ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
La realtà dell'abuso sessuale

Laila Fantoni, 2003

1. La cultura dell'infanzia: dal "bambino battuto" al "bambino abusato"

Storicamente la società non è mai stata particolarmente sensibile al maltrattamento dei minori. Nell'antichità erano praticati correntemente i sacrifici dei bambini e neonati destinati agli dei; dall'antica Grecia alla Cina, l'uccisione di bambini deformi o non desiderati era comunemente accettata e praticata.

Nell'antica Roma l'ordinamento giuridico stabiliva il diritto di vita o di morte del pater familias sui propri figli. Tale condizione di sottomissione, propria dei minori nella famiglia patriarcale, rispecchiava due opinioni: anzitutto quella per cui i bambini erano proprietà dei genitori e si riteneva naturale che questi ultimi avessero pieno diritto di trattare i figli come pensavano fosse giusto, e conseguentemente quella secondo cui i genitori erano considerati responsabili dei figli, per cui un trattamento severo veniva giustificato dalla convinzione che potesse essere necessaria una punizione fisica per mantenere la disciplina, trasmettere le buone maniere e correggere le cattive inclinazioni (1).

Il concetto di "protezione" del bambino comparì la prima volta nell'anno 529 d.C., quando Giustiniano promulgò una legge che prevedeva l'istituzione di case per orfani e bambini abbandonati. Nel Medioevo il concetto di nucleo familiare, inteso come entità adatta ad offrire protezione ed educazione al fanciullo, era ben diverso da oggi, in quanto nell'ambito socio-culturale e tradizionale del tempo era normale l'allontanamento del bambino dalla famiglia in età assai precoce (verso i sette anni); da quell'età in poi i compiti educativi erano affidati ad istituzioni al di fuori della famiglia. Nella scuola, oltre che in famiglia, le pesanti punizioni corporali costituivano lo strumento pedagogico più utilizzato.

I fanciulli furono probabilmente la categoria che risentì più fortemente delle grandi trasformazioni della società europea dal XVII al XIX secolo. Il progressivo impoverimento delle classi popolari e il diffondersi dell'urbanesimo aumentarono enormemente il numero dei minori abbandonati, orfani o illegittimi, la maggior parte dei quali veniva raccolta da mendicanti e costretta all'accattonaggio e al furto. Spesso i bambini venivano storpiati o mutilati per suscitare maggiore compassione e quindi ottenere elemosine più generose (2).

Nel XVIII secolo, l'attenzione nei confronti dell'infanzia divenne maggiore sia in Inghilterra - dove famosi romanzieri inglesi (Scott e Dickens) denunciarono il comportamento della società verso i minori e, grazie alle loro opere, venne sensibilizzata la coscienza pubblica - sia in Francia - dove, in seguito alla Rivoluzione francese, la Costituzione del 1793 proclamò che "il bambino non possiede che diritti" (3). Ma, nonostante questi sviluppi, la protezione dei minori non venne attuata per ancora un secolo.

Nel XIX secolo sorsero in Europa numerosi istituti per orfani e bambini abbandonati dove essi vivevano in una condizione di grave disagio psichico e fisico. La gravità dei maltrattamenti subiti da questi bambini istituzionalizzati può essere ricavata dai dati che emergono dai registri di questi istituti, che evidenziano un decesso per stenti, incuria e maltrattamento fisico ogni quattro ricoverati.

La denuncia di tale situazione sensibilizzò la pubblica opinione e il maltrattamento dei minori venne considerato finalmente un problema sociale.

All'inizio del Novecento pedagogia, psicologia e sociologia cominciarono a porsi il problema dell'infanzia e dei suoi bisogni. Al bambino furono riconosciuti esigenze e bisogni affettivi e psicologici, fu affermato che i diritti dei minori devono essere tutelati non solo dai genitori, ma da tutta la società. In quest'ottica, nel 1925 fu approvata a Ginevra la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, in cui è affermato che il minore deve essere posto in condizione di svilupparsi in maniera normale sia sul piano fisico che spirituale, che i bambini hanno il diritto di essere nutriti, curati, soccorsi e protetti da ogni forma di sfruttamento (4).

In seguito, nel 1959, è stata proclamata dall'Assemblea generale dell'ONU la Carta dei diritti del fanciullo, nella quale è stato ribadito il diritto di nascita (con cure adeguate alla madre e al bambino nel periodo pre e post-natale), il diritto all'istruzione, al gioco o alle attività ricreative, la protezione dalle discriminazioni razziali o religiose e il poter vivere in un clima di comprensione e tolleranza.

Tali obiettivi non sono stati ancora completamente raggiunti e nel gennaio 1986 il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione (5) nella quale si ritrovano le stesse raccomandazioni del precedente documento, con una particolare attenzione al problema dell'abuso sull'infanzia e sulla necessità di protezione del minore. Il Consiglio d'Europa, nel gennaio 1990, ha espresso la necessità di misure preventive a sostegno delle famiglie in difficoltà e misure specifiche di informazione, di individuazione delle violenze, di aiuto e terapia a tutta la famiglia e di coordinamento tra i vari servizi.

Nella metà del XX secolo la professione medica ha iniziato ad essere coinvolta seriamente nel problema dell'abuso all'infanzia.

Determinante è stato il contributo di Kempe (6), che nel 1962 ha parlato di "sindrome del bambino battuto", precisando gli elementi clinici e radiologici utili alla diagnosi. L'autore si è soffermato sull'importanza dell'interrogatorio ai genitori, che sembrano avere una totale amnesia dell'episodio che li ha portati ad aggredire il proprio figlio.

Successivamente un altro autore, Fontana (7), che si è molto occupato del fenomeno, estese il concetto di maltrattamento alle condizioni di malnutrizione, di mancanza di cure familiari e al maltrattamento psicologico. Egli vide nel maltrattamento solo la punta emergente del fenomeno "abuso", ipotizzando che un bambino vittima di violenza può anche non presentare alcun segno di trauma fisico.

Successivamente, ancora, Kempe (8) suggerì di abbandonare la definizione di battered child e cambiarla in child abuse and neglect, concetto che esprime meglio gli aspetti del maltrattamento in tutta la loro estensione.

2. Lo studio del fenomeno dell'abuso sessuale in Italia

In Italia la prima denuncia dell'esistenza, anche nel nostro Paese, del fenomeno "maltrattamento" comparve nella letterattura clinica, nel 1962, in seguito alle ricerche compiute da Rezza e De Caro (9). Queste prime ricerche vennero guardate con sospetto e ironia e si cercò di circoscrivere il problema dell'abuso e della violenza sui bambini al mondo anglosassone, come se la nostra società ne fosse stata immune. D'altra parte, sebbene mancassero ricerche epidemiologiche sul tema e la letteratura italiana fosse quasi inesistente, i dati clinici confermavano l'esistenza di numerosi casi di violenza. Solo a partire dagli anni Ottanta i grandi mezzi di comunicazione hanno iniziato ad occuparsi ampiamente dei maltrattamenti all'infanzia e più in generale della violenza intrafamiliare. Secondo Francesco Montecchi (10), neuropsichiatra infantile:

Le ragioni di questo ritardo, significativo in Italia ma diffuso in tutti i paesi mediterranei, sono certamente molteplici e vanno dal carattere tradizionalmente "chiuso", proprio della struttura familiare, alla diffusa riluttanza e difesa sociale ad ammettere l'esistenza di un fenomeno riprovevole ed imbarazzante. Ancora più difficile risultava poi accettare che si trovassero dei bambini maltrattati non solo in seno a famiglie con cattive condizioni socio-economiche, o con problemi di etilismo o patologie psichiatriche, ma anche in famiglie le cui condizioni sociali, strutture coniugali e comportamenti esterni apparivano normali, o addirittura benestanti.

Il problema è stato circoscritto in un primo momento soprattutto agli Istituti per l'Infanzia, sollecitando inchieste e rilevazioni; in seguito venne studiato in una prospettiva sociologica, sottolineando il sovraccarico di richieste e compiti che gravano sulla famiglia. Dopo i primi contributi scientifici ed alcuni fatti di cronaca, in molte parti d'Italia, si formarono varie Associazioni, volte a prevenire il fenomeno dell'abuso sessuale sui minori, che furono molto attive nell'organizzazione di convegni e nel cercare di creare i primi contatti tra i vari operatori del settore. Da tali convegni emerse poi la necessità di chiarire il significato del concetto "abuso sessuale".

3. La violenza sui minori

3.1 La classificazione

La classificazione della violenza, considerata dagli esperti quella più completa tra le varie esistenti, è stata proposta da Francesco Montecchi (11), il quale ritiene che "pur nell'artificiosità degli schemi e delle classificazioni, queste ci permettono di discriminare e riconoscere il fenomeno per poterlo prevenire e curare, nonché per poter promuovere e difendere la nuova cultura dell'infanzia, e offrire una più vasta capacità di attenzione ai problemi e alle esigenze più profonde dell'anima infantile da parte delle varie categorie di professionisti che si occupano di famiglia e di bambini".

  1. Maltrattamento:

    1. fisico: è la forma più manifesta e facilmente riconoscibile;
    2. psicologico: è forse l'abuso più difficile ad essere individuato, se non quando ha già determinato gli effetti devastanti sullo sviluppo della personalità del bambino; in notevole incremento negli ultimi anni con lo stile di vita della società consumistica e materialistica e la crisi della famiglia.
  2. Patologia della fornitura di cure. Un tempo identificata nella incuria, in realtà viene individuata non solo nella carenza di cure, ma anche nella inadeguatezza delle cure fisiche e psicologiche offerte, considerandole sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Si possono distinguere le seguenti forme (12):

    1. incuria: cioè la carenza di cure fornite (la cosiddetta violenza per omissione);
    2. discuria: quando le cure, seppur fornite, sono distorte ed inadeguate se rapportate al momento evolutivo del bambino;
    3. ipercura: quando viene offerto, in modo patologico, un eccesso di cure. In questo gruppo è compresa la sindrome di Münchhausen per procura, il medical shopping e il chemical abuse.
  3. Abuso sessuale. Tale forma di abuso è onnicomprensiva di tutte le pratiche sessuali manifeste o mascherate a cui vengono sottoposti i minori e comprende (13):

    1. abuso sessuale intrafamiliare. Non riguarda solo quello comunemente considerato tra padri o conviventi e figlie femmine, ma anche quello tra madri o padri e figli maschi, nonché forme mascherate in inconsuete pratiche igieniche; è attuato da membri della famiglia nucleare (genitori, compresi quelli adottivi e affidatari, patrigni, conviventi, fratelli) o da membri della famiglia allargata (nonni, zii, cugini ecc.; amici stretti della famiglia);
    2. abuso sessuale extrafamiliare. Interessa indifferentemente maschi e femmine e riconosce spesso una condizione di trascuratezza intrafamiliare che porta il bambino ad aderire alle attenzioni affettive che trova al di fuori della famiglia; è attuato, di solito, da persone conosciute dal minore (vicini di casa, conoscenti ecc.).

    A questa classificazione si può aggiungere una distinzione ancora più ampia (14):

    1. abuso istituzionale, quando gli autori sono maestri, bidelli, educatori, assistenti di comunità, allenatori, medici, infermieri, religiosi, ecc., cioè tutti coloro ai quali i minori vengono affidati per ragioni di cura, custodia, educazione, gestione del tempo libero, all'interno delle diverse istituzioni e organizzazioni;
    2. abuso da parte di persone sconosciute (i cosiddetti "abusi di strada");
    3. sfruttamento sessuale a fini di lucro da parte di singoli o di gruppi criminali organizzati (quali le organizzazioni per la produzione di materiale pornografico, per lo sfruttamento della prostituzione, agenzie per il turismo sessuale);
    4. violenza da parte di gruppi organizzati (sette, gruppi di pedofili, ecc.).

Non è affatto infrequente che vengano attuate da parte di più soggetti forme plurime di abuso (ad esempio, abuso intrafamiliare e contemporaneo sfruttamento sessuale a fini di lucro; abuso da parte di adulti della famiglia e di conoscenti, ecc.).

3.2 Le radici della violenza

I cosiddetti "rischi o fattori di violenza" (soprattutto familiare) sono stati individuati utilizzando il "modello ecologico di Bronfenbrenner" (15), secondo quattro livelli di analisi (16):

  • le caratteristiche individuali;
  • il contesto sociale immediato;
  • il contesto ambientale più ampio;
  • il contesto sociale e culturale.

Riguardo alle caratteristiche individuali, il basso livello di autostima, lo scarso controllo dell'impulso, l'affettività negativa e l'eccessiva risposta allo stress sicuramente aumentano la probabilità che un individuo possa divenire perpetratore di violenza familiare. Anche la dipendenza da alcool e droghe gioca un ruolo importante sia come fattore di rischio sia come elemento predisponente alla violenza.

In relazione al contesto sociale immediato, le caratteristiche del sistema familiare hanno importanti implicazioni per l'eziologia o l'esercizio della violenza intrafamiliare: a questo proposito occorre citare la struttura e la dimensione della famiglia ed anche eventi "paranormativi", come la perdita di un lavoro o la morte di un familiare. Alcuni autori (17) hanno rilevato che le famiglie che abusano dei loro figli sono spesso caratterizzate da un maggior numero di eventi stressanti, anche se ciò non vuol dire che tutte le famiglie colpite da tali eventi abusino dei loro figli. Tuttavia, laddove ciò accade, pare che gli abusanti siano più aggressivi e ansiosi dei non abusanti.

In riferimento al contesto ambientale più vasto, la violenza intrafamiliare è legata anche alle caratteristiche della comunità in cui la famiglia è collocata, come la povertà, l'assenza di servizi per la famiglia, l'isolamento e la mancanza di coesione sociale. Inoltre alti livelli di disoccupazione, abitazioni inadeguate e violenza nella comunità contribuiscono ad aumentare il rischio. Considerando che certamente non tutte le famiglie povere abusano dei propri figli, varie ricerche hanno sottolineato che la principale differenza tra famiglie povere che abusano dei figli e quelle che non abusano consiste nel grado di coesione sociale e di assistenza reciproca trovata nelle loro comunità (18). Altre ricerche successivamente hanno dimostrato che le famiglie abusanti socializzano meno con i propri vicini di casa rispetto alle famiglie non abusanti (19).

Infine, la ricerca ha dimostrato che esiste uno specifico contesto sociale e culturale della violenza intrafamiliare. Si ritiene, infatti, che tale tipo di violenza sia compiuta attraverso precisi valori culturali: basti pensare all'uso della punizione fisica nella privacy familiare.

Ma se cause facilitanti la violenza dei minori (concause) possono essere le difficili condizioni di vita della famiglia (povertà, emarginazione, solitudine) e/o cause psicologiche (frustrazioni personali, immaturità, ecc...), da vari studi emerge che la "vera causa" sia il fatto che il genitore, che maltratta il figlio, abbia avuto nella propria infanzia tristi esperienze di abuso o di trascuratezza (20). La cosiddetta ripetitività dell'abuso o ciclo intergenerazionale della violenza sembra essere, infatti, l'aspetto più caratteristico delle storie di famiglie che compiono maltrattamenti o abusi, dove l'azione violenta o di trascuratezza viene trasmessa da una generazione all'altra (21). Secondo un'altra ipotesi (22) questa "familiarità" della violenza in famiglia potrebbe ascriversi ad una causa genetica piuttosto che ambientale, nonostante l'influenza dell'ambiente sia nondimeno rilevante.

A parte queste diverse tesi, si può sicuramente affermare che l'abuso può compromettere le normali tappe dello sviluppo del bambino come la formazione del legame di attaccamento, la regolazione affettiva, lo sviluppo dell'autostima e le relazioni con i coetanei. In particolare persistono, anche nell'età adulta, disturbi relazionali rappresentati da sentimenti di paura e di ostilità nei confronti delle figure parentali e reazioni di forte diffidenza nei confronti di altri adulti e dei partners; inoltre si rilevano varie disfunzioni del comportamento sessuale, tendenza alla prostituzione, alla tossicodipendenza e all'alcoolismo e tutto questo può costituire una predisposizione per compiere violenza sui propri figli, ma ciò non è detto che avvenga (23).

Comunque bisogna anche aggiungere che la violenza sui minori è strettamente legata al più generale fenomeno della violenza diffusa nella società (affermazione accreditata dal fatto che ci sono anche tantissime violenze al di fuori della famiglia). E questo non soltanto perché chi subisce quotidiana violenza tende ineluttabilmente a scaricare le proprie frustrazioni sui soggetti più deboli che gli sono vicini e che appaiono sotto il suo dominio, quanto principalmente perché sono identiche le cause culturali di ogni forma di violenza.

Nella società attuale si è cominciato a credere che l'educazione sia equivalente al condizionamento del comportamento umano e quindi che, con l'eccessivo utilizzo dell'attività educativa, siano venute meno la spontaneità e la libertà dei processi maturativi del bambino. Ma contro tale affermazione bisogna sostenere che "il condizionamento sociale è lo strumento che ha reso umano l'uomo" e per questo importantissimo. Il problema perciò non è di ridurre il condizionamento sociale ma di individuare quale condizionamento bisogna porre in essere e con quali scopi: bisogna mettere in atto dei condizionamenti utili al bambino, limitandoli al massimo, ma soprattutto essendo sempre tesi ad impedire che diventino deterministicamente operanti e dunque tali da soffocare le possibilità ed aspirazioni del bambino, per trasformarli al contrario in suggerimenti e spinte esistenziali positive (24).

Inoltre bisogna rendersi conto che, nella società moderna, l'infanzia è stata collocata all'interno della famiglia ed i bambini sono considerati un'appendice dei genitori. Il fenomeno esistente è quello dell'"adultocentrismo", dove sono i bambini che devono adeguarsi alle abitudini degli adulti e non viceversa. Quindi, è un "bambino a rischio" quello che non riesce a trarre dall'ambiente (socio-culturale in senso ampio) tutte le risorse necessarie per un suo armonico e pieno sviluppo psico-fisico e relazionale (25).

Secondo le ricerche (26) svolte dalla Dott.ssa Paola Di Blasio, Professore Ordinario di Psicologia dello Sviluppo all'Università Cattolica di Milano, che da anni si occupa di abuso e maltrattamento all'infanzia, è emerso che ogni agente causale, sia se considerato isolatamente, sia in associazione con altri, può essere responsabile solo di una parte dell'evento di violenza realizzatosi. Infatti è stato osservato che molte persone (anche minori) presentano la capacità di mantenere un discreto adattamento anche in condizioni di vita particolarmente sfavorevoli: questo perché, magari, i fattori di rischio che esistono nella loro condizione di vita, sono neutralizzati - o comunque affievoliti - dai cosiddetti "fattori protettivi" (ad esempio la relazione soddisfacente con almeno un componente della famiglia).

4. Maltrattamento

Il maltrattamento presenta un quadro clinico fortemente variabile ed è un termine molto ampio sia perché comprende al proprio interno le conseguenze di due tipi di eventi, "attivi" (come la violenze fisica, psichica o l'abuso sessuale) e/o "passivi" (come la mancanza di cure adeguate), sia perché tali situazioni possono, di volta in volta, o presentarsi come isolate, o associarsi in diverso modo tra loro, determinando manifestazioni polimorfe e variabili nel tempo.

D'altra parte qualsiasi tipo di maltrattamento produce una complessità di conseguenze, che vanno direttamente a minare la salute fisica e la sicurezza del bambino, ma anche il suo equilibrio emotivo e il suo sviluppo psico-relazionale, la stima di sé e il presente e futuro ruolo sociale. In questi termini il maltrattamento va considerato come una "patologia sindromica", nella cui storia naturale sono comprese evoluzioni gravi a lungo termine, che intaccano la successiva possibilità dell'adulto maltrattato nell'infanzia di stringere legami affettivi stabili e di svolgere un competente ruolo genitoriale (27).

Per tali ragioni la diagnosi di maltrattamento e/o abuso è quasi sempre complessa e difficile, richiede quasi costantemente la stretta collaborazione di diverse figure professionali e presuppone che i professionisti abbiano la sensibilità e l'attitudine a prevederla tra le possibili diagnosi e la preparazione tecnica per accertarla. D'altra parte individuare le situazioni di abuso o maltrattamento è di importanza essenziale sia per la sopravvivenza fisica del bambino, sia per il suo successivo sviluppo, poiché la condizione di maltrattamento persiste fino a quando non viene realizzato un intervento terapeutico esterno: è dunque impossibile che un bambino maltrattato esca da solo da questo stato (28).

Nella categoria del maltrattamento è possibile distinguere:

  1. maltrattamento fisico;
  2. maltrattamento psichico.

4.1 Maltrattamento fisico

Per maltrattamento fisico s'intende l'infliggere intenzionalmente dolore al bambino allo scopo di penalizzare i comportamenti indesiderati o disapprovati e di impedirne il ripetersi.

Chi è il bambino maltrattato

Tutti gli studi e le indagini fatte al fine di individuare dei tratti specifici che caratterizzino il bambino picchiato, oltre ad avere un interesse puramente conoscitivo, mirano ad offrire il maggior numero possibile di elementi che permettano una facile individuazione del minore che ha subito delle violenze.

Per quanto riguarda l'età in cui il bambino è soggetto con maggiore frequenza a sevizie, già Kempe (29) aveva affermato che gli episodi di violenza si scatenano più facilmente nel caso di bambini molto piccoli della fascia da 0 a 3 anni, dato questo confermato anche in ricerche successive. Nel tentativo di spiegare il perché di tale concentrazione cronologica si è ipotizzato che la nascita e le prime fasi di sviluppo di un bambino rappresentino una crisi che può disorganizzare difese e sistemi adattativi consolidati e dar luogo a vere e proprie "esplosioni aggressive" (30) che travolgono il funzionamento familiare. Inoltre quella è un'età in cui il bambino vive un periodo in cui sono più complessi i problemi di adattamento e per cui esso ha poche capacità personali di sottrarsi alle percosse o comunque di denunciare il suo abusante.

Nelle distribuzioni statistiche vi è una assoluta parità nel maltrattamento tra i due sessi. Al più si può affermare che più frequentemente viene maltrattato il bambino del sesso opposto a quello desiderato dai genitori poiché la sua nascita delude le loro aspettative (31).

Non vi sono delle caratteristiche specifiche del bambino maltrattato, ma piuttosto vi sono dei fattori che più di altri possono far sì che il minore divenga vittima dell'episodio violento. Infatti, non tutti i bambini sono uguali: già al momento della nascita presentano caratteristiche proprie che vengono definite "personalità di base" o "differenze costituzionali". Naturalmente un bambino irrequieto, che piange, che ha difficoltà di alimentazione sarà più esposto al rischio di essere maltrattato rispetto ad un bambino che non crea problemi ai genitori.

Sono stati indicati quali fattori che scatenano l'episodio violento una gravidanza ed un parto difficili, una nascita prematura, la presenza di malformazioni congenite, danni cerebrali provocati al momento del parto, handicap (32).

D'altra parte in conseguenza dello stesso maltrattamento a cui è sottoposto, il bambino può acquisire schemi comportamentali che a loro volta sollecitano risposte aggressive da parte delle persone a lui vicine: cioè il maltrattamento può modellare degli schemi di comportamento nel bambino che aumentano la probabilità che egli sia vittima di ulteriori maltrattamenti.

I genitori che maltrattano

Chi aggredisce il bambino è nella maggioranza dei casi un familiare (raramente entrambi) e più spesso la responsabile è la madre, forse perché, di solito, è colei che passa più tempo con i figli.

Si tratta generalmente di coppie giovani, frustrate o comunque in grave disaccordo, inconsapevoli del loro ruolo di genitori e pertanto incapaci di acquisire un modo accettabile di svolgerlo. È spesso evidente un'ingiustificata eccessiva severità (33).

Non di rado sono rilevabili precedenti penali.

La possibilità che i responsabili di violenza sul minore appartengano ad una classe sociale bassa, per quanto trovi un effettivo riscontro dai dati emergenti, non deve far trascurare l'ipotesi verosimile che nei ceti sociali più elevati è maggiore la capacità di occultamento.

Infine, come accennato, accade spesso che il maltrattante sia stato a sua volta maltrattato nell'infanzia (cosiddetto ciclo della violenza) e questo rende più probabile (ma non automatico) il ricorso nell'età adulta a comportamenti violenti verso i propri figli (34).

Corretta è, dunque, la definizione di "genitori maltrattanti" data dalla Dott.ssa Ciampi (35), neuro-psichiatra infantile dell'ospedale Mayer di Firenze, che trova la causa del loro comportamento nell'insicurezza e nell'immaturità della loro persona:

"I genitori maltrattanti non sono spesso dei genitori che vogliono essere crudeli con i propri figli: anzi per lo più vogliono essere "i migliori genitori mai conosciuti". Ma la loro immaturità, l'incapacità di instaurare un rapporto autentico, le eccessive aspirazioni spesso coniugate con un'incapacità di conoscere le reali possibilità dei propri figli, la debolezza nel controllare i propri impulsi e la precarietà emotiva, la rigidezza caratteriale costituiscono nell'insieme una miscela esplosiva che fa scattare l'aggressività.

È per questo che il genitore violento non presenta stigmate fisiche né sociali particolari e non si differenzia sostanzialmente dal normale uomo che ognuno di noi è".

Problemi connessi al riconoscimento delle situazioni di maltrattamento

È frequentemente riscontrato che sia il medico a trovarsi di fronte al bambino maltrattato, in un servizio di Pronto Soccorso, se le lesioni sono di entità tale da richiedere il ricovero in ospedale, oppure il medico o il pediatra di famiglia se le lesioni sono di minore entità. È quindi importante per il medico e comunque, in senso più generale, per tutti coloro che nella routine quotidiana di lavoro hanno contatti con i bambini e con le loro famiglie, avere un'approfondita conoscenza degli "indici" del maltrattamento, che dovrebbero indurre il sospetto di un episodio di violenza (36).

Una volta che il bambino è arrivato all'attenzione del medico del Pronto Soccorso, se necessario, sarà bene che questi, oltre a prestare le immediate cure, consigli anche il ricovero del piccolo per due motivi ben precisi: prima di tutto perché si avrà così la possibilità di praticare tutti gli esami atti ad appurare la presenza di eventuali danni fisici e psichici subiti precedentemente, e secondariamente perché la separazione del bambino dalla famiglia consentirà ad entrambi di alleviare la grave situazione di stress emotivo, questo soprattutto per quelle madri che non hanno nessuno a cui affidare il bambino (37).

I medici, invece, come la maggior parte degli altri membri della società, sono riluttanti nell'associare il termine "maltrattamento" al fatto che questo sia opera dei genitori.

Le spiegazioni di questi atteggiamenti possono essere numerose. Prima di tutto ci può essere da parte del medico la paura che venga iniziata nei suoi confronti un'azione legale da parte delle persone da lui denunciate e di essere pertanto coinvolto in prima persona (38), anche se questa eventualità è del tutto infondata perché per quei medici che «in buona fede» denunciano un caso sospetto, è prevista l'immunità.

Vi è, inoltre, da parte del medico, la paura di mettere a repentaglio il suo rapporto professionale con i genitori del bambino (39). Questo è un evento che può verificarsi molto facilmente: il medico deve aspettarsi l'ostilità dei genitori. A ciò si può comunque ovviare facendo sì che egli lavori coadiuvato da altre persone, sia perché l'ansia creata da una tale situazione possa essere condivisa, sia perché in tal modo il genitore si renda conto che il medico non agisce ad un livello personale, magari per disprezzo nei suoi confronti, ma che la sua reazione è frutto della decisione di persone che unitamente collaborano al benessere della famiglia.

Infine il medico può pensare che sia inutile denunciare l'episodio perché i provvedimenti che verranno presi o non sortiranno effetti utili o addirittura saranno nocivi (40). Anche questo modo di pensare può essere giustificato, poiché molto spesso non si è abbastanza pronti ad affrontare e soprattutto a risolvere positivamente un problema come quello del maltrattamento. Ma anche in questo caso spetta agli organi competenti infondere fiducia nel medico, dargli la sicurezza e soprattutto la consapevolezza che qualsiasi cosa si possa fare per il bambino e per la sua famiglia va fatta e che per operare in questo senso ci vuole la collaborazione di tutti, la reciproca stima ed il reciproco aiuto, ognuno con le proprie tendenze.

Ci sono inoltre ragioni più profondamente psicologiche alla base di tale riluttanza. Kempe ha messo in evidenza come il medico che si trovi di fronte ad un caso di maltrattamento debba avere contatti contemporaneamente almeno con quattro persone: il bambino, la madre, il padre e se stesso, ossia i propri sentimenti nei confronti di un episodio che suscita sempre emozioni discordanti. Dunque, oltre ai problemi di ordine etico, il medico può avere problemi nel denunciare il caso perché tale denuncia comporta anche l'accettazione da parte sua di un dato che tutti vorrebbero negare, e cioè che un genitore possa odiare il proprio figlio tanto da avere nei suoi confronti impulsi violenti. È per questo motivo che, per giungere ad una precoce diagnosi di maltrattamento, il medico deve vincere questo sentimento di negazione (41).

Le lesioni, che sono conseguenza di un maltrattamento fisico, devono essere distinte da quelle derivanti da un incidente. Di regola, infatti, è proprio un "meccanismo accidentale" quello che viene riferito, dai genitori o dagli adulti che hanno in carico il bambino nel corso delle visite mediche come causa delle lesioni.

Ci sono, comunque, degli "elementi generali" (42) che sono sempre presenti nel corso di maltrattamento fisico: ad esempio, suggestivi sono il ritardo nel cercare l'aiuto del medico, il racconto vago, povero di dettagli e variabile da persona a persona di quanto sarebbe accaduto, la descrizione della dinamica dell'incidente all'origine delle lesione non compatibile con la loro tipologia, sede, estensione e gravità. Anche l'atteggiamento del genitore, che presenti un comportamento ed un coinvolgimento emotivo non adeguati alle circostanze ed alle condizioni del bambino, che si dimostri oppositivo ed ostile, oppure l'atteggiamento del bambino triste, impaurito o viceversa iperattivo, incontenibile, possono suscitare ragionevoli perplessità. Infine la storia di numerosi incidenti o ricoveri precedenti, di maltrattamenti già diagnosticati per altri fratelli o di violenza intrafamiliare nota costituisce elemento di grave rischio. Occorre, però, ricordare che nessuno di questi fattori può condurre con certezza alla diagnosi di maltrattamento, anche se la loro presenza, specie se associata ad altri elementi, impone al medico di valutare questa diagnosi differenziale (43).

È in ogni caso necessario che il medico, che si trova a curare il bambino, compia un'anamnesi accurata della dinamica dell'incidente e un'osservazione attenta del comportamento spontaneo del bambino e dell'adulto che lo accompagna, anche se si tratta di una lesione presunta accidentale. Il successivo esame e i conseguenti accertamenti strumentali devono essere altresì particolarmente accurati e mirati ad evidenziare alcune specifiche caratteristiche delle lesioni cutanee, scheletriche e viscerali, delle ustioni o delle eventuali intossicazioni o asfissie (44).

Dunque è importante non limitare il problema diagnostico al solo bambino: per svelare la dinamica dell'episodio e dargli un significato all'interno del contesto familiare è necessario raccogliere informazioni sull'intero nucleo familiare, ricostruendo le varie fasi del ciclo vitale del gruppo familiare ed i motivi più contingenti che hanno scatenato la crisi (45).

Le conseguenze del maltrattamento

Gli studi che hanno cercato di individuare le conseguenze neurologiche degli abusi hanno concordemente rilevato che le sevizie sui bambini portano ad un'alta incidenza di deficit di vario tipo e questo non solo quando si provochino lesioni alla testa, ma anche quando il bambino piccolo sia stato violentemente scosso pur senza provocare lividi o fratture craniche (46).

Assai più preoccupanti sono invece le conseguenze psicologiche di tipo depressivo che insorgono. Il maggior danno, perché rende assai difficile il recupero, è costituito dalla passività, dalla abulia, dalla chiusura su se stessi, dalla definitiva chiusura di ogni speranza e di ogni stimolo a crescere e a strutturarsi. I ragazzi che hanno subito violenza sono bambini prima, ragazzi poi, adolescenti infine, spenti isolati, regrediti, disinteressati alla vita propria e a quella sociale, ai quali è stata tolta ogni forza vitale (47).

4.2 Maltrattamento psicologico

Un comportamento diventa lesivo sul piano psicologico in quanto trasmette uno specifico messaggio negativo o in quanto interferisce con aspetti dello sviluppo psichico (48).

I numerosi tentativi di definire le varie forme di maltrattamento psicologico si sono concentrati sulla combinazione di tre dimensioni fondamentali: le azioni, le intenzioni e gli esiti. In generale un comportamento è giudicato dannoso sulla base della probabilità che abbia effetti deleteri su chi lo subisce.

Dato che i segni del danno psicologico o emozionale sono più difficili da individuare rispetto a quelli della violenza fisica, spesso manifestandosi solo tardivamente ed essendo legati alla causa presunta in modo indiretto, la ricerca in questo campo dovrebbe essere orientata ad identificare le probabilità che il danno risulti effettivamente da una specifica azione e quindi a determinare l'indice di pericolosità potenziale di questa (49).

In realtà un'attenta valutazione della natura della sofferenza psichica deve tener conto che le ripercussioni sull'individuo di qualsiasi evento nascono dalla interazione tra varie dimensioni quali l'intensità, la frequenza, la durata, il contesto, il significato soggettivo assunto dall'evento stesso. All'interno di ciascuna dimensione è difficile tracciare una linea di demarcazione tra ciò che è tollerabile da parte del soggetto, della comunità, della cultura e ciò che non può essere accettato.

Il termine "maltrattamento psicologico" viene usato, in una accezione più generale, per indicare tutti gli aspetti affettivi e cognitivi del maltrattamento infantile derivanti da atti o da omissioni (50).

La Dott.ssa Ciampi (51), neuropsichiatra infantile dell'ospedale Mayer ha, infatti, definito tale forma di maltrattamento come un "tradimento" dei genitori nei confronti dei loro figli in quanto, invece di proteggerli e prendersi cura di loro, ne abusano, anche se a livello psicologico:

"I genitori maltrattanti tipicamente incolpano il bambino dei suoi stessi disturbi, attribuendogli responsabilità inadeguate e non curandosi dell'esistenza dei suoi problemi che piuttosto negano, rifiutando qualsiasi offerta di aiuto".

La Dott.ssa Ilaria Lombardi (52), coordinatrice degli educatori della casa di accoglienza per gestanti e madri dello Spedale degli Innocenti, ha infatti definito il maltrattamento psicologico come "la costante incapacità di riconoscere i bisogni del bambino". Da ciò derivano non solo insufficienti risposte alle richieste, anche tacite, di aiuto che il bambino lancia, ma anche a quelle violenze dovute alla non-conoscenza della realtà del minore, che porta ad imposizioni di modelli di vita o a sottovalutazione delle sue difficoltà che si risolvono in abusi da lui vissuti con sensi di profonda ansia e di grave angoscia. Gli indicatori di tale maltrattamento più che fisici (talvolta ritardi dello sviluppo e disturbi psicosomatici) sono comportamentali: il bambino presenta abitudini anomale per la sua età (come succhiare il dito o mordere), difficoltà di socializzazione e disturbi del linguaggio.

5. Patologia delle cure

Negli ultimi anni l'attenzione degli operatori si è progressivamente orientata anche verso i minori vittime di carenze gravi, nutrizionali o affettive. Questo tipo di violenze vengono individuate in quella che abitualmente viene chiamata incuria, termine che - pur essendo entrato nella pratica comune - è improprio: sarebbe più giusto parlare di patologia delle cure (53).

In queste violenze l'elemento centrale è l'inadeguatezza delle cure, per cui possono esistere diversi tipi di patologia:

  1. incuria: quando le cure sono latenti;
  2. discuria: quando le cure sono distorte;
  3. ipercura: quando le cure sono eccessive.

5.1 Incuria

Si parla di incuria quando le persone legalmente responsabili del bambino non provvedono adeguatamente ai suoi bisogni sia fisici che psichici in rapporto all'età e al momento evolutivo. Rientrano quindi nella categoria dell'incuria anche quei casi in cui i genitori, pur occupandosi dei bisogni nutrizionali del figlio, non rispettano i suoi bisogni affettivi, emotivi e di socializzazione. Si possono avere, quindi, diversi gradi di questo tipo di abuso, che vanno dall'abbandono al disinteresse per i bisogni emotivi del bambino (54).

La personalità e lo sviluppo di un minore si realizzano attraverso fasi molto diverse tra di loro, ciascuna delle quali ha delle caratteristiche e dei bisogni psichici e fisici specifici; il genitore attento e comprensivo è sensibile a questi bisogni e modula su di essi il suo comportamento e le sue richieste nei confronti del figlio. Talvolta però ciò non si realizza, perché inconsapevolmente i genitori non riescono a comprendere e quindi ad adeguarsi alle necessità del bambino in quel particolare momento. Si determina così un'alterazione della qualità di vita e delle modalità di relazione del bambino con il mondo esterno, con ripercussioni sullo stato fisico, mentale e comportamentale (55).

I "fattori o indicatori di rischio" (56), che permettono una diagnosi precoce della patologia, impedendo così il cronicizzarsi della situazione di abuso, possono essere suddivisi in: notizie sullo stato di salute, segni fisici e segni comportamentali.

  1. Notizie sullo stato di salute

    Informazioni che permettono di diagnosticare un caso di incuria si possono rilevare al solo colloquio con i genitori, quando emerge una loro difficoltà a fornire notizie esatte e complete sulla nascita e sulle tappe evolutive del figlio: ciò fa sorgere il dubbio di essere di fronte ad un genitore che ha difficoltà a contenere nella propria mente la storia del proprio figlio, perché magari non è sensibile ai suoi bisogni.

    È importante controllare se è stato rispettato il calendario delle vaccinazioni obbligatorie: questo dato permette di verificare le capacità di un genitore di prendersi cura del figlio fin dai primi mesi di vita. Inoltre carie dentali non curate, disturbi visivi o uditivi non trattati sono altri elementi che possono indicare uno stato di incuria (57).

  2. Segni fisici

    Il bambino trascurato spesso indossa vestiti inadeguati all'età, al sesso e alla stagione. Si possono inoltre riscontrare scarsa igiene e dermatiti recidivanti, soprattutto scabbia e pediculosi. Dal punto di vista clinico quasi tutti questi bambini presentano una distorsione delle abitudini alimentari con denutrizione o, al contrario, anche se più raramente, obesità. Infine il loro sviluppo psico-motorio è spesso ritardato (58).

  3. Segni comportamentali

    I bambini non curati appaiono pigri, demotivati, sempre stanchi, con scarso rendimento scolastico e disturbi dell'alimentazione. In realtà sono dei bambini fondamentalmente tristi, che non hanno energie da investire in tali attività e si comportano da pseudo-insufficienti. Sono soggetti ad avere molti infortuni domestici, non essendo in grado di percepire il pericolo perché non hanno un'esperienza di contenimento e attenzione-protezione da parte dei genitori (59).

5.2 Discuria

La discuria è la distorsione della prestazione della cura; in realtà le cure vengono effettuate, ma non sono adeguate al momento evolutivo. In queste situazioni, di solito, i genitori caricano il figlio di proprie aspettative, che sono quasi sempre quelle che un tempo erano i loro desideri. Il bambino è "normale" per i genitori solo (o quasi sempre) quando il suo comportamento coincide con le loro aspettative, laddove queste ultime sono spesso il volerlo il più possibile simile all'immagine che essi hanno, o hanno avuto, di se stessi o del proprio ideale. Tutto questo porta tali genitori ad ignorare i veri bisogni del bambino, appropriati alla fase evolutiva che sta attraversando (60). Quando il bambino viene considerato come una proprietà su cui realizzare determinati scopi, la sua crescita vitale subisce una violenta interruzione.

Chi esercita una violenza fisica sa di fare molto male all'altro; nelle forme di discuria, invece, molto spesso i genitori sono ignari della violenza che stanno esercitando, spesso anzi pensano di agire per il bene dei propri figli e inconsapevolmente possono causare danni maggiori.

I tipici atteggiamenti (61) di discuria sono:

  • anacronismo delle cure. L'atteggiamento dei genitori sarebbe corretto se il bambino fosse in uno stadio evolutivo diverso (ad esempio un bambino di sei anni al quale la madre somministra solo dieta lattea o cibi frullati);
  • imposizione di ritmi di acquisizione precoci. Raramente i bisogni del bambino nei primi anni di vita sono in perfetta armonia con le abitudini degli adulti (ad esempio il ritmo del sonno del bambino raramente coincide con le esigenze e i ritmi di vita dei genitori). Alcuni genitori sono incapaci di vedere nel loro bambino un soggetto immaturo che necessita di un adeguato e tutelato sviluppo per diventare adulto. Sono spesso presenti dei conflitti tra le richieste del bambino e gli impegni dei genitori, che pretendono da lui una precoce autonomia nel controllo sfinterico, nella motricità e nei ritmi alimentari (62);
  • aspettative irrazionali, quando i genitori richiedono ai propri figli delle prestazioni superiori alla norma o alle possibilità del bambino e vogliono che il loro figlio sia il più bravo in qualsiasi attività intraprenda. Questi bambini sono sempre pieni di impegni (scuola, sport, inglese, pianoforte), hanno una grande competitività e non riescono a raggiungere una buona socializzazione con i coetanei. La situazione diventa ancora più grave quando il bambino presenta delle difficoltà fisiche o psichiche che rendono più profondo il distacco tra il bambino idealizzato dal genitore e il bambino reale.

5.3 Ipercura

Rientrano in tale categoria tutti i casi in cui i genitori offrono "cure" eccessive al loro figlio. La forma più importante è la sindrome di Münchhausen per procura, ma esistono delle varianti (63).

La sindrome di Münchhausen per procura

Questa patologia è una forma di abuso in cui il bambino rischia seri danni fisici e psicologici e, spesso, la vita. I genitori, però, non hanno l'intenzione di procurare danni o uccidere il proprio figlio; essi con il loro comportamento vogliono ricreare una situazione di cure e presa in carico del bambino da parte di altri e rimangono fortemente turbati se egli muore: dunque, paradossalmente la morte del figlio è contraria agli interessi patologici dei genitori.

Questo tipo di violenza è molto complessa da descrivere perché intervengono, oltre alla coppia genitoriale con le caratteristiche soggettive e le dinamiche interne, anche le caratteristiche del bambino legate all'età, alle capacità di verbalizzazione, alla sua forza interna, al tipo di relazione con i genitori e soprattutto con la madre. Perché si verifichi l'abuso, infatti, è necessaria la collaborazione di tutto il sistema familiare; tutti i membri della famiglia, anche di quella estesa, utilizzano la sindrome per mantenere la stabilità familiare e negare i conflitti (64).

Per la diagnosi è fondamentale studiare attentamente la storia clinica, verificare se vi è un'associazione temporale tra i sintomi del bambino e la presenza della madre, chiedere molti dettagli sulla storia personale, sociale e familiare e verificare se la madre inventa sintomi anche su se stessa, cercare di capire il significato di tale comportamento.

La diagnosi deve poi essere comunicata alla famiglia in modo chiaro, senza farsi condizionare dalle reazioni della madre che possono andare dalla completa ammissione dell'abuso all'aggressività verso i medici con l'accusa di essere loro i responsabili per imperizia e incompetenza (65). I genitori vanno informati se il caso è stato segnalato al Tribunale per i minorenni o ai Servizi territoriali, non per accusarli ma per poter intervenire in difesa del minore. Contemporaneamente va offerto un sostegno psicologico alla madre, al bambino e a tutto il gruppo familiare.

Forme di abuso simili alla sindrome di Münchhausen per procura

La sindrome di Münchhausen per procura viene distinta da altri comportamenti simili:

  1. Doctor shopping per procura

    Si tratta di bambini che hanno sofferto nei primi anni di vita di una grave malattia e da allora vengono portati dai genitori da tantissimi medici per disturbi di minima entità. Consiste in una "esagerazione della malattia" (66): le madri, eccessivamente preoccupate per le condizioni fisiche del figlio, ricorrono continuamente all'aiuto medico, percependo lievi patologie come gravi minacce per la vita del bambino e chiedendo o facendo in modo che essi vengano ricoverati in ospedale o sottoposti a continui accertamenti.

    Si differenzia dalla sindrome di Münchhausen per procura poiché il disturbo materno è di tipo nevrotico-ipocondriaco e, accogliendo le ansie e le preoccupazioni che la madre proietta sul figlio, è possibile rassicurarla sullo stato di salute del bambino.

  2. Help seekers

    In questo tipo di patologia il bambino presenta dei sintomi fittizi indotti dalla madre, ma si differenzia dalla sindrome di Münchhausen per la frequenza con cui vengono indotti i sintomi e per la motivazione materna. Infatti gli episodi di ricerca di cure sono limitati nel tempo e rappresentano un preciso bisogno della madre in particolari momenti. Il confronto con il medico spesso la induce a comunicare i suoi problemi, quali l'ansia e la depressione (67).

    Di solito, se viene offerto un sostegno psicoterapeutico o proposto l'affidamento temporaneo del bambino, la madre accetta e si mostra disposta a collaborare.

  3. Abuso chimico

    Con tale termine viene indicata l'anomala somministrazione di sostanze farmacologiche o chimiche al bambino. Le sostanze somministrate possono essere suddivise in quattro gruppi (68):

    • sostanze qualitativamente prive di proprietà tossicologiche ma che possono tuttavia risultare nocive se somministrate in quantità o modalità eccessive. (Rientra in questo gruppo l'abnorme somministrazione di acqua);
    • sostanze con scarsa tossicità e di comune impiego domestico (ad esempio il sale da cucina);
    • sostanze ad azione farmacologica dotate di media tossicità e di facile reperibilità come lassativi, diuretici, glucosio, insulina;
    • farmaci dotati di spiccata tossicità ad azione sedativa e di non usuale disponibilità. Si tratta di solito di sonniferi prescritti alla madre dal medico curante: la loro somministrazione a dosi inadeguate causa nel bambino una sindrome neurologica grave che talvolta causa coma e/o morte.

    Questa sindrome va sospettata quando ci si trova di fronte a sintomi non spiegabili in base alle consuete indagini di laboratorio e strumentali, che insorgono ogni volta che la madre ha un contatto diretto con il bambino (69).

  4. Sindrome da indennizzo per procura

    Si tratta di quei casi in cui la necessità dei genitori di avere un indennizzo (ad esempio nel caso di un infortunio) porta il bambino ad assumere dei sintomi riferiti dai genitori stessi. Il meccanismo con cui si struttura è identico alla sindrome da indennizzo dell'adulto (70), solo che in questo caso la sintomatologia viene indotta nel bambino, che fedelmente si adegua (71).

    La motivazione psicologica è quella del risarcimento e viene totalmente negata sia dai genitori che dal bambino; i sintomi variano a seconda delle conoscenze mediche della famiglia e la sindrome si risolve con totale e improvvisa guarigione una volta ottenuto il risarcimento.

6. Abuso sessuale

Mariti e mogli possono spingersi vicendevolmente alla follia,
ma possono divorziare.
I bambini sono indissolubilmente legati ai loro genitori. (R.D. Laing) (72)

6.1 La definizione del termine "abuso sessuale sui minori"

La rilevazione e l'accertamento di un fatto di abuso sessuale è un'operazione estremamente complessa, soprattutto perché sussiste tra gli specialisti molta incertezza su cosa debba intendersi per "abuso sessuale" (73). In realtà non è affatto semplice delimitare i confini tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, in una materia così fortemente condizionata da inclinazioni soggettive, dove la linea di demarcazione è molto sfumata.

La difficoltà di definire i comportamenti umani è ancor più forte quando la classificazione riguarda i comportamenti sessuali illeciti, cioè quelli integranti fattispecie di reato.

Nelle ricerche sull'abuso sessuale (sulla sua estensione e le sue caratteristiche) qualunque operatore adotta una definizione diversa e utile per la sua attività, per cui esse sono difficilmente comparabili e i risultati cui pervengono possono variare anche di molto da lavoro a lavoro, benché tutte abbiano apparentemente lo stesso oggetto di indagine (74). E questa diversità nelle definizioni è ancora più evidente nel caso dell'incesto, dove la pluralità di definizioni si coniuga con il carattere intrafamiliare dell'abuso sessuale.

Un primo effetto pratico immediato di tutta questa confusione è la difficoltà a promuovere le opportune politiche sociali e a mobilitare le risorse necessarie. Sul piano operativo la clinica e il diritto risentono in maniera ancor più consistente della mancanza di una definizione condivisa dalle varie discipline.

Nasce così tra gli operatori in questa materia la "polarizzazione" (75):

  • tra quanti ritengono giustificabile l'intervento esterno solo nei casi più estremi e sono favorevoli ad una definizione di abuso sessuale assai circoscritta;
  • e quanti collocano al primo posto la protezione del minore e sostengono che l'adozione di una definizione, la più ampia possibile, può concorrere a prevenire un'escalation da forme di abuso meno gravi ad altre più gravi.

La definizione nella ricerca

Da un attento esame comparativo, compiuto da alcuni autori (Peters, Wyatt e Finkelhor (76)), delle principali ricerche sull'incidenza dell'abuso sessuale sui minori, è emerso che le definizioni del termine "abuso sessuale sui minori" divergono nelle diverse attività lavorative in quattro punti fondamentali (77):

  1. l'inclusione o meno dell'esibizionismo e delle proposte oscene nella definizione di abuso sessuale,
  2. il limite di età della vittima,
  3. l'inclusione o meno delle aggressioni commesse da coetanei,
  4. la differenza di età tra vittima e aggressore.
  1. Molti ricercatori usano una definizione assai ampia di abuso sessuale che comprende, oltre agli abusi sessuali con contatto fisico (contact abuse), anche atti che non contemplano un contatto fisico tra vittima e aggressore (non contact abuse), come ad esempio l'invito a partecipare ad attività sessuali: includono, dunque, nella definizione di "abuso sessuale" anche gli atti di esibizionismo e le proposte oscene.

    Essi sostengono la loro scelta in base a due ragioni:

    • l'esibizionismo è considerato un atto criminale il cui scopo è spaventare e colpire moralmente la vittima;
    • le proposte oscene, quando provengono da un adulto con cui il minore ha una relazione affettiva significativa e di dipendenza, hanno un considerevole impatto psicologico sul minore (78).

    Altri autori, invece, esitano ad accomunare l'esibizionismo e le proposte oscene all'abuso sessuale caratterizzato da contatto fisico, dal momento che quest'ultimo implica un ben più alto grado di gravità con seri effetti psicologici. Alcune ricerche sostengono infatti che sia improbabile che il solo abuso sessuale senza contatto fisico possa determinare disturbi psicologici a lungo termine.

  2. Anche riguardo al limite di età delle vittime le definizioni variano da ricerca a ricerca, spaziando dall'età prepuberale ai sedici anni fino al limite dei diciotto anni (che coincide con la minore età giuridica).

  3. Un altro argomento di divergenza riguarda il problema se debbano essere inclusi nella definizione anche episodi che abbiano quali autori del reato dei coetanei della vittima. L'orientamento più recente è di includere anche queste esperienze ogni volta che esse implichino coercizione e non siano ricercate, bensì subite dalla vittima (79).

    Anche la legislazione italiana accoglie tale orientamento, prevedendo "la reclusione per chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali", includendovi dunque anche i coetanei della vittima (art. 609-bis c.p.).

  4. L'ultima divergenza è costituita dalla differenza minima di età tra vittima ed aggressore, necessaria perché si possa ricorrere alla definizione di abuso sessuale indipendentemente dall'esistenza di un apparente consenso da parte della vittima.

In genere, tutti sono d'accordo nel ritenere sempre abuso sessuale ogni relazione tra un adulto ed un bambino. Quando però gli episodi sessuali interessano vittime adolescenti, i confini necessari a definire l'abuso sessuale si fanno più confusi. È infatti impossibile e sempre arbitrario definire in modo astratto il momento in cui l'adolescente raggiunge la capacità di acconsentire liberamente e pienamente a una relazione sessuale (80).

La definizione clinica di abuso sessuale

Il problema della grande varietà di definizioni di abuso sessuale merita un'attenzione particolare quando interessa l'ambito clinico.

Vari professionisti (medici, magistrati, avvocati, psicologi, operatori sociali insegnanti) affrontano l'intervento nei casi di incesto ognuno partendo dalla propria specifica identità professionale. Dalla propria esperienza ciascuno trae una propria visione su ciò che debba essere ritenuto abuso sessuale o incesto. Spesso queste visioni possono essere assai discordanti e produrre fraintendimenti e divergenze sostanziali su aspetti di primaria importanza, come la protezione dei minori o l'apertura di procedimenti penali a carico degli adulti. Sul terreno dell'intervento operativo si pone quindi ancora più forte l'esigenza di una definizione che possa essere largamente condivisa da diverse figure professionali (81).

D'altra parte, però, una definizione troppo ampia o generale rischia di lasciare un margine eccessivo alla discrezionalità, favorendo il riemergere di punti di vista parziali. Diversi autori, infatti, raccomandano di diffidare di definizioni troppo ampie e invitano ad affiancare sempre ad espressioni generali, quali "abuso sessuale sui minori", descrizioni dettagliate ed esplicitamente connesse al contesto di riferimento in cui vengono usate (per esempio "bambini molestati dai genitori"), invece di "bambini vittime di abusi sessuali" (82).

La pedofilia e l'abuso sessuale sono tradizionalmente trattati come aberrazioni sessuali, laddove l'esperienza clinica ha ampiamente messo in evidenza che chi aggredisce sessualmente i bambini cerca, attraverso comportamenti sessuali, di soddisfare bisogni che hanno più a che fare con la ricerca di sensazioni di potere, di controllo e di dominio su soggetti più deboli che con il piacere sessuale. La possibilità di coinvolgere un minore in una relazione sessuale è determinata, infatti, dalla posizione di superiorità e dal potere che ha l'adulto nei confronti del bambino, che si trova invece in una posizione di dipendenza e di soggezione. È attraverso questa sua autorità che l'aggressore, implicitamente o esplicitamente, costringe il minore a sottomettersi alla relazione sessuale (83).

Una definizione operativamente efficace è quella proposta da Goodwin, che utilizza indifferentemente le espressioni "incesto" e "abuso sessuale intrafamiliare" per indicare "ogni azione sessuale commessa su un bambino da parte di un adulto avente ruolo di genitore" (84). Sotto un profilo teorico, criminologico e giuridico, far coincidere l'incesto con l'abuso sessuale intrafamiliare può apparire arbitrario. Ogni distinzione si rivela però secondaria quando ci si muove nella prospettiva dettata da esigenze di intervento operativo (giuridico, sociale o psicologico) nell'interesse di minorenni. Infatti, indipendentemente dal grado, dalla durata e dalla stabilità del coinvolgimento del minore nella relazione incestuosa si attivano le medesime esigenze di protezione, di indagine e trattamento da parte delle istituzioni. Ai fini della scelta di intervenire la distinzione appare cioè irrilevante. È solo in un secondo momento che essa torna ad acquisire tutta la sua importanza, quando si tratta di ricostruire la dinamica dell'incesto per definire i trattamenti idonei o per accertare il grado di responsabilità (psicologica e penale) del genitore e di altri familiari (85).

Il concetto clinico di abuso sessuale elaborato dalla letteratura sociologica e psicologica risulta dunque più esteso rispetto alla condotta che integra la fattispecie di reato sul piano giudiziario. Anche nella Legge n. 66 del 1996 la definizione del reato implica la costrizione del soggetto-vittima a "compiere o subire atti sessuali con violenza, minaccia o mediante abuso di autorità", anche se molti correttivi rendono presunta tale componente violenta in situazioni in cui essa non è esercitata in modo esplicito (con riguardo all'età della vittima e al tipo d'autore).

Tuttavia rimane escluso da tale definizione, ad esempio, il verificarsi di relazioni sessualizzate tra soggetti minorenni con differenza di età pari o inferiore a tre anni se tali soggetti hanno più di tredici anni, indipendentemente dalla relazione che li lega; non possono inoltre essere considerate reato - in quanto non comportano veri e propri "atti"- altre situazioni in cui il minore è esposto ad un clima psicologico decisamente negativo e fuorviante per il corretto sviluppo di una sua propria identità sessuale e della sua personalità, o sia coinvolto come spettatore più o meno complice di giochi erotici tra persone cui sia fortemente legato. Secondo molti autori tali situazioni non differiscono invece, almeno sul piano qualitativo, dalle esperienze codificate come violenza sessuale, in quanto le conseguenze dannose che possono produrre potrebbero essere le medesime (86).

Si può dunque affermare che c'è un'importante differenza tra la definizione clinica e quella giuridica di abuso sessuale. Nella prima, il bene giuridico protetto è l'integrità del minore come persona, il quale può essere danneggiato da qualunque atto sessuale che subisce, chiunque sia il soggetto agente. La legge n. 66/96, invece, fornisce una tutela dello sviluppo della sessualità del minore e prevede, a seconda della sua età o della relazione con il soggetto agente, l'intangibilità sessuale oppure la sua capacità di autodeterminazione in ambito sessuale (purché egli abbia compiuto almeno tredici anni e la differenza di età con il coetaneo non sia superiore a tre anni). Quindi, mentre nella definizione clinica l'intervento operativo di protezione e trattamento dovrà essere attivato indipendentemente dal grado, dalla durata o dalla modalità dell'atto sessuale compiuto o dall'età del minore, perché la sua integrità come persona sarà stata comunque compromessa, nella definizione giuridica questi elementi qualificanti il fatto sono importanti per poter valutare il grado di responsabilità del soggetto agente.

La definizione giuridica

"Le definizioni normative dei comportamenti di abuso sessuale sui minori - afferma Ferrando Mantovani (87) - devono rispondere ad una duplice esigenza: da un lato quella di conciliare la libertà sessuale di un individuo con i diritti degli altri individui e con i valori ammessi dalla collettività; dall'altro quella di inserire i comportamenti in questione nell'uno o nell'altro titolo di legge, anche in rapporto alla predominanza delle istanze sessuali o di quelle violente nella realizzazione delle pulsioni sessuali del reo". È quindi importante chiedersi che cosa può essere correttamente definito come comportamento abusante nei confronti di un minore. Anche se istintivamente può sembrare che non vi debbano essere dubbi in proposito, non è certo un caso che gli esperti ancora dibattano sull'estensione di tale definizione, sia in merito agli atti commessi, che al tipo di relazione intercorrente.

Da un punto di vista puramente psicologico si potrebbe affermare che qualsiasi attivazione di desiderio sessuale in un adulto nei confronti di un bambino rappresenta una patologia che può dar luogo ad un abuso. Tuttavia è pure evidente che quando tale desiderio non si concretizza in azioni o si manifesta in forme tali da non essere direttamente percepibile dalla vittima (pensiamo ad esempio ad atti di voyeurismo), non sembra appropriato parlare di abuso.

Secondo la definizione proposta dal Consiglio d'Europa (88) nel 1978, per abuso sessuale di un minore deve intendersi «ogni atto o carenza che turbi gravemente i bambini o le bambine, che attenta alla loro integrità corporea, al loro sviluppo psico-fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di un terzo, ed ogni atto sessuale imposto al bambino non rispettando il suo libero consenso». Questa definizione solleva il grande problema dell'accertamento e della valutazione del grado di maturità e di capacità critica del minore che sia tale da consentirgli di esprimere realmente il suo libero consenso. Vi è l'esigenza di fissare un'età minima al di sotto dalla quale si può affermare in modo assoluto l'incapacità da parte del soggetto di esercitare tale consenso (89).

Il nostro codice penale fornisce una definizione di "violenza sessuale" (art. 609-bis) riferendosi a "taluno che è costretto a compiere o subire atti sessuali, con violenza o minaccia ovvero mediante abuso di autorità", facendo alcune distinzioni riguardo all'età della vittima per l'inasprimento della pena (un numero maggiore di anni di reclusione). La condizione di minore età costituisce, in tali ipotesi di reato, sia presupposto di violenza indipendentemente dal consenso espresso dalla vittima, sia circostanza aggravante rispetto alla punibilità, sia presupposto d'inferiorità psichica e fisica tipica dei minori, cioè essi si trovano sempre in un rapporto subalterno con l'autore del reato (adulto) e dunque nell'impossibilità di esprimere un consenso consapevole (90).

La scelta compiuta dalla legge italiana n. 66/1996 ("Norme contro la violenza sessuale") è stata quella di introdurre, al posto della precedente normativa (che prevedeva sia l'ipotesi di violenza carnale, sia l'ipotesi di atti di libidine con differenti criteri di valutazione rispetto alle pene), la definizione di un'unica fattispecie di reato (atti sessuali), includendo così, in tale espressione, anche quei casi in cui non vi è stato un contatto fisico tra vittima e aggressore (91) (non contact abuse), come ad esempio nel reato di corruzione di minorenne.

L'elemento costitutivo del reato è la coercizione compiuta sulla vittima, mediante violenza, minaccia o abuso d'autorità, da parte del soggetto agente (che può essere anche un coetaneo del minore aggredito). Il nostro codice penale, infatti, ha stabilito che la differenza di età tra soggetti adolescenti, affinché si possa escludere una situazione di abuso sessuale, debba essere al massimo di 3 anni (art. 609-quater, 2º comma), purché il minore ne abbia almeno 13. Con questo comma è stato così riconosciuto il diritto del minore ad esprimere la propria sessualità, senza alcuna penalizzazione.

Nella pratica giudiziaria si cerca però di valutare le varie situazioni di "violenza sessuale sui minori" in base anche alle definizioni date dagli esperti in tali problematiche, che configurano tali reati anche quando la violenza o la minaccia non è presente in modo esplicito. Certo è che una definizione giuridica di un fenomeno, per la sua stessa natura, sarà sempre più ristretta di una sociologica, ma il loro utilizzo è diverso: la prima serve per incriminare un fatto, la seconda per spiegarlo o trovarne la causa. È però auspicabile, perché certamente vantaggioso, il loro utilizzo congiunto per risolvere una questione problematica come quella della violenza all'infanzia (92).

Una delle definizioni, ad esempio, più utilizzate perché ritenuta più appropriata, forse per la sua ampiezza e genericità, è quella avanzata da Kempe (93). L'autore infatti afferma che si deve considerare "abuso sessuale" sui minori: "il coinvolgimento di bambini e adolescenti, soggetti quindi immaturi e dipendenti, in attività sessuali che essi non comprendono ancora completamente, alle quali non sono in grado di acconsentire con totale consapevolezza o che sono tali da violare tabù vigenti nella società circa i ruoli familiari".

Rientrano in questa definizione gli episodi di pedofilia, di stupro, d'incesto e più in generale di sfruttamento sessuale. Si tratta, ovviamente, di situazioni che possono dar luogo ad episodi molto diversi l'uno dall'altro, in presenza o meno di violenza fisica, ma accomunati dalla caratteristica di agire in modo molto forte sulla vita psicologica e sulle relazioni sociali dei minori, turbandone i processi di sviluppo della personalità e di maturazione della sessualità (94).

Tale definizione evita la specificazione dei singoli atti effettuati e permette così di classificare (e considerare, almeno ai fini dell'intervento clinico e giuridico-protettivo) come abuso anche le prime manifestazioni d'interessamento e di seduzione rivolte dall'adulto al bambino.

Essa ridimensiona anche l'importanza del concetto di violenza (utilizzato invece da altri autori o dalla nostra legislazione come caratteristica essenziale al configurarsi di un'esperienza traumatica), concetto ambiguo e pericoloso da utilizzare quando debba essere applicato a quelle situazioni in cui i legami affettivi siano tanto forti da imporre reazioni di adattamento del bambino, capaci di "diluire" il significato intrusivo e traumatico che la stessa situazione assumerebbe se vissuta al di fuori di quella relazione, senza che ciò significhi danni meno gravi come conseguenza dell'atto stesso (95).

La definizione di Kempe include, infine, il concetto importante di violazione dei tabù sociali, utile quando bisogna stabilire se le interazioni sessualizzate tra minorenni integrano un abuso. Ad esempio la differenza di età tra abusante e vittima, usato sia nel nostro che in altri paesi come criterio per discriminare la liceità delle condotte, può essere insufficiente e portare artificialmente, da un punto di vista legale, ad escludere l'abuso in casi in cui viceversa, sul piano clinico, esistono tutti i presupposti per configurare quella situazione come altamente traumatica.

Alla definizione di Kempe si avvicina quella inserita nella Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale all'infanzia (96), approvata a Roma nel 1998, dove l'abuso sessuale è stato definito come «il coinvolgimento di un minore da parte di un partner preminente in attività sessuale anche non caratterizzata da violenza esplicita», «fenomeno diffuso, che si configura sempre e comunque come un attacco confusivo e destabilizzante alla personalità del minore e al suo percorso evolutivo».

6.2 Gli interventi legislativi contro l'abuso sessuale sui minori

6.2.1 La normativa prima della legge n. 66/96

La violenza sessuale contro i minori non è un fenomeno nuovo, neanche dal punto di vista legislativo: si è rivelato, infatti, come l'abuso fosse contemplato come reato già nell'antico codice di Hammurabi, risalente a 4000 anni fa, il quale prevedeva rigide pene per gli autori.

Nelle antiche civiltà le grandi punizioni previste per tali reati erano per lo più legate al valore attribuito alla verginità, intesa però come "proprietà" dell'uomo, e quindi del padre o del marito o del fratello: la violenza sessuale era così considerata un reato compiuto contro la proprietà (97).

Nel corso dei secoli la commissione dell'abuso sessuale è stata più o meno rilevata a seconda soprattutto dei cambiamenti nei valori etici e sociali dei rapporti umani: il rilevare o il denunciare un abuso sessuale è, ad esempio, incoraggiato ed auspicabile dalla maggior parte delle realtà territoriali attuali, mentre qualche tempo fa costituiva ancora una vergogna e un tradimento nei confronti della famiglia ed era quindi tenuto segreto.

Le evoluzioni della società, inoltre, comportarono anche vari cambiamenti legislativi e, nei codici penali pre-unitari (come in quello toscano del 1853 ed in quello sardo-italiano del 1859) e nel codice Zanardelli del 1889, il delitto di violenza carnale e quello di corruzione di minorenne furono inseriti nei delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie. Ma questo non bastava: ad esempio la libertà sessuale non era neanche menzionata e risulterà espressamente richiamata come tale soltanto nel codice Rocco del 1930 (nel capo I del libro IX) (98).

Quest'ultimo collocò la violenza sessuale nei reati contro la moralità pubblica e il buon costume. Con ciò venne espressa l'idea di fondo, presente nella tradizione giuridica al momento della codificazione penale italiana: gli interessi connessi alla libertà sessuale erano considerati non interessi intrinsecamente meritevoli di tutela di per sé, in rapporto al valore e alla dignità del soggetto che ne è portatore, bensì interessi necessariamente funzionali ad un altro sovrastante interesse dal quale traevano valore e validità: erano considerati il riverbero del superiore interesse alla pubblica moralità. E quindi l'introduzione dell'autonomo rilievo dato alla libertà sessuale fu una novità rispetto alla tradizione preesistente, ma affievolita da questa visione pubblicistica dell'interesse tutelato (99).

Nei confronti dei minori, il riconoscimento del problema della violenza (seppur inizialmente nei suoi aspetti più eclatanti come l'abbandono, l'incuria e lo sfruttamento sul lavoro) si è però concretizzato veramente nella promulgazione di leggi, nel corso del tempo, volte a favorire un'attività di protezione sempre più articolata e intensa del minore da questi fenomeni. Ogni paese, infatti, dimostra il proprio grado di riconoscimento della violenza sui minori in base all'esistenza o meno di un insieme di norme dirette ad incrementare tali fenomeni ed in base alla loro accuratezza legislativa.

Inizialmente sono stati sanzionati i fenomeni più facilmente percepibili all'estero quali il maltrattamento e l'incuria, seguiti poi dal riconoscimento di forme più "nascoste" quali la violenza psicologica e l'abuso sessuale. Con tale protezione l'ordinamento ha affermato che il valore da tutelare va ravvisato nell'integrità della persona di minore età (100), considerandola come soggetto che ha potenzialità che vanno salvaguardate, ed ha inoltre realizzato una misura preventiva, impedendo indirettamente la commissione di ulteriori reati attraverso la minaccia della sanzione penale.

Purtroppo ci sono ancora molte situazioni pregiudizievoli per i minori che non sono state riconosciute, o comunque dove essi non sono stati tutelati in modo tale da ottenere una "protezione reale". È importante, però, che anche il diritto - seppur con un notevole ritardo - abbia cominciato a riconoscere sia che gli adulti hanno dei doveri nei confronti dei minori, sia che questi ultimi sono portatori di diritti che non solo devono essere rispettati, ma devono anche essere concretamente attuati (101).

6.2.2 La legge n. 66/96: "Norme contro la violenza sessuale"

Una grande innovazione in materia di reati di violenza sessuale è stata apportata, negli ultimi anni, dalla legge n. 66/96 (102), con la quale è stata realizzata la riforma del codice Rocco sull'argomento.

Primo punto cardine della riforma è stato lo spostamento di tale normativa dal capo relativo ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume a quello dei delitti contro la libertà personale, con ciò mettendo in evidenza come la tutela offerta da tali disposizioni è rivolta prevalentemente al diritto di autodeterminazione dell'individuo nella sfera dell'attività sessuale (103). È stato quindi abrogato tutto il capo I del titolo IX del libro II del codice penale, relativo ai delitti contro la libertà sessuale, nonché gli artt. 530 (corruzione di minorenne), 539 (età della persona offesa), 541 (pene accessorie agli effetti penali), 542 (querela dell'offeso), 543 (diritto di querela).

Le norme sulla violenza sessuale sono adesso inserite nella sezione II del capo III del titolo XII del c.p., che regola i delitti contro la libertà personale. Con tale nuova sistemazione il legislatore ha voluto affermare che il vero bene leso non è una generica moralità sessuale, il cui titolare è la collettività, ma la singola persona (104), la cui sfera di libertà viene gravemente violata dai comportamenti sanzionati nella legge e la cui personalità risulta essere fortemente compromessa.

Secondo Tullio Padovani (105), però, la nuova collocazione prescelta dal legislatore della riforma risulta priva di qualsiasi intrinseca coerenza con il sistema normativo del codice: la serie delle gravi incriminazioni in materia di violenza sessuale segue, infatti, un modestissimo delitto (art. 609 - Perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie), alterando così in modo tanto vistoso ed incomprensibile la distribuzione dei reati all'interno del codice.

La legge n. 66/96 costituisce, da una parte, un riconoscimento della richiesta del movimento delle donne di giudicare la violenza sessuale come un reato contro la persona, ma sicuramente è anche un atto significativo di adeguamento della legislazione italiana a quanto stabilito dalla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, in particolare agli articoli 19 e 39 riguardanti le misure e le azioni per provvedere alla tutela dei minori da ogni forma di abuso. L'introduzione nel codice penale di un richiamo esplicito e specifico alla protezione dei bambini fu sollecitato all'Italia anche da parte del Comitato ONU sui diritti del fanciullo - organismo di controllo e di monitoraggio sullo stato di attuazione della Convenzione (costituito in base a quanto disciplinato dall'art. 43) - il quale, a seguito della valutazione effettuata nel 1994 sul primo rapporto italiano riguardo alle misure adottate per dare applicazione alla Convenzione stessa, formulò osservazioni e raccomandazioni nei confronti del governo italiano, ma soprattutto incisivo fu il reclamo per l'assenza nel codice penale di un'adeguata protezione dei minori dall'abuso fisico, sessuale e dalla violenza all'interno della famiglia, per la carenza di misure appropriate di ascolto del bambino e per l'insufficiente numero di risorse e servizi appropriati per il recupero psico-fisico dei minori vittime di abusi (106).

Infatti l'art. 19 della Convenzione incita gli Stati ad adottare provvedimenti legislativi, amministrativi, sociali ed educativi per difendere il minore da ogni forma di violenza, oltraggio fisico o mentale, di abbandono, di negligenza, di maltrattamento o di sfruttamento, compresa la violenza sessuale, ponendo l'attenzione sul fatto che l'applicazione di tali provvedimenti deve essere necessariamente correlata alla creazione di programmi sociali finalizzati a fornire l'appoggio necessario al fanciullo e alla sua famiglia (sia questa quella naturale, adottiva o affidataria) e alla predisposizione di strategie di prevenzione e di adeguata indagine sulle condizioni socio-familiari del minore. L'articolo, dunque, sottolinea l'importanza di attivare interventi polisettoriali (107) per tutelare efficacemente il minore, poiché il maltrattamento, lo sfruttamento e l'abuso sessuale sono fenomeni complessi che richiedono un approccio multidisciplinare da parte di ogni operatore e settore operante nelle cinque funzioni fondamentali di tutela: la prevenzione, la rilevazione, la diagnosi, la protezione e la cura/trattamento degli effetti a breve e lungo termine del trauma.

L'articolo 39, inoltre, sancisce la necessità di assicurare interventi integrati di aiuto finalizzati a promuovere la cura e il reinserimento sociale dei minori vittime di qualsiasi forma di abuso che interferisca con il loro normale processo di crescita.

L'abuso sessuale può essere realizzato sia con comportamenti attivi, sia con condotte definite commissive mediante omissione: dunque sia attraverso il compimento di atti sessuali direttamente sul corpo del bambino, sia costringendo quest'ultimo ad assistere a rapporti sessuali. Dunque sono di due tipi le condotte punite dall'ordinamento: quelle poste in essere con costrizione (violenza, minaccia o abuso d'autorità) e quelle poste in essere con induzione (inganno o abuso delle condizioni d'inferiorità fisica o psichica, nel senso di soggezione psicologica) (108).

Le disposizioni della legge n. 66/96 tendono a tutelare qualsiasi persona da illecite e conturbanti invasioni nella propria sfera di libertà, sia essa maschio o femmina, adulto o minore. Una tutela particolare è riservata a quest'ultimo a ragione della sua immaturità psichica e fisica, della sua conseguente incapacità di esprimere un consenso automaticamente libero e cosciente, della sua inesperienza e delle conseguenze altamente dannose per un suo equilibrato ed armonico processo di crescita (109).

Un altro importante aspetto della riforma è stato quello dell'unificazione delle due precedenti figure di violenza carnale e degli atti di libidine violenta (atti sessuali violenti diversi dalla congiunzione carnale), valutati diversamente rispetto alle pene, nell'unica figura degli "atti sessuali" (art. 609 bis), con ciò volendosi eliminare la necessità di indagini, umilianti per la vittima, volte ad identificare nel caso concreto la specifica condotta compiuta dal colpevole.

Tale unificazione è un chiaro sintomo di cambiamento culturale e di percezione sessuale sia rispetto alla sessualità, sia rispetto al ruolo di "persona". Infatti, prima della riforma si riteneva che la congiunzione carnale dovesse stimarsi, sul piano normativo, figura criminosa di maggiore gravità rispetto agli atti sessuali di natura diversa, non tenendo evidentemente in considerazione né il grado di compromissione della libertà sessuale derivante da atti in cui non si ha la "congiunzione degli organi genitali" (110), nè le conseguenze dannose che ne derivano.

Alla nuova legge, per l'unificazione delle due figure criminose, sono state fatte subito, dalla dottrina, numerose critiche che hanno evidenziato come, per cercare di risparmiare alla persona offesa indagini umilianti e mortificanti (risultato che si voleva perseguire con tale unificazione), occorreva eliminare dal dettato normativo i requisiti della violenza e della minaccia (modalità costitutive delle condotte incriminate) e sostituirli con altri, quali ad esempio l'assenza di consenso o il dissenso, maggiormente rispettosi della persona e più rispondenti alla realtà dei fatti.

È stato infatti rilevato che con tale unificazione non si può esonerare la vittima dal sottoporsi a tutte le visite medico-legali ed ai colloqui, che seppur frustranti e dolorosi, sono comunque attività necessarie per l'attività giudiziaria, in quanto volte a valutare l'esistenza, la consistenza e le modalità esecutive dell'atto. Infatti abolire ogni riscontro sulla vittima del reato porterebbe a riconoscerle il potere di qualificare direttamente i fatti, da lei denunciati, come verificatisi, ma questo è contrario ad ogni logica giuridica (111). L'unica funzione che può essere riconosciuta all'unificazione delle condotte illecite è quella di far sì che gli inquirenti, di fronte ad un caso sospetto o accertato di abuso sessuale, non debbano ricercare la specifica norma da applicare al caso concreto, ma possano utilizzare quella che prevede la generica azione di compiere "atti sessuali".

La critica si è rivolta anche alla scelta di tale terminologia generica, la quale sembra non permettere l'individuazione esatta dei confini del fatto illecito. Le motivazioni del legislatore di voler, in questo modo, salvaguardare la riservatezza della persona offesa dalle indagini volte all'accertamento della verità non riescono a giustificare la conseguente violazione del principio di tassatività (contenuto implicitamente nell'art. 25 Cost.), che impone al legislatore di delineare in maniera precisa l'azione delittuosa, per far sì che ognuno sappia distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è. Tutto ciò ha portato alcuni giuristi a prospettare l'illegittimità costituzionale dell'art. 609 bis (112).

La legge n. 66/96 individua quattro figure criminose di violenza sessuale in senso ampio: la violenza sessuale propriamente detta, gli atti sessuali con minorenne, la corruzione di minorenne e la violenza sessuale di gruppo.

6.2.3 La violenza sessuale e gli atti sessuali con minorenne

Per i minori la nuova normativa ha predisposto una rete di particolare protezione: infatti ha previsto, in primo luogo, la minore età fra le aggravanti specifiche della violenza sessuale (113).

La riforma ha disciplinato sia le condotte di violenza sessuale propria (art. 609 bis), nelle quali la minore età della persona offesa costituisce una mera circostanza aggravante dell'aggressione, sia gli atti sessuali consensuali compiuti con un minorenne (la cosiddetta violenza sessuale presunta o impropria), quegli atti, cioè, che il minorenne compie volontariamente, senza che sia utilizzata violenza o minaccia.

Fino a quattordici anni, di regola, il minorenne non può validamente consentire al compimento di atti sessuali (art. 609 quater n. 1 c.p.): infatti il compimento, senza violenza né minaccia, di tali atti nei confronti di un soggetto che non abbia raggiunto tale limite di età è equiparato a tutti gli effetti alla violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) (114).

Tale limite di età viene elevato a sedici quando l'autore rivesta una particolare qualifica che comporti un contatto più diretto e frequente con il minore (come ad esempio il genitore), o un'autorità su di lui, oppure un particolare carisma nei suoi confronti (art. 609 quater n. 2 c.p.).

Le due disposizioni enunciano due presunzioni assolute (che non ammettono prova contraria) di invalidità del consenso prestato dal minore (anche senza l'utilizzo di violenza o minaccia) al compimento di atti sessuali. L'assolutezza di tali presunzioni risiede in ciò che il soggetto agente non è mai ammesso a provare: cioè che il minore, nonostante fosse di età inferiore ai limiti fissati dalla legge, avesse nel caso concreto la maturità e la consapevolezza sufficienti a consentire validamente al compimento degli atti sessuali (115).

La prima presunzione assoluta, enunciata nel n. 1 dell'art. 609 quater c.p. e relativa all'invalidità del consenso prestato dal minore infraquattordicenne, è completata dal disposto dell'art. 609 sexies c.p., per il quale l'autore del reato non è mai ammesso a provare l'errore sull'età della persona offesa. Quindi, la legge presume che l'autore conosca l'età della vittima e l'ignoranza non rileva neanche se è stato cagionato dal dolo malizioso del minore (il quale, ad esempio, ha mostrato un documento sul quale, per errore dell'Amministrazione che lo ha rilasciato, compaia una data di nascita non vera ed anteriore a quella reale).

Il significato del limite minimo di quattordici fissato dal legislatore risiede nella presunzione che prima di tale età il minore non abbia alcuna possibilità di avvertire in maniera limpida e non traumatica i mutamenti fisiologici, inerenti allo sviluppo, che si sono appena verificati o che si stanno verificando in lui (116). Si è voluto così tutelare l'inviolabilità sessuale del minore, in quanto si tratta di un soggetto considerato dall'ordinamento incapace di manifestare un valido consenso all'atto sessuale (117). E l'esigenza di proteggere assolutamente il minore in tale fase ha portato all'emanazione dell'art. 609 sexies c.p.

La seconda presunzione, enunciata nel n. 2 dell'art. 609 quater c.p., è relativa ai minori di età compresa tra i quattordici e i sedici anni: essi, in linea di principio, sono ritenuti capaci di esprimere un valido consenso ai fini del compimento di atti di natura sessuale, ma non nei confronti di persone cui il minore sia legato da rapporti qualificati.

Tale norma, infatti, opera solo nei confronti di alcuni particolari soggetti agenti: commette reato chi compie atti sessuali consensuali con una persona che (pur avendo compiuto quattordici anni) non abbia ancora compiuto i sedici, quando ne è l'ascendente, o il tutore, o abbia con lui un rapporto di convivenza, o comunque rivesta una particolare funzione di supremazia nei suoi confronti.

Il rapporto di convivenza, in quanto circostanza aggravante, tiene conto di fattori che non solo fanno riferimento alla relazione tra abusato e abusante, e pertanto alla frattura di qualsiasi fiducia e senso di sicurezza che possa esistere tra adulto e minore, ma anche alla continuità dell'abuso nel tempo, che caratterizza quegli abusi compiuti ove esista un rapporto di convivenza che, è dimostrato, contiene contenuti di invasività e traumaticità maggiori rispetto ad episodi isolati (118).

Infatti, quando l'abuso diviene una relazione protratta nel tempo contribuisce ad una vera strutturazione progressiva (119) della personalità del minore, caratterizzata da insicurezza e paura degli altri, che condiziona la qualità delle relazioni future familiari ed extrafamiliari. L'importanza della relazione abusato-abusante è pertanto ribadita anche dalla normativa, oltre che dagli esperti in chiave di valutazione clinica e psicodiagnostica.

In queste ipotesi, il bene giuridico tutelato è l'intangibilità sessuale relativa. Il legislatore ritiene che il minore non sia in grado di esprimere un consenso libero ed inoltre che il tipo di rapporto con il soggetto agente non è compatibile con il compimento di atti sessuali, essendovi il rischio di una strumentalizzazione della fiducia del minore stesso (120).

Il fondamento logico della presunzione di invalidità del consenso prestato al minore dei sedici anni risiede nella convinzione che l'agente può avere - e spesso ha - un notevole ascendente sui minori affidatigli. La sua posizione, infatti, può spesso determinare nel minore un sentimento che non si sviluppa e non si manifesta in maniera consapevole e libera da condizionamenti, ma risente il più delle volte del concorso di fattori inerenti alla situazione concreta, i quali possono indurre il minore (che a quell'età può sicuramente essere ancora confuso sia sotto il profilo esistenziale, che sotto i profili fisiologico e psicologico) a delle scelte compiute con poca riflessione (ad esempio il caso dell'allieva dei primi anni delle scuole superiori che si invaghisce dell'aitante e giovanile insegnante) (121). L'instabilità emotiva e passionale sono caratteristiche peculiari del periodo adolescenziale e da questo si comprende l'opportunità della tutela apprestata dall'ordinamento contro possibili strumentalizzazioni da parte di adulti di tale vulnerabile personalità.

In considerazione di tali situazioni, il legislatore si è quindi preoccupato di proteggere gli infrasedicenni colpendo con la sanzione penale quei soggetti i quali, pur senza violenza o minaccia, comunque approfittino di essi.

La norma, però, pare gravemente discriminatoria per tutte quelle vittime di abuso sessuale intrafamiliare che hanno più di 16 anni e che si trovano nell'imbarazzante situazione di dimostrare di essere state costrette al rapporto incestuoso con violenze e minacce (122).

Poiché gli abusi, solitamente, avvengono in assenza di testimoni e la violenza psicologica a cui sono sottoposte è impossibile da dimostrare in sede processuale, le vittime rischiano di veder cadere tutte le loro accuse.

Inoltre, l'incesto non si limita quasi mai ad un solo episodio: in generale si tratta di una relazione che dura per anni e che quasi sempre inizia durante l'infanzia della vittima; non si può dunque pensare che un minore, che comincia a subire abusi da piccolissimo, sia in uno stato di soggezione verso il proprio violentatore fino a 16 anni, mentre, da allora in poi, il rapporto di subalternità psicologica fino a quel momento subìto improvvisamente si rompa.

Il legislatore, invece, dà per scontato che debba subentrare il coraggio di ribellarsi: se non c'è stata ribellione, si ritiene che la vittima sia consenziente (123).

Questa seconda presunzione, però, non è completata da alcuna norma analoga all'art. 609-sexies c.p., quindi l'autore del fatto può sempre provare l'errore sull'età del soggetto passivo, purché la falsa rappresentazione della realtà consista in un errore di fatto (ad esempio nel caso di un documento contenente dati anagrafici inesatti), e non di diritto (quale sarebbe, ad esempio, quello sul computo dei termini e dell'età secondo il diritto civile vigente). Ciò, in linea teorica, vale anche quando autore del fatto sia l'ascendente, o il genitore adottivo, o il tutore, o l'abituale convivente: non sembra possibile, però, ipotizzare un solo caso concreto nel quale questi soggetti possano ragionevolmente sostenere l'ignoranza dell'età del minore (124).

Dunque il contenuto di queste presunzioni può essere sintetizzato nei seguenti enunciati:

  1. l'autore delle condotte indicate non è mai ammesso a provare che, nonostante l'età inferiore ai 14 o ai 16 anni (a seconda dei casi), il minore abbia dato il proprio consenso con libertà e consapevolezza;
  2. nel caso di soggetto passivo di età inferiore ai 14 anni, l'autore non è mai ammesso a provare l'ignoranza sull'età della vittima;
  3. nel caso di soggetto passivo fra i 14 e i 16 anni, l'errore sull'età della vittima, consistente in errore di fatto, ha efficacia scriminante secondo il disposto dell'art. 47 c.p. (125)
Atto sessuale su minore compiuta con violenza o minaccia
(violenza sessuale propria)
Età del minore Atto sessuale su minore consenziente
(violenza sessuale presunta o impropria)
  • Reclusione da 7 a 14 anni.
  • Procedibilità d'ufficio.
Minore al di sotto di 10 anni.
  • Il consenso a compiere atti sessuali è invalido perché il minorenne è ritenuto per legge immaturo per prendere decisioni di tal genere.
  • Reclusione da 7 a 14 anni.
  • Procedimento d'ufficio.
  • Reclusione da 6 a 12 anni.
  • Procedibilità d'ufficio.
Minore tra 10 e 14 anni.
  • Di regola, il consenso è invalido, salvo eccezioni.
  • Reclusione da 5 a 10 anni.
  • Procedibilità a querela.
(N.B.) Eccezione = Il consenso del minore tra 13 e 14 anni rende non punibile il patner minorenne che ha non più di 3 anni rispetto al primo (609-quater, 2º comma c.p.).
  • Reclusione da 5 a 10 anni.
  • Procedibilità a querela.
Eccezione = procedibilità d'ufficio se l'autore del reato è il genitore anche adottivo o la persona cui il minore è affidato (609-septies, 4º comma, n. 2).
Minore al di sopra di 14 anni.
  • Di regola il consenso è valido (l'atto è lecito penalmente).
Eccezione = se il minore è al di sotto di 16 anni è punibile il colpevole che ne sia il nonno, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui per ragioni di cura educazione, istruzione, vigilanza o custodia il minore è affidato, o che abbia col minore una relazione di convivenza (609-quater, 1º comma, n. 2 c.p.). Soltanto in questi casi si procede d'ufficio.

Sul problema rappresentato dagli atti sessuali consensuali compiuti fra minorenni, la previgente normativa non prevedeva disposizioni in merito e ciò era considerato come uno dei profili di maggiore inadeguatezza di essa. Una volta confermato che il limite, al di sotto del quale il consenso prestato dal minore al rapporto sessuale deve ritenersi invalido, era 14 anni (e dunque rifiutata la proposta dei fautori della libertà, anche sessuale, dei minori di abbassare il limite a 12 anni), è emerso il problema di trovare una giusta soluzione per evitare di compiere una compressione troppo forte della personalità dei minori (126).

Dopo un lungo dibattito, la soluzione di compromesso (127) tra la tutela del minore e il riconoscimento, nell'ambito giuridico, della sua capacità di autodeterminazione è stata raggiunta con la previsione di una particolare causa di non punibilità dei rapporti sessuali tra minorenni, inserita nella legge n. 66/96 all'art. 609 quater, comma 2, c.p.

Secondo tale articolo, le effusioni compiute fra adolescenti, purché siano consensuali, sono consentite alla duplice condizione che il più piccolo dei due abbia compiuto almeno i tredici anni e che non vi sia fra di loro una differenza di età superiore a tre anni.

Riguardo all'elemento necessario del consenso del minore che ha compiuto almeno tredici anni, sarebbe più corretto parlare di "mancanza di costrizione" all'atto sessuale. In realtà, secondo alcuni autori (128), essendo l'intera normativa indirizzata verso una tutela rafforzata nei confronti del minore, sarebbe stato più opportuno non limitarsi ad un richiamo alla mancanza di costrizione e richiedere, viceversa, un espresso consenso. In tal modo si sarebbe dovuto anche accertare, caso per caso, se il minore avesse realmente avuto quella capacità (naturalistica) che permette di vedere quell'atto come espressione della sua libertà.

Tale norma consente di contemperare il dato sociale esistente e non discutibile degli atti sessuali compiuti fra teenager con le esigenze di tutela dell'armonia di crescita del minore. Si è cercato, cioè, di porre una distinzione tra le condotte che costituiscono un'interferenza degli adulti nello sviluppo del minore e quelle che, viceversa, costituiscono esperienze spontanee tra adolescenti.

È certo che la previsione di rigidi limiti temporali (tredici anni compiuti, non oltre tre anni di differenza), come in tanti altri casi nell'ordinamento giuridico, può suscitare qualche perplessità (129): tanti giovani si domanderanno sicuramente perché non possono avere una relazione con un partner che ha tre anni e un giorno meno o più di loro. È però necessario evidenziare che un limite doveva essere imposto dal legislatore per rispettare la codificazione normativa e l'odierna soluzione sembra rappresentare la più semplice da applicare e la più efficace per la tutela del minore (anche da un punto di vista di crescita personale).

Con questa disposizione è stata prevista una causa personale di non punibilità (130), che consegue ad una valutazione di mera opportunità politica-criminale. Il bene giuridico tutelato dall'ordinamento nel caso di atti sessuali con minorenne (cioè la sua intangibilità sessuale) viene meno, in questa ipotesi, perché il minore si trova in una fascia di età in cui il legislatore ritiene non debba sussistere una tutela particolare nei suoi confronti, purché però si tratti di rapporti consensuali tra coetanei.

Un grande problema interpretativo, posto dalla nuova normativa, è stato quello della previsione, all'art. 609-bis, co. 3, c.p., "dei casi di minore gravità", nei quali la pena è diminuita fino a due terzi così da rendere possibile il patteggiamento.

La difficoltà consiste nel fatto che né la legge n. 66/96, né il sistema normativo nel suo complesso forniscono alcuna indicazione per poter comprendere il vero significato di tali casi. Ne consegue che è il giudice a dover valutare concretamente il caso secondo una sua valutazione soggettiva e questo comporta enunciazioni diverse di fronte a casi simili. Il grave danno sembra doversi registrare a carico di quei minori che, per la situazione di abuso che hanno vissuto (ad esempio intrafamiliare), non hanno il coraggio di denunciare e così il loro silenzio, magari accompagnato anche da atteggiamenti affettivi nei confronti proprio del loro presunto abusante, rendono concreta l'ipotesi del "caso di minore gravità" (131).

Infine, i fatti di violenza sessuale, siano essi consensuali o meno, sono puniti in maniera particolarmente grave (reclusione da 7 a 14 anni) ove il soggetto passivo abbia un'età inferiore a 10 anni. Con tale disposizione il legislatore ha voluto dare una risposta forte ad un fenomeno grave che ormai sta emergendo anche nei paesi industrializzati: la pedofilia (132).

6.2.4 Il reato di corruzione di minorenni

La legge n. 66/96 ha totalmente riformulato la definizione del reato di corruzione di minorenne (art. 609 quater), configurandolo nelle ipotesi in cui vengono compiuti atti sessuali in presenza di minore di anni 14 al fine di farlo assistere a tali atti e prevedendone la procedibilità d'ufficio.

La condotta è punibile solo se compiuta al preciso fine di fare assistere il minore a tali atti (si tratta cioè di una fattispecie a dolo specifico), mentre non rileva penalmente se l'azione è compiuta, pur consapevolmente in presenza del minore, per un fine diverso, quale potrebbe essere quello della mera soddisfazione del piacere personale (ad esempio nel caso di rapporti fra coniugi costretti a coabitare nella medesima stanza con figli di età inferiore a quattordici anni) (133). Inoltre, per integrare tale fattispecie di reato, occorre comunque che il minore abbia un'età tale da poter rimanere influenzato dall'episodio cui assiste. Questo è, infatti, l'ultimo indirizzo della giurisprudenza che ritiene sussistente il reato solo nel caso in cui il minore abbia la possibilità di percepire l'atto lascivo nella sua materiale realtà(il che non si verificherà, ad esempio, nel caso del neonato o del minore di un anno) (134). Questo è considerato un aspetto particolarmente preoccupante, considerando il fatto che spesso i minori sono costretti a vivere, in certi ambienti, in condizioni di promiscuità, per cui non possono evitare di assistere al compimento di atti sessuali fra adulti, con i danni che ne conseguono per la loro personalità in sviluppo (135).

Infine, va notato che il reato di corruzione di minorenne è un reato di pericolo e non di danno. Ciò implica che, per la consumazione delittuosa, non è necessaria l'effettiva corruzione, ma è sufficiente l'apprezzabile possibilità di tale evento da valutarsi in relazione alle circostanze di tempo, di luogo, di modalità in cui si compie l'azione e alle condizioni personali del soggetto passivo (136). La giurisprudenza, con la sentenza 25/2/69, ha ritenuto che il reato non sussistesse quando il minore, pur trovandosi nel luogo dell'attività, stesse dormendo, perché in tal caso il pericolo di corruzione non deve essere confuso con il pericolo di risveglio del minore.

La predisposizione di questo reato, contemplando il caso in cui siano compiuti "atti sessuali" in presenza di minore di 14 anni al fine di farlo assistere ad essi, è rivelatrice del chiaro intento del legislatore di voler rendere legittima la consumazione di atti sessuali nei confronti o in presenza di un minore di età tra i 14 e i 16 anni, purché consenziente e non avente legami con il soggetto agente tra quelli indicati nell'art. 609-quater n. 2. Infatti, il vecchio testo di questa ipotesi di reato (art. 530 c.p.) prevedeva due diverse situazioni criminose (137) (e cioè il fatto di colui che, al di fuori dei casi di violenza carnale e atti di libidine violenti, commette atti di libidine su o in presenza di un minore di sedici anni e il fatto di chi induce un minore di sedici anni a commettere atti di libidine su se stesso, sulla persona del colpevole o su altri), nelle quali veniva tutelato maggiormente il minore tra i quattordici e i sedici anni - in quanto per l'infraquattordicenne trovavano applicazione le specifiche norme relative alla violenza carnale e agli atti di libidine violenti (artt. 519, 520, 521) - e il minore di quattordici anni che si trovava in tutte quelle ipotesi in cui i fatti non potevano rientrare nelle precedenti fattispecie.

Importante è stata, inoltre, l'abolizione, da parte del legislatore, della causa di non punibilità, prevista dalla vecchia disciplina nell'art. 530 c.p., costituita dal fatto che il minore fosse "persona già moralmente corrotta". Tale disposizione, infatti, presupponeva l'irreversibilità della personalità del minore che aveva vissuto esperienze corruttive o perverse nei suoi confronti, quando invece, essendo un soggetto in piena formazione e non ancora strutturato e stabilizzato, deve fortunatamente essere ritenuto capace di recupero (138).

6.2.5 La legge n. 269/98: "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù"

Con la legge n. 269/98 sono state previste tutte le incriminazioni corrispondenti agli ulteriori sviluppi dell'attività criminale riguardo allo sfruttamento sessuale dei minori e, in specie, il fenomeno dilagante della pedofilia. La legge è stata redatta in adesione alla Convenzione sui diritti del fanciullo (ratificata ai sensi della legge n. 176/91) e alla dichiarazione finale della Conferenza mondiale di Stoccolma del 1996, la quale si concluse con l'approvazione del Progetto delle dichiarazioni di intenti e del programma operativo, in cui si poneva come obiettivo la cooperazione a livello locale, nazionale, regionale ed internazionale dei paesi aderenti per combattere il fenomeno.

Sono dunque perseguibili condotte quali l'induzione e lo sfruttamento della prostituzione del minore di 18 anni, anche quando il fine è quello di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico, la distribuzione o la divulgazione (anche per via telematica) di tale materiale o di informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento di minori ed inoltre la prostituzione minorile a scopo di turismo sessuale (139).

L'aspetto più interessante di questa normativa, non solo dal punto di vista giuridico e criminologico, ma anche etico e sociale, è costituito dall'aver inserito tali condotte in una definizione più ampia di "riduzione in schiavitù di minori", coinvolti in attività sessuali e, dunque, la loro collocazione sistematica tra i "reati contro la personalità individuale", in quanto considerate condotte criminali che compromettono la libera determinazione della "personalità individuale" del minore in crescita. La legge così mostra di considerare, come bene giuridico leso dalle nuove fattispecie di reato, lo sviluppo della personalità del minore sotto il profilo però della sua libera autodeterminazione piuttosto che della cosciente esplicazione della libertà personale (come invece ha fatto la legge n. 66/96) (140). Le nuove figure di reato, infatti, non incriminano gli atti sessuali compiuti con violenza o minaccia (e dunque in assenza del libero consenso della vittima), ma lo sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile, che oltre ad essere di per sé atti caratterizzati da profondo disvalore sociale e morale, costituiscono anche una grave lesione alla personalità individuale di soggetti che, a causa dell'età, non sono completamente in grado di autodeterminare la propria condotta.

L'elemento discriminante dalla legge n. 66/96 è costituito sia dalla finalità di lucro che il coinvolgimento del minore in tali attività comporta, sia dalla differenziazione di queste tipologie di comportamento da altre forme di abuso sessuale su minore di tipo familiare o extrafamiliare ove non sia presente però la finalità economica. Il legislatore, dunque, ha inteso colpire la cosiddetta "mercificazione professionalmente organizzata del sesso minorile" (141), con riguardo sia alle prestazioni sessuali vere e proprie, sia alla creazione o riproduzione di suoni o immagini a contenuto erotico.

In Italia la prostituzione minorile coinvolge sia minori italiani che stranieri, questi ultimi spesso vittime della tratta, un crimine che si fonda sulla compravendita e lo sfruttamento di esseri umani sottratti con violenza o inganno dai luoghi di origine, portati nei Paesi occidentali e venduti come schiavi. Numerose vittime sono state rapite da organizzazioni criminali internazionali, altre sono state vendute dalle proprie famiglie o attirate con false promesse di lavoro.

Non è facile quantificare il numero di minori che sono costretti a prostituirsi in Italia perché esistono, specialmente nel caso di minori italiani, numerose situazioni di prostituzione familiare o amicale che è difficile portare alla luce (142).

La lotta contro la prostituzione minorile richiede, dunque, uno sforzo di coordinamento sia a livello locale che nazionale ed internazionale perché l'organizzazione del crimine è complessa e articolata. Per perseguire tale reato è necessario anche un efficace coordinamento con i paesi destinatari dei flussi di turisti interessati a questo tipo di mercato: le polizie locali, infatti, sono autorizzate a segnalare agli organismi internazionali la nazionalità di coloro che sono considerati sospetti autori di violenze sessuali sui minori nei paesi di destinazione "turistica".

6.2.6 Le attività svolte dopo la legge n. 269/98

Dopo la ratifica della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989, gli appuntamenti considerati più significativi per valutare il più recente percorso compiuto dall'Italia nella prevenzione e nel contrasto dell'abuso e dello sfruttamento sessuale di bambini e adolescenti sono stati due: il Secondo congresso mondiale di Yokohama contro lo sfruttamento sessuale commerciale dei minori (svoltosi nel dicembre del 2001) - preceduto da importanti conferenze intergovernative che hanno consentito di avviare un confronto a livello regionale - e la Sessione speciale delle Nazioni unite sull'infanzia (143).

La Sessione speciale di New York ha verificato i risultati, gli obiettivi e gli impegni che erano stati presi con la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo. Inoltre, in occasione del primo incontro mondiale sull'infanzia nel 1990 (al quale ha partecipato anche l'Italia), è stato adottato il documento A World Fit for Children, nel quale la lotta contro ogni forma di violenza, abuso e sfruttamento sessuale a danno di bambini ed adolescenti è stata riaffermata tra le priorità assolute dell'attività politica internazionale.

In tale testo i fenomeni di abuso e violenza sui minori vengono additati come fossero "un'epidemia", contro la quale ogni "attività strategica" di contrasto (legislativa, sociale, culturale, economica, sanitaria, educativa, ecc.) si presenta complessa e destinata ad incontrare non poche difficoltà.

Vengono segnalate una serie di azioni che i paesi devono attuare in modo prioritario nella lotta contro ogni forma di violenza ed in particolare contro la tratta e lo sfruttamento sessuale dei minori: ridurre e contrastare ogni forma di discriminazione sociale e culturale e di emarginazione, da cui possono generarsi le condizioni che favoriscono l'abbandono e lo sfruttamento dei minori; attivare le istituzioni, la società civile e le comunità locali affinché ci sia una diffusa assunzione di responsabilità rispetto al problema "sia nel Nord che nel Sud del mondo"; garantire ogni misura di protezione che risulti necessaria; provvedere al recupero, al reinserimento sociale e alla cura dei minori vittime dei vari fenomeni di violenza (144). Tale documento si configura come uno stimolo per l'Italia a proseguire lungo i percorsi già avviati, a migliorarli e ad aprirne di nuovi. Infatti deve essere fatto ancora molto per riuscire ad ottenere migliori condizioni di vita per i minori vittime di tali fenomeni e per prevenire a livello primario, l'insorgere del trauma della violenza e, a livello secondario e terziario, l'aggravarsi dei danni e degli effetti conseguenti (145).

Successivamente, in preparazione del Congresso di Yokahama, si è svolta a Budapest, nel novembre 2001, una Conferenza intergovernativa, conclusasi con l'adozione del Commitment and Plan of Action for Protection of Children from Sexual Exploitation in Europe and in Central Asia. Questo documento è molto chiaro nell'indicare che il criterio-guida, che le politiche nazionali e sovranazionali devono seguire per contestare contro ogni forma di violenza sull'infanzia, deve essere quello della logica "zero tolerance" (146), la quale si concretizza in una serie di comportamenti che ogni paese deve realizzare integralmente come propria strategia d'azione, senza prevedere eccezioni: prevenire e reprimere la violenza sui minori, proteggerli, applicare ed adeguarsi alla normativa, integrare e programmare gli interventi.

6.2.7 La legge n. 154/01: "Misure contro la violenza nelle relazioni familiari"

Grande importanza ha avuto l'emanazione della legge n. 154/2002, la quale ha introdotto (all'art. 282-bis c.p.p.) la misura coercitiva dell'allontanamento del familiare violento. La ratio della norma è stata quella di predisporre un rimedio rapido ed efficace nei casi più gravi di violenza in famiglia, di pornografia e di sfruttamento della prostituzione minorile, attuati in danno dei prossimi congiunti o del convivente. Gli ordini, che possono anche essere emessi dal giudice laddove non si sia in presenza di reati perseguibili d'ufficio, possono essere di vario tipo: allontanamento dalla casa familiare (anche se questa è di proprietà esclusiva del soggetto allontanato), divieto di frequentazione di luoghi in cui abitualmente si trova il minore, obbligo di pagamento di un assegno al familiare che permanga in uno stato di bisogno.

Anche in precedenza era possibile ottenere misure di allontanamento, ma la novità (147) della legge sta nella possibilità di farvi ricorso anche laddove non si sia di fronte a situazioni che si configurano come reato accertato: è il caso degli ordini di protezione emanabili in sede civile, ma in presenza di una certa situazione di grave e pregiudizievole disagio (condizione che si può verificare in casi di grave e ripetuta "violenza assistita" (148), trascuratezza e maltrattamento psicologico ai danni di minori). Con questa normativa, dunque, si è registrato un importante progresso perché è stata eliminata l'ingiustizia, finora realizzata, per cui il minore diventava vittima due volte: prima perché subiva l'abuso, poi perché subiva anche l'allontanamento da casa (149).

È inoltre interessante rilevare che in questa legge è presente un altro aspetto fortemente innovativo: l'introduzione di una più ampia definizione di violenza (150), che viene individuata in tutte quelle situazioni di grave pregiudizio dell'integrità (fisica o morale) o della libertà di un componente qualsiasi del nucleo familiare causate da un altro componente della famiglia (legittima o naturale).

Dal punto di vista dei minori, la legge riconosce il diritto del bambino a non essere sradicato dal proprio ambiente familiare quando sia necessario porlo al riparo dal ripetersi della violenza. Sotto questo aspetto, per poter applicare attentamente la legge, è necessaria la collaborazione tra magistratura e servizi sociali (151), perché è ormai dimostrato che un genitore non abusante o maltrattante non è per questo necessariamente protettivo e, anzi, necessita anch'esso di un forte sostegno. Purtroppo la difficoltà di tale integrazione comporta una scarsa applicazione della legge. Ma va anche ricordato che, se da un lato, si può considerare l'introduzione di tali norme come un fatto positivo, dall'altro, è opportuno (specialmente nei casi di abuso sessuale e di maltrattamento grave) una valutazione attenta della protettività del genitore che rimane con il minore. Non può, infatti, essere esclusa l'ipotesi che tale adulto di riferimento abbia comportamenti fortemente ambivalenti nei confronti del coniuge maltrattante o abusante allontanato e possa agire sul figlio con minacce e ritorsioni (152).

6.3 La realtà dell'abuso: elementi descrittivi

Un'importante ricerca sull'argomento è stata quella compiuta da Sgroi, Blick e Porter (153), i quali nel 1982 hanno individuato varie fasi dell'abuso sessuale, che si ripetono ancora oggi:

  1. fase dell'adescamento: l'abusante mette in atto una serie di comportamenti per attirare su di sé il minore, separandolo dagli altri componenti della famiglia, in particolare dalla madre e creando delle situazioni che lo facilitino nei suoi piani;
  2. fase dell'interazione sessuale: durante la quale l'abusante passa a forme di violenza via via sempre più intrusive e devastanti (ad esempio da discorsi pornografici a esibizionismo, voyeurismo, a contatti fisici fino alla penetrazione, a volte con il coinvolgimento anche di altri minori, o inducendo il/la bambino/a a compiere a sua volta atti sessuali su fratelli e sorelle più piccoli;
  3. fase del segreto (il quale è presente anche nella fase precedente): in cui l'abusante costringe con vari mezzi il minore al silenzio;
  4. fase dello svelamento dell'abuso;
  5. fase della rimozione: caratterizzata dal tentativo di negare la realtà dell'abuso o di minimizzarlo, o di negare o minimizzare il danno derivato al/alla bambino/a dall'abuso stesso (154).

Più recentemente, la Commissione Scientifica "Monitoraggio del maltrattamento" del Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso all'Infanzia (CISMAI) ha realizzato nel 1999 una rilevazione del maltrattamento e dell'abuso sessuale sui minori sulla base dei dati raccolti da alcuni centri e servizi del CISMAI in relazione ai casi di maltrattamento e/o abuso sessuale segnalati o in carico a tali enti negli anni 1998 e 1999. Alla rilevazione hanno partecipato 7 centri o servizi aderenti al Coordinamento e, di questi, 2 sono servizi/centri pubblici, mentre 5 sono servizi/centri privati (che spesso hanno però convenzioni con gli enti pubblici per gestire l'intervento nei casi di abuso sessuale su minori).

Il materiale raccolto è riferibile a 928 minori segnalati o in carico negli anni indicati (155).

Rilevazione della violenza sui minori nei centri CISMAI
Nome Centro/Servizio Provincia N. casi
CAF Milano 189
CBM Milano 326
Fondazione Maria Regina Teramo 34
Centro Infanzia Violata Roma 29
Numero Blu Cagliari 178
Servizio Tutela Minori Desio - Seregno 79
Centro Tutela Bambino-TCF Bergamo 93
TOTALI 928

Lo strumento per la rilevazione è stato una scheda specifica, elaborata in tre anni dalla Commissione.

Riguardo alle varie tipologie di violenza, dal diagramma relativo (realizzato dalla ricerca del CENSIS) risulta che dopo le situazioni a rischio di violenza (oltre il 26%) e la trascuratezza (quasi il 22%) - situazioni queste in cui dovrebbe maggiormente operare l'attività di prevenzione - la tipologia di violenza percentualmente più commessa è l'abuso sessuale (circa il 20%).

Grafico 1

Emerge, dunque, l'immagine di un bambino abbandonato a se stesso, non stimolato, non curato, isolato affettivamente e spettatore della conflittualità in famiglia che spesso arriva a coinvolgerlo.

Tali violenze, secondo questa ricerca (156), sono commesse, nella quasi totalità dei casi, in ambiente domestico (91%).

Grafico 2

Anche da un'altra ricerca (157) svolta nel 2002, dalla Scuola Romana Rorschach (Centro studi e intervento infanzia violata), sui dati raccolti da 35 audizioni protette di minori sessualmente abusati, è stato confermato quest'ultimo risultato. L'abuso sessuale è stato distinto in:

  • abuso sessuale intrafamiliare ed intradomestico: quando l'abuso sessuale è commesso dal genitore o comunque da un parente convivente con il minore;
  • abuso sessuale intrafamiliare ed extradomestico: quando l'abuso è perpetuato da un parente non convivente o da un amico di famiglia;
  • abuso sessuale extrafamiliare: quando l'abuso è compiuto da un soggetto estraneo al minore e/o alla famiglia.

Le tipologie dell'abuso sessuale

Grafico 3

È emerso che si ha un numero più elevato di casi di abuso sessuale intrafamiliare extradomestico. Considerando poi, oltre a questa, la percentuale dei casi di abuso sessuale intrafamiliare intradomestico, il numero dei casi di abuso intrafamiliare risulta fortemente maggiore rispetto a quello dei casi di abuso extrafamiliare. Dalla ricerca del CENSIS (158) risulta infatti che chi ha compiuto violenza è in prevalenza il padre (autore principale o unico), seguito dalla madre (secondo autore).

Relazione tra autore e vittima della violenza
Tipo violenza Autore principale Secondo autore Terzo autore
Abuso sessuale Padre Estraneo Sconosciuto
Maltratt. Fisico Padre Madre Sconosciuto
Trascuratezza Padre Madre Altri parenti
Maltratt. Psicologico Padre Madre Altri parenti
Situaz. a rischio Padre Madre Altri parenti
Ipercura Padre/Madre Madre/Padre -

Definire il contesto dell'abuso significa, in primo luogo, comprendere il tipo di relazione esistente tra l'abusante e la vittima (159). Infatti, la violenza compiuta dall'estraneo è sicuramente diversa da quella massa in atto dal padre incestuoso, così come è diversa quella compiuta dal vicino di casa o dal conoscente.

Relazione tra l'abusante e la vittima (valori percentuali)
Soggetto agente MILANO NAPOLI VENETO
Padre-patrigno 16 23 14
Altro familiare 4 19 4
Fidanzato - 18 1
Amico 2 5 6
Insegnante 10 - 7
Conoscente 28 14 13
Persona "autorizzata" 10 2 11
Estraneo 30 19 44
Totale 100 100 100

Una particolare categoria di abusanti è quella delle cosiddette "persone autorizzate", cioè di coloro che, in virtù dell'attività che svolgono (infermiere, medico, ecc.), hanno l'opportunità di entrare in relazione con la vittima in maniera naturale (160).

Le violenze che il bambino subisce nell'ambito familiare sono, comunque, quelle più rilevanti perché la carenza di un sostegno o dell'affetto della famiglia è quella che più gravemente condiziona la regolare strutturazione della personalità e l'adeguato sviluppo del processo di socializzazione del bambino. La famiglia abusante non è soltanto la famiglia autoritaria e dispotica, né solo quella sfruttatrice in senso economico del bambino (considerato come "merce"). Può danneggiare il minore anche la famiglia che, per rispettare "troppo" la sua libertà, lo lascia solo ad esplorare la vita; quella che - per assicurargli un luminoso avvenire - è particolarmente esigente e perfezionista; quella che per iperprotezionismo gli impedisce di fare esperienze significative e strutturanti perché tutto costituisce pericolo; quella ripiegata narcisisticamente su se stessa e quindi portata ad inculcare nel figlio l'idea che tutto il mondo è ostile e negativo e che solo il modello familiare è valido; quella che attraverso il ricatto della riconoscenza, per l'amore dato e per i sacrifici compiuti, soffoca il bambino con un amore possessivo e distruggente (161).

Per svolgere adeguatamente il proprio ruolo genitoriale, e così captare le esigenze del bambino, e per saper rispettare la sua sensibilità sono necessari nei genitori un'adeguata maturità personale ed un forte controllo di sè e delle proprie reazioni. Il che non è facile, specialmente in una società che tende ad infantilizzare anche gli adulti, che isola ed emargina la famiglia, che moltiplica le situazioni di fragilità familiare, che propone continuamente modelli diversi e spesso contrastanti di educazione (162).

Per quanto riguarda la composizione familiare, da un'ulteriore rilevazione (163) sulla violenza all'infanzia, compiuta nel 2002 dalla Dott.ssa Celeste Pernisco, pedagogista, è emerso che la maggioranza dei bambini vittime di violenze vive in nuclei costituiti da entrambi i genitori biologici conviventi (il 56%) e la famiglia "normale" continua ad essere l'ambito in cui si verificano la maggior parte degli abusi.

Grafico 4

Negli abusi sessuali consumati in famiglia, possono essere riconosciute modalità complesse di realizzazione, tanto da poterli distinguere in tre sottogruppi (164):

  1. abusi sessuali manifesti:

    lo sono, di solito, gli abusi di tipo incestuoso, consumati nella maggior parte dei casi da figure maschili con figlie femmine, ma dovrebbero essere considerati tali anche altri rapporti simili, di cui si parla poco: tra padri e figli maschi; tra madri e figli maschi; tra fratelli e sorelle.

    Questi tipi di violenze sono, per i traumi e le conseguenze che lasciano sul minore, i più evidenti e sono quelli sui quali è possibile intervenire con fermezza; ma la difficoltà nel riconoscerli è proprio nel fatto che avvengono all'interno del nucleo di vita più vicino al bambino: la sua famiglia.

  2. abusi sessuali mascherati:

    lo sono pratiche genitali inconsuete, quali frequenti lavaggi del bambino, ispezioni ripetute e applicazioni di creme e preparati medicinali.

  3. pseudo-abusi:

    a questo gruppo appartengono gli abusi dichiarati quando in realtà non sono stati concretamente consumati per:

    • convinzione errata, a volte delirante, che il/la figlio/a (più frequentemente la figlia) sia stato/a abusato/a; dietro a tali convinzioni c'è talvolta la proiezione sul/la figlio/a di esperienze di abuso subite nella propria infanzia dal genitore;
    • consapevole accusa all'ipotetico autore di abuso sessuale finalizzato ad aggredirlo, screditarlo, perseguirlo giudizialmente. Queste accuse avvengono frequentemente da parte di madri o nonne contro i padri nel corso delle separazioni;
    • dichiarazione inventata dal/dalla giovane, di solito adolescente, per sovvertire una situazione familiare insostenibile. Anche se l'abuso non si è realizzato, sono situazioni che vanno sempre prese in considerazione perché indicano che il minore ha sicuramente un disagio e, pertanto, deve essere aiutato;
    • l'abuso sessuale "assistito", quando cioè il/la bambino/a assiste all'abuso che un genitore agisce su un fratello o una sorella, o viene fatto assistere alle attività sessuali dei genitori.
  4. abusi sessuali extrafamiliari:

    sono forme di abuso frequentemente sommerse e che riemergono nei racconti dei pazienti, ormai adulti, poiché, quando l'abuso si era verificato, i sentimenti di vergogna, imbarazzo, pudore dei genitori avevano prevalso sull'opportunità non solo di denunciare il fatto all'autorità giudiziaria, ma anche di occuparsi della salute mentale del minore che aveva subito l'abuso.

    Il problema delle conseguenze psicologiche di questi soggetti non ha un'evoluzione univoca (165), ma è in funzione della situazione psicologica individuale e soprattutto di come l'ambiente familiare e sociale in cui vivono reagisce.

    Nella maggior parte dei casi vi è una situazione di trascuratezza fisica e/o affettiva, in cui vive il minore, che non gli permette di sviluppare la capacità di discriminare i pericoli e lo rende predisposto ad accettare qualunque attenzione affettiva gli venga proposta dall'esterno, credendola compensatoria di una vuoto affettivo intrafamiliare.

    Quando la negazione e l'omertà non reggono e il problema diventa palese, il bambino subisce dalla propria famiglia altre violenze, che consistono nel costringerlo a ripetute e minuziose descrizioni dei fatti alle diverse autorità (in numero anche superiore al necessario). Tutto questo perché il pensiero dominante per il genitore offeso diventa la vendetta, quasi perdendo di vista i bisogni e le angosce del/la proprio/a figlio o figlia (166).

Riguardo al sesso delle vittime di abuso sessuale, dalla ricerca svolta da Terragni (167) risulta che si tratta soprattutto di soggetti di sesso femminile e di età media raramente al di sotto dei sei anni. Egli sostiene che "parlare di violenza nei confronti di bambini significa, nella grande maggioranza dei casi, parlare di violenze nei confronti di bambine e adolescenti". Per i maschi è stato comunque registrato un notevole rischio di abuso sessuale extrafamiliare, a differenza delle femmine dove l'abuso avviene più frequentemente nell'ambito familiare.

Incidenza degli abusi e delle violenze a seconda dell'età e del sesso delle vittime (valori percentuali)
Età MILANO NAPOLI VENETO
Femmine Maschi Femmine Maschi Femmine Maschi
Minorenni 36 75 54 100 42 58
Maggiorenni 64 25 46 0 58 42
Totale 100 100 100 100 100 100
Età dei minorenni vittime di abusi e violenze sessuali (valori percentuali)
Età MILANO NAPOLI VENETO
Fino a 6 anni 2 2 4
Da 7 a 11 anni 33 19 26
Da 12 a 14 anni 33 40 38
Da 15 a 17 anni 32 39 32
Totale 100 100 100

Lo stesso risultato è stato confermato sia dalla rilevazione compiuta nel 1999 dal CISMAI (168), sia da quella compiuta nel 2002 dalla Scuola Romana Rorschach (169):

Rilevazioni statistiche sul sesso ed età delle vittime di abuso sessuale compiute dal CISMAI nel 1999

Grafico 5
Grafico 6

Si può notare che l'unica differenza emergente dalle tre ricerche (compiute da Terragni, dal CISMAI e dalla Scuola Romana Rorchach) riguarda l'età in cui i minori subiscono con più frequenza abusi sessuali: nel 1998 era tra i 12 e i 14 anni, nel 1999 tra i 6 e i 10 anni, nel 2002 nella cosiddetta preadolescenza/adolescenza.

Il cambiamento registrato dal 1999 al 2002 potrebbe essere il risultato di un maggior numero di denunce da parte dei minori-preadolescenti, dovute al fatto probabilmente che in questi ultimi anni sono state realizzate più iniziative di sensibilizzazione all'interno delle scuole (anche in luoghi dove prima l'argomento era considerato una specie di "tabù"), c'è stata una maggior diffusione sul territorio e conoscenza dei consultori ed infine, sicuramente, perché la violenza e l'abuso sessuale sono diventati un argomento più discusso che in passato.

Rilevazione statistica compiuta dalla Scuola Romana Rorschach nel 2002 sull'incidenza degli abusi sessuali a seconda del sesso del minore e dell'età

Grafico 7
Grafico 8

Dalla rilevazione compiuta dalla Dott.ssa Pernisco (170), maschi e femmine non risultano subire una quantità diversa di azioni abusanti per quanto riguarda la violenza sessuale "tradizionale" (come gli atti di libidine e i rapporti sessuali penetrativi o nell'avvio alla prostituzione), mentre nelle violenze connesse alle attività organizzate di pedofilia i maschi sono coinvolti in misura quasi doppia rispetto alle femmine.

Grafico 9

È stato inoltre rilevato che i bambini stranieri subiscono maggiormente le varie forme di violenza sessuale rispetto ai minori italiani.

Grafico 10

Le statistiche evidenziano, infatti, che i bambini extracomunitari sono, più spesso di quelli italiani, vittime di rapporti sessuali, indotti alla visione di pornografia ed avviati alla prostituzione (171). La causa, probabilmente, si può ricondurre alla loro stessa situazione di vita, caratterizzata da un quasi totale abbandono sia da parte delle istituzioni, sia da parte della famiglia (costretta a lottare per la sopravvivenza con un elevato numero di figli).

6.4 Gli indicatori dell'abuso sessuale

Nel caso di violenze sessuali su minori al di fuori del contesto familiare, molto spesso i genitori preferiscono non denunciare subito all'autorità giudiziaria il crimine, sia perché il danno in ogni caso non è totalmente risanabile, sia perché esiste il rischio che l'apertura del procedimento esponga il bambino a morbose curiosità e a facili etichettature (soprattutto se il contesto familiare è un piccolo paese), sia infine perché la necessaria rievocazione del fatto in sede giudiziaria può aprire nuove ferite nel minore impedendogli di superare il trauma di cui è stato vittima (172). Il rischio di violenze di questo tipo è particolarmente elevato in bambini che non sono seguiti a sufficienza dai genitori per incuria o disinteresse: la consapevolezza di ciò fa sentire i genitori oscuramente colpevoli e poco disposti alla denuncia.

Per accertare l'effettivo verificarsi di un abuso sessuale è possibile utilizzare una serie di criteri o indicatori (173), i quali però non possono costituire un elenco completo e certo sul quale poter desumere con esattezza se l'abuso si è realizzato oppure no. Sono molti, infatti, i casi in cui la sintomatologia clinica non è troppo esaustiva e dove rimangono molti dubbi (ad esempio quando non c'è stata penetrazione).

Gli indicatori variano in relazione alla fase di sviluppo del minore e si distinguono (174) in:

  1. indicatori cognitivi
  2. indicatori fisici;
  3. indicatori comportamentali/emotivi.

Tra gli indicatori cognitivi rientrano le conoscenze sessuali inadeguate per l'età, le modalità di rivelazione da parte del bambino dell'abuso sessuale, i dettagli dell'abuso e, a volte, si verifica una certa confusione nel ricordo dei fatti e nella sovrapposizione dei tempi. Per scoprire questi indicatori, le aree da indagare sono: il livello di coerenza delle dichiarazioni, l'elaborazione fantastica, la distinzione tra il vero e il falso, il giudizio morale e la chiarezza semantica.

Gli indicatori fisici di abuso sessuale sono: la deflorazione, la rottura del frenulo, le ecchimosi e i lividi in zona perineale, i sintomi di malattie veneree ed altri che devono considerarsi più equivoci per le molteplici cause che possono averli generati, come le incisure imenali, le neovascolarizzazioni a livello del derma nelle grandi labbra (nelle bambine) o le irritazioni del glande o del prepuzio (nei bambini) oltreché arrossamenti e infiammazioni aspecifiche localizzate (175).

Gli indicatori comportamentali ed emotivi comprendono sentimenti di paura, depressione, disturbi del sonno e dell'alimentazione, un comportamento ipervigilante che indica la paura della ripetizione del trauma, la mancanza di interesse verso le attività ludiche con i compagni, l'alterazione significativa della personalità con possibili sintomi psiconevrotici (isteria, fobie, ipocondria) (176). La timidezza e la paura si manifestano soprattutto in presenza del genitore abusante o nei confronti di adulti di tal sesso. A causa dei sensi di colpa e delle minacce che ricevono, i bambini abusati possono mettere in atto comportamenti autodistruttivi fino al suicidio.

De Young (177) ritiene che un ulteriore indicatore comportamentale di abuso sessuale sia una spiccata erotizzazione della propria vita: infatti i bambini abusati tendono a diventare sessualmente aggressivi nei comportamenti e nei giochi. Vero è che occorre tener conto che tali indicatori di abuso non possono essere utilizzati indiscriminatamente, poiché la presenza di uno o più di essi può essere determinata anche da altre cause; bisogna fare attenzione al rischio di vedere una correlazione illusoria tra causa supposta (abuso sessuale) e conseguenze (indicatori), dove questa non c'è (178). Nel caso degli indicatori fisici, ad esempio nelle bambine, una diagnosi di neovascolarizzazione è giudicata compatibile con atti traumatici ripetuti (quali atti di abuso sessuale), ma anche con esiti di infiammazioni vaginali. La stessa integrità dell'imene si presta a conclusioni equivoche, in quanto apparenti lacerazioni di essa possono in realtà corrispondere a particolarità morfologiche congenite.

L'equivocità può riguardare anche gli indicatori comportamentali. La presenza di incubi, l'eccesso di masturbazione e la depressione non costituiscono di per sé sintomi di abuso sessuale e possono essere ricollegati a varie cause che incidono sulla vita e crescita del bambino. Anche gli indicatori cognitivi possono trarre in inganno: spesso si è portati a pensare che, se un bambino ha conoscenza in materia di sesso inadeguate alla sua età, non può che averle acquisite attraverso contatti sessuali diretti. In realtà, frequentemente capita che il bambino abbia visto determinate scene nei film oppure abbia ascoltato gli adulti che ne parlavano (179).

Gli indicatori da soli non possono, dunque, essere considerati gli indici certi di un avvenuto abuso sessuale: sono necessarie ulteriori indagini sulla situazione.

6.5 Le conseguenze dell'abuso sessuale

Si può affermare con certezza che un bambino che non comprende il significato delle azioni dell'adulto, non per questo non riporterà un danno: non è cioè la comprensione intellettuale di ciò che accade a dare la misura dell'effetto traumatico dell'abuso sessuale.

A proposito della violenza sessuale intrafamiliare, Lanza (180) ha scritto:

L'incesto, in tutte le sue manifestazioni, anche quelle più raffinate e sottili (che sono poi quelle che creano forme di dipendenza psicologica), quando ha come referente un minore, è in modo assoluto una forma di violenza con effetti permanenti e irreversibili. La violenza è qualcosa che ha a che fare con la "forza" e il "potere", è un "male" che aggredisce la persona nella sua totalità, la tocca nella libertà, crea "sofferenza" reale e lascia "paura".

La violenza all'interno della famiglia può causare una serie di conseguenze nocive per le vittime, quali gravi danni fisici, disturbi psicologici a breve e a lungo termine e il bisogno di andare via di casa. Emery e Laumann-Billings (181) ritengono che le conseguenze della vittimizzazione siano comunque una funzione di almeno cinque classi variabili:

  1. la natura dell'atto abusivo (percosse, abuso sessuale) come pure la sua frequenza, intensità e durata;
  2. le caratteristiche individuali della vittima (ad esempio l'età);
  3. la natura della relazione tra vittima e abusante (coniuge, patrigno, ecc.);
  4. la risposta degli altri all'abuso (sostegno sociale, intervento legale o psicologico e soprattutto reazione della famiglia);
  5. i fattori legati all'abuso che possono esasperare i suoi effetti o sostenere alcune delle conseguenze dell'abuso stesso (caos familiare precedente all'atto abusivo).

La violenza è intrinseca agli atti di abuso sessuale e consiste nell'impatto traumatico che la sessualità adulta (anche quando è mascherata da approccio "gentile") ha sul minore e nella natura di per sé coercitiva di tali atti sessuali. Bambine e bambini, data l'immaturità psichica ed emotiva e dato lo svantaggio di strumenti, potere e autorità rispetto all'adulto, sono nell'impossibilità di dare un consenso libero ed informato. L'abuso sessuale su un minore, dunque, viene sempre attuato dall'adulto, anche quando non c'è apparente uso di forza, sfruttando questa disparità di potere, autorità, dipendenza materiale ed affettiva del bambino, ed è poi ripetuto utilizzando lo stato di confusione, disperazione, paura e vergogna causati dall'abuso stesso.

Per parlare di "mancato consenso" non è inoltre necessario che il minore sia completamente all'oscuro del significato sessuale degli atti compiuti dall'adulto: infatti è la posizione di vantaggio di questo rispetto al minore e il clima di soggezione, confusione, ambiguità, colpevolizzazione creato dall'adulto ad impedire alla vittima una reazione efficace. Per i bambini piccoli inoltre il "bene" è obbedire all'adulto; per loro un'azione che non solo risponde al requisito dell'obbedienza, ma che viene anche premiata dall'adulto è "buona" (182).

I mezzi usati dagli abusanti sono un insieme di lusinghe e minacce, di promesse e intimidazioni, di uso di forza fisica e di atteggiamenti gentili, in un'alternanza di facce e ruoli via via assunti da chi abusa al fine di togliere alla vittima qualsiasi possibilità di difendersi.

In molti casi le ragazze e le donne che sono state da bambine vittime d'abuso non ricordano i tentativi che hanno inizialmente fatto per difendersi dalla violenza e sono convinte che l'abusante non abbia mai fatto uso di forza fisica. In realtà, ricostruendo con loro la storia, si scopre che spesso durante le prime aggressioni è stato fatto uso di vera e propria coercizione fisica. Successivamente il senso di impotenza, la vergogna, la disperazione, i ricatti a cui venivano sottoposte dall'abusante («Se non ci stavo lui picchiava la mamma e i miei fratelli»; «Mi diceva che dovevo essere gentile con lui; se poi non lo ero diventava cattivo»), l'isolamento in cui venivano costrette, la paura che provavano ed i messaggi ambigui e distorti che ricevevano toglievano loro totalmente la possibilità di reazione (183).

La confusione, il fallimento dei tentativi di difesa, la sessualizzazione traumatica, la ripetizione dei messaggi dell'abusante che addossa alla minore la responsabilità dell'abuso, fanno sì che essa dimentichi la reale successione dei fatti e non riesca a darne la giusta interpretazione neanche da adulta. In molti casi l'abusante arriva a pretendere dimostrazioni "d'amore": «Mi diceva le frasi d'amore che dovevo dirgli e non voleva che lo chiamassi papà; però se cercavo di ribellarmi cambiava faccia e diceva: "Devi fare come ti dico io, perché sono tuo padre"» (184).

Per quanto riguarda la durata dell'abuso, si può intuitivamente concordare con l'affermazione secondo cui un episodio isolato risulta meno dannoso di un'esperienza protratta nel tempo. Tuttavia i dati disponibili sono contraddittori in quanto la durata e la frequenza dei rapporti sono comunque elementi collegati ad altre variabili quali l'età del bambino all'esordio, il contesto familiare o extrafamiliare, la natura della relazione con l'abusante ed il tipo di attività sessuale commessa (185). A questo proposito, un sintomo particolare è costituito dal disturbo post-traumatico da stress (PTSD), il cui rischio tende ad aumentare quando l'abuso fisico è più grave e di lunga durata e quando l'abuso sessuale avviene in una relazione segreta o comporta un senso di pericolo o colpa da parte del bambino vittima. È stato inoltre dimostrato che lo stupro, in particolare, comporta un più elevato rischio di PTDS rispetto ad altri traumi comuni, a causa della forte coercizione fisica utilizzata (186).

Si può sicuramente affermare che l'abuso può compromettere le normali tappe dello sviluppo e formazione del bambino, agendo sulla regolazione affettiva, lo sviluppo dell'autostima e le relazioni con i coetanei. Anche nell'età adulta persistono disturbi di relazione rappresentati da sentimenti di paura e diffidenza nell'incontro con gli altri e di ostilità nei confronti delle figure parentali; varie disfunzioni del comportamento sessuale, tendenza alla prostituzione, alla tossicodipendenza e all'alcolismo.

Anche la "Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale all'infanzia" (187) afferma che «l'intensità e la qualità degli esiti dannosi dell'abuso sessuale derivano dal bilancio tra le caratteristiche dell'evento (precocità, frequenza, durata, gravità degli atti sessuali) e gli interventi protettivi e riparativi esterni, che si attivano in relazione all'abuso». Inoltre «il danno è tanto maggiore quanto più:

  1. il fenomeno resta nascosto, o non viene riconosciuto;
  2. non viene attivata alcuna protezione nel contesto primario e in quello sociale;
  3. l'esperienza resta non verbalizzata e non elaborata;
  4. è forte il legame di dipendenza fisica ed affettiva della vittima dall'abusante».

L'abuso sessuale che si verifica in un clima di calore affettivo, di lusinghe, di gratificazione mediante le concessioni di speciali privilegi e di estrema segretezza, può essere per il bambino traumatico e sconcertante al pari di un'aggressione violenta (188).

Molti bambini subiscono per anni un abuso sessuale ma, mentre crescono, aumenta in loro la consapevolezza che qualcosa è sbagliato e possono rendersi conto improvvisamente di ciò che sta loro succedendo (per esempio nel corso di un tentativo disperato di proteggere un membro più giovane della famiglia da un abuso dello stesso tipo, o quando la possessività e la gelosia del padre diventano intollerabili).

Non c'è da stupirsi che i bambini vittime di abuso sessuale si dimostrino molto ansiosi. Un'adolescente può apparire orgogliosa del potere che ha sul padre o su altri uomini, ma dietro questo atteggiamento si cela un grande bisogno di affetto. Essa continuerà ad incontrare difficoltà nel dare e nel ricevere amore, anche quando magari sarà stata inserita in una famiglia diversa (ad esempio adottiva) (189).

Il fatto che tali effetti non si protraggano a lungo termine dipende, probabilmente in larga misura, dalla possibilità di una diagnosi e di una terapia precoci.

Uno dei caratteri più tipici dell'abuso sessuale, soprattutto intrafamiliare, è l'instaurazione e il mantenimento del segreto riguardo all'atto compiuto, che crea forti barriere nel minore sia a livello interiore, che nelle relazioni con gli altri.

L'abusante costringe la vittima al silenzio con l'imbroglio; con i bambini piccoli viene usato il "discorso del gioco": «Questo è un gioco che si fa sempre tra padri e figlie, però non lo devi dire a nessuno». Il bambino viene anche ricattato e minacciato: «Se parli mi uccido» oppure «La mamma e i tuoi fratelli finiscono sul lastrico», «Viene un mostro e ti uccide». Sono tutte frasi riferite dai bambini quando parlano delle violenze subite durante l'infanzia. E ancora (in casi di abuso extrafamiliare): «Se lo dici a qualcuno, lo dico ai tuoi genitori», con un'incongruenza di messaggi spaventosa e colpevolizzante, oltre che altamente confusiva per il/la minore (190).

La vittima della violenza, inoltre, per poter sopravvivere ad eventi così distruttivi mette in atto potenti meccanismi di difesa che rendono possibile quello che viene chiamato "adattamento all'abuso". Attraverso di esso il bambino tenta di ripararsi in qualche modo dal senso di catastrofe e di distruzione e può permettersi l'illusione che niente sia cambiato, che il suo papà sia comunque un papà buono che gli vuole bene e che la rovina che gli è caduta addosso possa essere in qualche modo tenuta sotto controllo.

Tali meccanismi patologici di adattamento partecipano al mantenimento del segreto. Il far finta di essere altrove durante gli atti abusivi (sentirsi per esempio parte del muro o un piccolo animale che guarda da un angolo della stanza quanto succede), sforzi auto-ipnotici di induzione anestetica riguardo al dolore fisico e alla sofferenza psicologica, e sforzi di non sentire rientrano nei primissimi meccanismi messi in atto dal bambino per difendersi dall'assoluta confusione, angoscia e paura che prova al termine dell'atto abusivo (191).

Tali reazioni sono determinate, oltre che dagli atti abusivi in sé, anche dalle circostanze in cui avviene l'abuso. Ad esempio le aggressioni notturne avvengono nell'assoluto silenzio e al buio mentre il/la bambino/a dorme, di modo che ciò che avviene è contemporaneamente negato dalle stesse circostanze, che rendono più facile la negazione della realtà dei fatti da parte dell'abusante («Hai fatto un sogno»).

Il bambino e la bambina vengono premiati o perlomeno non puniti quanto più e quanto meglio riescono a mettere in atto i meccanismi di difesa, cioè quanto più e meglio riescono a tenere il segreto richiesto dall'autore della violenza, segreto che non è solo verbale ma anche emotivo e comportamentale (192).

Infatti non sempre e non subito il bambino abusato ha comportamenti sintomatici manifesti. Ad esempio, se il brusco calo di rendimento scolastico è uno degli indicatori di violenza sessuale, tuttavia ci sono bambini e bambine che riescono a mantenere una buona riuscita scolastica, per poi riferire più tardi: «L'unica cosa a cui mi aggrappavo era la scuola».

Ciò non significa che il bambino e la bambina non siano danneggiati, ma che essi riescono a mantenere per un periodo più o meno lungo i meccanismi di adattamento messi in atto ai fini della sopravvivenza. Il segreto, anche quello emotivo, evita la punizione e tiene sotto controllo la paura di perdere i familiari o di sentirsi la causa della loro rovina. Invece, il pianto, la paura manifesta e i tentativi di ribellione portano alla punizione, scatenano la rabbia dell'abusante e ne aumentano i comportamenti sadici, che possono essere a lungo mascherati da atteggiamenti comprensivi e solidali. Infatti, spesso, il consolare il bambino triste, che è proprio tale perché vive una situazione di violenza, è da parte dell'abusante il preludio di nuovi atti abusivi (193).

Fattore basilare di mantenimento dell'abuso è la negazione da parte di chi abusa della realtà dei fatti, negazione che spesso persiste tenacemente anche dopo la rilevazione e l'accertamento dell'abuso, e persino di fronte a referti medici inequivocabili. Il negare degli abusanti comprende il negare di avere abusato e di avere progettato l'abuso. Infatti è affermazione ormai consolidata che l'abuso non è un "raptus": prima della messa in atto dei comportamenti abusivi ci sono dei pensieri, delle fantasie sul bambino ed una progettazione per così mettere in atto l'abuso con la ricerca delle circostanze ad esso favorevoli (194). I meccanismi di negazione agiscono molto spesso anche negli altri adulti non abusanti (ad esempio nella madre connivente, che pur sospettando o essendo a conoscenza dell'abuso non ha la forza di cambiare la situazione) e persino negli stessi operatori, che si possono far condizionare nelle loro attività dalla condizione economica della famiglia o dalla buona educazione impartita al bambino dalla famiglia stessa (195).

Le reazioni negative dell'ambiente circostante, a seguito dello svelamento dell'abuso, riportano il minore al silenzio e al segreto, lo spingono alla ritrattazione, aggravano la stigmatizzazione (la visione negativa che il bambino e la bambina hanno di se stessi come cattivi, colpevoli, irrimediabilmente sporchi e contaminati dagli atti abusivi), aumentano il profondissimo senso di vergogna e colpa che egli prova (196); inoltre aumentano le difficoltà di relazione, determinate dalla situazione abusiva, e portano il minore all'isolamento totale, confermando in esso la convinzione di non poter condividere con nessuno la propria sofferenza, né di poter trovare in nessun luogo le risposte alla propria confusione.

Tutte queste reazioni sono dette "forme di abuso secondario" (197).

Per poter meglio comprendere che cosa prova, nella maggior parte dei casi, una bambina vittima di abuso sessuale da parte ad es. del padre, significativa è la testimonianza di una bambina, riportataci dal Centro Artemisia di Firenze (che si occupa di maltrattamenti e abuso sessuale all'infanzia), la quale ha vissuto una tale esperienza:

La prima volta avevo 12 anni ed è avvenuto così. C'erano degli ospiti in casa, e così io, mia madre e mio padre abbiamo dormito tutti nella mia stanza: mia madre nel mio letto, ed io e mio padre in due brandine. Mio padre aveva messo le brandine una accanto all'altra. Non sapevo che il giorno dopo il mondo per me sarebbe stato irriconoscibile. Così mi sono addormentata come sempre.

Ad un certo punto mi sono svegliata. Ho realizzato che era mio padre, cercavo di mandarlo via ma non ci riuscivo. Cosa stava facendo?

Ecco capivo cosa stava facendo. Era chiaro. Pensai di chiamare la mamma. Ma era vero quello che stava succedendo. Sì, era vero.

E se era vero, come facevo a dirlo alla mamma? Così non ho urlato. L'ho lasciata dormire tranquilla. Avevo sempre cercato di non darle dei dispiaceri: la mamma era lì, eppure ormai era lontana, come in un altro mondo.

Ho visto il mondo diventare un buco nero. Ma forse ho sognato? - pensai. Ma l'impressione non era di un sogno.

È così che sono cambiata.

Mi aggrappavo alla mia vita precedente, cercando di essere uguale, anche se non lo ero più. Cercavo di pensare che era stato un sogno, ma io non ero più quella di prima e tutto era diverso: mi sentivo sempre più strana ed ero sempre triste.

Intanto cercavo di fare le cose di sempre, ma anche le cose di sempre non erano più per me le stesse.

Mio padre mi prometteva sempre grandi cose che si sarebbero fatte fra un anno e che poi non si facevano mai. Mi diceva: Usciamo! Per parlarmi dei suoi progetti su di me. Io uscivo. Ma dopo un po' mi diceva che dato che ero grande c'erano cose che dovevo sapere. Quelle cose erano molto strane, non mi piacevano. Cercavo di cambiare discorso, ma lui ritornava sempre lì.

Poi ha cominciato a controllare "se crescevo". Aveva un'aria tanto normale, era così normale, secondo lui, "che un papà si preoccupasse dello sviluppo della figlia", che io non osavo oppormi. Come potevo dirgli quello che sospettavo? Ed io come potevo essere così cattiva da sospettare cose del genere? Che mostro ero?

Avrei voluto chiedergli spiegazioni ma non osavo. Intanto stavo sempre più male. E capivo che era colpa sua. Ma non sapevo oppormi, non osavo chiedere niente. Stavo diventando muta.

Così non ho chiesto aiuto quella notte alla mamma, così non ho chiesto aiuto per anni, così non mi sono ribellata. E intanto il tempo passava e non mi riusciva più di stare in mezzo agli altri.

Per anni e anni ho avuto questa sensazione: che io in realtà ero morta.

Ho aspettato tanto e per tanto tempo che mio padre mi desse una spiegazione, che si giustificasse. Ma non lo ha mai fatto.

Nel frattempo continuavo a giurare dentro di me che non avrei mai dato quel dispiacere alla mamma. Nel frattempo lo odiavo. Perché adesso era chiaro, era così chiaro tutto. Era una mostruosità, era un inferno ma era reale.

Tutto era buio ormai dentro e fuori di me. Tutto era paura.

E alla fine per la paura, ho iniziato a tenere un coltello sotto il cuscino, quando andavo a dormire. Così se fosse venuto ad ammazzarmi mi sarei potuta difendere...

7. L'incesto: tra diritto e sentire sociale

7.1 Cenni storici

Già ai tempi degli antichi Greci esistevano norme riguardanti l'incesto: tale popolo, infatti, passò da un'iniziale tolleranza fino alla repressione delle unioni incestuose. La repressione più rigorosa riguardava il matrimonio fra ascendenti e discendenti, mentre era interdetto quello fra fratello e sorella, ed infine tollerato se costoro avevano madri diverse (198).

Nel diritto romano le parole «incestum» o «incestus» designavano un significato più ampio del termine: indicavano i gravi attentati alle leggi religiose e per i quali non era ammessa espiazione. Tra questi vi erano le contaminazioni dei rapporti di consanguineità. La vera e propria incriminazione dell'incesto risale alle origini del diritto romano, quando tale comportamento veniva punito con la pena di morte; in epoca imperiale, poi, la pena capitale venne sostituita dalla deportazione, poiché la maggior parte dei comportamenti incestuosi venivano compiuti da soggetti appartenenti alle classi sociali più privilegiate.

Con l'avvento degli imperatori cristiani vi fu un ulteriore inasprimento della pena: venne inflitta la vivicombustione (199).

Nel periodo illuminista, invece, venne contestata la necessità di reprimere penalmente l'incesto, tantoché esso non venne ricompreso tra i delitti previsti nel codice francese del 1810 e, così, neanche in quello delle Due Sicilie del 1819 né in quello di Parma del 1820.

Successivamente, poi, nel codice sardo-italiano del 1859 e nel codice toscano del 1853 fu ripristinata la previsione di tale reato.

Il codice Zanardelli del 1889 adottò, invece, una soluzione di compromesso, subordinando la punizione del reato al verificarsi del "pubblico scandalo". Tale soluzione non aveva trovato unanime accordo, in quanto erano in molti a proporre di sopprimere l'ipotesi delittuosa.

Il codice Rocco (attualmente in vigore) ha, infine, previsto tale reato all'articolo 564 nel fatto di avere rapporti sessuali, in modo che derivi "pubblico scandalo", con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, o con una sorella o un fratello (200).

Nei lavori preparatori non fu neanche discusso sull'opportunità o meno di punire l'incesto. L'unica perplessità riguardò il mantenimento dello "scandalo pubblico", che venne ribadito, riconoscendosi anzi proprio in esso il requisito fondamentale per la configurazione del reato o almeno per la sua punibilità (201).

La subordinazione della punibilità della condotta al verificarsi di tale elemento fa riflettere sulla concezione sociale che è trasferita nella norma: in base ad essa si può ritenere che tutto ciò che avviene all'interno delle mura domestiche, a prescindere dai motivi per i quali ciò non sia conosciuto all'esterno, non possa e non debba in alcun modo interessare il giudice penale, fino a quando tali azioni non comportino una reazione di disgusto e di sdegno nella coscienza pubblica.

7.2 La definizione giuridica d'incesto

Che cosa s'intenda per incesto varia da cultura a cultura, da codice a codice, ed è in funzione soprattutto dei diversi punti di vista (giuridico o psicologico o antropologico) che si assumono.

Il nostro legislatore ha deciso di inserire l'art. 564 nel Capo II (Dei delitti contro la morale familiare) del Titolo IX (Dei delitti contro la famiglia) del c.p.

Scopo dell'incriminazione non è, come da taluno (202) si ritiene, la necessità di evitare la degenerazione della razza per il danno che deriverebbe dalla procreazione fra consanguinei. A prescindere dalla considerazione che tale danno è tutt'altro che scientificamente accertato, va tenuto presente che l'incesto ricorre anche quando i rapporti sessuali si verificano tra gli affini in linea retta (suocero e nuora, genero e suocera), fra i quali il vincolo di consanguineità non sussiste. La vera ratio della punizione dell'incesto sta, dunque, nella sua particolare riprovevolezza morale, nella sua turpitudine che lo rende assolutamente intollerabile per la comunità sociale. La profonda ripugnanza che il fatto desta nella coscienza pubblica, induce lo Stato ad intervenire con la più grave delle sanzioni di cui dispone, e cioè con la pena. Infatti l'incesto, secondo l'Antolisei (203), più che gli interessi della famiglia, offende la moralità pubblica e il buon costume. L'offesa agli interessi della famiglia può presentarsi solo sotto il profilo della violazione della norma di condotta che impone l'asessualità nei rapporti parentali. Secondo la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale (204), questa violazione spiega il collocamento dell'incesto fra i delitti contro la famiglia.

Invece, secondo un altro autore, Romano, nella fattispecie dell'art. 564 non è agevolmente determinabile il bene oggetto di protezione al punto da apparire quasi "inafferrabile", trattandosi di una disposizione il cui contenuto viene integrato da elementi normativi extragiuridici, che cioè rinviano a norme sociali o di costume, quindi a parametri di valore rimasti spesso travolti dal cambiamento di talune ideologie, per essere sostituiti da altri, non ancora colti e recepiti dal legislatore. L'autore ha inoltre osservato che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, degli ultimi anni, non ha avuto quasi più modo di occuparsi di tale reato, il che può far pensare che in un prossimo futuro la norma non troverà più applicazione perché ormai estranea agli interessi ed ai valori della società contemporanea (205).

La fattispecie normativa, contenuta nell'art. 564 c.p., è di quelle cosiddette "necessariamente plurisoggettive": in essa, infatti, la condotta tipica è commissibile da almeno due soggetti, i quali devono essere legati fra loro da vincolo di parentela in linea retta (ascendente o discendente) o collaterale entro il secondo grado (fratelli e sorelle), ovvero da vincolo di affinità in linea retta (suoceri, genero, nuora e loro ascendenti o discendenti). Fratelli e sorelle sono sia i germani (figli degli stessi genitori), sia i consanguinei (figli dello stesso padre ma non della stessa madre), sia gli uterini (figli della stessa madre ma non dello stesso padre) (206). Inoltre, non vi è dubbio che, per il disposto dell'art. 540 c.p., vi sono compresi anche gli ascendenti e i discendenti naturali, mentre ne sono esclusi gli adottivi. Sono sorte varie esitazioni per l'esclusione di tali soggetti, soprattutto dopo l'equiparazione legale tra il rapporto familiare di sangue e quello adottivo.

Quanto agli affini è ritenuto valido il criterio interpretativo che si desume dall'ultimo comma dell'art. 307 c.p. per cui agli effetti penali il vincolo cessa allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole. In conseguenza, in tal caso non ricorrono gli estremi del reato di incesto (207). Contro tale tesi, però, gran parte della dottrina rileva che, di fronte al mancato rinvio da parte dell'art. 564 c.p. all'elencazione di cui all'art. 307 ultimo comma c.p., consegue che non può trovare applicazione, ai fini dell'incesto, la disposizione secondo cui «nella denominazione di prossimi congiunti non si comprendono gli affini affinché sia morto il coniuge e non vi sia prole», ma va invece applicato l'art. 78 c.p. secondo cui l'affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge dal quale deriva (208).

Poiché il codice non precisa in che cosa consista l'incesto, fornendone una nozione puramente tautologica («chiunque commette incesto con...»), sorgono nei confronti di questo reato varie incertezze. Secondo la giurisprudenza e la maggior parte della dottrina il reato si consuma con il compimento di un rapporto sessuale; non manca però chi (209) ritiene sufficiente il compimento di atti sessuali anche diversi dalla congiunzione fisica da parte dei soggetti indicati, in modo che ne derivi pubblico scandalo. Questa seconda opinione si basa sulla motivazione per cui il disgusto morale, che giustifica la punizione, si verifica pure nei casi in cui la relazione sessuale si esplica in altre forme, le quali possono essere anche più ripugnanti (210). Nel caso di relazione incestuosa, invece, occorre che la reiterazione dei fatti abbia la caratteristica dell'abitualità.

Il "pubblico scandalo", che è richiesto per la punibilità dell'incesto, va ravvisato nella morale della coscienza pubblica, accompagnata da un senso di disgusto e di sdegno contro un fatto tanto grave. Tale scandalo deve essersi effettivamente verificato e, quindi, non basta che la generalizzata riprovazione, in cui esso si concretizza, venga ad evidenza in qualsiasi modo (e cioè la semplice possibilità che ne derivi pubblico scandalo), occorre che essa sia stata cagionata dalla condotta almeno colposa degli autori. La legge, infatti, non dice «in modo che ne possa derivare», ma «in modo che ne derivi pubblico scandalo». Sotto tale profilo, la giurisprudenza ha ritenuto che non è necessario che la relazione sia conosciuta da tutti: basta che il pubblico scandalo sia derivato da un concreto comportamento incauto degli autori, o di uno di essi, pur se non manifestato direttamente in pubblico, ma rivelato dagli effetti materiali o da confessioni (211).

Un'ampia discussione è sorta riguardo alla natura del pubblico scandalo. Due sono le interpretazioni espresse in merito (212). Secondo una prima, prevalente in giurisprudenza, il pubblico scandalo rappresenta un'ipotesi di condizione obiettiva di punibilità: conseguentemente, esso non sarebbe oggetto di una volizione da parte degli agenti. Peraltro, la sua verificazione dovrebbe comunque essere causalmente riconducibile alla condotta degli agenti stessi. Una seconda interpretazione, prevalente in dottrina, individua nel pubblico scandalo l'evento del reato. Esso deve pertanto essere voluto (o quanto meno accettato a titolo di dolo eventuale) dagli agenti quale risultato (certo o anche solo probabile) della propria condotta.

Per quel che, invece, riguarda la prova del pubblico scandalo, è stato rilevato che in passato si è sostenuto che l'insorgere di tale scandalo derivasse automaticamente dalla conoscenza del rapporto sessuale intervenuto tra consanguinei: la sussistenza di tale elemento non necessiterebbe, dunque, di alcuna specifica prova. Tale opinione pare peraltro condurre ad un'abrogazione implicita di tale requisito, il quale resterebbe sostanzialmente assorbito nella conoscenza della relazione incestuosa, senza necessità che da tale conoscenza nasca effettivamente la pubblica riprovazione. Se ciò è già inammissibile quando si consideri il pubblico scandalo quale condizione obiettiva di punibilità, a maggior ragione è criticabile quando lo si interpreti quale evento costitutivo del reato. Tale opinione non è più condivisa: il pubblico scandalo deve essere provato (213).

L'elemento psicologico del reato è costituito dal "dolo generico": dunque, deve esservi sia la consapevolezza dell'esistenza del vincolo tra gli autori del fatto (è sufficiente anche un vincolo di filiazione illegittima purché noto agli autori), sia la coscienza e volontà di avere rapporti sessuali con una delle persone indicate in modo specifico nell'art. 564 c.p. (214). Per quanti poi ritengono che il pubblico scandalo costituisca evento del reato, anche quest'ultimo elemento dovrà essere coperto dal dolo, in quanto esso individua una modalità dell'azione criminosa e, dunque, è inerente alla condotta volontaria dei soggetti (215).

La norma non indica limiti di età per gli autori: è però previsto, al terzo comma, un aggravamento di pena nell'eventualità che uno dei responsabili sia minore degli anni diciotto, a carico del correo maggiorenne. Dunque, qualora uno dei due autori non sia imputabile (ad esempio il minore di età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni che venga riconosciuto non imputabile nel caso concreto) o non punibile per qualsiasi motivo, ciò non fa venir meno il reato: e ne risponde però ovviamente solo il soggetto imputabile e punibile.

Per ciò che riguarda la pena e le sanzioni accessorie, la condanna comporta la reclusione da uno a cinque anni nel caso di incesto, e da due a otto anni nel caso di relazione incestuosa; per il genitore, inoltre, la condanna comporta la perdita della potestà sul figlio minore (216). Il reato è di competenza del Tribunale e la procedibilità è d'ufficio: la denuncia, di conseguenza, andrà inoltrata al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale.

Escludendo l'ipotesi in cui gli autori sono entrambi maggiorenni, occorre vedere quali sono le ipotesi normative di applicabilità della norma in esame.

Nel reato di incesto il minore non è qualificabile tecnicamente come vittima e ciò discende dalla naturale plurisoggettività della fattispecie: se uno dei due subisce, con violenza o minaccia, il fatto dell'altro, non si ha incesto ma violenza sessuale; ugualmente se uno dei due non è capace di prestare un consenso valido.

Dunque il reato di incesto viene compiuto nella seguenti situazioni:

  1. quando l'ascendente, oppure la sorella o il fratello convivente, compiono atti sessuale con il discendente di età superiore ai sedici anni e consenziente;
  2. quando il fratello, la sorella o l'affine in linea retta non conviventi compiono tali atti con il familiare di età superiore a quattordici anni.

Devono ritenersi applicabili le norme sulla violenza sessuale tutte le volte che una delle due persone deve essere considerata soggetto passivo del fatto dell'altra, anziché concorrente nel fatto stesso (217).

La legge italiana stabilisce all'art. 609-quater c.p. dei limiti tassativi entro i quali il consenso del minore è presunto invalido, a causa dell'età inferiore dei sedici anni. In certe ipotesi, però, può verificarsi che quel particolare minorenne, nel caso concreto, avesse raggiunto una fase di maturazione fisica, psichica e morale tale da far sì che il suo consenso potesse essere considerato umanamente (anche se non giuridicamente) ponderato e consapevole.

Può però accadere anche il contrario, e cioè che allo scadere di tale termine il minore di età compresa tra i sedici ed i diciotto anni non abbia ancora raggiunto quella maturità indicata. In questo caso, sarà il giudice che dovrà compiere un apprezzamento con prudenza (218) per valutare se il minore aveva tale maturità al momento del fatto e, senza fermarsi a ciò, se l'eventuale immaturità di questo soggetto non renda applicabile la fattispecie di cui all'art. 609-bis, 2 comma, n.1, c.p., laddove si punisce come violenza sessuale presunta il fatto commesso in danno alla persona che non sia in grado di resistere all'autore a causa delle proprie condizione di inferiorità fisica o psichica. Bisogna cioè che il giudice non si limiti ad accertare la sussistenza di una causa di proscioglimento (immaturità psichica), che nel caso concreto colpirebbe il minore qualificandolo correo, invece che non imputabile, di un incesto.

7.3 L'incesto nella società

Mentre da un punto di vista giuridico quando si parla di incesto ci si riferisce a situazioni in cui viene violata la morale familiare (che è l'oggetto tutelato dall'art. 564 c.p.) attraverso il compimento di atti sessuali che causano "pubblico scandalo", nella percezione sociale la nozione di incesto viene riferita a tutti quei casi in cui vengono compiute delle violenze sessuali tra soggetti appartenenti alla stessa famiglia. Ciò che rileva in questa definizione è l'elemento della violenza con cui viene commesso l'atto sessuale (219): dunque, viene considerato un caso particolare e specifico della situazione di abuso sessuale.

Esemplificativa è la definizione proposta dal Comitato di protezione giovanile del Quebec, che ha individuato l'incesto in qualsiasi tipo di relazione sessuale che avviene all'interno della famiglia tra un bambino ed un adulto che svolge nei suoi confronti una funzione parentale. Dunque vi rientrano atti compiuti in ogni tipo di relazione, etero od omosessuale (non soltanto se si arriva all'accoppiamento, ma anche quando si verificano pratiche oro-genitali, anali e masturbatorie), e determinati comportamenti parentali caratterizzati da un'intimità fisica eccessiva e dall'imposizione al bambino di atti voyeuristici ed esibizionistici.

Dunque, quando la società discute di situazioni di incesto si riferisce ai casi di abuso sessuale intrafamiliare, che vengono puniti dall'ordinamento con la normativa introdotta dalla Legge n. 66/1996.

Da anni, comunque, anche i giudici che devono valutare casi di incesto tra un soggetto minorenne ed uno maggiorenne non applicano più l'art. 564 c.p., in quanto tale norma non ha di mira la tutela del minore - che è invece quello che l'attuale percezione sociale ritiene essere l'obiettivo più importante dell'ordinamento - e fanno ricorso alle norme sulla violenza sessuale. Questo cambiamento è risultato anche dal fatto che i vari studi di psicologia sul rapporto sessuale tra un soggetto minorenne ed uno maggiorenne (soprattutto se legati da un rapporto di parentela) hanno individuato che in questa situazione vi è sempre una posizione di soggezione del minore nei confronti dell'altro e un atteggiamento di violenza intrinseca all'atto stesso, anche se non esplicita. È dunque più opportuna la tutela del minore attraverso le norme sulla violenza sessuale (220).

7.3.1 I vari tipi di incesto

Attualmente il numero dei casi di "incesto" più frequenti e dunque conosciuti, nell'accezione considerata dalla società che è, dunque, sinonimo di abuso sessuale intrafamiliare (sia intra che extradomestico), riguarda le relazioni sessuali tra genitori (o adulti aventi funzione parentale) e figli minori di sedici anni: dunque i casi di abuso sessuale intrafamiliare intradomestico.

Moro (221) ritiene che l'eziologia dell'incesto debba essere oggi più esattamente individuata in una "cultura della violenza" pervasiva delle relazioni familiari, nelle quali ogni membro della famiglia contribuisce allo sviluppo e al mantenimento del problema. Dunque non è corretto interpretare l'incesto come qualcosa riguardante esclusivamente il sesso, ma come un fatto legato ai rapporti di potere all'interno della famiglia e ad una serie di sottoculture ancora molto diffuse all'interno della nostra società, come la "cultura del possesso del figlio", che scambia la forza con la potenza, l'affetto con il possesso (222).

In base alle ricerche effettuate dalla letteratura psicologica sull'argomento, la famiglia incestuosa può essere definita come un "blocco monolitico" (223), all'interno del quale le distinzioni generazionali sono ignorate, non esistono ruoli definiti perché le parti si scambiano e si invertono in modo dinamico. I posti non sono stati assegnati: le relazioni tra i membri del nucleo incestuoso sono connotate dalla promiscuità e dall'autarchia. La famiglia è chiusa su di sé, si ritiene autosufficiente e circonda con il segreto ogni azione che avviene al suo interno (224). Poiché non sono mai state affrontate le dinamiche di separazione, la famiglia incestuosa si ritiene autosufficiente. Inoltre, la sua caratteristica predominante è l'autarchia, il suo apparente aspetto è quello di una fortezza impenetrabile, difesa strenuamente dall'arma del "segreto" (225).

Gli abusi sessuali nell'ambito della famiglia possono essere ulteriormente distinti (226) in:

  1. Incesto/abuso sessuale tra padre e figlia. Si tratta del caso che si realizza più frequentemente e di cui la letteratura si è maggiormente occupata;
  2. Incesto/abuso sessuale tra padre e figlio. Secondo la maggioranza degli studiosi le dinamiche di questa situazione presenterebbero delle analogie con quelle dell'incesto padre/figlia, compreso l'atteggiamento collusivo della madre;
  3. incesto/abuso sessuale tra madre e figlia. Non si hanno denunce frequenti;
  4. incesto/abuso sessuale commesso dal familiare. Nell'ambito della famiglia abusi sessuali possono essere compiuti da altri parenti, conviventi o comunque presenti con particolare assiduità, come nonni o zii (227). Spesso l'aggressione sessuale viene effettuata da figure sostitutive del padre - assente perché deceduto o separato dalla moglie, come il patrigno o il convivente della madre o anche un fratello maggiore della vittima (228). Quando questo viene compiuto dal convivente o dal coniuge in seconde nozze del genitore è chiamato "paraincesto".
  5. incesto/abuso sessuale tra madre e figlio. Il dibattito sul quesito se le madri incestuose/abusanti esistono oppure no è aperto. C'è chi sostiene che le madri non abusino mai dei propri figli, ma c'è chi ritiene invece anche loro autrici di veri e propri abusi sessuali.

I dati esistenti al riguardo sono pochissimi e quindi avvallerebbero la prima ipotesi: in qualunque ricerca le madri risultano sempre all'ultimo posto tra gli autori di reati sessuali su minori e in percentuali insignificanti. Una delle cause di questa realtà è sicuramente il fatto che "l'incesto" in relazione al rapporto madre-figlio è un tabù culturale (229). Ma i dati registrati in questi ultimi anni dall'esperienza dell'equipe di neuropsichiatria infantile dell'ospedale Bambin Gesù di Roma evidenziano, purtroppo, una certa rilevanza del fenomeno. Infatti secondo una ricerca effettuata nel 1995 su 250 casi trattati, le madri sarebbero nell'11% dei casi le autrici degli abusi sessuali intrafamiliari su figli minori, al terzo posto dopo i padri e i conviventi (230). Gli abusi delle madri sui figli sono molto difficili da scoprire soprattutto perché sono mascherati dalla pratica delle cure e dell'affettività materna. Molti atti di libidine si celano infatti nei bagni e nei lavaggi intimi, nelle applicazioni superflue di creme sui genitali dei figli di entrambi i sessi, nel condividere con questi ultimi fino all'età adolescenziale il letto o le carezze erotiche, arrivando anche al rapporto completo. Tutti questi comportamenti sono naturalmente perversioni materne, spesso anche molto sottili, che sono difficilmente riconoscibili e che non riescono ad emergere se non in terapia (231). Essi sono stati considerati fino a non molti anni fa quasi "naturali", o comunque un "eccesso" tollerato dal sentire comune, in quanto è considerato un dato scontato che il rapporto tra madre e figlio sia esclusivo. Infatti, se una donna esagera nel fare il "bagnetto" al figlio o ad utilizzare le creme siamo tutti propensi a credere che abbia la fobia dell'igiene e censuriamo immediatamente il pensiero che tale donna potrebbe avere desideri incestuosi verso i suoi figli (232).

L'aumento (anche se relativo) della casistica di questo tipo di crimine deriva, dunque, da un'accresciuta sensibilità al fenomeno, sia da parte degli operatori sanitari e sociali, sia da parte della società. Un "rapporto incestuoso" tra madre e figlio crea un futuro uomo (o donna) psicotico. È per questo motivo che questo fenomeno è stato rilevato fino ad oggi dalla sola psichiatria infantile la quale, però, continuava a confondere un trauma reale con un desiderio o una fantasia incestuosa del bambino, ostinandosi a negare la realtà (233).

Un'analista junghiana, Nadia Neri, ha notato che, poiché spesso l'abusante ha anch'esso nel suo passato un'infanzia di violenze ed abusi sessuali (cosiddetto ciclo intergenerazionale della violenza), nei nuclei familiari incestuosi la figura materna instaura con i propri figli un rapporto di continua rivalità - identificazione, fino ad accettare anche la relazione tra la figlia e il proprio marito. La figura maschile, invece, è considerata in questi nuclei come un'entità ostile e sconosciuta, un "estraneo" che irrompe nella vita familiare (234). È dunque inevitabile che a questa cultura del padre-estraneo corrisponda un'idea di madre-titolare esclusiva del rapporto con i figli.

In genere i padri riescono ad esercitare un immenso potere sui propri figli, facendo uso della violenza, dell'intimidazione, delle minacce o di strategie seduttive alle quali è impossibile resistere, soprattutto da parte di un minore; se una madre, invece, ha desideri "incestuosi" non ha bisogno di ricorrere alla violenza, né alle intimidazioni, né alle minacce (235). Le basta il potere che le è conferito come "madre" ed i danni che produce nella psiche del bambino sono devastanti. Dunque l'elemento della violenza rappresenta una discriminante forte tra "l'incesto" padre-figlia e quello madre-figlio: nel primo è probabile che ci sia, nel secondo no.

7.3.2 "Incesto" padre-figlia

L'incesto/abuso sessuale padre-figlia rimane tuttora la combinazione più diffusa e conosciuta (3/4 dei casi di violenza sessuale intrafamiliare (236)) e non è sempre accompagnato da atti di violenza, come la maggior parte delle persone presumono.

Tale tipo di violenza si inserisce all'interno di una dinamica particolare e complessa che certamente lo differenzia da qualsiasi altra forma di abuso compiuta da un adulto ai danni di un minore. Infatti, mentre in qualsiasi altra forma di violenza sessuale la vittima, di qualsiasi età essa sia, ha la possibilità di riconoscere nell'abusante la figura del colpevole, "l'incesto" priva chi lo subisce della libertà di difendersi e di odiare (237).

Le figure genitoriali, all'interno della "famiglia incestuosa", sono complementari: ad un padre-padrone corrisponde una madre assente, ad un padre endogamico una madre anaffettiva. Nel primo caso, il cosiddetto "padre-padrone" (238) è indicato dalla letteratura come colui che ha la convinzione che la disponibilità sessuale sui propri figli sia uno degli aspetti della totale disponibilità che egli non può non avere su tutta la famiglia; che i rapporti familiari siano di puro dominio e che quindi sia del tutto ammissibile che si punisca la figlia con l'abuso sessuale; che il compito educativo del padre che svela il mondo alla figlia comprenda anche il rito di iniziazione connesso con l'esperienza sessuale. Questa immagine è associata, complementarmente, a quella della "madre assente", dipendente, sottomessa e spesso anch'essa abusata dal marito (239).

Esiste, però, un'imponente letteratura che rivela come il modello delle relazioni affettive nella famiglia incestuosa possa essere esattamente l'opposto, essendo il padre inadeguato, debole, timido, dipendente: questa è l'immagine del cosiddetto "padre endogamico". Questa figura è solo in apparente contraddizione con quanto descritto prima, perché in realtà il padre-padrone nasconde, sotto l'atteggiamento di ostentata autorità, una sostanziale insicurezza e debolezza (240). Questo tipo di padre viene spesso associato ad una "madre affettivamente distante", poco attenta ai bisogni degli altri membri del nucleo familiare e che demanda il suo ruolo coniugale e materno alla figlia, la quale diventa così la nuova partner del padre. La figlia viene caricata di pesanti responsabilità alle quali non può sottrarsi, pena la perdita dell'affetto dei genitori da cui il bambino dipende: si tratta del cosiddetto "terrorismo della sofferenza", cioè della tendenza a riversare sulle spalle dei figli ogni tipo di disordine interno alla famiglia (241).

Vi sono, però, anche casi in cui il padre appare alla figlia genericamente insoddisfatto della moglie ed egli attua "l'incesto" con la figlia come un paradossale tentativo di ristabilire l'equilibrio familiare. La madre, sentendosi incapace di accontentare il marito, si mostra debole ed arrendevole, cedendo la figlia alle cure del marito, il quale adotterà con la figlia atteggiamenti da coetaneo, esplicitando chiaramente quanto si senta realizzato solo in sua compagnia. Il rapporto si sessualizza nel momento in cui il padre allude chiaramente alla sua insoddisfazione per le prestazioni sessuali con la moglie ed inizia così la relazione con la figlia (242).

A volte può accadere che una moglie, particolarmente dipendente, sia ossessionata dall'idea di non perdere il proprio uomo e veda la figlia come un tramite di offerta di un legame sessuale con una ragazza più giovane, che possa così renderlo felice ed appagato. Ciò è vero specie se a questo tratto si aggiunge la frigidità e il fatto di essere sessualmente rifiutata. In questo tacito "gioco" non ci sono sensi di colpa, a meno che la "relazione incestuosa" non venga alla luce (243).

Si può affermare con certezza che dietro l'abuso sessuale c'è sempre una premeditazione, cioè la fase di vera e propria interazione sessuale è sempre preceduta da fantasie sessuali sulla minore, dalla progettazione dell'abuso e dalla ricerca attiva di circostanze che ne permettano l'attuazione.

In molti casi l'abusante stabilisce con la bambina un rapporto esclusivo e la isola con vari mezzi dal resto della famiglia, facendole credere che è la figlia preferita, l'unica della famiglia "alla sua altezza", con cui si può parlare da pari a pari ecc., oppure cercando di impietosirla mostrandosi incompreso, bisognoso di cure ed attenzioni, e svalutando la madre agli occhi della bambina. Può mettere di fronte alla figlia tutta una serie di promesse e progetti in cui lei sarà la protagonista, inserendola in aspettative di realizzazioni sociali grandiose e facendole credere di averne le chiavi di accesso; le può promettere di concederle di partecipare ad attività al di fuori della famiglia in un futuro che non arriverà mai, in quanto nella realtà tutte queste promesse servono da esca a mantenerla nella sua orbita e per poterle nel contempo proibire le attività di socializzazione normali per la sua età. In questo modo mantiene viva nella bambina l'aspettativa che le cose potranno cambiare e la speranza che il suo papà sia in realtà un papà buono che le vuole bene e che la vuole aiutare (244). Inoltre mette in atto una serie di strategie volte a svalutare su tutti i piani la figura materna e interferisce nella relazione madre-figlia, in modo che la bambina non possa trovare aiuto in questa.

L'azione del padre volta all'isolamento della figlia agisce in molti casi su una difficoltà già presente nella madre in termini di protettività e di vicinanza affettiva verso la bambina, legata a sue difficoltà personali o a fattori contingenti quali malattie fisiche, aumentando la distanza tra le due al punto tale da rendere entrambe del tutto impotenti; l'una ad accorgersi dell'abuso e a difendere la figlia, l'altra a chiedere aiuto. L'azione del padre è volta spesso anche a "buttare fumo negli occhi" della moglie, facendo cadere anche lei in una fitta rete di inganni.

D'altro canto madri che iniziano a sospettare che qualcosa "non funzioni", perché colgono qualche comportamento "strano" del marito nei confronti della bambina, e che per questo lo affrontano, vengono subito da lui accusate di essere pazze, visionarie e incapaci come madri, spesso picchiate per tale visionarietà e minacciate («Se non la pianti ti faccio togliere i figli») (245).

Inoltre, nei casi di concomitante maltrattamento fisico, l'inizio dell'abuso può coincidere con una diminuzione degli episodi di percosse sulla figlia, che deve così pagare la sua "incolumità" fisica a prezzo della violenza sessuale; tale prezzo viene frequentemente pagato dalle figlie anche al fine di evitare altri episodi di violenza sulla madre e sugli altri bambini e bambine della famiglia. A volte, invece, le bambine - che verranno poi abusate - vengono "preservate" dalle percosse, che sono riservate agli altri figli e/o alla mamma: questo "riguardo" nei loro confronti, che fa parte del lavoro di adescamento, fa sentire le bambine privilegiate e nello stesso tempo colpevoli nei confronti di chi all'interno della famiglia viene percosso o percosso di più; l'impotenza nel constatare di non poter difendere in altro modo la madre e i fratelli, la situazione di apparente privilegio, unite spesso ad aperte minacce del padre circa ulteriori aggressioni fisiche al resto della famiglia, consolidano sempre più il ruolo segreto di vittima sacrificale della bambina sessualmente abusata (246).

Le bambine e i bambini piccoli, inoltre, non riescono assolutamente ad individuare la colpa dell'adulto, se l'adulto è esteriormente gentile ed affettuoso, se quanto avviene è presentato come fosse un gioco e se vengono date delle ricompense per la partecipazione a certi atti.

La complicità della madre può essere di tipo passivo, tacito, talora inconscio, o estrinsecarsi in un comportamento attivo. Ai due comportamenti corrispondono personalità distinte (247). Nel primo caso, la madre è incapace di stabilire una qualsiasi relazione con la figlia e con il marito: questo "abbandono emotivo" della famiglia da parte della moglie può indurre il marito ad incentrare le proprie attenzioni sulla figlia. La complicità attiva della madre, invece, può variare da incoraggiamenti ambigui sino al vero e proprio aiuto fisico prestato al coniuge che usa violenza alla figlia. Nella madre, in quest'ultimo caso, al distacco emotivo si accompagnano disturbi più gravi della personalità e talora tratti psicotici. La donna, fortemente dipendente nei confronti del marito, teme di venir sostituita nel proprio ruolo dalla figlia, che sta crescendo, e prova nei confronti di quest'ultima un risentimento sempre più forte, sino a desiderare di vederla punita ed umiliata (anche attraverso l'abuso).

Ha un'importanza fondamentale anche l'elemento culturale legato ad una concezione arcaica, esasperatamente patriarcale, del ruolo del capofamiglia, che grande potere assumeva nel passato ma che ha ancora oggi la sua rilevanza negli strati sociali di basso livello culturale o presso comunità arretrate. In questi casi il padre considera l'attività dell'incesto come un legittimo esercizio del suo potere assoluto; perciò egli ben può abusare della o delle figlie - che secondo il suo pensiero costituiscono una sua "proprietà" - per soddisfare esigenze sessuali e/o affettive o semplicemente a scopo punitivo. Come osserva Isabella Merzagora (248), «l'incesto è probabilmente una delle conseguenze di una sottocultura che confonde la forza con la violenza, la virilità con l'ipersessualità, l'autorevolezza con l'autoritarismo (....) Il problema non è sessuale, ma di violenza esercitata dal padre-padrone su moglie e figlie e trasmessa - come valore culturale da imitare - ai figli». Le interpretazioni più recenti tendono, infatti, a vedere "nell'incesto" commesso dal padre un tentativo di riaffermare la propria supremazia nell'ambito familiare, una violenta rivendicazione di potere più che un'espressione di problematiche sessuali.

La figlia vive la situazione "dell'incesto" con il padre come un conflitto dilaniante (249): da un lato vorrebbe porre fine ad una situazione imbarazzante e traumatica per andare incontro ad una vita normale, dall'altro non è in grado di parlare un po' per vergogna e un po' per paura; inoltre questa decisione minerebbe la sicurezza e l'apparente stabilità della famiglia, che a questo punto essa ritiene dipendano esclusivamente da lei. Marinella Malacrea (250) infatti afferma che "la vittima di abuso sessuale si trova davanti ad un doppio vicolo cieco: «o cercare di valere qualcosa e quindi perdere il legame, oppure restare spregevole per conservarlo»".

In generale è possibile affermare che da ambo le parti si tende comunque ad occultare l'incesto con un silenzio molto rigido. I genitori tendono a razionalizzare "l'incesto" («...volevo solo mostrarle come si fa.»); a questo si aggiunga che, pur di preservare la famiglia, i genitori negano persino dopo che la scoperta è avvenuta, fino a condannare la stessa vittima se è la causa della scoperta (251). Spesso, infatti, alle violenze subite dal genitore abusante, si aggiungono quelle - forse ancor più brucianti - compiute da parte di tutto il nucleo familiare e dalla società, per il fatto di non essere credute. L'isolamento, che caratterizza la situazione infantile di questi bambini, si protrae anche dopo la denuncia: si forma il vuoto intorno al loro coraggio e da vittime innocenti si trasformano in calunniatrici colpevoli. Una ragazza, dopo anni di violenze compiute dal padre, non essendo stata creduta dalla madre, ha fatto questo amaro commento: "È stato quello il più grande dolore della mia vita. Lui mi ha violentata e tormentata per tutta l'infanzia. Ma mia madre mi ha uccisa" (252).

7.3.3 Le conseguenze "dell'incesto"

Raramente "l'incesto" si esaurisce in un singolo episodio; la durata della relazione è mediamente di due anni, ma può protrarsi anche per più di cinque. Inoltre le attenzioni sessuali del genitore (specialmente nel caso dell'incesto padre-figlia) sono frequentemente rivolte a più soggetti e quando vi sono più figli viene realizzato nei confronti di tutti, anche se magari in periodi diversi.

Tra gli autori vi è una larga concordanza nel ritenere che "l'incesto" provochi conseguenze negative e che queste siano spesso gravi e durature, soprattutto sul piano psicologico. Oltre alle reazioni immediate, l'abuso determina nei minori effetti a lungo termine, tanto che questo tipo di violenza è stato definito "una bomba ad orologeria" (253). La reazione dei bambini a questo tipo di violenza non è immediatamente di rifiuto e difesa, perché i bambini non possiedono ancora una personalità forte e consolidata tale da opporre ai desideri sessuali dei genitori; più spesso sono ammutoliti dall'autorità delle figure parentali e dalla confusione generata in loro dall'atto compiuto (254).

Occorre inoltre ricordare che alle conseguenze della stessa violenza sessuale si aggiungono, quando il fatto viene scoperto, gli ulteriori effetti derivanti dall'aggravarsi della disgregazione familiare, dal discredito sociale e dall'intervento istituzionale sul minore. Anche a distanza di anni le vittime presentano stati ansiosi, depressione, insicurezza, talvolta aumento dell'aggressività, difficoltà scolastiche e, nei rapporti interpersonali, complessi di colpa e problemi sessuali. In certi casi l'esperienza incestuosa può determinare nelle vittime, dopo un certo periodo, l'insorgere d'anoressia.

Una delle conseguenze più gravi, derivanti dall'abuso sessuale intrafamiliare, è la confusione a lungo termine dei livelli cognitivi, emozionali e sessuali generati nel bambino. Egli, infatti, si trova ad essere, durante il periodo dell'abuso, uno "pseudo-partner" e al tempo stesso è strutturalmente dipendente, in quanto bambino, dal genitore. Tutto questo comporta nel bambino, a causa anche delle minacce di violenza e segretezza, un'incapacità di orientarsi, in modo significativo, cognitivamente, emozionalmente e socialmente (255).

Inoltre, gli effetti a lungo termine sullo stato psicologico delle vittime (256), nell'adolescenza e nella prima maturità, si manifestano spesso con l'aumento della delinquenza, con l'abuso di droga e alcool, con la promiscuità e la prostituzione, con l'isolamento sociale, con l'aumento dei tentativi di suicidio e con l'incremento significativo degli indici di sintomi depressivi. Le conseguenze psicologiche possono comunque variare secondo il modo con cui è stato attuato l'incesto. Ad esempio, se la vittima ha subito un abuso sessuale violento da parte di un genitore, le conseguenze saranno aggravate dal fortissimo trauma psicologico dovuto alla trasformazione negativa della figura genitoriale, che passa d'improvviso da un ruolo protettivo a quello di aggressore.

La situazione si presenta diversamente se il genitore ha agito senza violenza apparente, assumendo un atteggiamento seduttivo, sfruttando l'ingenuità del figlio o della figlia e attuando ricatti affettivi. In questo caso la partecipazione all'incesto potrà portare la vittima (specialmente dopo la fine della relazione e con il sopraggiungere della piena consapevolezza dell'accaduto) a sviluppare un profondo senso di colpa e di disprezzo verso se stesso, unitamente ad istanze autopunitive e a repulsione verso il sesso opposto.

Occorre considerare anche i sensi di colpa della vittima, che può avere la sensazione di aver tradito il genitore abusante, sentire che è responsabile della sua carcerazione e del disfacimento della famiglia. Inoltre, va ricordato che la perdita improvvisa e inaspettata di tale genitore è per il minore la perdita di un importante figura genitoriale, anche se è colui che lo ha danneggiato abusando di lui: per qualche bambino è addirittura l'adulto più importante della sua vita (257).

È importante rilevare che la crescita del senso di colpa nella vittima d'incesto è stimolata in modo decisivo dal comportamento della famiglia e della società in genere, le quali attuano un vero e proprio processo di "colpevolizzazione" nei suoi confronti (258). Specialmente le bambine subiscono queste conseguenze poiché l'opinione comune tende ad attribuire loro un ruolo "attivo" nella dinamica dell'incesto, ossia di provocazione verso il padre.

Non è da escludere che in alcuni casi le bambine abbiano mostrato atteggiamenti seduttivi nei confronti dell'adulto, o che siano state effettivamente ambivalenti nei comportamenti, ma è riconosciuto come una tappa obbligata ed indispensabile del processo di formazione dell'identità infantile quello che la psicoanalisi ha chiamato il complesso d'Edipo: dunque provare amore per il genitore del sesso apposto e gelosia per quello dello stesso sesso è lecito, inevitabile e normale nei bambini dai tre ai sei anni.

Oggi l'orientamento scientifico più recente tende ad essere piuttosto severo verso l'impostazione, accusata di facilitare un'ulteriore vittimizzazione del minore, secondo la quale il bambino può essere considerato, in alcuni casi, "vittima partecipante" (259) in quanto, conoscendo l'aggressore, avrebbe consciamente o inconsciamente voluto il trauma sessuale, provocando l'adulto o assumendo un comportamento compiacente, oppure accettando in cambio dell'atto sessuale regali o denaro. Sarebbero in realtà gli adulti ad equivocare, interpretando come advance sessuali gli atteggiamenti di ricerca e di sollecitazione affettuosa da parte dei bambini. La tesi prevalente al riguardo è che la partecipazione del minore non può in ogni modo incidere sulla responsabilità dell'adulto (260).

Oggigiorno possono essere causati anche "traumi secondari" nel bambino vittima di un abuso sessuale, a causa dell'incompetenza degli operatori nei vari ambiti di presa in carico della situazione (261). Occorre ricordare che l'abuso sessuale non cessa di avere effetti al momento della neutralizzazione e dell'allontanamento dell'abusante dalla vittima. Di conseguenza, quando viene intrapreso un accertamento peritale è necessario cercare molto di più dell'attendibilità di una testimonianza: bisogna entrare in contatto emotivo con il bambino per individuare, al suo interno, la presenza di un'esperienza estranea ed imposta, che continua a produrre effetti nel tempo. Il bambino, che è stato abusato a lungo, non ha alcuna aspettativa di trovare un adulto comprensivo ed accogliente, perché l'esperienza subita è tale da fargli vedere la realtà alla luce degli eventi vissuti: così egli chiederà di lasciarlo solo, perché la solitudine è comunque uno spazio vuoto in cui forse crede di potersi rifugiare (262).

Un'attività di prevenzione dovrà, dunque, mirare anche all'opportuna preparazione di tali operatori per evitare che succeda tutto ciò.

Note

1. G. Martone, Storia dell'abuso all'infanzia, in F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 23.

2. Ph. Aries, L'enfant et la vie familiale sous l'Ancient Regime, Seuil, Paris, 1973, pp. 29-186.

3. G. Martone, Storia dell'abuso all'infanzia, in F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 25.

4. D. Bianchi, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

5. G. Martone, Storia dell'abuso all'infanzia, in F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 26.

6. C.H. Kempe, F. Silverman, Steel, Droegemuller, H. Silver, The battered child syndrome, in Journal Am. Med. Ass., 181, 1962, pp. 17-24.

7. V.J. Fontana, Somewhere a child is crying, The New American Library, New York, 1973.

8. R.S. Kempe, C.H. Kempe, Le violenze sul bambino, Sovera Multimedia, Roma (Tivoli), 1989.

9. E. Rezza, B. De Caro, Fratture osse multiple in lattante associate a distrofia, anemia e ritardo mentale (sindrome da maltrattamenti cronici), in Acta Pediatrica Latina, 15, 1962, pp. 121-139.

10. G. Martone, Storia dell'abuso all'infanzia, in F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 28.

11. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pp. 18-19.

12. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

13. R. Luberti, Abuso sessuale intrafamiliare su minori, in R. Luberti, D. Bianchi, ...e poi disse che avevo sognato, Cultura della pace, San Domenica di Fiesole (Firenze), 1997, pag. 17.

14. R. Luberti, op. cit., pag. 18.

15. U. Bronfenbrenner, The ecology of human development. Experiments by nature and design, Harvard University Press, Cambridge (tr. It. Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino, Bologna, 1986).

16. E. Rotriquenz, La realtà dell'abuso: elementi descrittivi, in G. Mazzoni, La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori, Giuffrè, Milano, 2000, pag. 62.

17. B. Egeland, D. Jacobvitz, A. Sroufe, Breaking progress in cycle of abuse, in Child development, 59(4), 1988, pp. 1080-1088.

18. J. Garbarino, K. Kostelny, Child maltreatment as a community problem, in Child abuse and neglect, 16(4), 1992, pp. 455-474.

19. F.F. Furstenberg, How families manage risk and opportunity in dangerous neighborhoods, in Wilson W.J., Sociology and public agenda, Sage, Newbury, Park, 1993.

20. A.C. Moro, Erode fra noi, Mursia, Milano, pag. 32.

21. R.S. Kempe, C.H. Kempe, Le violenze sul bambino, Sovera Multimedia, Roma (Tivoli), 1989, pag. 25.

22. L.F. Di Lalla, I.I. Gottesman, Biological and genetic contributors to violence: Widom's untold tale, in Psychological Bullettin, 109, 1991.

23. B. Bessi, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

24. A.C. Moro, Erode fra noi, Mursia, Milano, 1988, pp. 69-70.

25. M.T. Pedrocco Biancardi, Prevenzione del disagio e dell'abuso sessuale all'infanzia: per una nuova cultura dei diritti di bambini e adolescenti, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

26. P. Di Blasio, Abusi all'infanzia: fattori di rischio e percorsi d'intervento, in Ecologia della mente, n. 2, 1997, pp. 153-170.

27. P. Facchin, Le diagnosi di maltrattamento, in Centro Nazionale di Documentazione e Analisi sull'infanzia e l'adolescenza, Pianeta Infanzia 1: questioni e documenti. (Dossier monografico: violenze sessuali sulle bambine e sui bambini), Istituto degli Innocenti, Firenze, 1998, pag. 73.

28. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

29. R.S. Kempe, C.H. Kempe, Le violenze sul bambino, Sovera Multimedia, Roma (Tivoli), 1989.

30. AA. VV., Il bambino maltrattato, Il pensiero scientifico, Roma, 1981, pag. 16.

31. D. Baronciani, Incontro con il bambino e incontro con la famiglia: il contributo del pediatra negli interventi di prevenzione, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

32. S. Cirillo, P. Di Blasio, La famiglia maltrattante, Raffaello Cortina, Milano, 1989, pp. 59-71.

33. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

34. S. Cirillo, P. Di Blasio, La famiglia maltrattante, Raffaello Cortina, Milano, 1989, pp. 60.

35. Intervista alla Dott.ssa Ciampi, neuropsichiatra infantile presso l'ospedale Mayer di Firenze, 1998.

36. D. Baronciani, Incontro con il bambino e incontro con la famiglia: il contributo del pediatra negli interventi di prevenzione, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

37. AA.VV., Il bambino maltrattato, Il pensiero Scientifico, Roma, 1981, pag. 35.

38. C. Colesanti, L. Lunardi, Il maltrattamento del minore, Giuffrè, Milano, 1995, pag. 253.

39. J.G. Moore, L'ABC delle cure al bambino, Melusina, Atripalda (AV), 1993, pag. 97.

40. F. Taddei, L'organizzazione dei servizi e i processi d'integrazione, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

41. AA.VV., Il bambino maltrattato, Il pensiero Scientifico, Roma, 1981, pag. 36.

42. P. Facchin, Le diagnosi di maltrattamento, in Centro Nazionale di Documentazione e Analisi sull'infanzia e l'adolescenza, Pianeta Infanzia 1: questioni e documenti. (Dossier monografico: violenze sessuali sulle bambine e sui bambini), Istituto degli Innocenti, Firenze, 1998, pag. 75.

43. R.S. Kempe, C.H. Kempe, Le violenze sul bambino, Sovera Multimedia, Roma (Tivoli), 1989, pag. 102.

44. P. Facchin, Le diagnosi di maltrattamento, in Centro Nazionale di Documentazione e Analisi sull'infanzia e l'adolescenza, Pianeta Infanzia 1: questioni e documenti. (Dossier monografico: violenze sessuali sulle bambine e sui bambini), Istituto degli Innocenti, Firenze, 1998, pag. 76.

45. AA.VV., Il bambino maltrattato, Il pensiero Scientifico, Roma, 1981, pag. 37.

46. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

47. M.T. Pedrocco Biancardi, Prevenzione del disagio e dell'abuso sessuale all'infanzia: per una nuova cultura dei diritti di bambini e adolescenti, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

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49. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

50. C. Colesanti, L. Lunardi, Il maltrattamento del minore, Giuffrè, Milano, 1995, pag. 99-100.

51. Intervista alla Dott.ssa Ciampi, neuropsichiatra infantile presso l'ospedale Mayer di Firenze, 1998.

52. Intervista alla Dott.ssa Ilaria Lombardi, coordinatrice degli educatori della casa di accoglienza per gestanti e madri dello Spedale degli Innocenti, 1998.

53. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia: dalla ricerca all'intervento clinico, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 121.

54. C. Colesanti, L. Lunardi, Il maltrattamento del minore, Giuffrè, Milano, 1995, pag. 116.

55. P. Falacchini, Le diagnosi di maltrattamento, in Centro Nazionale di Documentazione e Analisi sull'infanzia e l'adolescenza, Pianeta Infanzia 1: questioni e documenti. (Dossier monografico: violenze sessuali sulle bambine e sui bambini), Istituto degli Innocenti, Firenze, 1998, pag. 80.

56. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia: dalla ricerca all'intervento clinico, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 122.

57. F. Montecchi, Prevenzione, rilevamento e trattamento dell'abuso all'infanzia, Borla, Roma, 1991, pag. 78.

58. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia: dalla ricerca all'intervento clinico, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 124.

59. F. Montecchi, op. cit., pag. 125.

60. A.M. Scapicchio, Linee-guida per operatori psico-sanitari, Corso di formazione sulla prevenzione e strategie di contrasto del fenomeno dell'abuso e del maltrattamento dei minori, Firenze, 2001.

61. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia: dalla ricerca all'intervento clinico, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 127-128.

62. F. Montecchi, Prevenzione, rilevamento e trattamento dell'abuso all'infanzia, Borla, Roma, 1991, pag. 81.

63. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia: dalla ricerca all'intervento clinico, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 128.

64. C. Colesanti, L. Lunardi, Il maltrattamento del minore, Giuffrè, Milano, 1995, pag. 133.

65. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

66. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia: dalla ricerca all'intervento clinico, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 137.

67. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

68. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia: dalla ricerca all'intervento clinico, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 138.

69. F. Montecchi, Prevenzione, rilevamento e trattamento dell'abuso all'infanzia, Borla, Roma, 1991, pag. 83.

70. Si tratta di quei casi in cui il soggetto (adulto), in seguito ad un infortunio per il quale è previsto un indennizzo economico, assume dei sintomi che vengono meno, improvvisamente, al momento del risarcimento.

71. A.M. Scapicchio, Linee-guida per operatori psico-sanitari, Corso di formazione sulla prevenzione e strategie di contrasto del fenomeno dell'abuso e del maltrattamento dei minori, Firenze, 2001.

72. AA. VV. Il bambino maltrattato, Il pensiero scientifico, 1981, Roma, pag. 1.

73. G. Scardaccione, La tematica dell'abuso sessuale e i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

74. D. Finkelhor et al., A sourcebook on child sexual abuse, Sage, Beverly Hills, California, 1986.

75. A. Vassalli, Abuso sessuale sui bambini: definizione, caratteristiche e conseguenze, in M. Malacrea, A. Vassalli, Segreti di famiglia, Raffaello Cortina, Milano, 1990, pag. 14.

76. D. Finkelhor et al., A sourcebook on child sexual abuse, Sage, Beverly Hills, California, 1986.

77. A. Vassalli, Abuso sessuale sui bambini: definizione, caratteristiche e conseguenze, in M. Malacrea, A. Vassalli, Segreti di famiglia, Raffaello Cortina, Milano, 1990, pag. 14.

78. D. Finkelhor et al., A sourcebook on child sexual abuse, Sage, Beverly Hills, California, 1986.

79. A. Vassalli, Abuso sessuale sui bambini: definizione, caratteristiche e conseguenze, in M. Malacrea, A. Vassalli, Segreti di famiglia, Raffaello Cortina, Milano, 1990, pag. 15.

80. A. Vassalli, op. cit., pag. 16.

81. M.R. Giolito, Linee-guida per operator psico-sanitari, Corso di formazione sulla prevenzione e strategie di contrasto del fenomeno dell'abuso e del maltrattamento dei minori, Firenze, 2001.

82. A. Vassalli, Abuso sessuale sui bambini: definizione, caratteristiche e conseguenze, in M. Malacrea, A. Vassalli, Segreti di famiglia, Raffaello Cortina, Milano, 1990, pag. 18.

83. B. Bessi, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

84. J. Goodwin, Abuso sessuale sui minori: le vittime dell'incesto e le loro famiglie, 1982. Tr. It. Centro scientifico torinese, Torino, 1985.

85. A. Vassalli, Abuso sessuale sui bambini: definizione, caratteristiche e conseguenze, in M. Malacrea, A. Vassalli, Segreti di famiglia, Raffaello Cortina, Milano, 1990, pag. 19.

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87. F. Mantovani, I delitti sessuali: normativa vigente e prospettive di riforma, in G. Canepa, M. Lagazzi, I delitti sessuali, Padova, 1988, p. 271.

88. G. Scardaccione, Effetti della ricerca psicosociale e criminologica sulla legislazione italiana in tema di pedofilia, in Rassegna di psicoterapie, ipnosi, medicina psicosomatica, psicopatologia forense, vol. 5, n. 2, 2000, pag. 53.

89. R. Gaddini, Incest as development failure, in Child abuse and neglect, 7, 1983, pp. 357-358.

90. G. Scardaccione, Effetti della ricerca psicosociale e criminologica sulla legislazione italiana in tema di pedofilia, in Rassegna di psicoterapie, ipnosi, medicina psicosomatica, psicopatologia forense, vol. 5, n. 2, 2000, pag. 57.

91. G. Scardaccione, op. cit., pag. 56.

92. G. Scardaccione, La tematica dell'abuso sessuale e i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

93. R.S. Kempe, C.H. Kempe, Le violenze sul bambino, Sovera Multimedia, Roma (Tivoli), 1989, pag. 69.

94. R.S. Kempe, C.H. Kempe, op. cit., pag. 70.

95. D. Bianchi, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

96. Coordinamento nazionale dei centri e dei servizi di prevenzione e trattamento dell'abuso in danno di minori, Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale all'infanzia, in Minori Giustizia, 4, 1997, pp. 154-158.

97. A.C. Moro, Erode fra noi, Mursia, Milano, 1988, pp. 5-16.

98. T. Padovani, Legge 15 febbraio 1996 n. 66. Norme contro la violenza sessuale, in La legislazione penale, fasc, 3-4, pt. 2, 1996, pp. 413-420.

99. T. Padovani, op. cit.

100. G. Mostardi, La tematica dell'abuso sessuale e i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

101. A.C. Moro, Erode fra noi, Mursia, Milano, 1988, pp. 256-257.

102. Legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1996.

103. G. Flora, P. Tonini, Nozioni di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1997, pag. 344.

104. G. Scardaccione, Effetti della ricerca psicosociale e criminologica sulla legislazione italiana in tema di pedofilia, in Rassegna di psicoterapie, ipnosi, medicina psicosomatica, psicopatologia forense, vol. 5, n. 2, 2000, pag. 56.

105. T. Padovani, Legge 15 febbraio 1996 n. 66. Norme contro la violenza sessuale, in La legislazione penale, fasc. 3-4, pt 2, 1996, pp. 413-420.

106. D. Bianchi, Un quadro degli interventi contro violenza e abuso, in Cittadini in crescita, anno 3, n. 1, Firenze, 2002, pag. 48.

107. F. Occhiogrosso, Prevenzione e integrazione tra le istituzioni di tutela e i servizi, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

108. P. Forno, Percorsi di attuazione della L. 66/96, Corso di formazione sulla prevenzione e strategie di contrasto del fenomeno e del maltrattamento dei minori, Firenze, 2001.

109. A.C. Moro, Violenza sessuale e minori, in Bambino incompiuto, N. 1, Centro Studi Bambino incompiuto, Roma, 1996, pp. 67-74.

110. Concezione di congiunzione carnale accolta dalla Suprema Corte, la quale ritiene che la commissione di tale azione sia possibile anche senza penetrazione. Cass. Pen., sez. III 12 ottobre 1987, in Riv. Pen., 1988.

111. P. Forno, Percorsi di attuazione della L. 66/96, Corso di formazione sulla prevenzione e strategie di contrasto del fenomeno e del maltrattamento dei minori, Firenze, 2001.

112. P. Forno, op. cit.

113. M. Acconci, A. Berti, Grandi reati, piccole vittime, Erga, Genova, 1999, pag. 14.

114. V. Del Buono, E. Ranieri, La nuova normativa relativa agli abusi sessuali su minori dopo la legge n. 66/96, in R. Luberti, D. Bianchi, ...e poi disse che avevo sognato, Cultura della pace, San Domenica di Fiesole (Firenze), 1997, pag. 50.

115. G. Scardaccione, Normativa sulla violenza sessuale: quale tutela per il minore?, in C. Simonelli, F. Petruccelli, V. Vizzari, Sessualità e terzo millennio, vol. II, Franco Angeli, Milano, 1998, pp. 530-535.

116. G. Flora, P. Tonini, Nozioni di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1997, pag. 346.

117. E. Venafro, Legge 15 febbraio 1996 n.66. Norme contro la violenza sessuale, in Legislazione penale, Utet, 1996, pp. 448-453.

118. AA. VV., La violenza nascosta, Raffaello Cortina, Milano, 1986, pag. 47-49.

119. G. Scardaccione, Effetti della ricerca psicosociale e criminologica sulla legislazione italiana in tema di pedofilia, in Rassegna di psicoterapie, ipnosi, medicina, psicosomatica e psicopatologia forense, vol. 5, n. 2, Roma, 2000, pag. 57.

120. E. Venafro, Legge 15 febbraio 1996 n.66. Norme contro la violenza sessuale, in Legislazione penale, Utet, 1996, pp. 448-453.

121. G. Flora, P. Tonini, Nozioni di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1997, pag. 347.

122. R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori e gli effetti a lungo termine, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

123. I. Caputo, Mai devi dire, Corbaccio, Milano, 1995.

124. G. Flora, P. Tonini, Nozioni di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1997, pag. 347.

125. G. Flora, P. Tonini, op. cit., pag. 348.

126. G. Scardaccione, Effetti della ricerca psicosociale e criminologica sulla legislazione italiana in tema di pedofilia, in Rassegna di psicoterapie, ipnosi, medicina psicosomatica, psicopatologia forense, vol. 5, n. 2, 2000, pag. 58.

127. M. Acconci, A. Berti, Grandi reati, piccole vittime, Erga, Genova, 1999, pag. 14.

128. E. Venafro, Legge 15 febbraio 1996 n.66. Norme contro la violenza sessuale, in Legislazione penale, Utet, 1996, pp. 448-453.

129. G. Flora, P. Tonini, Nozioni di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1997, pag. 348-349.

130. E. Venafro, Legge 15 febbraio 1996 n.66. Norme contro la violenza sessuale, in Legislazione penale, Utet, 1996, pp. 448-453.

131. P. Forno, Percorsi di attuazione della L. 66/96, Corso di formazione sulla prevenzione e strategie di contrasto del fenomeno e del maltrattamento dei minori, Firenze, 2001.

132. G. Flora, P. Tonini, Nozioni di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1997, pag. 349.

133. G. Flora, P. Tonini, op. cit., pag. 354.

134. C. Cass. Sez. III, 27 febbraio 1970, in Giur. It., 1971, II, 323.

135. M. Malacrea, A. Vassalli, Segreti di famiglia, Raffaello Cortina, Milano, 1990.

136. M. Acconci, A. Berti, Grandi reati, piccole vittime, Erga, Genova, 1999, pag. 15, nota 1.

137. V. Del Buono, E. Ranieri, La nuova normativa relativa agli abusi sessuali su minori dopo la legge n. 66/96, in R. Luberti, D. Bianchi, ...e poi disse che avevo sognato, Cultura della pace, San Domenica di Fiesole (Firenze), 1997, pag. 50.

138. G. Scardaccione, Effetti della ricerca psicosociale e criminologica sulla legislazione italiana in tema di pedofilia, in Rassegna di psicoterapie, ipnosi, medicina psicosomatica, psicopatologia forense, vol. 5, n. 2, 2000, pag. 58.

139. D. Bianchi, Un quadro degli interventi contro violenza e abuso, in Istituto degli Innocenti, Cittadini in crescita, anno 3, n. 1, Firenze, 2002, pag. 51.

140. M. Acconci, A. Berti, Grandi reati, piccole vittime, Erga, Genova, 1999, pag. 52.

141. G. Flora, La legge contro lo sfruttamento sessuale dei minori. Profili di diritto penale sostanziale, in Dispense del corso di insegnamento di diritto penale speciale nella Facoltà di Giurisprudenza, Firenze, 2002, pag. 2.

142. D. Bianchi, Un quadro degli interventi contro violenza e abuso, in Istituto degli Innocenti, Cittadini in crescita, anno 3, n. 1, Firenze, 2002, pag. 52.

143. D. Bianchi, op. cit., pag. 45.

144. D. Bianchi, op. cit., pag. 46.

145. M.T. Pedrocco Biancardi, Prevenzione del disagio e dell'abuso all'infanzia: per una nuova cultura dei diritti di bambini e adolescenti, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

146. D. Bianchi, Un quadro degli interventi contro violenza e abuso, in Istituto degli Innocenti, Cittadini in crescita, anno 3, n. 1, Firenze, 2002, pag. 48.

147. G. Scardaccione, La tematica dell'abuso ed i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

148. È la violenza a cui i minori assistono in famiglia (magari diretta verso la madre o un fratello/sorella), diventando così testimoni del fatto. Anche se non vengono picchiati direttamente, è ormai dimostrato che gli effetti che derivano dall'aver assistito alla violenza consistono in lesioni di tipo psicologico, diverse a seconda dell'età e del sesso del minore. Addirittura, negli Stati Uniti, il Family Act Law considera l'assistere ad episodi violenti da parte dei minori una forma di violenza primaria nei loro confronti. B. Bessi, Testimone suo malgrado, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2002.

149. Occhiogrosso F., La complessità della risposta all'abuso sui minori, in Minori e Giustizia, vol. 2, 2001, pp. 5-14.

150. G. Scardaccione, La tematica dell'abuso ed i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

151. F. Taddei, Organizzazione dei servizi e processi d'integrazione, Convegno nazionale sulla prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.

152. D. Bianchi, Un quadro degli interventi contro violenza e abuso, in Istituto degli Innocenti, Cittadini in crescita, anno 3, n. 1, Firenze, 2002, pag. 57.

153. S.M. Sgroi, L.C. Blick, F.S. Porter, A conceptual framework for child sexual abuse, in S.M. Sgroi, Handbook of clinical intervection in child sexual abuse, Lexington Books, Lexington.

154. R. Luberti, Abuso sessuale intrafamiliare su minori, in R. Luberti, D. Bianchi, ...e poi disse che avevo sognato, Cultura della pace, San Domenica di Fiesole (Firenze), 1997, pag. 24.

155. Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso all'infanzia (CISMAI), Rilevazione del maltrattamento infantile in alcuni centri/servizi CISMAI (dati 1998/1999).

156. Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso all'infanzia (CISMAI), op. cit.

157. Scuola Romana Rorschach (Centro studi e intervento infanzia violata), La violenza sui minori, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

158. Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso all'infanzia (CISMAI), Rilevazione del maltrattamento infantile in alcuni centri/servizi CISMAI (dati 1998/1999).

159. C. Terragni, La violenza sul bambino e sui bambini in Italia dall'analisi delle fonti giudiziarie, in Centro Nazionale di Documentazione e Analisi sull'Infanzia e l'Adolescenza, Pianeta Infanzia 1 - Questioni e documenti (Dossier monografico), Istituto degli Innocenti, Firenze, 1998, pp. 84-114.

160. C. Terragni, op. cit.

161. B. Bessi, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

162. A.C. Moro, Erode fra noi, Mursia, Milano, 1988, pag. 36.

163. C. Pernisco, "Violenza ed abuso sessuale sui minori", Corso di formazione per docenti del Servizio Scuola dell'Infanzia, Firenze, 2002.

164. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 144.

165. AA. VV., La violenza nascosta, Raffaello Cortina, Milano, 1986, pp. 47-49.

166. F. Montecchi, Gli abusi all'infanzia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, pag. 146.

167. C. Terragni, La violenza sul bambino e sui bambini in Italia dall'analisi delle fonti giudiziarie, in Centro Nazionale di Documentazione e Analisi sull'Infanzia e l'Adolescenza, Pianeta Infanzia 1 - Questioni e documenti (Dossier monografico), Istituto degli Innocenti, Firenze, 1998, pp. 84-114.

168. Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso all'infanzia (CISMAI), Rilevazione del maltrattamento infantile in alcuni centri/servizi CISMAI (dati 1998/1999).

169. Scuola Romana Rorschach (Centro studi e intervento infanzia violata), La violenza sui minori, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

170. C. Pernisco, "Violenza ed abuso sessuale sui minori", Corso di formazione per docenti del Servizio Scuola dell'infanzia, Firenze, 2002.

171. C. Pernisco, op. cit.

172. E. Rotriquenz, La realtà dell'abuso: elementi descrittivi, in G. Mazzoni, La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori, Giuffrè, Milano, 2000, pag. 66.

173. G. Gulotta, Metodologia giudiziaria: accusare, difendere, giudicare, in C. Cabras, Psicologia della prova, Giuffrè, Milano, 1996, pp. 1-18.

174. E. Rotriquenz, La realtà dell'abuso: elementi descrittivi, in G. Mazzoni, La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 66-67.

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176. P. Farinoni, E. Scabini, La violenza sui bambini, Franco Angeli, Milano, 1991, pp. 159-167.

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178. G. Gulotta, Metodologia giudiziaria: accusare, difendere, giudicare, in C. Cabras, Psicologia della prova, Giuffrè, Milano, 1996, pp. 1-18.

179. G. Mostardi, La tematica dell'abuso sessuale ed i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

180. L. Lanza, Avvio alla tutela giudiziaria, in M. Malacrea, A. Vassalli, Segreti di famiglia: l'intervento nei casi di incesto, Cortina Editore, Milano, 1990, pp. 131-143.

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182. R. Luberti, Abuso sessuale intrafamiliare su minori, in R. Luberti, D. Bianchi, ...e poi disse che avevo sognato, Cultura della pace, San Domenica di Fiesole (Firenze), 1997, pag. 19.

183. G. Scardaccione, La tematica dell'abuso sessuale e i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.

184. R. Luberti, Abuso sessuale intrafamiliare su minori, in R. Luberti, D. Bianchi, ...e poi disse che avevo sognato, Cultura della pace, San Domenica di Fiesole (Firenze), 1997, pag. 20.

185. E. Rotriquenz, La realtà dell'abuso: elementi descrittivi, in G. Mazzoni, La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori, Giuffrè, Milano, 2000, pag. 56.

186. B. Bessi, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori, Corso di formazione per volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.

187. Coordinamento nazionale dei Centri e dei Servizi di prevenzione e trattamento dell'abuso in danno di minori, Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale all'infanzia, in Minori Giustizia, 4, 1997, pp. 154-158.

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