosa sotto numerosi punti di vista. ... Producendo una classe delinquenziale ben definita, la prigione assicura che i delinquenti abituali siano noti alle autorità e agevolmente controllati e tenuti sotto sorveglianza da parte della polizia" (589). La prigione produce quindi la categoria di delinquente, attraverso le sue pratiche crea la categoria dell'individuo criminale. "La prigione, con tutta la tecnologia correttiva che l'accompagna, deve essere collocata ... nel punto in cui avviene la torsione del potere codificato di punire in potere disciplinare di sorvegliare; nel punto in cui i castighi universali delle leggi vengono ad applicarsi selettivamente a certi individui e sempre a quelli; nel punto in cui la riqualificazione del soggetto di diritto per mezzo della pena diviene addestramento utile del criminale" (590). È all'interno del carcere che il soggetto criminale diviene, per la prima volta, visibile, oggetto isolato di studio approfondito e di controllo. Inoltre, la consapevolezza che la detenzione tende a creare una identificazione con i criminali, è per gli individui un motivo ulteriore per astenersi dal violare la legge, e per essere diffidenti nei confronti di coloro che non lo fanno. Il ruolo sociale della reclusione va ricercato guardando a quel personaggio che comincia a definirsi nel XIXº secolo: il delinquente. "La giustizia penale definita nel secolo XVIII dai riformatori tracciava due possibili linee di oggettivazione criminale, ma due linee divergenti: l'una era la serie dei 'mostri', morali o politici, caduti fuori dal patto sociale; l'altra era quella del soggetto giuridico riqualificato dalla punizione. Ora, il 'delinquente' permette di congiungere le due linee e di costituire sotto la garanzia della medicina, della psicologia o della criminologia, un individuo nel quale il violatore della legge e l'oggetto di una tecnica si sovrappongono" (591). "La formazione di un ambiente delinquenziale è assolutamente in relazione diretta coll'esistenza della prigione. Si è cercato di costituire all'interno stesso delle masse popolari un piccolo nucleo di persone che avrebbero dovuto essere, per così dire, i titolari privilegiati ed esclusivi dei comportamenti illegali. Gente rifiutata, disprezzata e temuta da tutti (592). La prigione si trova così a produrre una delinquenza, tipo specifico di illegalismo, apparentemente marginalizzata, ma ben controllata dal centro. Tale forma di delinquenza, mantenuta dalla pressione dei controlli al limite della società, ridotta a condizioni di esistenza precarie, non ha legami con una popolazione che potrebbe sostenerla (come accadeva, un tempo, per i contrabbandieri e per alcune forme di banditismo), e ripiega così su una criminalità localizzata, senza potere di attrazione, politicamente priva di pericolo ed economicamente senza conseguenze. Questa criminalità 'di bisogno', "con lo scalpore che le si suscita intorno ed il discredito di cui la si circonda, maschera un'altra criminalità che ne è forse la causa e, sempre, l'amplificazione. È la delinquenza di quelli che stanno in alto, esempio scandaloso, fonte di miseria e principio di rivolta per i poveri" (593). La prigione tende così, in ultima analisi, a creare le condizioni per la recidiva da parte dei soggetti che sono stati internati in essa: la stigmatizzazione, la de-moralizzazione, la privazione di qualunque professionalità sono così forti che i delinquenti, una volta tornati liberi, tendono a commettere nuovi reati, a essere ricondannati, e, alla fine, a divenire delinquenti professionali. Ripetiamo, la disquisizione sul fatto che tale risultato sia stato perseguito o meno da strutture di potere (594) non è poi così rilevante; ciò che conta è che il risultato finale è inequivocabilmente quello che abbiamo esposto e che le classi al potere, desiderose di mantenere inalterato la statu quo, se non hanno, ragionevolmente, potuto architettare tutto questo, certamente non hanno fatto niente, né per impedire le nefaste conseguenze, per i soggetti internati, del carcere, né per modificare e migliorare tale vantaggiosa, per loro, situazione. Queste caratteristiche del carcere hanno potuto affermarsi in quanto i confini tra le istituzioni giudiziarie e le altre istituzioni sociali - la scuola, la famiglia, la fabbrica - si sono progressivamente assottigliati in seguito alla diffusione, in ogni settore della vita sociale, di tecniche disciplinari simili. "Esiste una sorta di continuum carcerario che attraversa l'intero corpo sociale, dovuto all'esigenza di interpretare allo stesso modo devianza, anomalia e allontanamento dalle norme sociali fondamentali. Questo arcipelago di sorveglianza e correzione è pensato tanto per i comportamenti irregolari più insignificanti, quanto per i delitti più gravi, e si applica a tutte le situazioni con i medesimi principi" (595). Il processo punitivo non è essenzialmente diverso da quello educativo o terapeutico e tende ad essere rappresentato come una mera estensione di questi ultimi, che hanno una natura meno strettamente coercitiva. La punizione penale, quindi, oggi, è considerata più legittima, meno bisognosa di giustificazione rispetto a quando, in passato, era intesa in senso repressivo, o come un male. Di fatto, il diritto penale contiene al suo interno principi di legalità e di normalizzazione. "La sua giurisdizione pertanto non comprende solo le 'violazioni della legge', ma anche le 'deviazioni dalla norma'" (596). A tal proposito, nelle moderne società il potere della legge sta integrandosi in un potere molto più generale: quello della norma. La criminologia moderna segue una linea di evoluzione estremamente ambigua e pericolosa; sentiamo parlare sempre meno di delinquenti e sempre più di handicappati sociali, sempre meno di punizione e sempre più di terapia. "Avviene in tal modo una specie di identificazione fra il delinquente e il malato mentale. ...Si tende a fa confluire i delinquenti in una categoria infinitamente più vasta - quella dei cosiddetti 'devianti' - e a far consolidare, su vasta scala, il sistema di sorveglianza generalizzata" (597) cui abbiamo accennato poco fa. "Come se punire un crimine non avesse quasi più un senso, il criminale viene sempre più assimilato ad un malato e la condanna vuole passare per una prescrizione terapeutica. ... Ci avviamo a diventare una società essenzialmente articolata sulla norma" (598). Il che implica un sistema di sorveglianza, di controllo completamente diversi. Una visibilità incessante, una classificazione permanente degli individui, una gerarchizzazione, l'attribuire qualifiche, lo stabilire dei limiti, l'emettere delle diagnosi. La norma diviene il criterio di divisione tra gli individui. Verso la metà dell'Ottocento, gli scritti di Beccaria, Bentham, Mill propongono una figura del delinquente che mette l'accento sulle facoltà razionali dell'individuo e sulla sua capacità di calcolare interessi ed utilità. I codici penali di quel periodo, infatti, "danno largo spazio alle misure deterrenti e tratteggiano un individuo libero, razionale e capace di obbedire alla legge" (599). Per tutto il XIXº secolo, gli individui giudicati da una Corte - per quanto inetti, incapaci o socialmente svantaggiati - sono considerati dotati delle caratteristiche loro conferite dai pensatori illuministi, mente le uniche categorie legali alternative sono quelle dei folli, dei malati di mente, dei non-soggetti. All'inizio del XXº secolo sono invece le nuove criminologie scientifiche a ridisegnare la tipologia del soggetto delinquente, che è ora "un anormale, dotato di caratteristiche genetiche, psicologiche e sociali particolari e, in un certo senso, incapace di resistere alla tendenza innata a commettere reati. La valutazione del carattere diviene, d'ora in poi, un elemento rilevante per la commisurazione della pena, mentre si moltiplicano le istituzioni e i regimi specializzati per il trattamento dei soggetti caratteriali" (600). A fianco di un soggetto libero il diritto penale riconosce, e contribuisce a formare, altre categorie di individui, spesso con una responsabilità attenuata e incapaci di controllare fino in fondo le proprie azioni. "In tal modo, le istituzioni penali vedono nascere le categorie del 'pervertito', del 'debole di mente', dell''alcolista', del 'delinquente abituale', del 'deficiente morale' e dello 'psicopatico', per le quali adottano procedure di individuazione e di trattamento che ritengono appropriate" (601). Esse configurano un contesto culturale che consente agli individui 'normali' di comprendere ciò che è 'anormale', e la cifra di tale differenza. "Le immagini di un Io anormale che sono ora proiettate nelle pratiche penali ... concorrono a radicare la convinzione, propria dell'età moderna, che l'Io sia una macchina che necessita di manutenzione e di riparazioni da parte di specialisti, e a riqualificare ciò che un tempo era definito il male in termini patologici, piuttosto che di scelta morale" (602). Tutto ciò dimostra come le varie modalità di trattamento non siano verità rivelate fuori dal tempo e dallo spazio, ma forme culturali specifiche (603). Conformemente a questa impostazione, nel mondo moderno alcuni momenti del quotidiano scompaiono dalla sfera pubblica per essere relegati 'dietro le quinte' della vita sociale. "Il sesso, la violenza, le funzioni organiche, la malattia, il dolore e la morte diventano a un certo punto della storia motivi di grave imbarazzo, di disgusto, e vengono a poco a poco confinati nelle varie sfere del privato" (604). Si assiste ad una tendenza a reprimere gli aspetti più istintuali e rozzi della condotta umana (605). Anche la violenza, quindi, non scompare, ma viene semplicemente nascosta, relegata (606), pronta per essere usata in caso di emergenza, minaccia costante nei confronti dei potenziali devianti. "La vista della violenza, del dolore o della sofferenza fisica diventa dunque enormemente perturbante e sgradevole per la sensibilità moderna. Ecco perché, dove è possibile, la violenza è minimizzata anche se paradossalmente la sua 'soppressione' dipende dall'esistenza di uno Stato capace di tanta violenza da scoraggiare ogni atto aggressivo messo in atto da chi non è autorizzato. E dove si continua a ricorrere alla violenza, lo si fa lontano dalla pubblica arena, in modo mascherato o asettico e spesso monopolizzato da gruppi specializzati quali l'esercito, la polizia o il personale carcerario, che svolgono il proprio compito con modalità professionali e impersonali, mettendo da parte l'intensità emotiva che tale attività comporta" (607). Invece di costituire, come accade nell'età medievale e all'inizio di quella moderna, un avvenimento della vita quotidiana, visibile da chiunque e gestito in uno spazio pubblico, la punizione dei delinquenti si consuma oggi in luoghi particolari, sottratti alla vista del pubblico. In un arco di tempo piuttosto esteso, le pene perdono la loro visibilità (608); e non sono solo i patiboli ad essere nascosti dietro le mura delle prigioni. Come abbiamo analizzato, nel corso dell'Ottocento "diminuisce il ricorso alla punizione dei lavori forzati in luoghi pubblici, e nel corso del nostro secolo vengono oscurati i finestrini delle camionette con cui si traducono i detenuti dal carcere al tribunale e viceversa, con il preciso scopo di eliminare dallo sguardo anche la più piccola traccia della pena - sia che si tratti di manette, divise carcerarie o cartellini elettronici" (609). Al posto dei pubblici supplizi si struttura un'intera rete di istituzioni chiuse - prigioni, riformatori, celle dei commissariati di polizia - che fanno sì che l'attuazione della punizione dei criminali sia delegata a specialisti che lavorano al di là di mura impenetrabili. "L'amministrazione della pena diviene essenzialmente una 'faccenda privata' condotta da professionisti o semiprofessionisti in luoghi appartati" (610). E questo si ricollega, in parte, al motivo per cui oggi non ricorriamo più, almeno ufficialmente, alle pene corporali. "Se le sanzioni legali fossero pensate per infliggere una risposta dura al colpevole, basata sul male che egli ha commesso ... allora la pena corporale si rivelerebbe senz'altro un mezzo efficace" (611). Inoltre, se l'obiettivo fosse quello della deterrenza e della retribuzione, infliggere un dolore direttamente sul corpo del condannato offrirebbe, dal punto di vista della penologia, numerosi vantaggi. "A differenza della detenzione (che importa costi notevoli, è difficile da gestire e crea problemi dovuti al fatto di dover contenere sotto lo stesso tetto un numero elevato di rei) e della pena pecuniaria (i cui effetti variano a seconda delle risorse economiche del condannato e che, di frequente, si trasforma in detenzione per chi non può pagare), le pene corporali possono comportare costi limitati, essere facilmente individualizzate, i loro effetti secondari ridotti e possono essere eseguite con metodi ragionevolmente efficaci e uniformi" (612). Tuttavia, le sanzioni corporali sono universalmente ritenute retaggio di sistemi penali incivili. Ciò perché le sensibilità moderne sono modellate sulla repulsione per la violenza fisica e la sofferenza corporale; la violenza ottusa, la brutalità deliberata e l'inflizione del dolore sono situazioni che generano nelle sensibilità contemporanee un'impressione di disgusto, e sono quindi progressivamente escluse dalla politica pubblica. "Purtuttavia, va sottolineato che la messa al bando della violenza e dell'inflizione del dolore non ha assolutamente una portata universale" (613). La stessa detenzione, spesso, se protratta per lunghi periodi di tempo, può ingenerare una grave sofferenza mentale e psicologica, un danno fisico, il deterioramento di capacità sociali e cognitive, ed infine gravi forme di privazione emozionale ed economica per la famiglia del detenuto. "Ma dato che siamo di fronte ad una sofferenza psicologica ed emotiva, e non fisica, che logora nel tempo e non all'istante, sottratta dalla vista pubblica e camuffata da una veste giuridica che la definisce semplicemente come 'privazione della libertà', essa finisce col non urtare più di tanto le nostre sensibilità e può diventare parte della politica pubblica. In piena consonanza con le istanze di una società 'civile', l'esperienza del dolore è relegata 'dietro le quinte' - vale a dire dietro le mura del carcere, dietro la facciata con la quale i detenuti nascondono le proprie angosce" (614). Ciò che distingue essenzialmente le pene corporali - rifiutate - dalle altre pene, come quella detentiva - accettata - non è il quantum di dolore o di brutalità materialmente inflitti, ma la forma in cui si esprime la violenza, e quanto essa urti le sensibilità della gente; a fronte di atti di crudeltà immediatamente percepiti come tali e dunque prontamente respinti, ve ne sono difatti altri percepiti meno chiaramente, e di cui è più difficile cogliere la matrice aggressiva. "Di conseguenza, numerose sanzioni che ricorrono a modalità violente sono normalmente tollerate, a patto che la crudeltà sia discreta, camuffata e comunque sottratta alla vista del pubblico" (615). Esempio lampante di tale orientamento, la pena dell'ergastolo "fu escogitata come sostitutrice della pena di morte, ma sarebbe forse stata maggior pietà lasciare la scure, anziché abbandonare nella breve cella, vera piccola tomba muta e disperante, una creatura umana. ... È la cella triste e rabbiosa la caratteristica dei nostri tempi; ed è l'abbandono cinico, in cui noi lasciamo quelle anime perdute, che contraddistingue la giustizia moderna; ed intanto noi lodiamo noi stessi per aver saputo raffinare l'antica tortura, salvando le forme e l'estetica: l'urlo spasimante strappato dalla vigilia e dagli stivaletti offenderebbe i nostri deboli nervi; a questi orrori il nostro sentimentalismo egoistico sostituisce una tortura che ci lasci più tranquilli e che non produca il mortale lamento che riempiva le prigioni antiche. Ma più umana fu la giustizia dell'inquisizione, meno crudele fu la Quaresima di un principe infame: quei dolori erano almeno coronati dalla morte; ma l'ergastolo non finisce mai" (616). Punire è, da sempre, una pratica sociale ovunque, comunque diffusa. "Una nozione di pena che si limiti a coglierne i soli profili descrittivi conviene su alcuni attributi essenziali: la natura afflittiva, programmatica, espressiva e strategica della reazione punitiva. La qualità afflittiva definisce l'effetto di produzione di deficit nei confronti del punito, come riduzione di diritti e/o soddisfacimento di bisogni; nel contempo l'azione repressiva deve apparire intenzionale al fine di determinare una relazione di senso - come riprovazione e censura - tra questa e il soggetto passivo. La natura espressiva della pena coglie invece la dimensione simbolica della reazione punitiva volta ad esprimere la pretesa di autorità di chi punisce; essa infine si sviluppa in un contesto situazionale come funzione volta alla conservazione di determinati rapporti di potere. Insomma la pena è una modalità universale e diffusa - vero topos antropologico - di relazione sociale" (617). Le pene legali aggiungono agli attributi sopra elencati uno normativo: se la relazione punitiva appartiene legittimamente allo Stato, essa si definisce, appunto, legale. Gli scopi delle pene legali, di retribuzione e prevenzione, legittimano monopolisticamente il diritto statuale di punire, perché danno per implicito che altrimenti si punirebbe comunque ancor di più se appunto l'autorità non provvedesse ad avocare a se questa dolorosa ma necessaria incombenza. Nelle società moderne, l'ordine sociale è prodotto, in primis, attraverso la censura: si determina cioè identità sociale attraverso pratiche di differenziazione. La domanda fondamentale, quindi, consiste nel chiedersi se si può censurare, e quindi socialmente stigmatizzare, senza punire. Se la funzione primaria della reazione sociale ed istituzionale al crimine è la produzione di reintegrazione sociale, la reazione nei confronti del trasgressore funzionalmente si determina ove produca in questi vergogna. "Prima ed oltre la produzione di vergogna, ogni reazione è gratuita e nociva violenza, nel senso che risulta disfunzionale al processo stesso di reintegrazione sociale. Purtroppo la produzione sociale di vergogna attraverso la censura è solo un effetto auspicabile e mai necessitato della pena stessa. ... Ed è per questa ragione, forse, che la pena si incarica di determinare artificialmente censura attraverso la 'degradazione sociale' del trasgressore che non arrossisce per la propria colpa. Come dire: se non ti vergogni per la tua condotta disdicevole, ti dovrai vergognare perché sarai fatto oggetto passivo di una sofferenza umiliante" (618). Ma così, la pena legale non potrà mai definitivamente umanizzarsi, perché esisterà sempre un limite invalicabile al processo di civilizzazione del sistema della giustizia criminale; questo limite consiste nelle necessità della pena legale di produrre handicap aggiuntivi (fisici, psichici, culturali, economici) per il condannato, per finalità di degradazione sociale. Tuttavia, la funzione di censura del sistema penale moderno non è affatto dimostrata, ma solo presupposta: che esso abbia la virtù di segnare socialmente quanto normativamente è oggi una semplice illusione. "La maggioranza del diritto penale è oramai extracodicistico ed è prevalentemente composta da incriminazioni contravvenzionali (e di conseguenza per effetto della natura artificiale delle stesse è assente ogni percezione sociale di disvalore nelle condotte così tipicizzate)" (619). In altre parole, la natura simbolica e la conseguente efficacia stigmatizzante della censura sono forse esclusivi attributi del diritto penale classico, o primitivo, del diritto penale cioè che criminalizza non tanto condotte socialmente avvertite come meritevoli di pena, quanto autori socialmente sofferti come 'diversi'. "Insomma: la funzione simbolica del diritto penale discende dal ruolo del sistema di giustizia penale classico nella riproduzione delle differenze sociali, cioè nella conservazione della realtà sociale diseguale. La censura è quindi la ragione della minaccia di una pena che persegue il fine latente di trasformare socialmente in criminale il trasgressore. E il marchio criminale, lo stigma che consente di riconoscere il deviante come appartenente alla classe criminale è ciò che attribuisce al sistema penale la virtù di orientare eventualmente alla conformità l'universo sociale dei potenziali violatori della legge e di confermare nella fiducia istituzionale l'universo sociale degli osservanti" (620). La minaccia di una reazione istituzionale che non sia in grado di ridurre o minacciare lo status sociale del violatore, non sia, cioè, degradante, non è riconosciuta neppure come pena. E socialmente la stessa pena pecuniaria è pena, e non tassa, solo se effettivamente idonea a ridurre visibilmente lo status economico e quindi sociale del punito. Inoltre, tanto più si diffonde l'area della criminalizzazione oltre la sfera di quanto socialmente avvertito come meritevole di censura, tanto più, non solo non si produce censura, ma si rischia di affievolire anche quella originariamente avvertita come meritevole. Se, da un lato, il diritto penale moderno è sempre più portato a criminalizzare attori sociali nei cui confronti è assente una domanda sociale di censura e di degradazione per finalità di integrazione sociale, dall'altro lato, attraverso il diritto penale si perseguono finalità di controllo sociale di soggetti che non necessitano alcun ricorso alla pena in senso proprio per essere controllati (621). Una volta teorizzato quale scopo del sistema penale quello della difesa sociale, la pena di fatto si svilisce a misura di polizia, che perde gli attributi propri della pena, e mira solo a ridurre il rischio sociale della criminalità mettendo nella condizione di non nuocere chi avverte come pericoloso, neutralizzandolo (622). Il diritto penale della prigione, così, finisce per supplire, ma anche per confondersi ed inquinarsi, a un sistema di controllo sociale di polizia. In questo senso viene meno anche la finalità di deterrenza della pena; questi 'scarti' sociali vengono puniti e carcerati per necessità di incapacitazione in quanto attori devianti che non si riesce altrimenti a disciplinare, ovvero che risulta troppo costoso controllare attraverso politiche preventive. Se così è, allora non è scontato che la sola risposta debba e possa essere sempre e comunque la privazione della libertà per un quantum di tempo. E soprattutto viene da chiedersi cosa c'entri questa razionalità da 'mass imprisonment' nella amministrazione della neutralizzazione selettiva con quanto la filosofia chiama 'pena', dato che la carcerizzazione si qualifica sempre più nella pratica dell'esclusione penale dell'intera marginalità sociale. "Ed è proprio al cospetto di questo universo di condotte illecite meritevoli di censura ma di fatto agite da soggetti niente affatto bisognosi di essere socialmente controllati e neutralizzati attraverso la pena del carcere, che naufraga irrimediabilmente ogni teoria giustificativa della pena. La contraddizione si offre all'analisi critica come paradossale: la sola pena che possiamo giustificare non è socialmente praticabile; la sola sofferenza che di fatto irroghiamo non è giustificabile" (623). La pena detentiva viene rappresentata come portatrice di una serie di funzioni classiche: retributiva, in quanto rappresenta una afflizione proporzionale al disvalore del reato ed al danno sociale dallo stesso provocato; rieducativa, in quanto atta ad instaurare un processo trattamentale del soggetto capace di rimediare ai fattori che ne hanno influenzato il comportamento deviante; emendativa, in quanto la pena è idonea a mutare l'atteggiamento mentale ed il sostrato valoriale del reo, riabilitandolo davanti alla società; preventiva, in quanto si immagina che la pena svolga una funzione deterrente tanto rispetto alla collettività, orientandone i comportamenti (prevenzione generale), quanto rispetto ai singoli, posti di fronte alle conseguenze della scelta di un comportamento illecito (prevenzione speciale). La crisi di coerenza strutturale e di efficacia, che caratterizzano oggi il diritto penale, ci spingono a confrontare queste astrazioni con la complessità dei rapporti e delle situazioni concrete cui il diritto penale si rivolge. "È sufficiente considerare, a mo' di esempio, la differenza incolmabile tra la tipizzazione dell'elemento soggettivo, cioè psicologico, del reato, operata dal diritto (il dolo e la colpa) e la grande differenziazione di motivazioni, di processi mentali, di valutazioni, di criteri, di esperienze che caratterizzano la sfera psichica del comportamento soggettivo, anche sotto il solo profilo della consapevolezza dell'azione. Oppure a come i beni oggetto di tutela da parte delle varie fattispecie, che fanno riferimento a valori generali ed astratti che si pretendono condivisi dalla collettività, non possono non confrontarsi con le differenze e le stratificazioni culturali presenti all'interno della società cui il diritto penale si rivolge, nonché con i mutamenti culturali, recentemente sempre più rapidi, che l'attraversano" (624). Oggi, sostengono molti studiosi, il diritto penale non è più tanto espressione di valori più o meno presuntivamente diffusi all'interno della collettività, quanto strumento di gestione di emergenze e di problemi particolari ed urgenti. Si assiste ad un ampio e profondo processo di allontanamento dell'opinione pubblica dai contenuti normativi e da riferimenti di valore, quantomeno stabili e generalizzati. In seguito alla tendenza ad abbandonare criteri di valore generale ed astratti, ideologicamente o istituzionalmente precostituiti, ed all'orientamento verso comportamenti rivolti alla soluzione pratica dei problemi posti dalla vita quotidiana, l'interiorizzazione delle norme avviene in modo sempre più problematico. Il fondamento stesso del diritto penale si basa su di un paradosso: nel momento stesso in cui lo Stato moderno, quindi il diritto, si assume il compito di eliminare la violenza dai rapporti sociali, si arroga il potere di esercitarla. Tale paradosso comporta una implicazione: "o il diritto penale si assume, per delega da parte della società, il compito di reprimere e retribuire in modo razionale e misurato, gli autori dei reati, e allora bisogna presumere che tale disponibilità alla moderazione della risposta già esista nel sentire diffuso, così da privare di fondatezza quel pericolo di distruzione e di violenza incontrollabile cui il diritto penale deve ovviare, e in riferimento al quale si legittima. Oppure esiste un'effettiva possibilità di riconoscimento del bisogno diffuso di ritorsione e di afflizione nella reazione penale, e allora anch'essa non può che essere sostanzialmente violenza e vendetta, al di là delle forme con cui si legittima" (625). Solo la dimostrazione che il bisogno di reazione violenta e vendicativa diffuso nella società è davvero più intenso e distruttivo della sofferenza indotta e della violenza somministrata dalla reazione penale può concretamente rivelare l'esistenza del fondamento della pena. In assenza di tale dimostrazione, non si può che dedurre che il diritto penale, anziché strumento di limitazione della violenza nella società, è uno strumento di amplificazione della stessa, con l'effetto, nell'ipotesi più estrema, di risultare privo di ogni ragione d'esistere (626). Le categorie di ordine e disordine assumono, nelle società complesse, una condizione di reciprocità. "Se la devianza esiste solo all'interno di un processo normativo, che stabilisce un ordine in un determinato settore del sistema sociale, questo processo, stabilendo i limiti di tale ordine, stabilisce contemporaneamente il disordine che si assume il compito di amministrare. Ciò significa che ogni pretesa di ordine è anche una pretesa di disordine e che ordine e disordine non si escludono, ma si incrementano reciprocamente (627). Nel diritto penale la rappresentazione del bene e del male, dell'ordine e del disordine, dell'osservanza e della trasgressione tendono a riprodursi continuamente come conflittuali, senza che però si giunga mai al definitivo annientamento dell'avversario, poiché esso implicherebbe anche il proprio autoannientamento: una società senza trasgressione dovrebbe necessariamente essere una società senza norme" (628). La crisi del carcere e del diritto penale sono inscindibilmente connessi alla crisi dei tre principi fondativi della pena. La desolante carenza di risultati della retribuzione rispetto alla prevenzione dei reati è l'argomento principale che ad essa può opporsi (629). Innanzitutto, la retribuzione muove da un'immagine irreale dell'agente di reato, da una eccezione limite nella massa che rappresenta tale categoria umana. A ciò si antepone il grave problema dei recidivi cronici. La retribuzione, poi, si rappresenta in modo irreale l'efficacia della pena. "Gli effetti sfavorevoli sulla personalità del detenuto (630) di sanzioni privative della libertà personale ... superano di gran lunga qualsiasi portata positiva per la sua socializzazione" (631). Che un detenuto abbia in carcere la possibilità di riflettere sull'illegittimità della sua condotta è opinione tuttora molto diffusa, la quale rivela però conoscenze assai approssimative sulla realtà dell'esecuzione penale. "La prigione classica è fondamentalmente ... un'efficiente 'fabbrica di desocializzazione', con (inevitabile) alta quota di recidivismo" (632). Infine, la retribuzione muove da una falsa promessa di espiazione da conseguirsi con la pena. La concezione retributiva rivendica la pretesa di consentire all'agente di 'espiare', scontando la sofferenza penale inflittagli; al contrario, l'effetto sociopsicologico della pena detentiva è la proscrizione del condannato: la società, infatti, non riconosce la portata riconciliatrice della prestazione espiatoria del condannato, neppure quando quest'ultima sia stata effettivamente resa. "Il sottoporsi ad una sanzione non è affatto percepito dalla collettività come 'purificazione-espiazione-riconciliazione'. Irrazionalmente, piuttosto, proprio la punizione si traduce in fattore ostracizzante" (633). Al fatto di reato in quanto tale spesso non si ricollega alcuna efficacia disonorevole o proscrittiva nella nostra coscienza sociale; solo l'essere condannati e puniti mette in moto il meccanismo di espulsione del capro espiatorio, con i gravi pregiudizi, per il condannato ma anche per la sua famiglia, che esso comporta. Oltre a ciò, il principio retributivo, che, come abbiamo visto, sancisce la proporzionalità della pena alla gravità del reato, cosicché reati di uguale gravità dovrebbero essere puniti con sanzioni altrettanto gravi, è da sempre disapplicato: sia per la grande varietà dei regimi carcerari, sia per la diversa afflittività della pena in relazione allo status sociale del condannato. Il criterio di retributività proporzionale appare messo definitivamente in crisi dall'introduzione di misure alternative; la modulazione della durata della pena non dipende più solo dalla gravità del reato, ma dalla condotta del detenuto in carcere e dalle condizioni oggettive del suo ipotetico reinserimento. Il fatto è che le stesse misure alternative, sul piano applicativo, non rispondono ad alcun criterio di certezza e di razionalità (634). Si assiste ad un costante incremento del numero di soggetti sottoposti alle misure alternative, parallelamente al crescere della popolazione reclusa, delineandosi così una crescita complessiva dei soggetti sottoposti a controllo penale, all'interno e all'esterno del carcere. Quanto al principio preventivo, "è altamente controverso il fatto che la minaccia rappresentata dalla sanzione penale svolga un'efficace opera di deterrenza verso i comportamenti illegali. Basti considerare, sul piano della prevenzione speciale, cioè rivolta ai singoli soggetti, l'elevato tasso di recidività, all'interno dell'area di soggetti che hanno sperimentato gli effetti afflittivi della violazione della legge" (635). Sul piano della prevenzione generale, molto spesso, proprio nelle realtà in cui si adottano inasprimenti di pene, si registrano tendenze all'incremento della criminalità e di aggravamento delle sue manifestazioni (636). "Nonostante il fatto che lo stato moderno si sia appropriato del potere a un grado che avrebbe terrificato i nostri antenati settecenteschi, il dibattito pubblico sul controllo sociale in occidente dà l'impressione che lo stato sia in realtà appena in condizione di resistere alla criminalità e al terrorismo. Questo allarmismo ... preme per legittimare un uso ancor più vasto e profondo della polizia" (637). L'ordine, evidentemente, non produce la pace interiore, ma induce ad avanzare, con ansia sempre crescente, richieste di ulteriore ordine. In questa società, l'imperativo di controllare, dominare e sottomettere è iscritto profondamente in quelle che definiamo scienze umane (638). Infine, la crisi della funzione rieducativa; questo è l'aspetto forse più significativo della crisi della pena, perché intacca la sua immagine più progressista ed avanzata. "Se non esiste una corrispondenza univoca tra valori tutelati della norma penale e valori diffusi, è da chiedersi a quali valori debbano essere rieducati i condannati, che senso abbia pretendere dagli stessi un modello di normalità che nella cultura diffusa appare sempre più precario" (639). In secondo luogo, la riduzione delle spese per interventi sociali e lo stato di sovraffollamento delle carceri rende assolutamente ingestibile la disparità tra le risorse disponibili ed il numero di utenti. "Per non dire del fatto che elementari concetti pedagogici fanno dubitare dell'efficacia di un trattamento educativo cui il discepolo è forzatamente e autoritativamente sottoposto, quindi contro sua voglia; tanto più in un ambiente deteriore e deteriorato, artificiale ed estraneo rispetto al contesto in cui si dovrebbe venire reintegrati" (640). Abbiamo accennato come la popolazione carceraria sia composta, per oltre il 70%, da piccoli criminali, da tossicodipendenti e da immigrati extracomunitari. Quanto ai primi, si hanno due situazioni diverse. Soggetti alle prime esperienze, per i quali il comportamento illegale ha carattere occasionale, e che quindi non richiedono interventi rieducativi in senso pieno. Per loro il carcere può costituire una traumatica rottura del proprio sistema di relazioni e del proprio equilibrio esistenziale, cosicché, lungi dal rieducare, tende a radicalizzare le tendenze criminogene. Oppure soggetti da tempo dediti ad attività delinquenziali, elette a sistema di vita, per i quali un episodio detentivo in più o in meno non fa differenza; la stessa offerta di un lavoro difficilmente distoglierebbe tali soggetti dalle loro attività decisamente più redditizie. Quanto ai tossicodipendenti, l'inadeguatezza della sanzione detentiva a loro carico, in seguito alla natura del problema che si trovano ad affrontare, è così palese da non necessitare ulteriori specificazioni. Quanto, infine, agli immigrati, è la stessa normativa che ne prevede l'espulsione in caso di imputazione a testimoniare come la detenzione a loro carico non venga concepita in chiave rieducativa, ma puramente incapacitativa. A riscontro della inconsistenza della funzione rieducativa della pena, rileviamo anche l'alto numero di recidivi presenti in carcere ed il fatto che, nella concessione delle misure alternative, si tiene molto più conto del carattere rassicurante delle condizioni esterne di cui l'ex detenuto potrà fruire, che del suo comportamento e dei progressi trattamentali in carcere. È la stessa astrazione della pena a produrre effetti contrari ai principi che dovrebbero legittimarla. "Essa infatti consente l'applicazione della pena a masse di soggetti rispetto ai quali, se considerati nella loro concreta dimensione di vita, la pena stessa risulta misura del tutto estranea e inadeguata, cosicché, oltre ad apparire strutturalmente sproporzionata alla loro dimensione motivazionale, non può che risultare incapace tanto di rieducare, quanto di prevenire" (641). Si può infine aggiungere che "con lo spostamento definitivo della legittimazione del diritto, e del diritto penale in particolare, sul terreno dell'efficacia concreta, dell'operatività pragmatica nel controllo del conflitto e della crisi sociale, non ha più senso cercare nessi di continuità tra princìpi fondativi e metodi concreti d'intervento" (642). Il carcere rappresenta, da un lato, la materializzazione del diritto penale e penitenziario in strutture, organizzazioni, rapporti, gerarchie; eppure esso rappresenta il dominio del non diritto, dove tutto accade per rigidità fisica delle strutture, dei processi, delle connessioni, dove su tutto regna l'arbitrio, l'inerzia, la ragione ferrea del controllo e della sicurezza. Il carcere, se da un lato è ignorato e rimosso, dall'altro riassume un enorme potenziale di produzione simbolica; ad esso si riferiscono infatti le immagini del pericolo, della sicurezza, del castigo, del nemico, dell'autorità e dell'autorevolezza del diritto e dello stato, dell'onestà e della giustizia. Nonostante la denuncia degli aspetti più retrivi e meno accettabili dell'istituzione carceraria, ed il delinearsi di una serie di proposte riformatrici volte al loro superamento, il processo di sovraffollamento ha raggiunto limiti senza precedenti, con un deciso deterioramento delle condizioni di vita interne. Inoltre, la nuova importanza attribuita alla funzione rieducativa della pena ha coinciso con una maggiore enfasi ai meri aspetti custodialistici, repressivi, incapacitanti, dell'istituzione carceraria. Infine, netto è il contrasto tra il fatto che, mentre si legittima l'estensione delle misure alternative per fare a meno del carcere, in quanto criminogeno, poi nuova enfasi viene data alla detenzione, per rassicurare la popolazione dal diffondersi sempre più preoccupante della micro-criminalità. Il continuo bisogno di produrre nuove figure di nemico, di controllare fasce emergenti di marginalità, non sono che un aspetto della complessità e dell'oscurità dei legami strutturali che connettono il carcere alla società. Proprio analizzando questi ultimi possiamo indagare più a fondo i motivi della non riformabilità del carcere e del suo progressivo deteriorarsi. "Quanto più il carcere appare attraversare una crisi di legittimità, che ne pone i fondamenti al centro di ricerche e dibattiti, tanto più la sua realtà tende ad indurirsi e a deteriorarsi. Così assistiamo al paradosso che, tanto più il carcere si deteriora e rivela la sua irrazionalità ed inutilità, tanto più appare come legittimato ed accettabile" (643). È in questo contesto che la coerenza della fondatezza della pena si infrange; essa si frammenta in una miriade di funzioni e di aspetti, che ne definiscono non solo la polifunzionalità, ma anche la crisi di credibilità. Oggi "il carcere evidenzia segni gravi, strutturali di una crisi profonda (644), rispetto alle nuove sfide e alle nuove complessità che questa istituzione deve gestire. Esso rischia una grave erosione delegittimante che può ripercuotersi sulla credibilità di tutto il sistema della giustizia penale" (645). Dalla fine del diciottesimo secolo ad oggi, il pensiero razionale è progredito in tutti i paesi. L'idea di umanizzare le pene e di riconoscere i diritti umani del prigioniero ha influito decisamente sulla legislazione, almeno formalmente. Ci si sarebbe aspettati un'evoluzione del pensiero e della leggi; invece, si nota una straordinaria tenacia nella riproposta degli originali prototipi. Le modifiche, in particolare, non sembrano essere state influenzate dal progresso della filosofia penale, ma dalla evoluzione generale dell'architettura civile, diretta in primo luogo ad assicurare le elementari condizioni di salute ed igiene. "Da un lato vi è il patto che il criminale incarcerato sia trattato con il rispetto dovuto a un essere umano, e che ciò assicuri il più ampio spazio possibile ai diritti civili. Il criminale dovrebbe essere considerato come bisognoso e meritevole di un trattamento riabilitativo che risponda alle sue particolari esigenze. Dall'altra parte il delinquente è perseguito come nemico della comunità, il malintenzionato che attacca e distrugge i valori della società" (646). L'istituzione deputata alla cura del 'malato' è così contemporaneamente deputata alla sua totale distruzione; se il 'malato' è incurabile, l'unica azione possibile è oggettivarlo nella realtà istituzionale, nella cui azione distruttiva egli dovrà identificarsi. Il carcere è quindi deputato a gestire l'aspetto sociale della criminalità, e non la criminalità in sé; l'individuo è rinchiuso perché non più tollerato dalla società esterna, perché ha varcato il limite della norma da essa fissato. Si tratta di un sistema sociale che sopravvive escludendo, quindi opprimendo, mortificando e distruggendo, gli elementi di disturbo. Il diritto penale contemporaneo si autodefinisce come diritto penale del trattamento; la legislazione più recente attribuisce al trattamento la finalità di rieducare o reinserire il delinquente nella società. A livello reale, però, nella maggior parte dei casi, il problema che si pone nei confronti del detenuto, non è tanto quello di una risocializzazione o di una rieducazione. Questo perché "la popolazione carceraria proviene per la maggior parte da zone di emarginazione sociale, caratterizzate da difetti che incidono già sulla socializzazione primaria nell'età prescolastica. A ben guardare, quella che sembrava una sfumatura filologica nella definizione del fine del trattamento ('socializzazione' o 'risocializzazione') si rivela essere un mutamento decisivo del suo concetto" (647). Questo cambia il rapporto tra l'istituzione carceraria ed il complesso delle istituzioni, private e pubbliche, preposte al compito della socializzazione e dell'istruzione. "Il carcere viene a far parte di un continuum che comprende famiglia, scuola, assistenza sociale, organizzazione culturale del tempo libero, preparazione professionale, università ed istruzione degli adulti" (648). Come abbiamo già accennato poc'anzi (649), le frontiere fra il rinchiudere, i castighi giudiziari e le istituzioni di disciplina tendono a cancellarsi, per costituire un grande continuum carcerario che diffonde le tecniche penitenziarie fino alle più innocenti discipline, trasmettendo le norme giudiziarie fino al cuore del sistema penale, e facendo pesare sul minimo illegalismo, sulla più piccola irregolarità, deviazione o anomalia, la minaccia della delinquenza" (650). E allontanandosi sempre più dalla penalità propriamente detta, la forma prigione si attenua prima di scomparire del tutto. La società contemporanea sembra essersi modellata sul modello carcerario cui ha dato vita; questa grande trama carceraria raggiunge tutti i dispositivi disciplinari che funzionano disseminati nella società. "Abbiamo visto come la prigione trasformasse, nella giustizia penale, la procedura punitiva in tecnica penitenziaria; l'arcipelago carcerario trasporta questa tecnica dell'istituzione penale nell'intero corpo sociale" (651). Tutte le istituzioni 'ancillari' alla prigione (la scuola, la fabbrica, l'orfanotrofio, la casa di correzione, il riformatorio, lo stesso sistema sociale) sembrano adottare la tecnica che abbiamo definito penitenziaria, e che funziona secondo un principio di relativa continuità. Si ha una graduazione lenta, continua, impercettibile, che permette di passare dal disordine all'infrazione e viceversa, in rapporto ad una norma. Si ha continuità delle istituzioni, che rinviano le une alle altre; continuità dei criteri e dei meccanismi punitivi che a partire dalla semplice deviazione appesantiscono progressivamente la regola e aggravano la sanzione. Si passa, senza soluzione di continuità, dalla sanzione degli scarti alla punizione dei crimini. Non si giudica più l'errore, neppure l'attentato all'interesse comune, ma lo scarto, l'anomalia. "L'avversario del Sovrano, poi nemico sociale, si è trasformato in deviante, che porta con sé il molteplice pericolo del disordine, del crimine, della follia" (652). La prigione non è che il seguito naturale, niente di più di un grado superiore in un percorso le cui tappe sono eseguite passo dopo passo; essa non viene a rappresentare lo scatenamento di un potere di altra natura, ma solo un grado supplementare nell'intensità di un meccanismo che non ha cessato di essere in gioco già dalle prime sanzioni. Tra l'ultima delle istituzioni di 'risanamento' dove si viene accolti per evitare la prigione, e la prigione dove si viene inviati dopo una infrazione caratterizzata, la differenza è appena sensibile. "Il delinquente è un prodotto dell'istituzione. Inutile, di conseguenza, meravigliarsi che, in proporzione considerevole, la biografia dei condannati passi per tutti quei meccanismi e quelle istituzioni di cui si finge di credere che fossero destinati ad evitare la prigione" (653). La prigione continua un lavoro cominciato altrove e che viene perseguito attraverso innumerevoli meccanismi disciplinari. "Grazie al continuum carcerario, l'istanza che condanna si insinua fra tutte quelle che controllano, trasformano, correggono, migliorano" (654). Si impone così una nuova forma di legge, un misto di legalità e di natura, di prescrizione e di costituzione: la norma. E con essa si afferma la pretesa, da parte dei giudici, di valutare, apprezzare, diagnosticare, di distinguere il normale dall'anormale, di guarire e riadattare. In questo modo il potere che essi esercitano viene snaturato; "perché è vero che ad un certo livello esso è retto dalle leggi, ma ad un altro, e più fondamentale, funziona come un potere normativo. ... Tutti fanno regnare l'universalità del normativo, e ciascuno nel punto in cui si trova vi sottomette il corpo, i gesti, i comportamenti, le condotte, le attitudini, le prestazioni. La rete carceraria, sotto le sue forme compatte o disseminate, coi suoi sistemi di inserzione, distribuzione, sorveglianza, osservazione, è stata il grande supporto, nella società moderna, del potere normalizzatore" (655). Il carcere sembra così diventare un mezzo per recuperare ritardi di socializzazione cui sono andati incontro individui emarginati, una istituzione specializzata per l'integrazione di una minoranza di soggetti devianti. "L'intero sistema penale tende ad entrare come subsistema specifico nell'universo dei processi di socializzazione ed educazione che lo Stato e gli altri apparati ideologici istituzionalizzano in una rete sempre più capillare. Questa ha la funzione di attribuire a ciascun individuo i modelli di comportamento e le cognizioni relative ai diversi status sociali e, con ciò, di distribuire gli status stessi. Questo fenomeno è complementare a quello per il quale il sistema di controllo sociale, nelle società post-industriali, tende a spostare il suo campo di gravitazione dalle tecniche repressive a quelle non repressive della socializzazione, della propaganda, dell'assistenza sociale. Il diritto penale tende così a venir riassorbito in questo diffuso processo di controllo sociale che risparmia il corpo per agire direttamente sull'anima, anzi 'crea' l'anima" (656). La complementarietà delle funzioni esercitate dal sistema penale risponde all'esigenza di riprodurre ed assicurare i rapporti sociali esistenti, di conservare, cioè, la realtà sociale. "È nella zona più bassa della scala sociale che la funzione selezionatrice del sistema si trasforma in funzione emarginatrice" (657). Ciò porta a cercare la criminalità soprattutto in quegli strati sociali dai quali è 'normale' aspettarsela; il concetto si società dimezzata, coniato da Dahrendorf per esprimere il fatto che solo metà della società (ceti medi e superiori) esprime dal suo seno i giudici e che questi hanno di fronte a sé prevalentemente individui provenienti dall'altra metà (la classe proletaria) dimostra "le condizioni particolarmente sfavorevoli in cui si trova, nel processo, l'imputato proveniente da gruppi emarginati, nei confronti di imputati provenienti da gruppi superiori della società. La distanza linguistica che separa giudicanti e giudicati, la minore possibilità di svolgere un ruolo attivo nel processo e di servirsi dell'opera di legali prestigiosi svantaggiano gli individui socialmente più deboli. Anche la scarsa conoscenza e capacità di penetrazione, da parte del giudice, del mondo dell'imputato è sfavorevole agli individui provenienti dagli strati inferiori della popolazione" (658). Ricerche empiriche hanno messo in rilievo le differenze di atteggiamento emotivo e valutativo dei giudici nei confronti degli appartenenti a diverse classi sociali. Ciò porta i giudici, inconsapevolmente, a tendenze di giudizio diversificate a seconda dell'appartenenza sociale degli imputati. "La distribuzione delle definizioni criminali risente perciò in modo netto della differenziazione sociale. In genere si può affermare che vi è una tendenza, da parte dei giudici, ad aspettarsi un comportamento conforme alla legge dagli individui appartenenti agli strati medi e superiori; l'inverso avviene per gli individui provenienti dagli strati inferiori" (659). Considerando infine l'uso alternativo di sanzioni pecuniarie e sanzioni detentive, "i criteri di scelta giocano nettamente a sfavore degli emarginati e del sottoproletariato, nel senso che prevale la tendenza a considerare la pena detentiva, nel loro caso, come più adeguata, perché è meno compromettente per il loro status sociale già basso, e perché rientrante nella normale immagine di ciò che frequentemente accade a individui appartenenti a tali gruppi sociali" (660). Così, le sanzioni che più incidono sullo status sociale sono applicate con preferenza a coloro che sono già in una posizione inferiore. "La costituzione di una popolazione criminale come minoranza emarginata presuppone la reale assunzione, al livello di comportamento, di ruoli criminali da parte di un certo numero di individui, ed il loro consolidamento in vere e proprie carriere criminali" (661). Il risultato delle sanzioni stigmatizzanti si concretizza così in un drastico cambiamento di identità sociale, in un processo di costruzione sociale della popolazione delinquente. "La particolare aspettativa di criminalità che dirige l'attenzione e l'azione delle istanze ufficiali particolarmente su certe zone sociali già emarginate fa sì che, a parità di percentuale di comportamenti illegali, si riscontra in esse una percentuale enormemente maggiore di comportamenti illegali sanzionati, rispetto ad altre zone sociali" (662). Un numero sproporzionato di sanzioni stigmatizzanti (sanzioni detentive) che comportano l'applicazione di definizioni criminali e una drastica riduzione dello status sociale si concentra così negli strati inferiori ed emarginati della popolazione. La spirale, così aperta, eleva poi questo tasso di criminalità, con il consolidarsi di carriere criminali, dovuto agli effetti delle condanne sull'identità sociale dei devianti. Da questo punto di vista il sistema penale agisce, nei confronti dei gruppi sociali più deboli ed emarginati, anziché nel senso dell'integrazione, nel senso opposto (663). "Gli istituti di detenzione esercitano effetti contrari alla rieducazione ed al reinserimento del condannato, e favorevoli ad un suo stabile inserimento nella popolazione criminale. Il carcere è contrario ad ogni moderno ideale educativo, perché questo fa leva sull'individualità, sull'autorispetto dell'individuo, alimentato dal rispetto che l'educatore ha di esso. Le cerimonie di degradazione all'inizio della detenzione, con le quali il carcerato è spogliato anche dei simboli esteriori della propria autonomia (i vestiti e gli oggetti personali) sono l'opposto di tutto questo. L'educazione fa leva sul sentimento di libertà e di spontaneità dell'individuo; la vita nel carcere, come universo disciplinare, ha un carattere repressivo ed uniformante" (664). Un detenuto, al giorno d'oggi, è sottoposto ad un duplice processo di socializzazione. Innanzitutto, "quello della disculturazione, cioè del disadattamento alle condizioni necessarie alla vita in libertà (diminuzione della forza volitiva, perdita del senso di autoresponsabilità dal punto di vista economico e sociale), la diminuzione del senso della realtà del mondo esterno e la formazione di una sua immagine illusoria, il distacco progressivo dai valori e dai modelli di comportamento propri della società esterna" (665). Il secondo processo è quello, opposto ma complementare, "della 'acculturazione' o 'prigionizzazione'. Si tratta dell'assunzione delle attitudini, dei modelli di comportamento, dei valori caratteristici della subcultura carceraria. Questi aspetti della subcultura carceraria, l'interiorizzazione dei quali è inversamente proporzionale alle chances di reinserimento nella società libera, sono stati esaminati sotto l'aspetto dei rapporti sociali e di potere tra i detenuti, delle norme, dei valori, degli atteggiamenti che presiedono a questi rapporti, nonché sotto il punto di vista dei rapporti tra detenuti e lo staff dell'istituto di pena" (666). L'effetto negativo della prigionizzazione nei confronti di ogni scopo di reinserimento del condannato è stato ricondotto a due caratteristici processi: l'educazione a criminale e l'educazione a buon detenuto. "Sul primo processo influisce particolarmente il fatto che la gerarchia e l'organizzazione informale della comunità dei detenuti è dominata da una ristretta minoranza di criminali con forte orientamento asociale, che per il potere, e quindi il prestigio di cui gode, assume la funzione di modello per gli altri essendo contemporaneamente una autorità con cui lo staff dell'istituto è costretto a mediare il proprio potere normativo di fatto. La maniera con la quale vengono regolati i rapporti di potere e di distribuzione delle risorse nella comunità carceraria, favorisce la formazione di abiti mentali ispirati al cinismo, al culto e al rispetto della violenza illegale" (667). L'educazione a buon detenuto avviene in parte anche nell'ambito della comunità dei detenuti, dato che l'assicurazione di un certo grado di ordine, del quale i capi dei detenuti si fanno garanti, in cambio di privilegi, verso lo staff, fa parte degli scopi riconosciuti in questa comunità. "L'educazione avviene per il resto attraverso l'accettazione delle norme formali dell'istituto e di quelle informali poste in essere dallo staff. In generale si può dire che l'adattamento a queste norme tende ad interiorizzare modelli esteriori di comportamento, che servono all'ordinato svolgimento della vita dell'istituzione. Questo diventa il vero scopo dell'istituzione, mentre la funzione propriamente educativa viene largamente esclusa dal processo di interiorizzazione delle norme, anche nel senso che la partecipazione ad attività rientranti direttamente in questa funzione avviene con motivazioni ad essa estranee, e che viene favorito il formarsi di attitudini di passivo conformismo e di opportunismo. Il rapporto con i rappresentanti degli organi istituzionali che in tal modo diviene caratteristico dell'atteggiamento del detenuto, è improntato contemporaneamente all'ostilità e alla diffidenza e ad una sottomissione senza consenso" (668). La privazione della libertà si identifica così con l'esclusione violenta dalla società, in cui il pregiudizio morale si sostituisce al processo e al giudizio; essa è funzionale solo alla difesa sociale ed è priva di qualsiasi rispetto od interesse per la persona ed il suo cambiamento. Il rapporto generale tra società e carcere continua ad essere un rapporto tra chi esclude e chi è escluso; ogni tecnica pedagogica di reinserimento del detenuto urta contro la natura stessa di questo rapporto di esclusione. Non si può allo stesso tempo escludere ed includere. "In secondo luogo il carcere rispecchia, soprattutto nelle caratteristiche negative, la società. I rapporti sociali e di potere della subcultura carceraria hanno una serie di caratteristiche, che li distinguono dalla società esterna, e che dipendono dalla particolare funzione dell'universo carcerario, ma nella loro struttura più elementare essi non sono che l'ampliamento, in forma meno mistificata e più 'pura', delle caratteristiche tipiche della società capitalistica. Sono rapporti sociali basati sull'egoismo e sulla violenza illegale, all'interno dei quali gli individui socialmente più deboli sono costretti in ruoli di sottomissione e di sfruttamento" (669). Milioni di persone escono dal carcere spesso più delinquenti di prima, sostanzialmente immutati, al massimo timorosi, normalizzati per paura e condizionamento, mai realmente cambiati. Il reinserimento implica normalizzazione, contenimento della perversione, mai effettiva trasformazione. Tutto senza che si conoscano le cause del loro agire, che se ne conosca la natura, che si faccia alcunché per operare una trasformazione. "Nel carcere ... se cambiamento vi può essere, questo è certamente in negativo; giudici, esperti, assistenti sociali, operatori carcerari sono disposti a attribuire la patente di 'normalità' a individui che, rapportandosi alla durezza della realtà carceraria, per opportunismo ... preferiscono dimostrarsi ragionevoli, pentiti, pur di riottenere la libertà" (670). Da ciò si ricava che la pena non può e non deve essere considerata l'unico mezzo di lotta contro il delitto; prima ed accanto ad essa, si devono favorire e rafforzare diversi mezzi di prevenzione indiretta, come, prima di ogni altro, avevano insegnato gli umanisti e gli illuministi. Tuttavia, la legge penale resta un dato fondamentale e imprescindibile per la garanzia della convivenza civile. Detto questo, la funzione penale non può essere accettata puramente e semplicemente come un dato di fatto ovvio, ma necessita in ultima analisi di una giustificazione filosofica, di un fondamento etico. Due principi fondamentali - il rifiuto dell'idea di vendetta quale criterio ispiratore della pena e il rispetto della dignità umana, l'idea dell'uomo come fine - conducono a non accettare il dilemma tra un retributivismo severo, volto a infliggere una sofferenza fine a se stessa, e una tendenza a sostituire il concetto di difesa al concetto di pena, volta a permettere e giustificare qualsiasi uso dell'essere umano come strumento per fini a lui estranei: entrambi i termini di questa alternativa sono inaccettabili. Si potrebbero invece distinguere tre momenti dell'iter punitivo: il momento della minaccia nella legge penale, che ha una funzione di prevenzione generale; il momento della condanna da parte del giudice, che ha un significato retributivo ed esprime la riprovazione del fatto delittuoso; il momento dell'esecuzione della pena, che è rivolto essenzialmente a scopi di prevenzione speciale nonché di recupero e di reinserimento nella società del reo. Vi sono tre limiti fondamentali da porre alla sanzione penale. In primo luogo, la sanzione penale deve "essere esercitata soltanto nei confronti di quelle azioni le quali producono un turbamento della convivenza esterna fra i cittadini, ovvero che producono un danno ad altri, che compiono una violazione dei diritti altrui" (671). Tale principio esclude dall'ambito di applicazione della sanzione penale tutta la sfera attinente alle convinzioni interiori dell'uomo, all'espressione di opinioni in campo religioso, morale, politico, estetico, ecc. (672) Il secondo limite riguarda il rispetto di certe fondamentali garanzie giuridiche da parte del potere punitivo. "La funzione penale può essere legittimamente esercitata soltanto entro la cornice dello Stato di diritto. Ciò implica in primo luogo l'ancoramento del sistema penale alla legge" (673). Solo le leggi possono decretare le pene per i delitti; la legittimità della pena è legata all'osservanza del principio della legalità e della certezza del diritto (674). Terzo, e più importante limite alla funzione penale, è il rispetto del valore dell'umanità nell'esercizio della funzione penale, che esclude implicitamente, dal novero delle legittime sanzioni penali, certi tipi di pena, quali i supplizi accompagnati da tormenti e sofferenze particolari, e le varie pene corporali, le mutilazioni, le fustigazioni, ecc., ed esclude anche la pena di morte in sé, la cui comminazione costituisce da parte dello Stato l'usurpazione di un compito che investe un campo che non è il suo, e l'ergastolo, che uccide ogni speranza di recupero del condannato. Il conflitto tra funzioni dichiarate e funzioni latenti del diritto penale, coincidenti con la sua operatività di fatto, determina, da parte del diritto penale, insieme alla incapacità di prendere concretamente in considerazione i soggetti cui si rivolge e il contesto culturale cui intende riferirsi e che dà per acquisito, anche la violazione di diritti soggettivi, il disconoscimento di bisogni sostanziali, l'incapacità di tutelare gli interessi dei più deboli, la selettività, a loro svantaggio, tanto delle fattispecie di delitto, quanto dell'operatività concreta delle stesse. "Il diritto penale opera sempre meno come risposta individualizzata a singoli soggetti e comportamenti, con il compito di retribuire, o rieducare, mentre tende ad amministrare interi gruppi, settori e processi sociali, con provvedimenti che rispondono a un calcolo statistico delle probabilità di successo o di fallimento nella gestione della devianza; assumendo perciò il paradigma del rischio come criterio di intervento, e insieme come variabile in sé, a prescindere dai singoli comportamenti soggettivi" (675). Incapacitare, differenziare, dislocare, individualizzare, razionalizzare, revocare, allargare o restringere misure o benefici, riformare pragmatisticamente, sono tutte tecniche di gestione della devianza come fenomeno sociale complessivo, secondo il paradigma del controllo del rischio, che porta ad ignorare le singole individualità, togliendo così loro dignità ed importanza. "Retribuzione, prevenzione, rieducazione possono essere, come altri, criteri di volta in volta riutilizzati per giustificare pragmatisticamente e strumentalmente i provvedimenti che le varie emergenze del caso prospettano come necessari. Esse possono arrivare a giustificare, nel più ampio contesto del discorso sul rischio, qualsiasi tipo di provvedimento, anche il più retrivo e tradizionale" (676). Resta l'effettivo pericolo che il diritto penale agisca da diffusore e moltiplicatore, nei rapporti sociali, di una quantità di violenza più diffusa e distruttiva di quanto già non ne esista, che si ponga come attore di una pedagogia della vendetta, della colpa e del castigo assai più intensa di quanto non esista nei contenuti culturalmente diffusi. "Il rischio è in definitiva quello che la violenza concretamente esercitata dalla pena prevalga di fatto sulle sue dichiarate funzioni di contenimento e di controllo della violenza diffusa" (677). Sotto un altro punto di vista, la cura che la società punitiva sempre più si prende del carcerato dopo la fine della detenzione, continuando a seguirne l'esistenza in mille modi visibili ed invisibili, potrebbe essere interpretata come la volontà di perpetuare, con l'assistenza, quello stigma che la pena ha reso indelebile nell'individuo. "L'ipotesi di Foucault (678) dell'allargamento dell'universo carcerario all'assistenza prima e dopo la detenzione, in modo che questo universo sia tenuto costantemente sotto il fuoco di una sempre più scientifica osservazione, che ne fa a sua volta uno strumento di controllo e di osservazione dell'intera società, sembra in realtà assai vicina alla linea di sviluppo che il sistema penale ha preso nella società contemporanea" (679). Un nuovo Panopticon, che ha sempre meno bisogno del segno visibile (le mura) della separazione per assicurarsi il perfetto controllo e la perfetta gestione di questa zona particolare di emarginazione, che è la popolazione criminale. Le possibilità di aumentare il grado di tolleranza della società sono scarse finché si continuerà a considerare la 'devianza' con l'ottica di chi vuole sostanzialmente trovare il modo di controllarla e sottometterla. Bisogna superare la retorica che riafferma incessantemente la necessità di un ulteriore consolidamento del potere carcerario, definendo 'riforma' tale processo. "È questa una visione che soffoca il passato, legittima gli abusi del presente e cerca di abituarci alle crudeltà del futuro" (680). Poiché l'efficienza preventiva del sistema punitivo tradizionale è palesemente inconsistente, non sembrano sussistere ragioni per escludere un'ampia sperimentazione di sanzioni non detentive, i modelli delle quali, peraltro, sono già noti da tempo. Vanno presi in considerazione, pertanto, "interventi volti ad annullare i vantaggi del reato (il che dovrebbe costituire l'elemento irrinunciabile - finora tutt'altro che recepito - di qualsiasi sanzione penale), pene-prestazioni non immediatamente limitative di diritti (implicanti, per esempio, assunzione di responsabilità o di oneri verso l'eventuale vittima ed il bene protetto), sanzioni pecuniarie per tassi, pene privative di diritti attentamente definiti (in modo da escludere il processo di desocializzazione complessiva dell'agente riconducibile all'ingresso in carcere), forme di serio affidamento in prova (relative soprattutto al sussistere di particolari situazioni personali)" (681). Il fatto che nessuna di queste alternative venga presa in considerazione non fa che confermare la tesi secondo la quale l'attuale sistema carcerario, con tutte le sue conseguenze negative, sia congeniale agli interessi delle classi sociali al potere. Non si spiega, altrimenti, il disinteresse per soluzioni che porterebbero ad un apparato sanzionatorio nel suo complesso meno costoso dell'attuale, perlomeno rispetto al sacrificio dei diritti fondamentali. "Una maggiore duttilità del sistema punitivo potrebbe consentire di ricondurre il baricentro dell'intervento penalistico al momento sanzionatorio sostanziale, che si è andato pericolosamente spostando ... verso la fase processuale e l'applicazione delle misure cautelari" (682). L'idea di normalizzazione dell'individuo attraverso una umanizzazione della pena contrasta con una realtà in cui i già miseri margini di riuscita, lasciati per lo più al caso o a situazioni privilegiate e fortunate, sono ormai scomparsi a causa di un disagio sociale crescente. "È fallita dunque l'idea di normalizzazione, che già costituiva un falso scopo: normalizzare è cosa ben diversa dal restituire dignità umana" (683). Ed è fallita anche l'illusione che, risolti i problemi materiali dell'umanità, felicità e benessere siano nella naturale evoluzione dello stato delle cose. La reale natura dell'essere umano è stata ricercata, invano, da sempre; la sanità è stata rappresentata come la capacità razionale di contrastare una misteriosa potenza inconscia, perversa; esaltazione della "Ragione, dea illuminista, in apparenza nemica di qualsiasi visione religiosa dell'origine e dell'esistenza umana, in realtà sua alleata nel controllo e nella 'normalizzazione' di qualsiasi espressione, anche positiva, dell'inconscio umano" (684). Dopo il fallimento di queste ideologie, il nulla: non c'è più uno scopo condivisibile nella pena. Accusare, giudicare, punire, mai come adesso rischiano di esprimere azioni prive di finalità concrete. Persino "chi sente e vede ... i limiti della legge, chi rifiuta l'oppressione di un 'dover essere' e l'idea della ineluttabilità di una perversione originaria dell'essere umano, cui conseguirebbe la legittimazione stessa del diritto come unica possibile garanzia di vita sociale", si trova di fronte ad un dilemma: "quello dell'uomo che, nella incapacità di rapportarsi alla sua stessa complessità, a quanto oggi definiremmo irrazionale, al mondo delle pulsioni e degli affetti, ma anche della fantasia e della creatività umana, ha preferito la fuga nel tranquillizzante luogo della coscienza, dove domina la dianoia, e, nello specifico, la legge degli uomini, che tutto prevede, tutto regola, dalla nascita alla morte" (685). Il delitto rappresenta una ribellione alla norma; e gli uomini, preoccupati della loro sopravvivenza e terrorizzati dalla non-conformità, reagiscono cercando la difesa nella legge, nei giudici inflessibili, nelle pene severe. "La legge descrive e circoscrive l'uomo in comportamenti precostituiti che tolgono spazio alla fantasia, alla libertà del rapporto, alla diversità delle situazioni e delle persone (686). ... Essere umano significa dunque sempre più stare dentro l'organizzazione sociale e paradossalmente lo stesso concetto di democrazia, intesa come ampia partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica, equivale alla consacrazione della subordinazione dell'essenza stessa dell'uomo all'appartenenza ad una organizzazione e quindi al rispetto delle leggi" (687). L'uomo moderno, ormai prigioniero del suo pensiero cosciente, razionale, inganna sé stesso attribuendo alla legge la funzione primaria di generare e garantire la convivenza ideale: "ma il prodotto di una scissione, quella tra pensiero cosciente e inconscio, nel relegare quest'ultimo ai margini della vita sociale, nell'arte, nella follia, nei bambini e nelle donne, fa sì che l'uomo si affanni in un circolo vizioso, con leggi sempre diverse, anche ottime leggi, senza mai venire a capo di nulla. Perché la legge senza la fantasia, senza il legame naturale e diretto con la realtà, senza rapporto con l'essere totale dell'uomo, può svolgere, come dimostra la storia, solo una funzione di contenimento e di controllo" (688). Tutti teorizzano l'esigenza della coscienza morale, del controllo razionale, della legge e dell'autorità per la salvezza del genere umano. "Ma la norma astratta è ormai da tempo funzionale solo all'ideologia del controllo e del contenimento" (689). Nell'Ottocento si è affermato un concetto di sanità legato alla coscienza ed alla volontà di ogni atto umano, ed un concetto di patologia, come minus di razionalità, legato alla diminuita o perduta capacità di intendere e di volere. "Atroce inganno: se infatti la natura umana è perversa, ne consegue che l'inconscio di tutti gli uomini sarebbe malato; cosicché nessuno sarebbe malato, ma tutti responsabili di fronte alla legge" (690). Se invece è fondata l'asserzione che l'essere umano non nasce perverso, e che il suo inconscio è sano dalla nascita, ne consegue che l'idea di una società priva di perversione non è utopica ma possibile. "Conseguentemente è possibile che le cosiddette norme giuridiche abbiano un senso in una società di transizione, come è ancora l'attuale, ma non in una società sana, senza ideologie, senza indifferenza e astrazioni, senza pericolosi regressi, senza violenza, cui apparentemente l'umanità dichiara di aspirare da tempo. Società in cui sarebbe possibile parlare di irrazionale come espressione della vitalità e della fantasia dell'uomo e di una sua fondamentale sanità mentale" (691). "Nessuno, per molto tempo, ha mai ipotizzato che fosse proprio nella ragione, nel pensiero razionale, la più grave delle malattie dell'essere umano" (692). Si sostiene che il sonno della ragione generi mostri, escludendo a priori che possa essere invece vero il contrario, che sia invece l'eccesso di razionalità e, per converso, la sottovalutazione di quelle che sono le facoltà innate dell'uomo, quali l'emotività, gli affetti, l'istinto, la fantasia, la creatività, l'unicità di ogni individuo nel suo rapportarsi a se stesso ed agli altri, a portare l'uomo in direzione diametralmente opposta a quelle che potrebbero essere le sue reali possibilità nel costituire una società, se non migliore, quantomeno più rispettosa della dignità umana. Nelle società moderne il lato razionale domina su quello emotivo ed affettivo, con il risultato di creare 'macchine' sempre più precise ed affidabili, ma al tempo stesso inesorabilmente sempre più vuote ed aride, sempre più identiche le une alle altre. Le strade che si aprono sono essenzialmente due: quella che porta ad una razionalizzazione e ad una regolamentazione sempre maggiori, a discapito delle infinite potenzialità legate al multiforme e prospero caleidoscopio della diversità dei singoli individui, e quella, sottovalutata, che invece può portare ad una valorizzazione di queste diversità, ad un impiego della vitalità e delle peculiarità proprie di ogni individuo, riducendo l'onnipresenza degli apparati di regole, già sovrabbondanti, e delle costrizioni che limitano l'applicazione delle possibilità dell'uomo a percorsi già stabiliti e predeterminati. Non resta che aspettare, tenendo presente che le norme di una società non hanno altro fondamento che loro stesse. Dobbiamo ricordarci che, come ci insegna la storia, errare è umano. E che nell'adottare una determinata soluzione a determinati problemi bisogna tenere conto dei pro e dei contro: perché oggi, nonostante la crescente preoccupazione, spesso strumentalizzata, riguardo al presunto dilagare della criminalità, possiamo affermare di avere ottenuto un rilevante livello di sicurezza: ma il prezzo che paghiamo, in termini di riduzione e limitazione dei diritti e delle libertà, è molto alto. Inoltre la ragione, o per lo meno la ragione come si è sviluppata nella nostra società, ha portato all'affermazione di un atteggiamento di rifiuto nei confronti del reato e del suo autore: un rifiuto totale, un muro impenetrabile. Nonostante la osannata umanizzazione del sistema punitivo, la penalità non ha poi compiuto quei grandiosi miglioramenti che sarebbe lecito aspettarsi in una società che pretende di definirsi civile e progredita: perché la pena, nel passato esilio ed allontanamento dal consesso degli uomini, nel presente internamento in luoghi chiusi, in istituzioni totali, non ha mai smesso di identificarsi con il rifiuto, per il singolo fatto e, soprattutto, per il suo autore. Paradosso di un meccanismo che, fingendo di riabilitare e reintegrare il violatore delle regole, non fa che sospingerlo sempre più lontano da ogni possibilità di miglioramento, da quelle condizioni che, sole, possono permettere di rapportarsi agli altri in modo positivo. "L'ignoranza e poi le condizioni economiche sono le vere cause che possono spingere alla delinquenza. Cioè, vedendo le persone che stanno dentro possiamo dire che il ceto più rappresentativo è il ceto povero. ... I poveri sono più rappresentati, ma proprio perché la miseria, l'ignoranza spinge a delinquere, la fame spinge a delinquere. ... Io non sapevo niente delle carceri, avevo sentito parlare delle carceri come tutti gli altri. Per me non esistevano, solo un nome, carceri e carcerati, e questo come per tutti. Ho scoperto poi, che il carcere è la misura della propria onestà, finché non ci sei, sei un mondo; quando sei andato dentro, sei un immondo. Quindi è chiaro che l'autorità non permetta di analizzare il carcere dentro, non faccia sapere come è il carcere, perché il giorno in cui la gente fuori sapesse cos'è il carcere, non abboccherebbe più alla definizione del carcere e del carcerato, cioè alla definizione tradizionale, perché allora vedrebbe dentro all'animo del carcerato e vedrebbe le cose e gli effetti di una società che il carcere lo vuole così com'è, perché è una sicurezza. Le carceri sono lo specchio di una società, ... una gran fogna che dà l'automatica garanzia, dà l'immediato diritto di sentirsi pulito a chiunque non ci sia ancora cascato dentro. E in una fogna non si mette, si butta; si buttano i rifiuti ... si buttano i rifiuti e ciò che è già marcito. L'unica relazione completa che la società ha con il carcere è il rifiuto" (693). "Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non 'vediamo' con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno" (694). Nonostante le molte critiche, che abbiamo ampiamente esaminato, la riposta è stata invariabilmente la stessa: la riconferma della tecnica penitenziaria. Dalla sua nascita, la prigione moderna è sempre stata considerata il rimedio di se stessa; "la riattivazione delle tecniche penitenziarie (695) come il solo mezzo per riparare al loro perenne scacco; la realizzazione del progetto correttivo come il solo metodo per sormontare l'impossibilità di realizzarlo nei fatti" (696). Limite di un sistema che serve solo ad alimentare se stesso. "Laddove il corpo marchiato, squartato, bruciato, annientato del suppliziato è scomparso, è apparso il corpo del prigioniero, doppiato della individualità del 'delinquente', della piccola anima del criminale, che l'apparato stesso del castigo ha fabbricato come punto di applicazione del potere di punire e come oggetto di ciò che ancora oggi viene chiamata scienza penitenziaria" (697).

"Anch'io faccio parte di quegli uomini (miti) che tentano di spiegare i delitti e, così facendo, li giustificano a metà. Odio la pena che è decisa dai sicuri. Detesto la costrizione. Ma anch'io conosco ... la cattiveria dell'uomo. La conosco partendo da me. È dunque indulgenza per me, ciò che ottengo con queste spiegazioni? No, nei miei confronti sono duro. Nondimeno ho evitato di commettere delitti e, dunque, ogni pubblica pena. Come posso volere per altri pene che non mi toccheranno mai? Per approvare le pene bisognerebbe allora commettere dei delitti? No, sarebbe capriccio e ipocrisia. Che mezzo c'è per stabilire le pene con equità senza rendere le cose facili a se stessi?" (698).

Note

1. FERRI ENRICO, "Cause individuali e sociali del delitto.", in "LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA", a cura di Margherita Ciacci e Vittoria Gualandi, Società editrice il Mulino, Bologna, 1977, pag. 166.

2. BIELLI DANIELE, "Il delitto, il processo, la pena", op. cit., pag. 18.

3. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 143.

4. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 143.

5. Ibidem, pag. 144.

6. Ibidem, pag. 144.

7. Ibidem, pag. 144.

8. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 145.

9. In questo senso la grande famiglia colonica forniva supporto, anche se in termini caritativi e privatistici, agli strati sociali più deboli, principalmente attraverso l'ospitalità e la commissione di lavori agricoli stagionali.

10. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 146.

11. Ibidem, pag. 147.

12. Ad esempio, la legislazione newyorchese del 1721 inasprì le sanzioni per l'immigrazione clandestina, prevedendo per i recidivi pene pecuniarie, corporali, nonché le prime forme di internamento coatto per un periodo determinato nei jails, originali carceri preventive. Venne inoltre imposto l'istituto del certificato di residenza, attraverso il quale l'autorità amministrativa fu in grado di operare un rigido controllo sulla mobilità sociale.

13. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 148-149.

14. Ibidem, pag. 149.

15. Ibidem, pag. 149. Il progetto istituzionale proposto da Penn per le case di correzione contemplava già l'isolamento dei detenuti, la divisione degli internati sulla base di una articolata tipologia e l'ipotesi del ricovero coatto degli oziosi e dei vagabondi; inoltre si faceva obbligo di impiegare la popolazione internata in attività lavorative coatte, che venivano, comunque, retribuite.

16. Ibidem, pag. 149-150.

17. In maniera analoga a quanto era avvenuto, per lungo tempo, in Europa.

18. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 150.

19. Ibidem, pag. 151.

20. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 152. Originariamente, questa istituzione non conobbe neppure l'esigenza di un progetto edilizio specifico, ma la semplice utilizzazione di qualche fattoria già esistente.

21. Ibidem, pag. 152.

22. Ad esempio, il problema dei folli era normalmente risolto attraverso il soccorso domestico; solo nel caso in cui il soggetto era ritenuto socialmente pericoloso veniva coattivamente internato in sezioni speciali delle case per poveri od in quelle di correzione. La stessa istituzione ospedaliera sorse come momento e servizio specifico originariamente gestito dalla stessa poorhouse.

23. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 153.

24. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 153. Nella stessa ottica, e tenendo presente il peso della tradizione biblico-religiosa tra le comunità dei primi colonizzatori, deve essere interpretata la pena del marchio a fuoco, attraverso la quale venivano sfregiati i condannati, imprimendo sul loro corpo la lettera iniziale del reato commesso.

25. Ibidem, pag. 154.

26. Ibidem, pag. 154.

27. Ibidem, pag. 155.

28. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 154.

29. Ibidem, pag. 156.

30. Ibidem, pag. 157.

31. Ibidem, pag. 158. Vennero inoltre abrogati antichi istituti medievali coattivamente imposti dall'Inghilterra, quali il diritto di primogenitura e le limitazioni allo smembramento delle proprietà fondiarie.

32. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 159. I settori trainanti di questa lucrosa attività furono, da un lato, il commercio degli schiavi, dall'altro, l'importazione di manufatti dalle terre d'Oriente.

33. Ibidem, pag. 161.

34. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 161.

35. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 165-166.

36. Ibidem, pag. 166.

37. Ibidem, pag. 167.

38. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 168.

39. La stessa abbondanza di terre fertili non ancora colonizzate avvalorava questa prospettiva.

40. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 169.

41. Ibidem, pag. 168.

42. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 169-170.

43. Ciò condizionerà un approccio di tipo 'punitivo' alla soluzione del problema.

44. La causa primaria dei processi disgregativi in atto veniva individuata nell'indolenza, nell'intemperanza nell'uso di bevande alcoliche, ed in altri 'vizi' delle classi più povere.

45. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 171.

46. Ibidem, pag. 171.

47. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 171-172.

48. Ibidem, pag. 172.

49. Ad esempio, la farm-school, la scuola-fabbrica ideata sul modello delle workhouses, venne adottata quale appropriata istituzione per gli orfani minorenni. Un altro esempio è costituito dal nuovo atteggiamento nei confronti della follia; abbandonata l'originale spiegazione di questo fenomeno come risultato di un influenza demoniaca, si cominciò ad intendere la malattia mentale come risultato delle contraddizioni sociali che avevano portato al più vasto processo di erosione della primitiva coesione comunitaria. Dato che le cause della malattia erano di tipo sociale, sarebbe stato irragionevole pensare di curarla mantenendo il malato in quell'ambiente che aveva generato il fenomeno. Si optava così per la segregazione in una istituzione speciale. L'intento di fondo è esplicito: solo sradicando dal tessuto sociale il prodotto inconsapevole del 'disordine' che è il folle, solo segregandolo in un universo concentrazionale dove possono regnare le regole ottimali del vivere sociale, è possibile guarirlo e rieducarlo.

50. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 175.

51. Ibidem, pag. 176.

52. Ibidem, pag. 176.

53. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 177.

54. Ibidem, pag. 177.

55. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 178.

56. Nel 1826, sempre a Philadelphia, veniva completata la costruzione del Western Penitentiary, composto di cinque padiglioni, disposti a forma di pentagono attorno alla torre centrale di controllo, le cui 190 celle si rivelarono subito troppo oscure e strette per consentire l'organizzazione del lavoro dei detenuti. All'altro capo della città, l'Eastern Penitentiary, aperto nel 1829, presentava una architettura diversa: i sette edifici cellulari erano infatti disposti come i raggi di una stella in rapporto alla torre di controllo centrale, sul modello del Panopticon di Bentham. Le celle erano sufficientemente ampie perché i reclusi potessero esservi adibiti a lavoro manuale.

57. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 240.

58. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 241-242.

59. Ibidem, pag. 243.

60. Questo perché l'isolamento costituisce uno shock dai benefici effetti; il condannato ritrova se stesso e riscopre nel fondo della propria coscienza l'intima voce del bene. Il lavoro in promiscuità non fa che alimentare il vizio e riprodurre il male. Il lavoro solitario è doppiamente educativo: riconcilia l'indolente con la società laboriosa e lo redime plasmandolo nell'anima.

61. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 210.

62. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 211.

63. Ibidem, pag. 211.

64. Gli internati non correvano così alcun pericolo di venire ulteriormente corrotti dalla presenza di altri criminali; una vita associativa nelle carceri, infatti, non avrebbe mai ridotto l'originale predisposizione al crimine, anzi, l'avrebbe accentuata.

65. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 211-212.

66. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 258. Inoltre, l'isolamento dei detenuti assicura che si possa esercitare su di loro un potere non controbilanciato da nessun'altra influenza: la solitudine è la condizione prima della sottomissione totale.

67. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 212.

68. Ibidem, pag. 213. Se il carcerato urla, il bavaglio l'educherà al silenzio facendolo, meccanicamente, tacere; se si agita, la forca lo educherà al controllo del proprio corpo, immobilizzandolo meccanicamente in una armatura appesa ad un palo.

69. Ibidem, pag. 213.

70. Ibidem, pag. 213.

71. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 216. Questo era vero a tal punto che non sempre ai detenuti era concesso lavorare per timore che ciò potesse turbare la meditazione.

72. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 136.

73. Essenzialmente, tra il prigioniero e la sua coscienza, tra il prigioniero e Dio.

74. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 136-137.

75. Il lavoro, in alcune esperienze penitenziarie, veniva retribuito, per assicurare il reinserimento morale e materiale dei condannati nel mondo dell'economia; si trattava, cioè, di riqualificare il criminale in operaio docile, imponendogli la forma morale del salario come condizione della sua esistenza. Il salario faceva prendere amore ed abitudine al lavoro; dava ai malfattori, che ignoravano la differenza tra 'mio' e 'tuo', il senso della proprietà, guadagnata col sudore della fronte; insegnava loro anche, proprio a loro che avevano vissuto nella dissipazione, cosa erano la previdenza, il risparmio, il calcolo dell'avvenire; inoltre, proponendo una misura del lavoro fatto, permetteva di tradurre quantitativamente lo zelo del detenuto ed i progressi del suo emendamento. Il salario del lavoro penale, quindi, non retribuiva una prestazione, ma funzionava come un motore ed un punto di riferimento delle trasformazioni individuali.

76. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 215.

77. La concezione calvinista si basava difatti su un'etica del lavoro tutta spirituale, che nulla doveva concedere al lavoro produttivo.

78. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 180.

79. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 179.

80. Ibidem, pag. 180. La prigione philadelphiana non mira ad isolare il recluso da tutti gli altri uomini, ma soltanto dagli altri perversi, per rendere più efficace il contatto con i buoni, per preservarlo dalla altrui corruzione, per richiamarlo al miglioramento possibile, per redimerlo alla società, alla quale lo si vorrebbe degnamente restituito.

81. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 312.

82. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 137. La prospettiva di essere rilasciati anticipatamente, in seguito ad una buona condotta e ad inequivocabili segni di ravvedimento, era considerata dai riformatori un ottimo stimolo all'impegno dei reclusi.

83. Ibidem, pag. 269.

84. Ibidem, pag. 269. Tutto quell'arbitrario che, nell'antico regime penale, permetteva ai giudici di modulare la pena ed ai principi di mettervi eventualmente fine, e che i codici moderni hanno tolto al potere giudiziario, lo vediamo ricostituirsi dalla parte del potere che gestisce e controlla la punizione. Il carcere rivendica così un potere che non solo ha una sua autonomia amministrativa, ma quasi, ma quasi una parte della sovranità punitiva. La valutazione del tribunale non è quindi che un modo di 'pre-giudicare', poiché la moralità dell'agente non può essere valutata che alla prova. Il giudice ha dunque bisogno di un controllo necessario e rettificante delle sue valutazioni; e questo controllo viene fornito dalla prigione penitenziaria. Possiamo dunque parlare di un eccesso dell'imprigionamento in rapporto alla detenzione legale, del 'carcerario' in rapporto al 'giudiziario'. La radice di questa autonomia si rileva nel fatto che si chieda alla prigione di essere utile, di operare delle trasformazioni nei detenuti. Il margine per cui la prigione eccede la detenzione è in effetti coperto da tecniche di tipo disciplinare. E questo supplemento del disciplinare in rapporto al giuridico è ciò che è stato chiamato penitenziario.

85. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 272. È necessario che il detenuto possa essere tenuto sotto controllo permanente, che siano registrate e contabilizzate tutte le note che si possono raccogliere: il tema del Panopticon ha trovato nella prigione il suo luogo privilegiato di realizzazione. La prigione diviene il luogo di costituzione di un sapere che deve servire da principio regolatore per l'esercizio della pratica penitenziaria. La prigione non deve solo conoscere la decisione dei giudici ed applicarla in funzione di principi stabiliti; essa deve prelevare in permanenza dal detenuto un sapere che permetterà di trasformare la misura penale in operazione penitenziaria, che farà della pena resa necessaria dall'infrazione una modificazione del detenuto, utile per la società. Correlativamente, il delinquente diviene un individuo da conoscere. L'esigenza di sapere non si inserisce nell'atto giudiziario, per rendere la sentenza più fondata e per determinare sulla verità la misura della colpevolezza: è come condannato, e a titolo di punto di applicazione di meccanismi punitivi, che l'autore di una infrazione si costituisce come oggetto di un possibile sapere. L'apparato penitenziario effettua così una curiosa sostituzione: dalle mani della giustizia riceve un condannato, ma ciò su cui deve applicarsi non è l'infrazione, e neppure chi l'ha commessa, ma il delinquente, un oggetto definito da variabili che non erano prese in conto dalla sentenza, poiché rilevanti solo per la tecnologia correttiva. Il delinquente si distingue dall'autore di una infrazione per il fatto che è meno il suo atto che non la sua vita ad essere pertinente per caratterizzarlo. Tale investigazione biografica porta a far esistere il criminale anche prima del crimine, e, al limite, al di fuori di questo: si entra così, come vedremo in seguito, nel campo del criminologico.

86. Ibidem, pag. 137-138.

87. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 138. Tutto un sapere individualizzante comincia ad organizzarsi, prendendo come campo di riferimento non tanto, o meglio, non solo il delitto commesso, ma la virtualità di pericolo che si nasconde in un individuo e che si manifesta nella condotta quotidianamente osservata. Qui la prigione funziona come apparato di potere.

88. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 150.

89. Ibidem, pag. 151.

90. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 179.

91. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 180.

92. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 217. In America i salari erano tali da permettere un buon livello di sussistenza. Beaumont e Tocqueville, ad esempio, riconobbero che la Francia, paese, allora, certamente più ricco degli Stati Uniti, conosceva fenomeni di miseria ed accattonaggio molto più estesi a causa dell'accentuata sperequazione nella distribuzione delle ricchezze.

93. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 181. Queste critiche e riserve di fondo nei confronti del sistema penitenziario cellulare erano analoghe a quelle a suo tempo formulate in Europa per opporsi allo sterminio della forza lavoro, che si attuava attraverso la sanguinaria legislazione contro i vagabondi e gli oziosi.

94. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 215. Un legge del New Jersey del 1802 stabiliva, ad esempio, che gli ispettori delle prigioni dello Stato dovessero impedire che il detenuto fosse liberato fino a quando non avesse pagato con il proprio lavoro le spese processuali e quelle di mantenimento.

95. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 181.

96. Nella quale regnavano, ormai, il common work, la labor-saving machinary e l'abilità meccanica.

97. Il penitenziario di Auburn fu inaugurato nel 1816, a New York. Originalmente, non era composto da celle; vi si praticava la vita in comune, di giorno e di notte, con l'obbligo del silenzio. Dal 1821 al 1823 fu introdotta la segregazione cellulare, e si sperimentò il sistema dell'isolamento totale senza lavoro. Dimostratosi inaccettabile questo metodo, fu adottato quello, da allora in avanti detto, appunto, auburniano, dell'isolamento in celle durante la notte e del lavoro in comune, ma in assoluto silenzio, durante il giorno. Lo stesso sistema venne applicato anche alla prigione di Sing-Sing, costruita dagli stessi prigionieri di Auburn e terminata nel 1826.

98. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 182.

99. La day-association permetteva di ottenere la massima produzione industriale, la night-separation di ottenere la massima prevenzione dal 'contagio' criminale.

100. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 220.

101. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 218.

102. Nel carcere di tipo philadelphiano il modello organizzativo riduceva drasticamente le norme disciplinari semplicemente perché all'internato non era fisicamente concesso comportarsi diversamente; le possibilità di infrazioni erano limitatissime. Nel carcere auburniano, invece, il momento associativo impone un'infinità di norme comportamentali che devono essere rispettate. Il carcerato viene trasformato in un automa, in una macchina programmata e diligente, non più solo astrattamente disciplinata, ma perfettamente sincronizzata all'azione collettiva dissociata.

103. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 218.

104. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 218.

105. Ibidem, pag. 219.

106. Al contrario, l'isolamento assoluto era considerato disumano, perché, oltre che inefficace dal punto di vista disciplinare, pericoloso per la salute mentale dei carcerati.

107. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 220.

108. Il sistema di Auburn è, difatti, conosciuto anche come silent system. L'intero sistema disciplinare si basa sull'impedimento di ogni rapporto tra i carcerati: non è certo la solitudine del corpo che è importante, ma quella dello spirito.

109. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 259. Piuttosto che tenere i condannati sotto chiave, come bestie feroci nelle loro gabbie, essi sono riuniti, costretti a buone abitudini in comune: questa regola abitua il detenuto a considerare la legge come un precetto sacro, lo riqualifica come individuo sociale, lo addestra ad una attività utile e rassegnata, gli restituisce abitudini di socialità.

110. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 182.

111. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 183.

112. Ibidem, pag. 183.

113. A questo criterio si ispirò, ad esempio, l'istituto della Commutation, secondo il quale tutti i prigionieri condannati a pene superiori a cinque anni di reclusione potevano ottenere la riduzione della pena fino ad un quarto per buona condotta.

114. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 183.

115. I fautori di questo sistema, comunque, sottolinearono con forza il valore educativo che, secondo loro, il lavoro svolto in questa forma esercitava, e gli innegabili vantaggi che l'attività collettiva aveva nei confronti di quella individuale: ora i detenuti non dovevano più soffrire per la coscienza della loro inutilità, essendo distratti da un attività che offriva loro sufficienti stimoli per non impazzire.

116. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 192.

117. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 194.

118. Il lavoro carcerario, infatti, faceva scendere, oltre ai salari, l'occupazione libera, e costringeva gli operai a commettere crimini, per sopravvivere, e quindi alla prigione, ove questi stessi uomini, che non potevano lavorare quando erano liberi, facevano concorrenza a quelli che ancora avevano lavoro, generando una crescente spirale di miseria e di delinquenza.

119. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 23.

120. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 198.

121. Ibidem, pag. 199.

122. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 65.

123. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 190.

124. Nonostante le evidenti differenze, comunque, i modelli di Auburn e di Philadelphia presentano una nota comune: la distruzione, attraverso l'isolamento, di ogni relazione parallela (tra gli internati-lavoratori, tra uguali); l'enfatizzazione, invece, attraverso la disciplina, di sole relazioni verticali (tra superiore-inferiore, tra diversi).

125. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 191.

126. Ibidem, pag. 203.

127. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 204.

128. Ibidem, pag. 204.

129. In questa prospettiva è possibile anticipare l'equivoco su cui si fonderà tutto l'interesse positivistico al fenomeno criminale: la stretta equiparazione, l'identificazione acritica tra delinquente e carcerato. Su questa identità verrà a formarsi una ideologia scientista che confonderà l'aggressività e l'alienazione dell'uomo.

istituzionale con una sua intrinseca malvagità. Perché questa scienza potesse crescere, era necessario che il carcere moderno panottico mostrasse l'attitudine a trasformarsi in laboratorio, in gabinetto scientifico dove, dopo l'attenta osservazione del fenomeno, si potesse osare il grande esperimento: la trasformazione dell'uomo. Abbiamo visto le caratteristiche del carcere panottico: con esso, si realizza la condizione essenziale perché i pochi che osservano si trasformino in scienziati, mentre i molti che sono osservati si trasformino in cavie. Ogni gesto, ogni segno di dolore, di sconforto, di impazienza, ogni intimità verrà descritta, classificata, comparata, analizzata, studiata. L'internato introietterà, progressivamente, la coscienza della sua permanente visibilità; la sua salvezza, o la sua completa alienazione come realtà diversa, deviante, dipenderà soltanto dall'autocontrollo, dalla disciplina imposta al proprio corpo, dalla capacità di assumere a modello comportamentale l'immagine del soggetto al potere. Unica alternativa la distruzione, la pazzia. Il detenuto osservato diviene così egli stesso lo strumento del proprio assoggettamento, del proprio trasformarsi in qualcosa di diverso. Il carcere, a livello simbolico, diviene il luogo privilegiato del nuovo ordine, il modello della società ideale. La politica del controllo attraverso il terrore si trasforma - ed il carcere è il fulcro di questa trasformazione - in politica preventiva, in contenimento quindi della distruttività. Dall'eliminazione, quindi, all'integrazione del criminale nel tessuto sociale.

130. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 208.

131. La rinascita evangelica cominciò come protesta contro la corruzione della chiesa di stato, il tiepido deismo delle sue dottrine e il declino del fervore morale fra gli anglicani delle classi medie e superiori. Gli evangelici rimproveravano soprattutto alla chiesa ufficiale di giustificare il peccato come semplice 'errore', incoraggiando così la casistica e le ambiguità morali fra i fedeli. Secondo la loro concezione, la coscienza sociale e l'impegno religioso dei ricchi si erano indeboliti a causa del loro successo commerciale; l'aristocrazia si era lasciata corrompere dalle distrazioni dei sensi e dal libertinismo intellettuale.

132. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 165.

133. Ibidem, pag. 165. Ad esempio, campagne per abolire il commercio degli schiavi, attività per perseguire legalmente tenutari di case di tolleranza, sovvenzioni di cucine che fornivano il cibo ai poveri.

134. Ibidem, pag. 166. Durante il XVIIIº secolo, il declino del quaccherismo 'rigido' venne accelerato dal loro incredibile successo economico; la rigorosa disciplina fornì loro una innegabile attitudine ad accumulare metodicamente ricchezze. Max Weber ha sottolineato l'ironia insita nel fatto che proprio coloro che sottomettono la propria passione di guadagno a qualche superiore fine spirituale ottengono le maggiori ricchezze. Il successo economico, tuttavia, indebolì la loro saldezza nella fede.

135. Ibidem, pag. 169.

136. Ibidem, pag. 170.

137. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 170.

138. Ibidem, pag. 170.

139. Ibidem, pag. 171.

140. Ibidem, pag. 172.

141. La situazione era venuta deteriorandosi anche sugli hulks, le prigioni galleggianti che, come abbiamo visto, furono adottate inizialmente negli anni Settanta del Settecento come un espediente temporaneo, e da allora mantenute come un'alternativa a buon mercato agli istituti costruiti a terra.

142. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 173.

143. La disciplina di fabbrica, all'inizio del 1800, non era più legittimata quale strumento riformatore. Le condizioni del commercio stavano diventando sempre più competitive, e i margini di profitto che avevano pagato le misure filantropiche nelle comunità di fabbrica si andavano sempre più riducendo.

144. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 173.

145. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 176.

146. I radicali sostenevano che le leggi erano fatte solo per proteggere i ricchi. I poveri avevano a che fare abbastanza spesso con esse, certo, ma erano solo i soggetti della legge, mentre la salvaguardia dei ricchi ne era l'oggetto costante. Ciò non doveva stupire, dato che le leggi erano fatte dai ricchi, e quindi ci si poteva legittimamente aspettare che essi le facessero per se stessi.

147. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 179-180.

148. Ibidem, pag. 181.

149. Molti sforzi, comunque, furono compiuti per migliorare le condizioni di vita della popolazione indigente: furono aperte mense per i poveri e negozi che vendevano generi alimentari a prezzi ridotti. I riformatori si dettero da fare per stabilire chi avesse diritto ad usufruire di tali servizi: visitarono ogni famiglia che avesse presentato domanda e consegnarono tessere per questi spacci solo a coloro che tenevano in ordine la casa, dimostravano serie intenzioni di trovare lavoro e non bevevano alcolici.

150. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 183. Molti radicali sostenevano che le attività filantropiche erano sfruttate a scopi politici, poiché le distribuzioni di minestra avevano la tendenza a mascherare le vere cause della povertà, prolungando così le cause che le generavano fino al punto in cui un rimedio pacifico sarebbe stato impossibile.

151. Ibidem, pag. 184. I criminali trattati disumanamente avrebbero provato un sentimento di offesa, il quale avrebbe causato, a sua volta, risentimento. Solo le pene contemplate dalla legge dovrebbero essere inflitte, ad esse non dovrebbe essere aggiunto alcun male collaterale, come gli orrori della malattia o la corruzione morale.

152. Ibidem, pag. 184.

153. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 184-185.

154. Ibidem, pag. 186.

155. Molte istituzioni vennero esentate dall'osservanza della nuova normativa, non venne costituito un ispettorato, si lasciò ai magistrati il compito di interpretare ed applicare a loro discrezione le norme sulla dieta, le ore di lavoro, il periodo di esercizio e i privilegi di visita fissati dall'atto, che non introdusse comunque l'obbligo dell'isolamento. Pur riconoscendone l'opportunità, la legge consentiva di abbandonarlo qualora il sovraffollamento lo rendesse necessario.

156. IGATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 187. Il frequente ricorso a minacce di morte, poi non applicate, tendeva, inoltre, a far venir meno ogni aspetto deterrente ed a sminuire l'autorità del governo e delle sue leggi. Infine, i commercianti necessitavano di pene più efficaci contro i piccoli furti nei loro negozi, dato che spesso non denunciavano i crimini minori per scrupolo morale davanti all'idea di mandare al patibolo i colpevoli.

157. Ibidem, pag. 189.

158. Ibidem, pag. 193.

159. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 194.

160. Ibidem, pag. 196.

161. Ibidem, pag. 196. I giudici espressero il loro favore per tale meccanismo in cui il lavoratore non poteva vedere i risultati della propria fatica (anche perché, spesso, non ve ne erano), e che era infinitamente monotono, noioso e deprimente.

162. Ibidem, pag. 198. I detenuti, tuttavia, si dimostrarono molto testardi e ricchi di inventiva; venne escogitato un codice di segnali, tipico delle prigioni, fatto di ammiccamenti, segni con le mani e colpi sulle condutture, e questo alfabeto clandestino divenne una delle eredità culturali della malavita.

163. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 199.

164. Ibidem, pag. 199.

165. In passato, i contadini lavoravano per anni, perfino per tutta la vita, sulla stessa terra; erano considerati parte dell'impresa. Ora, invece, il lavoratore è un semplice bracciante a giornata, al massimo stagionale, ed è licenziato quando il suo compito termina, trovandosi costretto a sopravvivere con qualunque mezzo.

166. In passato l'apprendista era alloggiato nella casa del padrone, era considerato un membro della famiglia e riceveva vitto, alloggio ed educazione dal padrone, che doveva rispondere della sua condotta. Ora, invece, i proprietari non si facevano scrupoli nel gettare sulla strada i loro operai ogni volta che diminuiva la domanda.

167. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 204.

168. Ibidem, pag. 204.

169. Ibidem, pag. 204.

170. I bambini, che in passato erano puniti immediatamente per avere commesso delitti di scarso rilievi, come, ad esempio, il furto di mele, adesso venivano trascinati di fronte ad un giudice che li ammoniva o li puniva.

171. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 205. In passato, la presenza di un corpo di polizia non era vista di buon occhio in quanto, secondo la tradizione culturale e costituzionale anglosassone, esso costituiva una sorta di illecita intrusione nella sfera privata della vita dei cittadini.

172. I poliziotti consideravano i piccoli delinquenti come 'selvaggina in una riserva'; li sorvegliavano e li lasciavano liberi fino a che fossero divenuti abbastanza importanti da giustificare lo sforzo di catturarli.

173. Allo scopo di separare la polizia dalla classe che avrebbe dovuto sorvegliare (che era, poi, quella della maggior parte dei suoi componenti), venne escogitata una serie di espedienti disciplinari. I poliziotti erano addestrati con stile militare, obbligati a indossare uniformi e imbevuti di lealismo verso il corpo. Ricevevano un salario regolare che doveva renderli indipendenti dalla loro comunità. Erano alloggiati in caserme o dormitori presso gli uffici di polizia. Si proibiva loro di frequentare ritrovi della loro classe, come birrerie o teatri popolari. Era loro vietato, inoltre, di imprecare e di usare espressioni gergali. Il regolamento imponeva un comportamento sobrio e imparziale in tutti i rapporti con la gente e vietava rigorosamente forme di fraternità o familiarità. Come si può immaginare, molte furono le difficoltà nel trovare uomini capaci di tanto autocontrollo; in pratica si chiedeva loro di rinunciare a abitudini, linguaggio e lealtà verso la propria classe.

174. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 29.

175. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 30.

176. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 233.

177. Ibidem, pag. 233.

178. Questo sviluppo segnò l'evento finale nella transizione dal crimine pre-moderno a quello moderno, poiché la criminalità moderna avrebbe determinato la nascita della scienza criminologica.

179. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 233.

180. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 206. Molti finivano in carcere solo perché erano poveri, perché non potevano pagare le ammende comminate dal giudice di polizia.

181. Ibidem, pag. 209.

182. Ibidem, pag. 209.

183. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 210.

184. Ibidem, pag. 210.

185. Ibidem, pag. 101.

186. Ibidem, pag. 211. Howard si era servito del termine 'famiglia' per riferirsi ai detenuti; al sorvegliante ci si riferiva come al 'padre di famiglia'.

187. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 211-212.

188. La più fantasiosa consisteva in una botola nascosta attraverso la quale, dietro compenso, si consentiva ai detenuti maschi di entrare nei reparti femminili.

189. Ai guardiani venne vietato di conversare con i prigionieri per motivi che non fossero connessi ai loro doveri; inoltre, non potevano intrattenere rapporti al di fuori delle mura del carcere con amici o parenti dei detenuti, con la scusa di fare favori ai reclusi stessi.

190. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 214.

191. Ibidem, pag. 214.

192. Avendone già esaminato le caratteristiche nel capitolo dedicato all'esperienza statunitense, eviteremo inutili ripetizioni circa le sue caratteristiche fondamentali.

193. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 216.

194. Analizzeremo più dettagliatamente in seguito, a livello Europeo, l'ampia discussione circa la scelta della migliore forma di detenzione, e le posizioni di entrambe gli schieramenti. Per adesso ci limitiamo a sottolineare le motivazioni più influenti nella sola Inghilterra.

195. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 217.

196. Il carcere modello di Pentonville era un laboratorio sperimentale che si prefiggeva la modificazione del comportamento. I prigionieri, prima di essere deportati nella colonia di Van Diemen in Australia, subivano un trattamento 'speciale', basato, appunto, sull'isolamento ed il silenzio più rigorosi.

197. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 217. Charles Dickens, nelle sue American Notes, si pronunciò contro il sistema di Philadelphia: "Ritengo che questa manomissione lenta e quotidiana del cervello sia incommensurabilmente peggiore di qualsiasi tortura fisica; perché i segni e i simboli orrendi che essa lascia non sono visibili all'occhio e al tatto come le cicatrici della carne, perché le ferite che produce non sono alla superficie e le grida che estorce non possono essere udite da orecchie umane". (Ibidem, pag. 218).

198. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 219.

199. Ibidem, pag. 219.

200. Ibidem, pag. 220. Il regime adottato incontrava molti favori sia per la sua severità, sia per le potenziali capacità di emendare i detenuti. I sostenitori di Pentonville amavano dire che esso era in grado di educare proprio perché era severo. Si riteneva che i criminali, che per lungo tempo si erano dedicati ad una vita criminosa o ai piaceri sessuali, necessitassero un forte dolore che li costringesse a riflettere; vi doveva essere qualcosa di esterno che li affliggesse, che spezzasse il loro spirito, qualche sofferenza corporale o spirituale, prima che la voce della coscienza, ancora debole, potesse farsi sentire.

201. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 221. Un detenuto sosteneva che qualcosa gli stesse divorando il naso; un altro riteneva che gli fossero entrati degli insetti nel cervello, vedeva la propria madre nella sua cella insieme e affermava che lo spirito di suo padre era entrato in lui; un altro detenuto venne portato in infermeria e poi in manicomio, essendo stato rinvenuto più volte nella sua cella mentre borbottava parole incoerenti sulla regina.

202. Ibidem, pag. 12.

203. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 222.

204. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 89.

205. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 185.

206. Ibidem, pag. 185.

207. Ibidem, pag. 185.

208. Ibidem, pag. 185.

209. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 127.

210. Ibidem, pag. 128.

211. Tra i Lumpen troviamo contadini cacciati dalle loro terre da recinzioni ed affitti esorbitanti, operai licenziati dalle piccole botteghe che scomparivano davanti all'impresa di massa, servitori congedati da gentiluomini indebitati e manovali o altri lavoratori marginali di ogni sorta di attività pre-industriale.

212. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 129.

213. Ad esempio 'esattori' degli usurai o buttafuori presso qualche osteria.

214. Ad esempio, un ladro poteva introdursi illegalmente in tutte le case operaie che voleva, se conosceva le abitudini di lavoro dei loro abitanti. Infatti, la nuova disciplina imposta dal sistema di fabbrica teneva la gente lontana da casa a orari regolari.

215. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 130-131. Era l'ultimo elemento a rendere in qualche modo credibile la convinzione che esistesse una classe criminale separata. Tutte le grandi città comprendevano quartieri di criminali, abitati esclusivamente dai membri di questa popolazione particolare.

216. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 300.

217. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 304.

218. Ovunque si vedono due classi ben distinte di uomini, e di questi gli uni si incontrano sempre sui seggi degli accusatori e dei giudici, gli altri sui banchi dei prevenuti e degli accusati; il che si spiega col fatto che questi ultimi, per difetto di risorse e di educazione, non sono in grado di rimanere nei limiti della legalità. Il linguaggio stesso della legge è inadeguato, poiché è il discorso di una classe ad un'altra, che non ha né le stesse idee né gli stessi termini.

219. Il nuovo crimine professionale rivelava caratteristiche che lo distinguevano dalle forme precedenti, più tradizionali di criminalità. Innanzitutto, la classe dei criminali di professione era divisa in molti sottogruppi, ciascuno dedito alla propria specialità criminale, ciascuno attivo all'interno di un certo ambiente, ciascuno dotato di una serie di consuetudini ed abitudini finalizzate allo svolgimento delle proprie attività illegali. In secondo luogo, si perpetravano molti crimini ricorrendo a qualche inganno per mascherare l'identità ed i metodi dei loro autori, ed anche per nascondere l'atto criminoso. L'uso di travestimenti rifletteva un'attenta pianificazione a lungo termine del crimine, oltre alla consapevolezza dei possibili rischi connessi all'impresa particolare. Il travestimento dimostrava anche che il criminale aveva impiegato del tempo ad osservare la sua vittima, per lasciare poco o nulla la caso. Infine, la nuova criminalità professionale, diversamente da quella classica, faceva frequentemente uso di vari complici per commettere l'atto illegale. Per tradizione, il crimine di strada provocato da fame o da disoccupazione era un atto individuale, e per questo chi lo commetteva veniva in genere preso subito. Invece il crimine professionale era commesso spesso da un gruppo, una banda non tanto numerosa da richiamare l'attenzione su di sé, ma nemmeno tanto piccola da lasciare isolati o senza difesa i suoi membri. Tutto ciò confermava la convinzione dei contemporanei dell'esistenza di una classe criminale professionale, dato che i crimini dettati dalla disperazione, provocati da un bisogno immediato, non rivelavano mai simile accurata premeditazione, e dato che era impossibile credere che un crimine non programmato con largo anticipo facesse uso di esche, pali e altri generi di complici al fine di garantire il successo dell'azione. Si riteneva che i criminali a tempo pieno trascorressero tanto tempo a progettare la loro fuga dal luogo del delitto quanto ne passavano a progettare il crimine stesso. Si andarono così affermando alcune delle forme più recenti di criminalità, come la frode, la falsificazione e la contraffazione, in cui sia l'inganno sia la progettazione di gruppo erano parte integrante della natura del crimine.

220. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 131. In effetti si credeva che i criminali di professione fossero parte di una popolazione la cui esistenza era causa di un maggiore impoverimento della società in generale. Gli osservatori contemporanei, cioè, scambiarono l'effetto per la causa.

221. Ibidem, pag. 136.

222. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 137.

223. Gli scoppi di violenza politica si erano sempre verificati, anche in passato, ma mai, prima di adesso, erano stati scatenati da una massa organizzata intorno ad obiettivi politici di lungo termine.

224. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 137.

225. Ibidem, pag. 137-138.

226. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 139. L'episodio più cruento risale al 1819 quando, durante una manifestazione pacifica di 60.000 persone a Manchester, l'esercito, incapace di controllare la massa, causò la morte di 11 persone ed il ferimento di circa 600.

227. Ibidem, pag. 141.

228. Ibidem, pag. 141. Tali teorie furono messe alla prova con l'istituzione di un corpo di polizia fluviale nel 1798. Si trattava di un corpo di funzionari retribuiti, pagato con un fondo istituito dai mercanti londinesi per difendersi dai piccoli e grandi furti che subivano sui moli. Il corpo ebbe un tale successo nel reprimere questi crimini che il Thames River Act del 1800 trasformò la polizia fluviale in una istituzione pubblica.

229. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 142.

230. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 142.

231. Oltre, ovviamente, ad avere caratterizzato la seconda metà del XVIIIº secolo.

232. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 88.

233. Ibidem, pag. 88.

234. Da questo momento in poi l'attacco alle prigioni e la liberazione dei detenuti divennero una costante di ogni sommossa o insurrezione popolare, assalti che, diretti in genere alla liberazione dei 'politici' o comunque di capipopolo, briganti, ecc. in qualche modo legati al sentimento delle masse, aprivano le celle, senza falsi moralismi e guidati da un acuto senso di classe, anche di ladruncoli, vagabondi, ecc.

235. In seguito, i due francesi accuseranno il regime di assoluta solitudine di essere superiore alle possibilità di sopportazione umana; esso distrugge, infatti, il criminale senza alcuna pietà e quindi, invece di curare lo spirito, lo uccide.

236. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 201.

237. Ibidem, pag. 201.

238. Ibidem, pag. 202.

239. Il carcere è indubbiamente un luogo privilegiato di osservazione dei criminali.

240. Questa visione di un penitenziario maltusiano è confermata dalla presenza di alcune costanti storiche; se nel libero mercato l'offerta di forza lavoro eccede la domanda, determinando forte disoccupazione e abbassamento del livello salariale, il grado di sussistenza all'interno dell'istituzione tende automaticamente a ridursi: il carcere, cioè, torna ad essere luogo di 'distruzione' della forza lavoro; viceversa, ad una offerta di lavoro sostenuta, ed al conseguente incremento salariale, il carcere non solo tende a mitigare la sua capacità distruttiva, ma anche ad impiegare utilmente la forza lavoro coatta, riciclandola, dopo averla riqualificata, nel libero mercato.

241. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 91.

242. Ibidem, pag. 91.

243. Non si considerava che già questo tenore di vita era spesso inferiore al livello minimo di sussistenza.

244. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 91.

245. NEPPI MODONA GUIDO, "Istituzioni penitenziarie e società civile", in "LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA", a cura di Margherita Ciacci e Vittoria Gualandi, Società editrice il Mulino, Bologna, 1977, pag. 281-282.

246. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 62.

247. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 179-180.

248. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 180.

249. In molti paesi si riteneva che nutrire i detenuti non fosse un reale obbligo per lo Stato; il pane veniva fornito solo in casi di estrema necessità. Tutti i prigionieri erano ammassati in luoghi oscuri e sporchi, l'ozio regnava insieme ad un'aperta depravazione del linguaggio e della condotta.

250. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 187.

251. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 187.

252. Ibidem, pag. 180-181. Spesso, inoltre, il legislatore rifiutava i fondi necessari ai più urgenti lavori di costruzione. Le celle erano fredde, oscure, piene di sporcizia e trasudanti il più insopportabile fetore; non vi era modo di evitare i contagi; il cibo era insufficiente ed i detenuti, la maggior parte dei quali era incatenata, non avevano alcuna possibilità di lavorare. Che si trovava in carcere per qualche reato da nulla rischiava di pagare il suo errore per tutta la vita, segnato da qualche malattia incurabile. Il numero dei condannati impediva che la pena fosse appropriata ed efficace.

253. Ibidem, pag. 182.

254. Si sosteneva che le condizioni dei detenuti erano troppo buone, e che quindi essi preferivano rimanere in carcere piuttosto che tornare alla loro vita abituale, fatta di fame, miseria e duro lavoro. Molti condannati, quindi, non avevano alcun timore della pena, anzi alcuni commettevano reati proprio allo scopo di essere rinchiusi.

255. I detenuti dovevano avere diritto, sì, ad una quota nel progresso della civiltà, ma ad un gradino più basso del resto della società.

256. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 184.

257. Ibidem, pag. 185.

258. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 185. Le misere condizioni della classe operaia, però, riducevano il tenore di vita nelle carceri assai al di sotto del minimo vitale ufficialmente riconosciuto.

259. Ibidem, pag. 186.

260. Ibidem, pag. 187.

261. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 188.

262. Ibidem, pag. 189.

263. Ibidem, pag. 190. Molti proponevano di limitare il sonno a sette ore al giorno, di far osservare rigorosamente gli orari prestabiliti, di fornire letti appositamente duri, di fornire una dieta di pane ed acqua e di vestire i detenuti con abiti particolari e di grossolana consistenza.

264. La giustificazione morale a tale impostazione venne fornita dal fatto che il lavoro produttivo avrebbe interferito con il mantenimento della disciplina e con lo scopo della correzione morale, essendo necessario riunire i detenuti insieme.

265. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 191.

266. NEPPI MODONA GUIDO, "Istituzioni penitenziarie e società civile", in "LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA", op. cit., pag. 282.

267. FOUCAULT MICHEL, "Dalle torture alle celle", op. cit., pag. 45.

268. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 192. I detenuti cercavano in ogni modo di sfuggire a questa macchina che esauriva totalmente le energie e che costituiva una reale tortura; l'amministrazione ricorreva alla fustigazione come rimedio per le malattie che i detenuti si procuravano volontariamente per evitare di lavorare.

269. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 76.

270. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 193.

271. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 141. Carcere che, d'altro canto, al cospetto della crisi ormai consumata, come vedremo, del bagno penale, si avvia a diventare quasi ovunque il luogo pressoché esclusivo di pena; l'unica eccezione di rilievo è costituita dall'Inghilterra, dove l'abitudine di deportare oltremare i colpevoli dei reati più gravi limitò la 'questione carceraria' alla detenzione preventiva e ai condannati a pene brevi.

272. Ad esempio, il sistema Virginiano prevedeva l'uso del sistema philadelphiano durante un periodo limitato, nella prima fase della pena, per poi passare a quello auburniano. Molti pensatori si schierarono a favore di un sistema misto: il sistema di Auburn veniva preferito nel caso di lunghe sanzioni detentive, in quanto permetteva un più produttivo rendimento industriale e la possibilità di partecipare ai riti religiosi che si svolgevano in comune; l'ipotesi philadelphiana veniva invece preferita nel caso di detenzioni di breve durata, in cui era possibile ricorrere solo a mezzi di intimidazione, non a quelli correttivi. Comunque, l'accento posto sulla necessità dell'isolamento, unico valore su cui tutti i pensatori concordano, sia esso garantito dalla separazione continua o dal silenzio, maschera una concezione del carcere come strumento intimidatorio, di controllo e di prevenzione generale. Il carattere essenziale che emerge da queste considerazioni è che, nel corso di tutto l'Ottocento, l'obiettivo di fondo fu perseguire il peggioramento delle condizioni di vita all'interno del carcere, per produrre una adeguata impressione sullo 'spirito' dei rei, ma soprattutto dei rei potenziali. Il 'disprezzo' per una forza-lavoro perennemente sovrabbondante finirà per fare della detenzione uno strumento terroristico di controllo sociale.

273. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 92.

274. Ibidem, pag. 92.

275. I detrattori del sistema di Auburn sostenevano che, poiché vi sono molti modi di comunicare, e poiché i reclusi, perpetuamente tentati dalla continua vicinanza, "pongono tutta la loro scaltrezza nel parlare senza muovere le labbra, con sussurri, con occhiate, con cenni ecc., si impone la necessità di una disciplina di ferro, gestita in modo spesso arbitrario dai guardiani". (in CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 144). Si riteneva cioè che il regime auburniano potesse sopprimere solo la voce, mai la parola, e comunque a prezzo di una violenza gratuita ed arbitraria nei confronti dei reclusi.

276. Nel sistema philadelphiano invece, almeno secondo i suoi sostenitori, i custodi, sicuri di sé, non feroci, non sospettosi, possono mostrare sempre calma e dolcezza; essi non appaiono mai al cospetto del detenuto se non per alleviare la sua solitudine e per provvedere ai suoi bisogni, e per dirgli quelle parole che lo riconciliano al suo misero stato.

277. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 131.

278. Lo spirito, tradito, della riforma consisteva in un processo sociale, una questione di persuasione e di esempio, più che di forza. Ogni punizione doveva puntare ad un ritorno, il più rapido possibile, del criminale nel benefico ambiente morale della società.

279. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 142.

280. Ibidem, pag. 142.

281. La condotta, infatti, negli U.S.A., era valutata attraverso un parametro oggettivo, cioè la quantità di lavoro svolta, e la stessa prassi allora introdotta della liberazione anticipata era legata a questo parametro.

282. Dettato dalla sovrabbondante presenza di manodopera libera che causava una disoccupazione senza precedenti.

283. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 93.

284. I sostenitori del sistema auburniano, spesso, più che dalle preoccupazioni per la salute dei detenuti, erano mossi dalle preoccupazioni finanziarie dei vari governi, per l'eccessiva spesa che l'introduzione di un sistema integralmente cellulare avrebbe comportato. Tale argomentazione era però una lama a doppio taglio: se il sistema philadelphiano richiedeva grossi investimenti al momento della costruzione degli stabilimenti cellulari, nel lungo periodo tali costi sarebbero stati ammortizzati, poiché necessitava un numero esiguo, molto minore che nel sistema di Auburn, di custodi per tenere a bada un gran numero di prigionieri.

285. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 14. Per la verità, anche negli Stati Uniti, il rapporto diretto tra carcere e lavoro produttivo ha avuto un'incidenza quantitativa e temporale molto limitata: più che di carcere produttore di merci di dovrebbe parlare di carcere come 'produttore' di uomini, nel senso di trasformazione del criminale ribelle in soggetto disciplinato ed addestrato al lavoro di fabbrica.

286. Con l'evidente e tristemente nota eccezione della pena di morte, abbandonata comunque, perlomeno nei paesi civili, negli anni a seguire.

287. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 95.

288. Il primo dei quali fu quello di Francoforte, nel 1847.

289. L'introduzione delle macchine ed il rapido prodursi di una grande sovrappopolazione a seguito della rivoluzione industriale, respinsero sempre più indietro ogni ipotesi di carcere produttivo e, allo stesso tempo, risocializzante.

290. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 93.

291. In America prevalse il sistema auburniano in seguito, come abbiamo visto, al grande fabbisogno di manodopera che si era sviluppato, prevalentemente, nei nuovi e fiorenti Stati del Nord-Est.

292. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 76.

293. Il lavoro in carcere era anche ostacolato da obiettive considerazioni tecniche: nell'età in cui nasceva la vera e propria fabbrica moderna, con i suoi costosi ed ingombranti macchinari, con lo svilupparsi di una prima più strutturata organizzazione del lavoro, solo una politica che avesse teso con estrema decisione a mutare il carcere in fabbrica, investendovi enormi capitali, avrebbe potuto sostenere l'efficienza del lavoro dei detenuti.

294. Inoltre, anche nei luoghi dove si tentavano le riforme, si continuava spesso a far uso degli antichi stabilimenti, che raramente erano adatti al sistema dell'isolamento.

295. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 223.

296. Ibidem, pag. 224.

297. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 222-223.

298. In questo senso, si rileva una sorta di 'educazione' al lavoro salariato come unico mezzo per soddisfare le proprie esigenze; a lungo termine, il non-proprietario verrà reso omogeneo al criminale, il criminale omogeneo al carcerato, il carcerato omogeneo al proletario. La forma del proletario viene imposta come unica condizione esistenziale, nel senso di unica condizione per la sopravvivenza del non-proprietario. Il carcerato viene dunque ridotto a puro soggetto del bisogno; tale soggetto viene poi educato a proletario.

299. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 209.

300. Ibidem, pag. 209.

301. Ibidem, pag. 209.

302. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 210.

303. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 332.

304. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 192.

305. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 257.

306. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 193.

307. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 255.

308. Ibidem, pag. 225-226. I fautori della segregazione cellulare sostenevano che questo sistema fosse in grado di operare con automatica giustizia: infatti, l'efficacia di tale pena poteva essere misurata dal fatto che ognuno temeva la solitudine in proporzione alla propria miseria spirituale, così che i maggiori criminali avrebbero sofferto maggiormente, mentre coloro che non erano caduti così in basso e che avevano quindi più possibilità di ravvedersi, avrebbero sentito la sofferenza dell'isolamento come una grazia.

309. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 226.

310. Ibidem, pag. 226.

311. Ibidem, pag. 230.

312. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 304.

313. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 182.

314. Ibidem, pag. 182. Nel 1853 era scoppiato uno scandalo nel carcere di Birmingham, dove il suicidio di un ragazzo di 15 anni aveva rivelato a quale punto di sadismo fosse arrivato il comportamento del direttore.

315. Ibidem, pag. 182.

316. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 182-183.

317. Ibidem, pag. 183.

318. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 227.

319. Ibidem, pag. 228.

320. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 223.

321. Ibidem, pag. 223.

322. Ibidem, pag. 223.

323. Ibidem, pag. 223.

324. Ibidem, pag. 224.

325. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 225.

326. Ibidem, pag. 226.

327. Ibidem, pag. 226.

328. Ibidem, pag. 226.

329. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 226-227.

330. Ibidem, pag. 227.

331. Fino a questa data la deportazione, seppure ufficialmente abolita, veniva saltuariamente adottata per far fronte a particolari bisogni di certe colonie. In verità, l'ultimo caso di deportazione è successivo alla data poc'anzi riportata: infatti, l'Australia occidentale insisteva per avere nuova forza lavoro a buon mercato, e così, tra il 1850 ed il 1868, circa 10.000 prigionieri vi furono inviati.

332. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 162.

333. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 162.

334. Ibidem, pag. 162. Inoltre, la condanna alle galere non aveva mai del tutto soppiantato quella ai lavori pubblici.

335. Ibidem, pag. 163.

336. Da ciò deriva la preferenza, spesso esternata in esplicite richieste al momento della condanna, dei condannati per il bagno rispetto alle carceri, specie se cellulari. Esplicativo è il caso di un individuo che, condannato alla reclusione, aveva impugnato la sentenza come ingiusta, affermando che gli competeva la pena dei lavori forzati, più 'grave' nella scala penale, e non quella della detenzione.

337. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 164.

338. Era stabilito che tutti i forzati avessero la testa rasata e nel bagno fossero tenuti fermi alla catena sul loro tavolato ed a bordo di notte nel rispettivo ramale, ed al proprio banco. Una delle pene disciplinari più gravi era la bastonatura; pochi erano quelli che non dovevano recarsi in ospedale dopo averla subita.

339. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 167.

340. Il popolo, abituato a vedere i galeotti ogni giorno, non riceveva più alcuna 'impressione' da quello spettacolo; anzi, la sprezzante indifferenza con cui la maggior parte dei rei affrontava la pena faceva abbassare, nella estimazione degli spettatori, il valore stesso della pena.

341. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 170.

342. Ibidem, pag. 174.

343. Ibidem, pag. 174.

344. Ibidem, pag. 178.

345. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 144.

346. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 63.

347. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 145.

348. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 177.

349. Ad esempio le prigioni di Stato dell'Ancien Règime, il simbolismo della Bastiglia e della sua presa, le prigioni rivoluzionarie, le memorie del Pellico, le repressioni dei movimenti popolari.

350. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 178.

351. Ibidem, pag. 178.

352. Ibidem, pag. 178.

353. Ibidem, pag. 178-179.

354. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 179.

355. Rimase così il privilegio della detenzione separata per le classi superiori, e solamente nella seconda metà del secolo essa si trasformò da privilegio degli strati superiori a forma punitiva particolare per certi reati.

356. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 227.

357. Ibidem, pag. 227.

358. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 236. Non era neppure casuale che queste istituzioni statali assomigliassero tanto alle fabbriche, che trassero ispirazione dalla concezione d'autorità dei creatori del penitenziario, dalla fiducia nella possibilità umana di migliorare attraverso la disciplina. Fu proprio questa somiglianza con una fabbrica, una casa di correzione o un manicomio ben organizzati a rendere il penitenziario credibile, nonostante la sua evidente incapacità di riformare o prevenire. Dopo il 1850 sfidare la logica del penitenziario significava sfidare non solo una singola istituzione, ma l'intera struttura dell'imperante sistema industriale.

359. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 150.

360. Ibidem, pag. 150.

361. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 282.

362. Gli spettatori popolani, come al tempo dei supplizi pubblici, continuano con i condannati i loro ambigui scambi di ingiurie, di minacce, di incoraggiamento, di segni di odio o di complicità. In questo evento c'è qualcosa dei riti del capro espiatorio che si colpisce scacciandolo; gioco della verità e dell'infamia, sfilata della notorietà e della vergogna, invettive contro i colpevoli che vengono smascherati e, d'altra parte, gioiosa confessione dei crimini. Si cerca di riconoscere i criminali che hanno avuto la loro gloria; i fogli volanti ricordano i delitti; i giornali, in anticipo, danno il loro nome e raccontano la loro vita, talvolta ne descrivono i tratti e l'abbigliamento, in modo che la loro identità non possa sfuggire: programmi per gli spettatori.

363. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 286.

364. Ibidem, pag. 288. Il pio teatro che i fogli volanti immaginavano, e dove il condannato esortava la folla a non imitarlo, diviene una scena minacciosa, dove la folla è chiamata a scegliere tra la barbarie dei carnefici, l'ingiustizia dei giudici e la disgrazia dei condannati. L'ordine attuale non durerà per sempre; non solo i condannati saranno liberati e ritroveranno i loro diritti, ma i loro accusatori verranno a prendere il loro posto. Tra i criminali ed i loro giudici verrà il giorno del grande giudizio rovesciato. L'armata del disordine, atterrata dalla legge, promette di ritornare.

365. Un corridoio centrale la divide in tutta la sua lunghezza: da una parte e dall'altra sei celle, dove i detenuti sono seduti di faccia. I loro piedi vengono introdotti entro anelli, le gambe sono fermate con ginocchiere di metallo. La cella non ha alcuna finestra, ed è interamente foderata di latta. Dalla parte del corridoio la porta di ogni cella è fornita di un piccolo sportello diviso in due compartimenti, uno per il cibo, l'altro per la sorveglianza. L'apertura e la disposizione obliqua degli sportelli fanno sì che i guardiani possano controllare ed ascoltare costantemente i prigionieri, senza che questi ultimi possano vedersi o sentirsi tra loro, in modo che la stessa vetture possa trasportare, senza inconvenienti, detenuti diversi, ad esempio donne e uomini, adulti e bambini.

366. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 145.

367. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 230.

368. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 231.

369. Ibidem, pag. 231.

370. Ibidem, pag. 231.

371. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 232.

372. Le critiche rivolte alle prigioni erano, come abbiamo rilevato, numerose. Si sosteneva che esse non facessero diminuire il tasso di criminalità; che provocassero la recidiva, visto che i detenuti usciti di prigione avevano maggiori probabilità di prima di ritornarvi, in seguito alle condizioni loro poste, come la sorveglianza costante della polizia, la residenza obbligata o le interdizioni di soggiorno, e il passaporto che dovevano far vedere ovunque andassero e che menzionava la condanna subita, escludendoli automaticamente dalla possibilità di trovare un impiego onesto; che invece di rimettere in libertà individui corretti, spargessero tra la popolazione pericolosi delinquenti. Inoltre si riteneva che esse fabbricassero inevitabilmente delinquenti, in seguito al tipo di esistenza, completamente desocializzante e non adatta al reinserimento nella società, che facevano condurre ai detenuti, ed alle costrizioni violente cui li sottoponevano. Tali costrizioni e abusi di potere fanno sorgere nel condannato un sentimento di ingiustizia; quando un condannato viene sottoposto a sofferenze che la legge non ha ordinato e neppure previsto, entra in uno stato di collera e di rifiuto verso tutto ciò che lo circonda. Le prigioni erano accusate di favorire l'organizzazione di un vero e proprio milieu di delinquenti, solidali fra loro, gerarchizzati, pronti per future complicità. In questo ambiente si forma una vera e propria educazione del giovane delinquente, alla prima condanna, da parte dei delinquenti più abili. Infine, la prigione era accusata di fabbricare delinquenti anche in maniera indiretta, facendo cadere in miseria la famiglia del detenuto, e costringendola, verosimilmente, a commettere reati per sopravvivere.

373. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 232.

374. I riformatori, cioè, stabilirono, come abbiamo già sottolineato, un rapporto tra la crescente marea di crimini contro la proprietà e l'erosione delle economie contadine, familiari e artigianali all'interno delle quali i rapporti sociali erano di tipo paternalistico.

375. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 232-233.

376. Ibidem, pag. 233.

377. Ibidem, pag. 233.

378. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 233-234.

379. Beaumont e Tocqueville, durante il loro viaggio negli Stati Uniti nel 1835, notarono come, mentre la società offriva un esempio della più ampia libertà, le prigioni offrivano invece lo spettacolo del più totale dispotismo e di totalitarismo senza precedenti. L'avvento della democrazia fu caratterizzato da una crescente intolleranza nei confronti delle minoranze devianti. La tirannia della maggioranza assunse come propri simboli e strumenti il silenzio, le file indiane ed il nerbo di bue del penitenziario di Auburn.

380. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 235.

381. Quanto radicato fosse tale desiderio è dimostrato dalla fiducia espressa dalle classi medie nei confronti di dichiarazioni di pentimento fatte dai detenuti e chiaramente artificiose.

382. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 235. I detenuti non erano le sole persone il cui diritto ad essere trattati come esseri umani dipendeva dalla loro sottomissione agli sforzi di miglioramento morale. Ogni tentativo di innalzare il tenore di vita, di migliorare l'educazione o le condizioni di salute dei poveri andava di pari passo con un tentativo di colonizzare la loro mente. In base a questa tradizione, l'umanitarismo era inestricabilmente collegato all'esercizio del potere. L'allargamento degli obblighi dello stato nei confronti dei cittadini era invariabilmente giustificato con l'argomentazione che si intendeva in tal modo modificare la mentalità delle classi inferiori per ridurle entro i confini di quel modello caricaturale di rettitudine ascetica in cui i ricchi si riconoscevano.

383. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 222.

384. Ibidem, pag. 223.

385. Ibidem, pag. 223.

386. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale", op. cit., pag. 225.

387. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 185. Secondo questa nuova teoria, la liberazione condizionale era più produttiva anche sotto altri aspetti; essa produce infatti una notevole economia. Per quanto si perfezionino i sistemi del lavoro carcerario ed il modo di liquidarne i profitti, i prodotti dell'industria carceraria saranno sempre inferiori alle spese che essa occasiona. Invece la liberazione condizionale ridona nel minor tempo possibile alla società tutti coloro che sono veramente capaci di produrre qualche cosa e trattiene negli stabilimenti carcerari unicamente coloro che sono incapaci di onesto lavoro.

388. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 229.

389. Ibidem, pag. 230.

390. I cui più illustri rappresentanti furono P. Rossi, A. Rosmini, G. Carmignani, F. Carrara.

391. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 85.

392. Ibidem, pag. 85.

393. Perché la volontà sia colpevole occorre che sia libera; di qui l'importanza attribuita al libero arbitrio.

394. Alla prima classe appartengono le teorie che derivano dal diritto naturale, sia che assegnino alla società il diritto di difesa individuale, sia sociale, sia che ricorrano alla dottrina del contratto sociale; alla seconda classe appartengono le teorie che si rifanno al principio dell'utilità individuale o generale.

395. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 234.

396. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 27.

397. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 239.

398. Ibidem, pag. 240.

399. Ibidem, pag. 241.

400. Ibidem, pag. 245.

401. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 250. Questo perché la malvagità, finché resta potenziale, non può essere dimostrata; inoltre perché il solo timore di un danno non può essere motivo di diminuzione del diritto altrui.

402. È proprio contro il metodo astratto da qui in poi adottato che vedremo opporsi la corrente positivista.

403. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 259. Due forze lo costituiscono: la morale e la fisica. E tre sono le regole che debbono osservarsi per la sua imputazione a carico di un soggetto: la qualità, la quantità, il grado. La qualità è il titolo criminoso del delitto; la quantità è la sua gravità politica; il grado è la gravità concreta del crimine, considerato nella presenza o nella deficienza dei suoi elementi costitutivi. Influiscono sul grado, dal punto di vista dell'intelletto, le cause fisiologiche, come l'età, il sesso, la pazzia, e le cause ideologiche, come l'ignoranza e l'errore, e dal punto di vista della volontà la coazione, l'impeto degli affetti e l'ubriachezza.

404. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 187.

405. Ibidem, pag. 187.

406. La legalità, la materialità ed offensività del fatto, la colpevolezza, l'imputabilità, la necessità che la pena sia personale, determinata, proporzionata.

407. Lasciando così la società indifesa contro i delinquenti pericolosi ma non imputabili.

408. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 86.

409. BORZACCHIELLO ASSUNTA, "L'antropologia criminale e l'idea del delinquente", in "RASSEGNA PENITENZIARIA E CRIMINOLOGICA", Fondata da G. Altavista, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, Nuova serie, anno 1, Gen-Ago 1997, pag. 37.

410. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 166.

411. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 167.

412. È, dunque, ancora il principio dell'utilità sociale che sta alla base del diritto di punire.

413. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 168.

414. Infatti, o agiamo immediatamente senza deliberare, e allora la volontà è determinata dal primo motivo che ci si presenta; oppure la nostra volontà resta per un certo periodo sospesa, mentre deliberiamo tra vari motivi, e allora è l'idea del più probabile vantaggio quella che, prevalendo sulle altre, determina l'azione.

415. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 169.

416. Ibidem, pag. 170.

417. Ibidem, pag. 171.

418. Ibidem, pag. 171.

419. L'imputazione penale è una reazione naturale della società contro l'autore di un fatto, considerato come causa prossima di esso, sebbene a sua volta determinato da cause che non dipendono da lui.

420. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 172. Per la stessa ragione è tutt'altro che ingiusto prendere provvedimenti opportuni anche contro i pazzi, sebbene la pazzia sia senza dubbio uno stato involontario. D'altra parte tutti i delinquenti sono uomini, il cui cervello è o ad intervalli o per sempre turbato.

421. Ibidem, pag. 172.

422. Ibidem, pag. 172.

423. Più le singole teorie venivano affinate con precisione quasi matematica, tanto più la realtà del diritto penale si allontanava. Il delinquente si stava riducendo ad una pallida ombra che appariva dietro i cancelli di una filosofia superata.

424. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 231.

425. Per questo movimento naturalistico, che afferma la supremazia dell'indagine sperimentale, dell'induzione sulla deduzione, solo sui fenomeni e sull'esperienza può elaborarsi un sapere scientifico. Regolatore di tutti i fenomeni naturali è il principio di causalità, in base al quale avrebbe dovuto spiegarsi ogni fatto della vita fisica e psichica, individuale e sociale, compresa la delinquenza.

426. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 231.

427. Secondo l'agnosticismo, il pensiero umano non può superare la cerchia dei fenomeni e non può conoscere l'essenza intima della realtà.

428. Ibidem, pag. 272.

429. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 273.

430. Ibidem, pag. 231.

431. Questa concezione prescinde da ogni concetto di giustizia morale e si accosta invece all'utilitarismo.

432. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 232.

433. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 67.

434. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 236.

435. Ibidem, pag. 236.

436. Ibidem, pag. 237.

437. Nei confronti di quei delinquenti verso i quali l'intimidazione, ovvero la determinazione a non commettere altri delitti, non sia in grado di operare efficacemente, è lecito infliggere delle pene che mettano in condizione di non nuocere, che eliminino la loro possibilità fisica di delinquere. Un simile ordine di idee conduce a porre la funzione penale sotto l'egida dell'idea di una difesa sociale alle cui esigenze devono essere subordinati i diritti individuali, e a ritenere necessarie pene come la morte o l'ergastolo.

438. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 237.

439. Ibidem, pag. 239.

440. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 240.

441. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 240. Si riteneva che la trasformazione del delinquente poteva avvenire non certo attraverso l'intimidazione e la dura disciplina che infrange lo spirito, ma solo attraverso l'educazione.

442. Ibidem, pag. 241.

443. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 241.

444. Ibidem, pag. 241.

445. BORZACCHIELLO ASSUNTA, "L'antropologia criminale e l'idea del delinquente", in "RASSEGNA PENITENZIARIA E CRIMINOLOGICA", op. cit., pag. 39.

446. BORZACCHIELLO ASSUNTA, "L'antropologia criminale e l'idea del delinquente", in "RASSEGNA PENITENZIARIA E CRIMINOLOGICA", op. cit., pag. 40.

447. Ibidem, pag. 40.

448. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 275.

449. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 278.

450. L'uomo è l'essere libero per eccellenza, come dimostra il freno che egli sa opporre alle passioni.

451. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 286.

452. Victor Hugo aveva già sviluppato questa tesi, seppure dall'opposto punto di vista romantico, nella sua opera, 'I miserabili'.

453. Lombroso spostò completamente l'interesse della ricerca dal reato, come entità punibile oggettiva, quasi impersonale dei classici, alla personalità del suo autore, al suo ambiente, ai suoi fattori biologico-costituzionali, elementi costituenti le cause primarie del comportamento criminale.

454. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 289.

455. Ibidem, pag. 290.

456. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 291.

457. Non si guarda ai soli e semplici caratteri morfologici, ma all'intera personalità bio-psico-sociale del delinquente, dalle forme esteriori alla funzione, dal metabolismo alla psiche, dal comportamento ai rapporti sociali.

458. Nel feto queste forme appaiono normalmente, ma poi, di solito, si evolvono e si trasformano. Il riferimento atavistico venne esteso anche ai fenomeni psichici propri della criminalità, che vennero posti in rapporto con le manifestazioni degli uomini primitivi, specialmente l'impulsività, l'irritabilità, la ripugnanza ad un lavoro continuato disciplinato e metodico. L'uomo delinquente sarebbe così l'equivalente moderno dell'uomo della pietra e delle palafitte, del quale avrebbe tutte, o quasi, le caratteristiche fisiopsichiche.

459. Così si spiegavano, secondo lo psichiatra, anatomicamente, le asimmetrie e disarmonie di vario genere, le enormi mandibole, i grandi zigomi, le arcate sopraccigliari spiccate, le pieghe palmari uniche, la maggiore ampiezza dell'orbita, le orecchie ad ansa, l'insensibilità dolorifica, la grande acutezza visiva, il tatuaggio, l'eccessiva pigrizia, l'amore dell'orgia, il bisogno del male per il male, il bisogno di uccidere e di infierire sulle vittime. Va notato che questi caratteri fisionomici, cui, secondo Lombroso, corrispondono altrettante manifestazioni psichiche delinquenziali, possono mancare nei delinquenti di alto bordo, come ad esempio truffatori e bancarottieri, i quali, non di rado, presentano intelligenza, cultura ed iniziative moderne. Così che sembra possa ammettersi che ad ogni tipo di delitto corrisponda un tipo di criminale (specializzazione qualitativa del delitto).

460. L'errore fondamentale consistette nella pretesa di definire il delinquente prescindendo dalla concreta azione criminosa, che è il solo modo in cui si realizza l'astratta soggettività del medesimo: errore uguale ed opposto a quello lamentato, per cui il reato veniva definito facendosi assoluta astrazione del soggetto.

461. COTESTA VITTORIO, "Normalità e modello biologico in Cesare Lombroso", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1980, Vol. II-III, pag. 439.

462. COTESTA VITTORIO, "Normalità e modello biologico in Cesare Lombroso", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1980, Vol. II-III, pag. 439.

463. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 296.

464. Ibidem, pag. 297.

465. Ibidem, pag. 297.

466. GENEROSI PAOLO, "Del diritto di punire", in "RIVISTA DI DIRITTO PENALE E SOCIOLOGIA CRIMINALE", op. cit., pag. 31.

467. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 299.

468. Ibidem, pag. 300.

469. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 302.

470. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 95.

471. Ibidem, pag. 95.

472. Secondo la nota formula di Carrara.

473. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 97.

474. Ibidem, pag. 97-98.

475. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 98.

476. Già gli esponenti della Scuola classica avevano sviluppato il concetto di pericolosità, ma lo avevano attribuito alla maggiore gravità del reato, piuttosto che alla personalità del soggetto. Così, i seguaci di tale indirizzo, confortati dalla formula giuridica adottata, secondo la quale il reato non era considerato una entità di fatto, ma un ente di ragione riferito ad un soggetto pienamente dotato di libero arbitrio e sottoponibile ad una pena, non si erano interessati alle condizioni sociali, morali e penali che erano alla base stessa della comprensione del reato e del suo controllo, non intuendo, così, quel profondo cambiamento generato dalla Scuola positiva, viceversa sostenitrice tenace di tali istanze.

477. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 99. In questo senso, si prefigura una riduzione delle sanzioni detentive, a favore di interventi preventivi.

478. Ibidem, pag. 99.

479. Ne segue che quando l'individuo sia incorreggibile, la segregazione deve durare a tempo assolutamente indeterminato.

480. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 100.

481. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 101.

482. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 86.

483. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 86.

484. Ibidem, pag. 87.

485. Ibidem, pag. 88.

486. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 88.

487. Ibidem, pag. 88-89.

488. Ibidem, pag. 89.

489. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 90.

490. Ibidem, pag. 93-94.

491. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 90.

492. Ibidem, pag. 91.

493. Ibidem, pag. 91.

494. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 92.

495. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 238. Questo è il limite proprio di ogni teoria penale orientata a senso unico, che finisce per cadere nell'errore di ritenere che ad una teoria univoca debba corrispondere una prassi altrettanto chiara e inequivoca; ma così facendo, non si fa che rovesciare l'ordine delle cose ipotizzando un potere immaginario della teoria sulla prassi invece di cogliere come l'innovazione teorica sia l'espressione di un processo necessario, di qualche cosa, cioè, che è già avvenuto nella realtà sociale, nella prassi.

496. BORZACCHIELLO ASSUNTA, "L'antropologia criminale e l'idea del delinquente", in "RASSEGNA PENITENZIARIA E CRIMINOLOGICA", op. cit., pag. 38.

497. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 142. Le principali teorie in proposito sono, schematicamente, tre: la teoria indeterminista nega che la legge di causalità sia applicabile alla volontà ed afferma quindi che nessun fenomeno preesistente nella vita psichica è causa del volere; la teoria determinista asserisce che la volontà è determinata in modo inderogabile, come qualsiasi altro fenomeno, naturale e psichico, da antecedenti che ne costituiscono la causa; infine, la dottrina eclettica, pur non negando la causalità, ammette una libertà limitata della volontà umana. in relazione a ciò, va notato che l'efficacia della pena come contromotivo o controspinta all'impulso criminoso è del tutto subordinata alla certezza soggettiva, nel delinquente, della libera determinazione della propria volontà; se manca questa convinzione, la redenzione è inibita per sempre. Il compimento di quelle che noi definiamo 'buone azioni' è possibile solo in quanto l'agente è convinto di agire liberamente: a ciò si connettono la soddisfazione del bene fatto e, corrispondentemente, il rimorso del male compiuto. Se invece l'agente è convinto che la determinazione della sua volontà non dipenda da lui, ma da cause a lui estranee, e che egli non possa in alcun modo agire su di essa - e quindi sull'azione che ne è il risultato - è evidente allora che sarà tolto ogni stimolo a qualsiasi sforzo, il quale apparirà sempre vano e perciò assurdo, data la propria posizione passiva.

498. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 143.

499. Ibidem, pag. 143.

500. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 103. Questa posizione è stata espressa, nel modo più netto, da Filippo Turati nel volumetto Il delitto e la questione sociale del 1882.

501. Che abbiamo già esaminato ivi, pag. 43 e seguenti.

502. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 179.

503. Ibidem, pag. 179.

504. Ibidem, pag. 180.

505. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 316.

506. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 233.

507. Livelli tecnologici più elevati, produzione di massa e una crescita demografica più contenuta, con conseguente diminuzione della forza lavoro in un momento di espansione industriale, portarono ad una lievitazione dei salari.

508. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 234.

509. Ibidem, pag. 234-235.

510. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 245.

511. Ibidem, pag. 247.

512. Ibidem, pag. 250. I risultati di queste modifiche sono testimoniati dal positivo andamento delle statistiche sulla mortalità.

513. Tra la borghesia era già in uso la prassi di giustificare gli imputati di furto esibendo un certificato medico attestante uno stato patologico di cleptomania.

514. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 251. Se non fosse così, verrebbe meno ogni criterio di giustizia sociale, dato che i poveri onesti, finché rimangono onesti, possono anche morire di fame, visto che la società non assicura loro vitto e alloggio se non quando divengono delinquenti.

515. Ibidem, pag. 252. Vi è poi un ulteriore rapporto tra le condizioni socio-economiche generali e le effettive possibilità di un processo rieducativo nelle prigioni, in quanto la presenza anche dei migliori intendimenti da parte del detenuto potrà realizzarsi solo nella prospettiva di un'esistenza materiale migliore. Non può esistere, infatti, alcun fondamento psicologico per un trattamento risocializzante fino a quando il detenuto sarà cosciente che la società non si adopera minimamente per permettergli il soddisfacimento dei suoi bisogni leciti.

516. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 275.

517. Ibidem, pag. 277.

518. Ibidem, pag. 277.

519. Il nodo teorico era infatti quello di determinare un rapporto che potesse rendere tra loro omogenee la privazione del denaro per classi superiori e la privazione del tempo per quelle inferiori.

520. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 278.

521. Ibidem, pag. 278.

522. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 279.

523. Ibidem, pag. 279.

524. Tanto più povero è un paese, tanto meno frequente è l'applicazione delle pene pecuniarie per i reati più comuni. Infatti, ove ampi strati della popolazione vivono ancora al di fuori della sfera delle relazioni capitalistiche, e quindi ove non comandano il denaro e le merci, la pena pecuniaria tende a diventare una sanzione penale applicabile solo a certi reati delle classi medie e superiori, non diversamente da quanto già avveniva nel medioevo.

525. Tuttavia, essa porterà ad una profonda commercializzazione della giustizia penale; la pensa pecuniaria, difatti, somiglia alla licenza, con la differenza che questa ultima deve essere pagata prima di ricevere l'autorizzazione amministrativa, mentre la pena pecuniaria è pagata dopo aver commesso il fatto e se questo verrà scoperto. Inoltre, la pena pecuniaria mantiene un profondo carattere classista, perché la sua afflittività diverge grandemente tra le diverse classi sociali. Possiamo anche dire che la natura stessa della sanzione penale sia virtualmente assente nell'ipotesi di condannati di agiate condizioni economiche.

526. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 253.

527. GOFFMAN ERVING, "Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza.", Einaudi editore, Torino, 1970, pag. 253.

528. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 253.

529. Ibidem, pag. 254.

530. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 254.

531. Ibidem, pag. 258.

532. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 143-144.

533. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 247-248.

534. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 39-40.

535. Ibidem, pag. 40.

536. SUMNER COLIN, "Censura, cultura e pena.", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1994, Vol. III, pag. 130.

537. Ibidem, pag. 131.

538. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 40.

539. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 58.

540. Ibidem, pag. 59.

541. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 60.

542. Ibidem, pag. 70.

543. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 386.

544. GARLAND DAVID, "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 70.

545. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 15.

546. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 99.

547. Ibidem, pag. 71.

548. Ibidem, pag. 73-74.

549. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 82.

550. DE LEO GAETANO, "Le prospettive del sistema sanzionatorio", in "RASSEGNA PENITENZIARIA E CRIMINOLOGICA", Fondata da G. Altavista, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, Nuova serie, anno 3, gen-dic 2000, pag. 190.

551. Ogni qual volta il sistema penale si separa dal contesto sociale perde efficacia ed efficienza, e comincia a produrre patologie, poiché non incide sui processi che realmente producono il problema.

552. DE LEO GAETANO, "Le prospettive del sistema sanzionatorio", in "RASSEGNA PENITENZIARIA E CRIMINOLOGICA", op. cit., pag. 191.

553. La punizione deve essere intesa come processo dialogico di riconciliazione, non come offerta unilaterale e passiva di soddisfazione in rapporto all'inflizione di un male personale. Il reo necessita dell'iniziativa assunta verso di lui dalla comunità che egli ha ferito poiché non è in grado, da solo, di porre le premesse necessarie e necessariamente dialogiche della riconciliazione. Dinanzi a un 'fronte dei giusti' che prendono le distanze, l'agente di reato si sentirà sempre sospinto a rimuovere la colpa e a scaricare le responsabilità.

554. WIESNET EUGEN, "Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena.", op. cit., pag. 63. L'uomo non può ottenere la riconciliazione con le proprie forze, mediante un adempimento espiatorio, ma deve essere riconciliato, poiché dipende profondamente da una offerta di riconciliazione. Solo con questa offerta il reo ha la possibilità di colmare la frattura tracciata dalla sua colpa nel rapporto con l'altro. Lo schema attuale della riconciliazione prevede, invece, prima una prestazione espiatoria da parte del reo, poi, forse, il promovimento della riconciliazione.

555. Ibidem, pag. 119.

556. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 82.

557. Ibidem, pag. 82.

558. Ibidem, pag. 83.

559. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 294.

560. La penalità comunica significati non solo rispetto al reato e alla punizione, ma anche rispetto al potere, all'autorità, alla legittimità, alla normalità, alla moralità, alla personalità, alle relazioni sociali. I segni ed i simboli penali sono una componente di quel discorso autoritativo ed istituzionale che tenta di organizzare i nostri giudizi morali e politici e di educare i nostri affetti e le nostre sensibilità. Essi forniscono una serie continua e ripetitiva di disposizioni rispetto alle nostre idee del bene e del male, del normale e del patologico, del legittimo e dell'illegittimo, dell'ordine e del disordine. Attraverso i giudizi, le condanne e le classificazioni, insegnano, persuadendoci, come giudicare, condannare e classificare, e offrono linguaggi e terminologie grazie alle quali possiamo svolgere tali attività. La penalità costituisce un testo culturale - o, meglio, una rappresentazione culturale - che comunica e trasmette messaggi articolati a una pluralità di spettatori.

561. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 308.

562. La penalità non si limita a ribadire semplicemente ciò che è già stato stabilito; la legge e le pratiche sanzionatorie contribuiscono, in modo indipendente, alla creazione dell'ordine culturale. Attraverso le procedure e le istituzioni della punizione lo Stato - o una qualunque élite dominante - elabora consapevolmente la propria immagine di fronte al pubblico e, in parte, la sua stessa realtà. Le forme assunte dalle varie modalità sanzionatorie, i simboli con cui la penalità rivendica la propria legittimità, i discorsi con cui essa rappresenta il suo significato, le forme e le risorse organizzative che essa impiega sono tutti elementi che tendono a descrivere un tipo particolare di autorità, una caratterizzazione molto precisa del potere punitivo. Ad esempio, nello Stato liberale ottocentesco, il motivo dominante è quello della legge. Nel linguaggio punitivo del XIXº secolo, lo Stato è rappresentato come l'incarnazione del contratto sociale, il detentore socialmente autorizzato di diritti e l'esecutore rispettoso di doveri in ottemperanza della legge. La punizione non è più un atto del Sovrano, ma un dovere contrattuale che lo Stato adempie in conformità con quanto previsto dalla legge, attenendosi strettamente alle sue prescrizioni. Le pene cessano di essere personalistiche, legate al volere del Sovrano, e iniziano a comunicare un'autorità di tipo istituzionale normativo, non più individuale: sono norme di legge e non di un principe. Le sanzioni che meglio rispondono alle esigenze di questa nuova forma di penalità (la reclusione e la pena pecuniaria) sono connotate dall'assenza di violenza, dal fatto di essere regolamentate, uguali per tutti ed applicate con procedure legali.

563. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 311.

564. La penalità, pertanto, definisce i soggetti con cui entra in contatto, e lo fa con l'autorevolezza che le è propria. La sua concezione implicita di identità normale ha un'elevata importanza culturale, ed è quella che le persone si aspettano, in quanto socialmente e legalmente sanzionata, e quotidianamente applicata.

565. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 41.

566. Ibidem, pag. 41.

567. Ibidem, pag. 42.

568. Ibidem, pag. 42.

569. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 42.

570. Ibidem, pag. 43.

571. Ibidem, pag. 43.

572. Ibidem, pag. 342.

573. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 342.

574. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 26. La diminuzione della popolazione detenuta si accompagna alla adozione sempre più estesa di misure penali di controllo in libertà.

575. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 345.

576. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 352.

577. Analogamente a quanto avvenne a metà Ottocento per il modello penitenziario.

578. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 355-356.

579. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 356. Non più la disciplina come macchina per trasformare il detenuto ribelle, irriflessivo, in corpo docile, non più la disciplina per educare al lavoro alienato, ma il semplice contenimento dell'aggressività politica delle masse detenute, la semplice distruzione del nuovo soggetto collettivo. Un carcere, ormai, senza ideologia.

580. Ibidem, pag. 358.

581. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 359.

582. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 206-207.

583. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 207.

584. Questo vale per il trasgressore, per chi viola le norme del contratto sociale. Per chi attenta al patto stesso, per chi contesta in toto la sua validità, per chi è fuori e contro, torna a valere il principio della difesa come distruzione del nemico. La mannaia, la forca, la sedia elettrica.

585. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 361-362.

586. Gli individui che più resistono alla normalizzazione disciplinare sono proprio quelli rinchiusi nelle prigioni, dove è presente una cultura carceraria, che offre possibili ruoli, modelli di identificazione e forme di supporto alternative. Le maggiori forme di resistenza nascono proprio dalla possibilità di ricorrere a linguaggi, modelli di condotta e di identificazione alternativi presenti nella sottocultura carceraria. Il detenuto può aderire a queste sottoculture per evitare di divenire schiavo del sistema ufficiale e per mantenere un certo grado di autonomia e di autostima di fronte alla macchina disciplinare. Ma ciò tende ad aumentare la sua stigmatizzazione di ex-detenuto e a rinforzare le sue identificazioni criminali. Chi è stato in carcere non è solo un 'delinquente', ma anche un 'ex-detenuto' che, con ogni probabilità, ha condiviso una cultura omosessuale, corruttiva e violenta. Lottando per non identificarsi con l'istituzione e, quindi, contro l'immagine del detenuto modello, chi è in carcere finisce così per identificarsi con la figura del 'condannato', che la società teme e disprezza.

587. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 193.

588. Ibidem, pag. 194.

589. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 194.

590. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 243.

591. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 280.

592. FOUCAULT MICHEL, "Dalle torture alle celle", op. cit., pag. 25.

593. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 318. La delinquenza propria della ricchezza è tollerata dalle leggi, e quando avviene che essa cade sotto i loro colpi, è sicura della indulgenza dei tribunali e della discrezione della stampa. Il discorso sul crimine tende a diventare monotono, con la sua tendenza ad isolare la delinquenza ed a farne ricadere il clamore sulla classe più povera. Non esiste dunque una natura criminale, ma giochi di forza che, secondo la condizione sociale dei vari individui, li conduce ad intraprendere strade diverse: poveri, i magistrati di oggi occuperebbero, probabilmente, le prigioni; ed i forzati, se fossero nati bene, siederebbero nei tribunali e vi renderebbero giustizia. Esemplificazione di tale situazione, la storia di un ragazzo di tredici anni, vissuto nel 1800 in Francia, immagine passeggera degli illegalismi minori, senza domicilio né famiglia, accusato di vagabondaggio e che una condanna a due anni di casa di correzione ha inserito nei circuiti della delinquenza. Sarebbe sicuramente passato inosservato se non avesse opposto al discorso della legge che lo rendeva delinquente, in nome della disciplina più ancora che ai termini del codice, il discorso di un illegalismo che rimaneva restio alle coercizioni. Tutti i suoi illegalismi, che il tribunale codifica come infrazioni, l'accusato li riformula come affermazione di una forza viva: l'assenza di habitat in vagabondaggio, l'assenza di maestri in autonomia, l'assenza di lavoro in libertà, l'assenza dell'impiego del tempo in pienezza dei giorni e delle notti. "Il presidente. - Si deve dormire a casa -. Bèasse: - Ma io ho una casa? - Voi vivete in un perpetuo vagabondaggio. - Io lavoro per guadagnarmi la vita. - Qual è il vostro stato? - Il mio stato: prima di tutto ne ho almeno trentasei; poi non lavoro da nessuno. È già da un po' che vivo coi miei soldi. Ho degli stati di giorno e degli altri di notte. Così, per esempio, di giorno distribuisco foglietti stampati gratis a tutti i passanti; corro all'arrivo delle diligenze per portare i pacchi; mi do arie nel viale di Neully; la notte ho gli spettacoli; vado ad aprire gli sportelli, vendo le contromarche; ho molto da fare. - Sarebbe meglio per voi essere sistemato in una buona casa, e farvi un apprendistato. - Già...una buona casa, un apprendistato, che barba. E poi dopo il padrone, quella rogna sempre, e poi, niente libertà. - Vostro padre non vi reclama a casa? - Niente padre. - E vostra madre? - Niente madre, né parenti, né amici, libero e indipendente". (in FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 322). Da una parte, dunque, la civiltà, rappresentata dal presidente: essa ha il suo sistema di coercizione, che sembra essere il codice e che in realtà è la disciplina. È necessario avere un luogo, una localizzazione, una inserzione costrittiva. 'Si dorme a casa', dice il presidente, perché ognuno deve avere un domicilio, qualunque esso sia; egli non è incaricato di provvedervi, solo di forzarvi ogni individuo. Bisogna inoltre avere uno stato, una identità riconoscibile, fissata una volta per tutte. 'Quale è il vostro stato', domanda che esprime l'ordine che si stabilisce nella società; bisogna avere uno stato stabile, continuo, di lunga durata, dei pensieri dell'avvenire, perché il vagabondaggio ripugna e turba la società, la minaccia. Bisogna infine avere un padrone, essere presi e situati all'interno di una gerarchia: si esiste solo quando si è inseriti in rapporti di dominio. Si tratta dell'ordine da mantenere.

594. Ritenere che la costituzione del sistema penitenziario sia il risultato di una strategia di potere, significherebbe attribuire ai ceti dominanti una capacità premonitiva ed organizzativa spropositata, significherebbe, cioè, confondere i risultati con i motivi ispiratori.

595. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 195.

596. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 196.

597. FOUCAULT MICHEL, "La funzione della segregazione carceraria.", in "LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA", a cura di Margherita Ciacci e Vittoria Gualandi, Società editrice il Mulino, Bologna, 1977, pag. 269.

598. FOUCAULT MICHEL, "Dalle torture alle celle", op. cit., pag. 94-95.

599. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 250.

600. Ibidem, pag. 250.

601. Ibidem, pag. 313.

602. Ibidem, pag. 313-314.

603. Per comprendere una cultura non è sufficiente far riferimento alle mentalità ed alle forme di pensiero, ma occorre ragionare anche su ciò che comunemente indichiamo come sensibilità e modi di sentire. Le culture, infatti, si differenziano tra loro non solo per il tipo di conoscenze che trasmettono ai consociati, ma anche per come modellano strutture psichiche e tipi di personalità. La 'natura umana' non è una caratteristica universale, ma un prodotto storico: l'esito delle pressioni che la sfera culturale esercita sulla natura. Ogni singola cultura favorisce la nascita di determinate espressioni emotive e ne inibisce altre, contribuendo in tal modo a creare una determinata struttura affettiva e forme particolari di sensibilità. La varietà e la finezza delle sensazioni provate dagli individui, i sentimenti, le capacità emotive, le forme di gratificazione e inibizione differiscono dunque significativamente da cultura a cultura. Il reato e la pena sono eventi che suscitano una risposta emotiva nel pubblico in generale e tra coloro che ne sono direttamente coinvolti. Il conflitto che nasce tra sentimenti opposti, quali la paura, l'aggressività, l'ostilità e la collera da un lato, la pietà, la compassione e il perdono dall'altro, aiuta a definire la risposta adeguata nei confronti del reo. Inoltre, l'impiego della violenza (o l'inflizione della sofferenza e del dolore che la pena comporta) è condizionato dai livelli di violenza e di sofferenza ritenuti tollerabili dalla sensibilità e dalla cultura dominanti.

604. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 264.

605. Si tratta di comportamenti che iniziano ad essere ritenuti disgustosi, maleducati, ragione per cui viene insegnato agli individui a esimersi dal tenerli in pubblico, per non turbare la sensibilità delle persone di rango superiore. Con l'andar del tempo, questa repressione culturale investe un numero sempre maggiore di persone e agisce sempre più in profondità: la vista di altre persone che soffrono o svolgono pubblicamente funzioni corporali diventa del tutto inammissibile. Nascono così spazi nuovi e più privati, in cui tali attività possono avvenire più discretamente.

606. All'interno della caserme, delle prigioni.

607. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 265-266.

608. In maniera diametralmente opposta a quanto previsto dalla 'città punitiva' proposta dai riformatori illuministi.

609. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 277.

610. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 277.

611. Ibidem, pag. 283-284.

612. Ibidem, pag. 284.

613. Ibidem, pag. 284.

614. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 285.

615. Ibidem, pag. 286. Un esempio di tale impostazione è fornito dalla storia dei tentativi di trovare un metodo 'accettabile' per l'esecuzione della pena capitale. La storia inizia con la scelta della ghigliottina durante il periodo della Rivoluzione francese, considerata una macchina umana e democratica, in grado di porre fine all'esistenza umana senza infliggere al condannato un dolore non necessario. Da allora i governi e gli stati continuano a creare nuovi metodi per esercitare questo estremo atto di violenza e nasconderne, al contempo, gli aspetti più brutali e dolorosi. Inizialmente, l'obiettivo è di trovare qualche forma che assicuri una morte istantanea indipendentemente dall'abilità di un singolo esecutore - di qui i plotoni di esecuzione, oltre alla stessa ghigliottina. Dalla fine dell'Ottocento si ricorre invece a metodi più sofisticati - dalla sedia elettrica alla camera a gas - che offrono il vantaggio di prendere le distanze dall'evento letale e di disumanizzarlo, trasformandolo in un'operazione tecnica, scientifica, che sembra non avere nulla a che vedere con l'uccisione deliberata di un essere umano da parte di un suo simile. Accade così che un interrogativo di carattere etico - 'è giusto uccidere?' - si traduca in una questione di tipo estetico - 'è possibile uccidere in nome della legge in modo raffinato, dissimulando gli aspetti brutali?'.

616. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 256-257.

617. PAVARINI MASSIMO, "Funzioni e limiti del punire" in "FUNZIONE DELLA PENA E TERZIETA' DEL GIUDICE NEL CONFRONTO FRA TEORIA E PRASSI" a cura di M. Manzin, Atti della giornata di studio di Trento, Universita' degli studi di Trento, 2002, pag. 63-64. Non c'è pratica pedagogica che non contempli dare intenzionalmente sofferenza ad altri in un rapporto squilibrato di potere. Un castigo come la prigione non ha mai funzionato senza un certo supplemento di punizione che concerne il corpo in se stesso: razionamento alimentare, privazione sessuale, percosse, celle di isolamento. "Conseguenza non voluta, ma inevitabile, della prigione? In effetti la prigione, nei suoi dispositivi più espliciti, ha sempre comportato, in una certa misura, la sofferenza fisica. La critica spesso rivolta, nella prima metà del secolo XIX, al sistema carcerario (la prigione non è sufficientemente punitiva: i detenuti hanno meno freddo, meno fame, minori privazioni, nel complesso, di molti poveri e perfino di molti operai) indica un postulato che non è mai stato chiaramente abbandonato: è giusto che un condannato soffra fisicamente più degli altri uomini. La pena ha difficoltà a dissociarsi da un supplemento di dolore fisico. Cosa sarebbe, un castigo incorporeo?" (in FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 18-19).

618. PAVARINI MASSIMO, "Funzioni e limiti del punire" in "FUNZIONE DELLA PENA E TERZIETA' DEL GIUDICE NEL CONFRONTO FRA TEORIA E PRASSI", op. cit., pag. 66.

619. Ibidem, pag. 68.

620. PAVARINI MASSIMO, "Funzioni e limiti del punire" in "FUNZIONE DELLA PENA E TERZIETA' DEL GIUDICE NEL CONFRONTO FRA TEORIA E PRASSI", op. cit., pag. 69.

621. Oggi, cioè, si usa la pena per perseguire finalità di controllo sociale che in realtà non necessiterebbero il ricorso ad essa.

622. Ciò è testimoniato dalla composizione della popolazione carceraria, formata in massima parte da immigrati extracomunitari, da tossicodipendenti e da giovani professionalizzatisi in piccoli e medi reati predatori.

623. PAVARINI MASSIMO, "Funzioni e limiti del punire" in "FUNZIONE DELLA PENA E TERZIETA' DEL GIUDICE NEL CONFRONTO FRA TEORIA E PRASSI", op. cit., pag. 74-75.

624. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1994, Vol. III, pag. 5.

625. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 7.

626. In questo senso assume importanza analizzare l'ambivalenza profondamente connaturata nel sentire collettivo attorno al bisogno di punire, e le distonie tra legittimazione ufficiale della pena e contraddizioni e incongruenze diffuse nell'opinione pubblica. Molti sono i fattori che portano a non denunciare un reato, specialmente una minore gravità attribuita allo stesso rispetto a quella risultante dalla legge penale. Mentre alcuni comportamenti spesso neppure definibili come reati destano disapprovazione, senso di insicurezza e reattività, altri, considerati relativamente gravi dalla legge penale, non raccolgono la stessa disapprovazione da parte dell'opinione pubblica.

627. Tale concetto si ricollega a quello di legalità ed illegalità. Porsi fuori, e quindi trasgredire, la legalità, significa riconoscerne la forma e quindi riaffermarla; il ladro che viola la norma penale e si nasconde per evitarne le conseguenze non fa altro che riaffermarne il riconoscimento. Il suo dissenso si ribalta in un imprevedibile riconoscimento. Al contrario, porsi all'interno del confine della legalità significa sempre riconoscerne l'esterno; l'esistenza della legalità dipende da e riafferma la trasgressione.

628. PANNARALE LUIGI, "Il rischio della pena", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1998, Vol. I, pag. 83.

629. Causa dell'inefficacia pratica dell'ideologia retributiva rispetto alle sue notevoli pretese è il cumulo di finzioni dell'immagine d'uomo che la caratterizza. Il suo prototipo umano non nasce da constatazioni, bensì da speculazione filosofica, e non corrisponde alla realtà.

630. Ad esempio imbarbarimento ed ottundimento morale, aggravamento dei deficit psicosociali preesistenti, perdita progressiva del senso della realtà, perdita di qualsiasi autonomia, adeguamento alla subcultura desocializzante dei gruppi presenti in carcere, perdita di legami e rapporti sociali.

631. WIESNET EUGEN, "Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena.", op. cit., pag. 131.

632. Ibidem, pag. 131.

633. Ibidem, pag. 132.

634. Se la pena detentiva vuole mantenere una sua funzione reale, deve venir utilizzata come extrema ratio, per cui si impone che i sistemi penali a questa alternativi operino efficientemente. La clausola dell'extrema ratio "dovrebbe condurre il legislatore a domandarsi se siano stati attivati tutti gli strumenti extrapenali, giuridici e politico sociali, idonei a evitare che si giunga alla lesione di beni rilevanti (o meglio, a diminuire la probabilità della loro aggressione), così da escludere la necessità della penalizzazione o da minimizzare il ricorso effettivo alla medesima". (in EUSEBI LUCIANO, "Può nascere dalla crisi della pena una politica criminale?- appunti contro il neoconservatorismo penale.", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1994, Vol. III, pag. 89.) Si tratta, cioè, di fare in modo che l'intero ordinamento converga intorno all'obiettivo di minimizzare ex ante gli spazi disponibili per una commissione vantaggiosa di fatti illeciti; in altre parole, si tratta di limitare l'effettiva praticabilità dei reati e la possibilità che il delinquere risulti sotto qualsiasi profilo redditizio. Non è detto che le barriere pre-penalistiche siano sempre risolutive; certo, la scorciatoia di un ricorso al diritto penale privo del retroterra costituito da una solida politica criminale extra penale non è in grado, salvo successi marginali, di essere risolutiva: "non è infatti credibile, e lo dimostrano gli studi sulla deterrenza, che in un ordinamento ... il solo timore della pena possa controbilanciare la facilità dell'accesso al crimine e la portata dei fattori che rendono tale accesso appetibile". (Ibidem, pag. 90.) Citando ancora Beccaria, è meglio prevenire i delitti che punirli.

635. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 15.

636. Quanto più la legge penale si rivela inefficace, tanto più tende ad essere prodotta in termini quantitativamente più estesi e qualitativamente più afflittivi, amplificando la contraddittorietà del rapporto tra crisi del sistema ed indurimento dello strumento penale. Tutto ciò, in definitiva, non può che tradursi in una ulteriore crisi di legittimazione dello strumento penale, di sfiducia da parte della pubblica opinione. Un indurimento dell'intervento repressivo non appare destinato a rafforzare sentimenti di sicurezza. Anzi, esso appare destinato a rafforzare un circolo vizioso in base a cui quanto più cresce il numero dei denunciati, dei condannati e dei detenuti, tanto più si enfatizza l'immagine del pericolo della criminalità, che, in via repressiva, si vorrebbe combattere, e tanto più possono crescere i sentimenti di insicurezza. Questi, a loro volta, possono incrementare l'attitudine denunciatoria diffusa, un ulteriore inasprimento delle pene, come risposta alle istanze sottese alla stessa, con conseguente rappresentazione di un più elevato livello di criminalità e l'induzione di un più intenso allarme sociale; e via di seguito, in una spirale repressiva potenzialmente senza limiti.

637. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 240.

638. Quando nel Settecento queste scienze si svilupparono, il presupposto su cui si fondavano, per cui gli uomini possono essere scientificamente descritti e capiti, venne tradotto immediatamente in pratica nelle istituzioni di controllo e di 'riforma'. Descrivere l'attività umana come scientificamente conoscibile significava che essa poteva essere sottomessa, modificata e migliorata.

639. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 16.

640. Ibidem, pag. 16.

641. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 20.

642. Ibidem, pag. 71.

643. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 23.

644. Sia per quanto riguarda la produzione di trattamento per riabilitare e reinserire le persone che commettono reati, sia per la produzione di condizioni di sicurezza dentro il carcere e nella società.

645. DE LEO GAETANO, "Le prospettive del sistema sanzionatorio", in "RASSEGNA PENITENZIARIA E CRIMINOLOGICA", op. cit., pag. 189.

646. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 305.

647. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1976, Vol. II-III, pag. 238.

648. Ibidem, pag. 238.

649. Cfr. ivi pag. 191.

650. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 328.

651. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 330.

652. Ibidem, pag. 331.

653. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 333.

654. Ibidem, pag. 334.

655. Ibidem, pag. 336.

656. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 239.

657. Ibidem, pag. 240.

658. Ibidem, pag. 245.

659. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 246.

660. Ibidem, pag. 246.

661. Ibidem, pag. 247.

662. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 248.

663. Consideriamo, per esempio, la distanza sociale che isola la popolazione criminale dal resto della società, ed il divieto di coalizione che scoraggia ogni concreta forma di solidarietà verso i condannati e tra loro.

664. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 251. La conclusione cui, inevitabilmente, si giunge, è che la possibilità di trasformare un delinquente violento asociale attraverso una lunga pena carceraria in un individuo adattabile non sembra esistere; l'istituto di pena non può realizzare il suo scopo quale istituto di educazione.

665. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 252.

666. Ibidem, pag. 252.

667. Ibidem, pag. 252.

668. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 253.

669. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 254. Prima di parlare di educazione e di reinserimento, occorrerebbe, dunque, fare un esame del sistema dei valori e dei modelli di comportamento presenti nella società in cui si vuole reinserire il detenuto.

670. BIELLI DANIELE, "Il delitto, il processo, la pena", op. cit., pag. 47.

671. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 131.

672. Questa idea risale all'opera di secolarizzazione, di distacco dalla teologia morale, compiuta dal giusnaturalismo e dall'Illuminismo, che ha reagito contro una concezione teocratica della legislazione criminale che unificava i concetti di peccato e di delitto, e concepiva la pena come espiazione morale e religiosa.

673. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 133.

674. Fondamentale, quindi, il rispetto dei due già citati principi: nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege.

675. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 72.

676. MOSCONI GIUSEPPE, "La pena e la crisi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 72.

677. Ibidem, pag. 67.

678. Cfr. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit.

679. BARATTA ALESSANDRO, "Sistema penale ed emarginazione sociale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 254. Il sistema punitivo ha per Foucault, come abbiamo rilevato, una funzione diretta ed una indiretta. La funzione indiretta è quella di colpire una illegalità visibile per coprirne una occulta, la funzione diretta è quella di alimentare una zona di emarginati criminali inseriti in un vero e proprio meccanismo economico (industria del crimine) e politico (utilizzazione a fini eversivi e repressivi dei criminali). La speranza di socializzare attraverso il lavoro settori di emarginazione criminale si scontra con la logica dell'accumulazione capitalistica che ha bisogno di mantenere in piedi settori marginali del sistema e meccanismi di rendita e parassitismo. È insomma impossibile affrontare il problema dell'emarginazione criminale senza incidere nella struttura di una società capitalistica, che ha bisogno di disoccupati, che ha bisogno, per motivi ideologici ed economici, di una emarginazione criminale.

680. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 242.

681. EUSEBI LUCIANO, "Può nascere dalla crisi della pena una politica criminale?- appunti contro il neoconservatorismo penale.", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", op. cit., pag. 94.

682. Ibidem, pag. 95.

683. BIELLI DANIELE, "Il delitto, il processo, la pena", op. cit., pag. 22.

684. BIELLI DANIELE, "Il delitto, il processo, la pena", op. cit., pag. 23.

685. Ibidem, pag. 24.

686. La legge astratta è la negazione della fantasia dell'uomo, della sua capacità di rapportarsi ed essere attivo nella realtà, dell'intelligenza creativa nel rapporto interumano; di tutte quelle qualità, cioè, che rappresentano l'opposto esatto della conoscenza razionale, dell'astratta definizione dei comportamenti, dell'organizzazione sociale intesa come precostituzione di un ordine stabilito delle cose.

687. BIELLI DANIELE, "Il delitto, il processo, la pena", op. cit., pag. 18.

688. Ibidem, pag. 28-29.

689. Ibidem, pag. 33.

690. Ibidem, pag. 43.

691. BIELLI DANIELE, "Il delitto, il processo, la pena", op. cit., pag. 65.

692. Ibidem, pag. 44.

693. RICCI ALDO e SALERNO GIULIO, "Il carcere in Italia- Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l'ideologia carceraria", Einaudi Editore, Torino, 1971, pag. 40.

694. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 252.

695. Elenchiamole, ancora una volta, sinteticamente: la detenzione deve trasformare il comportamento dell'individuo; i detenuti devono essere isolati, o quantomeno ripartiti secondo la gravità penale del loro atto, l'età, le disposizioni, le tecniche correttive che si intende applicare loro, le fasi della loro trasformazione; le pene devono potere essere modificate in base all'individualità dei detenuti ed ai risultati ottenuti, ed al limite essere annullate a riforma del colpevole avvenuta; il lavoro è un elemento essenziale della trasformazione e della socializzazione progressiva dei detenuti, che permette di apprendere o praticare un mestiere e di fornire risorse al detenuto ed alla sua famiglia; l'educazione dei detenuti è, da parte del potere pubblico, una precauzione indispensabile nell'interesse della società ed un obbligo nei confronti del detenuto; il regime della prigione deve essere gestito da personale specializzato, dotato di adeguate capacità morali e tecniche; infine, l'imprigionamento deve essere seguito da misure di controllo e di assistenza fino al definitivo riadattamento del detenuto.

696. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 296.

697. Ibidem, pag. 279.

698. E. Canetti, "La provincia dell'uomo", Rusconi editore, 1978, pag. 351, citato in RESTA ELIGIO, "La legalità apparente.", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1994, Vol. III, pag. 118.