ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Salvatore Cannata, 2002

Qualsiasi tentativo di condurre analisi approfondite di esperienze legali straniere porta con sé l'incognita della difficoltà di riprodurre in forma sintetica la complessità di una cultura, di una tradizione giuridica. Non è sempre agevole separare, dalla massa indistinta di elementi nuovi per il sol fatto di comparire sotto la veste formale di usi, accezioni o lingue diverse, quei profili che, a fronte di una reale comparazione tra sistemi giuridici, portino in sé le tracce della vera novità. Elementi, questi, che, una volta rintracciati, da soli ripagano e legittimano lo sforzo comparatistico.

L'indagine sull'assetto assunto in tempi recenti dal sistema commisurativo federale statunitense, a nostro avviso ha il merito di porre in rilievo alcune tematiche che possono rientrare a pieno titolo nelle riflessioni che accompagnano i tentativi di elaborare, nel nostro paese, nuovi modelli di commisurazione della pena.

In particolare, va sottolineata l'opportunità che una ridefinizione generale del modello commisurativo italiano prenda in considerazione l'opzione processuale bifasica tipica del processo penale nordamericano (1).

Con ciò, si vuole avanzare la proposta che, nel tentativo di ricongegnare il complesso meccanismo sanzionatorio, venga adeguatamente discussa l'ipotesi che il processo penale italiano, così come quello statunitense, si divida in due fasi autonome, una diretta all'accertamento del fatto storico e alla statuizione sulla responsabilità penale dell'imputato, l'altra invece esclusivamente preordinata alla individuazione della pena a questi concretamente applicabile.

Fase, quest'ultima, nella quale far confluire l'intero complesso delle attività che ad oggi caratterizzano la c.d. commisurazione in senso lato (2), ed in particolare l'individuazione e il giudizio sulla prevalenza delle circostanze, la determinazione di pene principali e accessorie, la definizione delle misure alternative alla detenzione.

Una delle soluzioni al fenomeno della dissoluzione del sistema commisurativo potrebbe dunque essere quella di conferire al complesso delle attività, sostanziali e processuali, che contribuiscono alla determinazione della pena applicabile al caso concreto, dignità di fase processuale autonoma, sorretta da una compiuta ed organica disciplina, tanto in punto di regole procedimentali che di misure sanzionatorie utilizzabili. Disciplina inevitabilmente corredata da una chiara ed inequivocabile norma definitoria degli scopi della sanzione penale.

La mancanza di un quadro omogeneo ed unitario sovrastante le singole operazioni commisurative, e i caratteri di contraddittorietà e disarmonia, ad essa conseguenti, che affliggono da decenni la prassi sanzionatoria italiana, potrebbero essere così superati connotando la tematica dell'applicazione della pena di una specifica ed autonoma sede sostanziale e processuale. Assicurando così alla gestione della sanzione penale il soddisfacimento di quelle caratteristiche di uniformità, e certezza, principale vulnus dell'attuale sistema sanzionatorio italiano (3).

E fornendo al giudice gli strumenti per procedere ad una cognizione e decisione commisurativa realmente fondata sugli aspetti specifici, caratterizzanti del singolo caso di specie, in particolare su tutti quelli relativi alla personalità del reo.

La celebrazione di una apposita udienza commisurativa, nella quale convogliare la cognizione processuale di tutti gli elementi rilevanti ai fini commisurativi, in primis di quelli relativi alla "capacità a delinquere del colpevole" indicati ex art. 133, 2º comma c.p., e nella quale trarre in modo definitivo e sistematico le conclusioni sanzionatorie del caso di specie, appare sulla carta strumento idoneo ad assicurare il rispetto dei principi di legalità, efficacia e uniformità di trattamento che dovrebbero caratterizzare la riforma del procedimento commisurativo italiano.

La proposta di istituire, all'interno del processo penale, una apposita udienza commisurativa, si colloca, a nostro avviso, nel solco tracciato dai due tenativi più recenti di riforma organica del sistema penale italiano: le c.d. Commissioni Pagliaro e Grosso.

Lo schema di legge delega per l'emanazione di un nuovo codice penale approntato alla fine del 1991 dalla Commissione Ministeriale presieduta dal Prof. Pagliaro e composta dai Professori Bricola, Fiorella, Mantovani, e Padovani, (c.d. Progetto Pagliaro), ha introdotto il criterio del "disvalore complessivo del fatto" quale parametro-guida del procedimento commisurativo (4).

Inteso come regola di indirizzo per l'esercizio del proprio potere discrezionale in sede di commisurazione della pena da parte del giudice.

La celebrazione in un'unica ed autonoma udienza processuale di tutte le formalità, sostanziali e procedurali, previste per l'applicazione della sanzione penale potrebbe costituire una garanzia di effettività in più al raggiungmento di un'analisi sanzionatoria realmente ispirata al criterio della valutazione del "disvalore complessivo del fatto". "Disvalore complessivo" che sarebbe così valutato dal giudice in modo unitario, cioè in un apposito momento del processo penale dedicato alla ricognizione delle circostanze, dei profili del fatto e del suo autore, e alla decisione su tipo e misura della pena o delle pene congiuntamente applicabili. Ciò permetterebbe al giudice di giungere alla effettiva percezione del disvalore nella sua "complessità".

Lo svolgimento del procedimento commisurativo in forme, sedi e secondo regole proprie, assicurerebbe una cognizione sanzionatoria sistematica, completa del fatto; non più parcellizzata, come ad oggi, nei vari episodi del giudizio in cui essa assuma incidentalmente rilevanza; oppure priva di effettività, per l'intervento di meccanismi che, in special modo nella fase esecutiva, si sovrappongono alla comminatoria giudiziale fino a svuotarne di contenuto (5).

La stessa relazione finale della c.d. Commissione Grosso pare non allontanarsi da questo punto, laddove afferma che le pene, sia quella detentiva che quelle ad essa alternative, debbano essere "applicate direttamente dal giudice di cognizione in sede di giudizio, e non invece in fase di esecuzione da giudici diversi ..." (6).

Anche secondo quest'impostazione, quindi, la ristrutturazione dell'impianto sanzionatorio dovrebbe avvenire privilegiando le caratteristiche della organicità, della certezza e prevedibilità nell'applicazione della pena (7).

L'ipotesi di relegare tutte le questioni relative all'applicazione della pena ad un autonomo momento processuale appare dunque compatibile con le più recenti tendenze di riforma del codice italiano, in particolare con quelle che sottolineano la necessità che il sistema penale si riappropri di forme di valutazioni sanzionatorie razionali e realmente rispondenti della complessità del fatto storico di reato.

L'analisi del sentencing federale si pone dunque anche come indagine "prognostica" sugli scenari che una eventuale "biforcazione" del processo penale italiano potrebbe significare.

Prognosi condotta con le dovute cautele che un'analisi del genere impone di assumere.

Cautele principalmente ispirate alla necessità di rispettare l'insuperabile dicotomia che emerge nel confrontare un'esperienza giuridica di common law qual è quella americana, ad un sistema, come quello italiano, di tradizione continentale di civil law.

Il tema della bifasicità del processo penale e quindi dell'autonomia sostanziale e processuale del procedimento commisurativo non è, tuttavia, l'unico elemento che un'indagine sul sentencing nordamericano permette di porre in risalto.

Sempre nel tentativo di sviluppare istituti e concetti giuridici che permettano di migliorare, se non l'elaborazione, perlomeno la comprensione stessa del diritto penale italiano, un particolare rilievo ci sembra vada dato alla nozione e alla disciplina della c.d. relevant conduct, della condotta rilevante ai fini commisurativi.

Nozione non recepita, almeno direttamente, dal codice sostanziale né da quello di rito. E sconosciuta, in questi termini, alla dottrina. A tal punto che si potrebbe pensare all'assenza, all'interno del nostro ordinamento giuridico, di una disciplina specificatamente intitolata ai fattori che determinano la applicazione della pena corrisponda un preoccupante vuoto legislativo.

Conclusione cui non è lecito giungere, però, applicando alla tematica della correlazione tra imputazione e sentenza le categorie concettuali proprie della tradizione giuridica nordamericana, in particolare quelle del charge offense sentencing e del real offense sentencing.

Abbiamo visto come, nella tradizione giuridica nordamericana, si siano storicamente alternate tanto l'idea che la sentenza di condanna penale, e cioè l'an, il quantum ed il quomodo della sanzione penale, debbano necessariamente riferirsi alla condotta formalmente imputata e processata a carico dell'imputato (charge offense sentencing) che quella opposta, secondo la quale la pena debba essere giustificata e commisurata sulla base di quanto realmente posto in essere dal medesimo, indipendentemente dalla contestazione formale del relativo addebito penale (real offense sentencing).

La riforma del 1984, ha, tra le altre cose, introdotto un modello fattuale "misto" di commisurazione, c.d. modified real offense sentencing, tuttavia, tendenzialmente riconducibile all'idea per cui vada punita la condotta realmente compiuta dall'imputato, senza che il limite dell'imputazione formale possa costituire da ostacolo a tale cognizione ampliata, perlomeno in sede commisurativa, del fatto storico.

Una riflessione di questo tipo manca nel panorama, positivo e scientifico, della tradizione processual-penalistica italiana. Per un complesso di fattori, in primis la monofasicità del processo penale italiano, apparentemente non sembra porsi il problema della base fattuale della sentenza penale. Non sembra cioè essere in discussione il principio secondo il quale giustificazione sostanziale della pena e al tempo stesso suo limite concettuale e positivo debba essere l'addebito formulato a carico dell'imputato e oggetto del giudizio penale (8).

A ben vedere, infatti, il sistema commisurativo che emerge dal combinato disposto dagli articoli 132 e 133 del codice penale e dalle regole processuali del nuovo codice di rito, è, almeno formalmente, basato sulla nozione "formale" della condotta rilevante, su quella che la dottrina nordamericana chiamerebbe charge offense sentencing. Il processo penale italiano ricollega l'applicazione della pena al fatto tipico di reato così come addebitato all'imputato, processato e ricostruito con il giudicato penale di condanna.

In questo senso vanno interpretate le disposizioni che regolano la modifica dell'imputazione (artt. 516-522, c.p.p.) e l'ipotesi eccezionale di regresso del giudizio di appello in primo grado per difetto di contestazione (art. 604, 1º comma, c.p.p.). La disciplina della modifica dell'imputazione, infatti, regola le ipotesi in cui, nel corso dell'istruzione dibattimentale, "il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio" (art. 516., c.p.p.), o sia emersa l'esistenza di una circostanza aggravante o che sia stato commesso un reato connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. b (art. 517, c.p.p.); infine, la disciplina dispone anche per l'ipotesi in cui, nel corso del dibattimento, risulti "a carico dell'imputato un fatto nuovo non enunciato nel decreto che dispone il giudizio" (art. 518, c.p.p.).

Le ipotesi in cui il fatto tipico formalmente addebitato all'imputato cambi, nel corso del giudizio, la sua fisionomia, perché realizzatosi in forme diverse (artt. 516 e 517) o perché alla sua realizzazione si sia accomagnata quella di un nuovo reato, connesso a titolo di concorso formale o di reato continuato (art. 517) o semplicemente ulteriore rispetto a quello oggetto del rinvio a giudizio (art. 518), evidenziano un dato fondamentale comune: tutte le volte che il fatto storico sia diverso da quello per cui si sia formalmente instaurato il giudizio penale, il processo penale deve ripartire, deve riaggiornare la sua stessa ratio istitutiva.

Per quanto ciò accada in forme ed intensità diverse, mutando sotto il profilo dei diversi meccanismi di modifica e di contestazione dei diversi o nuovi elementi emersi nel corso dell'istruzione dibattimentale. Si pensi al fatto che, nell'ipotesi in cui emerga un fatto "diverso", perché realizzatosi in forme diverse da quelle descritte nell'atto di imputazione formale, ma non "ulteriore" rispetto a quello che è già stato contestato (art. 516 c.p.p.) (9), o in quella in cui venga rilevata l'esistenza di una circostanza aggravante o di un reato connesso ex art. 12, 1º comma, lett. b, "il pubblico ministero provvede direttamente a modificare l'imputazione e contestarla all'imputato (se il reato non appartiene alla competenza di un giudice "superiore", e cioè della corte d'assise). L'imputato ha diritto che il dibattimento venga sospeso ... ed ha altresì la facoltà di chiedere l'ammissione di nuove prove (art. 519)" (10).

Mentre, nel caso in cui nel corso dell'istruzione dibattimentale risulti a carico dell'imputato un "fatto nuovo", cioè "ulteriore" rispetto a quello già addebitato (11), per il quale si debba procedere d'ufficio, (art. 518 c.p.p.), la modifica dell'imputazione e la contestazione del nuovo addebito potrà avvenire nella medesima udienza solo se vi sia "consenso dell'imputato presente" e solo se non ne derivi "pregiudizio per la speditezza dei procedimenti" (art. 518 c.p.p.).

In caso contrario, si dovrà procedere nelle forme ordinarie (art. 521 c.p.p.).

Al di là quindi delle coerenti differenze procedurali, il principio alla base della disciplina della modifica dell'imputazione è quello del legame imprenscindibile tra imputazione formale e processo, tra addebito processato e sentenza penale.

Principio evidenziato e rafforzato dalla norma che impone, in via eccezionale, il regresso del dibattimento di appello in primo grado quando il giudice di secondo grado accerti che in primo grado si sia verificata la condanna per fatto diverso (12).

E soprattutto, principio che, applicato al momento sanzionatorio, contribuisce a definirne la "base fattuale", perché permette di individuare nel solo fatto storico formalmente addebitato e contestato all'imputato la "condotta rilevante" ai fini commisurativi, l'ambito fattuale rispetto al quale il giudice dovrà limitare la sua cognizione e la sua statuizione sanzionatoria.

In questo senso, allora, la categoria nordamericana del c.d. charge offense soccorre l'interprete italiano: pur non ponendosi come tematica formalmente centrale come nel sistema penale federale statunitense, anche la commisurazione italiana conosce nei fatti la problematica della definizione dell'oggetto della sanzione penale, mutuandone la soluzione dalla più ampia problematica dell'oggetto del processo.

E dunque, come in un sistema di charge offense, oggetto della valutazione sanzionatoria del giudice italiano, sarà necessariamente l'accusa formalmente addebitata e processata a carico dell'imputato. Questo quadro va però inserito nel contesto delle disposizioni del codice penale sulla commisurazione della pena.

L'art. 133 c.p. contiene un'elencazione acritica dei parametri commisurativi ai quali il giudice deve guardare nella sua valutazione discrezionale della pena applicabile al caso concreto. Da molti si è notato come tale norma contenga pressoché tutti gli elementi ai quali è "logicamente, razionalmente ed umanamente possibile ricorrere per orientarsi in concreto nell'inflizione della pena" (13).

Le conseguenze di un simile approccio si riverberano in punto di determinazione della condotta rilevante.

Determinazione che nasce affetta da una profonda discrasia: oggetto del giudizio e della sentenza penale sarà l'addebito formale mosso a carico dell'imputato, ma ambito della valutazione commisurativa del giudice sarà quello sommariamente descritto dall'art. 133 c.p., nel quale si menzionano tanto i profili di gravità del reato (modalità dell'azione, gravità di danno o pericolo, intensità dolo o colpa) che quelli della capacità a delinquere del colpevole (motivi, carattere, precedenti, condizioni individuali e sociali del reo).

Discrasia prodotta dallo svuotamento, a livello prasseologico, cui è stato sottoposto l'obbligo di motivazione previsto dall'art. 132 c.p. Norma originariamente posta a presidio della natura vincolata della discrezionalità giudiziale in sede di commisurazione della pena (14), progressivamente privata del suo contenuto prescrittivo da una giurisprudenza di legittimità e di merito costante nell'accettarne la sostanziale abrograzione (15). Con la conseguenza che dell'effettiva incidenza dei singoli fattori commisurativi in sede di definizione della pena applicata al caso concreto non esiste compiuta testimonianza.

In termini di common law, all'apertura del sistema sanzionatorio italiano di charge offense alla cognizione in sede commisurativa di elementi ulteriori a quelli strettamente legati al fatto storico formalmente addebitato, in primis quelli che attengono alla personalità del suo autore, e quindi ad un modello di c.d. real offense, non corrisponde, perlomeno a livello prasseologico, un adeguato meccanismo di "pubblicità" della loro rilevanza.

Con ciò si vuole sottolineare che, nonostante il modello commisurativo italiano opti, in linea di principio, per il mantenimento del nesso tra "accusa" e "sentenza", nei termini dell'essere l'imputazione formale titolo e giustificazione sostanziale per l'imposizione della pena, il concreto atteggiarsi della commisurazione determina la situazione per cui della concreta determinazione della "base fattuale" della pena applicabile al caso di specie il giudice non sarà mai chiamato a dare conto.

In particolare, guardando all'assenza di contenuti analitici della motivazione della sentenza in punto di scelte sanzionatorie e rilevanza dei fattori commisurativi e quindi alla mancanza di effettivi meccanismi di controllo dell'esercizio di queste forme di discrezionalità giudiziale.

Il ricorso alle categorie e all'esperienza giuridica nordamericana permette di sottolineare, dunque, la sottile discrasia tra base fattuale formale della pena e condotta realmente rilevante ai fini della sua commisurazione che si cela dietro ai mondi apparentemente separati della disciplina della modifica processuale dell'imputazione e delle regole sostanziali che presiedono all'applicazione della sanzione penale.

I concetti tipicamente angloamericani di charge offense e di real offense sentencing, applicati alla tradizione commisurativa del nostro paese, contribuiscono ad evidenziare lo scarto tra il modello di commisurazione della pena teorico e quello concretamente applicato nelle aule giudiziarie. Scarto che testimonia una volta di più, ove ce ne fosse ancora bisogno, la necessità di approntare, in tempi stretti e in forme incisive, quella riforma del sistema sanzionatorio, che da decenni ormai attende di essere adottata.

Note

1. L'ipotesi di adozione di un giudizio penale "bifase" non è nuova in dottrina. Si vedano a tal proposito Cavallari, Il processo penale e la tutela della personalità del condannato, in AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, 1974, pp. 77 e ss.: Conso, Prime considerazioni sulla possibilità di dividere il processo penale in due fasi, in Rivista italiana diritto e procedura penale, 1968, pp. 706-712; Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, 1984, pp. 253 e ss.

2. Così Dolcini, La commisurazione della pena, Padova, 1979, pp. 4 ss.

3. Si vedano, Dolcini E., La commisurazione della pena tra teoria e prassi, citato, p. 55; Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora da attuare, citato, p. 797; Giunta F., L'effettività della pena nell'epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, citato, p. 414; Monaco L.-Paliero C.E., Variazioni in tema di "crisi della sanzione": la diaspora del sistema commisurativo, citato, p. 421; Neppi Modona, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, citato, p. 315; Padovani T., La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, citato, p. 419.

4. Art. 39.1 (Discrezionalità nell'applicazione delle pene): "[s]tabilire che il giudice, nei limiti fissati dalla legge, applichi la pena discrezionalmente, commisurando secondo i fattori di gravità oggettiva (offesa, modalità della condotta) e soggettiva (intensità del dolo, grado della colpa, motivazione), tenendo conto del disvalore complessivo del fatto". Commissione Ministeriale di riforma del codice penale, Testo del disegno di legge sulla delega legislativi al Governo della Repubblica per l'emanazione di un nuovo codice penale parte generale e parte speciale, (Progetto Pagliaro), 25 ottobre 1991, in Giustizia Penale, 1994, II, pp. 88 e ss. Norma cui è accompagnato il seguente commento: "[l]a quantificazione della pena è incentrata sul "disvalore complessivo del fatto" (art. 39.1) riportato tuttavia nell'orbita della colpevolezza, dato che i fattori oggettivi di aggravamento operano solo in quanto da essa riflessi"; Commissione Ministeriale di riforma del codice penale, ibidem.

5. Si pensi all'istituto controverso della sospensione condizionale della pena. Per tutte, valgano le considerazioni della Sotto-Commissione per la riforma del sistema sanzionatorio della Commissione Grosso, cfr. infra, note 6 e 7: "Di rilievo è apparso, altresì, ai fini di una ridelineazione complessiva del sistema sanzionatorio, il problema della sospensione condizionale della pena, ridotto dalla prassi attuale (non sufficientemente "guidata" dalla disciplina normativa) a strumento di mera fuga dalla pena (detentiva e non), privo di contenuti, automaticamente applicato con atteggiamento rassegnatamente burocratico".

6. Ministero di Grazia e Giustizia, Ufficio Legislativo, Relazione della Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. 1 ottobre 1998, (Relazione Commissione Grosso): "La Commissione a questo riguardo ritiene che la riforma dovrebbe orientarsi lungo alcune direzione fondamentali. Mantenere la centralità della pena detentiva quale risposta sanzionatoria per i reati di rilievo, misurata comunque secondo parametri di minore gravità rispetto ai livelli di previsione vigente. Prevedere a fianco della pena detentiva un articolato complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, intese quali pene principali che devono essere configurate in luogo (o in alternativa) a quella detentiva dalla singola norma penale incriminatrice per i reati con riferimento ai quali esigenze di politica criminale consentono, o addirittura consigliano la rinuncia, quantomeno in prima battuta, alla pena detentiva. Punto qualificante della riforma dovrebbe essere che queste pene dovranno essere applicate direttamente dal giudice di cognizione in sede di giudizio, e non invece in fase di esecuzione da giudici diversi quali alternative alla sanzione detentiva irrogata. Si ritiene infine importante evitare che le pene siano preda troppo agevole di istituti vanificatori applicati con automatismi e senza particolari condizioni (si pensi alla attuale disciplina della sospensione condizionale della pena)".

7. Così la Sotto-Commissione della Commissione Grosso dedicata alla riforma del sistema sanzionatorio: "Si è concordato che gli obiettivi di una riforma dovrebbero essere i seguenti:

  1. ricostruzione di un quadro normativo più organico, che attui una semplificazione e razionalizzazione della legislazione vigente;
  2. delineazione di un sistema di sanzioni caratterizzato da requisiti di maggior certezza e prevedibilità dei risultati;
  3. ridimensionamento entro limiti ragionevoli della discrezionalità giudiziale". Ibidem.

8. Tonini P., Manuale di procedura penale, seconda edizione, Milano, Giuffrè, 2000, p. 455: "[i]l dibattimento ha per oggetto l'addebito che è stato contestato all'imputato con il decreto che dispone il giudizio. Nel corso dell'istruzione dibattimentale il pubblico ministero può modificare l'imputazione originaria entro limiti e con modalità che garantiscono il diritto di difesa dell'imputato. La possibilità di apportare modificazioni è coerente con la funzione svolta dal dibattimento; quest'ultimo è la sede nella quale vengono di regola assunte le prove e, pertanto, può dar luogo ad esiti nuovi e diversi rispetto a quelli che erano stati ipotizzati dal pubblico ministero".

9. Ibidem, p. 456: "il fatto storico può risultare "diverso" da quello contestato (art. 516), nel senso che risulta modificato uno degli elementi costitutivi del fatto di reato. Tuttavia il fatto storico non appare "nuovo", e cioè non è un fatto "ulteriore" rispetto a quello che è già stato contestato; infatti si tratta del medesimo fatto storico, che tuttavia risulta essersi svolto diversamente ...".

10. Ibidem.

11. Ibidem, p. 457: "[s]i ha un fatto "nuovo" quando si è in presenza di un "ulteriore" fatto storico che si affianca all'imputazione precedentemente contestata".

12. Ibidem, p. 619: "[i]l regresso del dibattimento di appello al primo grado è istituto eccezionale, consentito soltanto quando il giudice di secondo grado dichiara la nullità della sentenza per difetto di contestazione nei casi previsti dall'art. 522, disponendo la trasmissione degli atti al giudice di primo grado. Deve essersi verificata, in primo grado, la condanna per fatto diverso ...".

13. Massa M., Le attenuanti generiche, Napoli, 1959, p. 70.

14. Per tutti, Dolcini E., La commisurazione della pena tra teoria e prassi, citato, p. 55.

15. La Cassazione parla infatti di "concreta abrogazione per desuetudine": cfr. sentenza 14 gennaio 1987, in Rivista penale, 1987, pp. 631 e ss.; citata da Dolcini E., ibidem, p. 61.