ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
Le prassi amministrative in materia d'inserimento lavorativo

Michele Arcella, 2002

1 L'importanza delle circolari interpretative nell'ambito delle fonti del diritto dell'immigrazione

Il diritto dell'immigrazione, inteso come legislazione organica in materia di diritti e doveri dello straniero, è un insieme di norme di recente creazione. Le fonti principali sono costituite dalla legge n. 40 del 1998, la cosiddetta Turco Napoletano, recepita ed integrata dal Testo unico sull'immigrazione (emanato col decreto legislativo n. 286 del 1998), e dalle relative norme d'attuazione contenute nel Regolamento emanato con decreto del presidente della Repubblica n. 394 del 1999. Solo queste ultime leggi hanno segnato, almeno formalmente, l'abbandono della logica dell'emergenzialità che aveva caratterizzato i precedenti interventi normativi, effettivamente scoordinati e frammentari, in materia di immigrazione.

Nell'applicazione delle norme succitate ho però riscontrato un'incidenza assai rilevante, anzi spesso determinante, delle circolari amministrative emanate dai Ministeri dell'interno, del lavoro e degli affari esteri. Tali circolari hanno fornito interpretazioni ai relativi uffici periferici, come le Questure, le Prefetture, le Direzioni provinciali del lavoro e le rappresentanze diplomatiche e consolari italiane.

Su questo punto è bene ricordare come le circolari rientrino tra le cosiddette norme interne della P.A., relative al funzionamento degli uffici ed alle modalità di svolgimento dell'attività. Tali norme danno luogo ad un ordinamento amministrativo interno distinto dall'ordinamento giuridico generale, rilevante all'esterno. Tra le norme interne della P.A. la categoria più controversa ed importante è proprio quella delle circolari.

La dottrina moderna ha individuato, senza pretesa di esaustività, cinque tipi di circolari: organizzative, normative, di cortesia, informative ed interpretative. Proprio a queste ultime accennavo prima, parlando del frequente ricorso alle circolari nel diritto dell'immigrazione. Queste circolari hanno lo scopo di assicurare, nell'ambito dell'apparato amministrativo, un'interpretazione uniforme di leggi e regolamenti. In dottrina è molto controverso il loro carattere vincolante. Alla tesi minoritaria per cui si tratta di manifestazioni del potere di supremazia del superiore gerarchico e come tali avrebbero carattere vincolante, si contrappone la dottrina prevalente che non considera le circolari interpretative dei veri e propri comandi, ma solo degli ausili interpretativi. In tal senso, questo tipo di circolare finisce per essere vincolante solo se nasce da un'interpretazione corretta della norma, facendo risultare l'atto contrario alla circolare stessa viziato per eccesso di potere. Per lo stesso motivo, l'ufficio dipendente, con una motivazione adeguata, si potrà discostare dalla circolare che va contro il dettato normativo, proprio appellandosi alla prevalenza di quest'ultimo ed evitando in tal modo il vizio di eccesso di potere.

Pertanto, le circolari non sono fonti del diritto, né possono porsi in contrasto con norme di legge o con i regolamenti e le ordinanze. Visto il loro carattere interno, si ritiene che non siano impugnabili, neppure congiuntamente all'atto applicativo, in quanto non hanno valore normativo o vincolante e non assumono un ruolo determinante nella decisione dell'atto applicativo stesso. Piuttosto è stato riconosciuto (1) che l'interessato può contestarne la legittimità, ma solo per dimostrare l'illegittimità commessa dall'autorità periferica o sott'ordinata proprio applicando quella circolare che doveva essere disapplicata, secondo diritto. Ne deriva che la circolare illegittima, in tali casi, in cui correttamente non viene impugnata, deve essere disapplicata dal giudice, che annullerà gli atti amministrativi emanati in applicazione di questa.

In tal senso, più sentenze dei T.A.R. hanno spesso annullato provvedimenti emanati da singole Questure nei confronti di cittadini stranieri. In tutti questi casi, nonostante le indicazioni fornite dai Tribunali amministrativi regionali, non c'è stato da parte degli uffici immigrazione alcun cambio di indirizzo, ma si è continuato a dare prevalenza all'interpretazione data da atti amministrativi interni come le circolari, teoricamente non vincolanti.

Riguardo a questo aspetto, vorrei citare una ricerca condotta nel 2000 dall'Associazione studi giuridici sull'immigrazione presso sei Questure di grandi città italiane. Le conclusioni di tale ricerca dimostrano che

i dirigenti degli uffici immigrazione delle Questure hanno costantemente attribuito un'importanza assolutamente preponderante, nell'ambito del sistema delle fonti di loro riferimento e dei criteri seguiti nell'interpretazione delle norme di legge, alle circolari ministeriali ed ai quesiti che, in assenza di circolari, vengono rivolti al Ministero per chiarire i casi dubbi (2).

Si tratta di valutazioni riferibili anche ai dirigenti dell'ufficio immigrazione della Questura di Pisa che si sono avvicendati in questi anni di attuazione del Testo unico in materia di immigrazione, come mi è stato confermato da volontari e consulenti legali che da anni si occupano di immigrati.

2 Le rappresentanze diplomatiche e consolari italiane

La situazione delle ambasciate e dei consolati italiani è una delle più caotiche fra quelle riscontrabili nella pubblica amministrazione italiana. Il problema che accomuna tutte le nostre rappresentanze è senz'altro dato dal fatto che il contatto con il cittadino straniero è in concreto molto difficile. Le famose liste d'ingresso nelle quali il cittadino straniero deve iscriversi l'anno precedente il decreto flussi (per poi aspettare la chiamata nominativa del datore di lavoro) in molti paesi non vengono neppure istituite, mentre in altri soltanto pagando degli intermediari è possibile ottenere l'iscrizione.

A parte questo, l'ottenimento del visto comporta per il comune cittadino straniero delle difficoltà superabili solo con delle conoscenze, e moltissime volte ricorrendo alla corruzione dei funzionari presenti in ambasciata, per il tramite di vari intermediari. E questo sia nel caso dei visti di breve durata (affari o turismo), sia per i visti di lunga durata, per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, ad esempio. Per quanto il Ministero degli esteri abbia sempre definito circoscritto il numero dei casi di illecito (3) nel rilascio dei visti, i lavoratori albanesi che ho intervistato mi hanno tutti parlato del pagamento di somme di danaro per ottenere il visto come di un meccanismo collaudato che costituisce la regola anziché l'eccezione. Le inchieste per corruzione che in questi anni hanno riguardato diverse nostre rappresentanze, portando in alcuni casi alla rimozione dell'ambasciatore italiano, possono confermare questo.

Le norme relative al rispetto dei termini per il rilascio dei vari visti non vengono rispettate in questo contesto di vero e proprio caos (descrittomi da tutti lavoratori stranieri) che rende l'ottenimento di tale documento una vera e propria impresa per un cittadino straniero.

Peraltro è spiacevole notare come in alcuni paesi d'emigrazione tale situazione costituisca la regola per le rappresentanze di tutti gli stati, e pertanto la corruzione finisce per essere necessaria per le persone che desiderano emigrare verso qualsiasi paese.

3 Il rinnovo del permesso di soggiorno

Ora parlerò di uno dei procedimenti che costituiscono uno snodo fondamentale nella vita dello straniero: il rinnovo del permesso di soggiorno.

Ho potuto riscontrare più elementi di divergenza tra le prassi seguite dalla Questura di Pisa e dalla Direzione provinciale del lavoro e quanto descritto dal Testo unico e dal Regolamento d'attuazione.

Innanzitutto c'è il problema legato ai tempi da rispettare. La legge stabilisce che la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, da presentare almeno 60 giorni prima della scadenza dello stesso, dovrebbe comportare il rilascio contestuale da parte della Questura della ricevuta di tale domanda (il cosiddetto cedolino).

In generale, poi, la procedura relativa al rinnovo dovrebbe concludersi dopo 20 giorni dalla richiesta del cittadino straniero, con il rinnovo, oppure con il rifiuto di esso.

La prassi utilizzata normalmente dalla Questura di Pisa, al momento in cui il cittadino straniero si presenta all'ufficio immigrazione per chiedere il rinnovo, è quella di evitare di accettare immediatamente la domanda di rinnovo con la relativa documentazione, come prescritto dalla legge. Infatti viene fissato con lo straniero un appuntamento che, per quanto ho potuto riscontrare, viene concesso dopo due o tre mesi, senza peraltro rilasciare allo straniero alcuna ricevuta che documenti l'avvenuta richiesta di rinnovo, ossia il relativo procedimento in corso. Il suddetto appuntamento viene "annotato" dal funzionario della Questura su un modulo.

In questa fase si possono verificare alcuni problemi. Innanzitutto lo straniero, per tutto il periodo precedente l'appuntamento, non è provvisto di alcun documento che provi la sua richiesta di rinnovo. Capita frequentemente che in tale fase, con il permesso di soggiorno ormai scaduto, lo straniero venga fermato per un normale controllo con la relativa richiesta di documenti, ai sensi dell'art. 6 comma 3 del Testo unico, e si trovi sprovvisto del cosiddetto cedolino. Questa circostanza potrebbe causare al cittadino straniero il problema di non riuscire a dimostrare immediatamente la regolarità della sua permanenza a causa di disfunzioni della pubblica amministrazione.

In realtà, la prassi seguita a Pisa dagli ufficiali e dagli agenti di pubblica sicurezza è quella di considerare sufficiente l'assicurazione del cittadino straniero che dichiari di avere un appuntamento già fissato presso la Questura per il rinnovo del suo permesso, nonostante risulti sprovvisto del cedolino e con il permesso di soggiorno ormai scaduto (anche da oltre sessanta giorni, termine oltre il quale dovrebbe scattare l'espulsione, secondo l'art. 13, comma 2, lettera b). Ciò che viene lamentato da molte associazioni di tutela dei diritti degli stranieri, come mi ha spiegato Sergio Bontempelli di Africa Insieme, è il fatto che "se la stessa circostanza dovesse verificarsi in una provincia diversa (ad esempio Padova) da quella presso la cui Questura è stato chiesto il rinnovo (Pisa), allo straniero difficilmente sarebbe sufficiente dichiarare ad un pubblico ufficiale di aver già un appuntamento, per poter essere rilasciato senza ulteriori accertamenti". Su questo punto peraltro, la giurisprudenza (4) ha costantemente negato che debbano innescarsi nell'applicazione delle norme inerenti i termini del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno automatismi di legge che provochino l'espulsione del cittadino straniero. Le norme relative all'espulsione dello straniero vanno applicate operando un "bilanciamento dei valori in gioco: tra questi, vi è indubbiamente lo stesso principio di legalità, per cui chi rispetta la legge non può trovarsi in una posizione deteriore rispetto a chi la elude". Proprio in relazione a quest'ultimo punto, sarebbe ben strano assistere ad espulsioni provocate da inefficienze di uffici periferici della P.A.

Un problema analogo, si viene a creare nel caso dei controlli sul posto di lavoro. Il cedolino serve a provare, in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno, la regolare prosecuzione del rapporto di lavoro. Infatti, come spiegato dalla circolare numero 67 del 29 settembre 2000 del Ministero del lavoro, "la fase di attesa del rinnovo del permesso di soggiorno non incide sulla regolare esecuzione del rapporto di lavoro in corso con lo straniero, considerati i tempi lunghi di evasione delle pratiche di rinnovo di che trattasi, in alcune Questure. Pertanto, i funzionari di questo Ministero in sede di ispezione presso l'azienda dovranno richiedere al lavoratore straniero l'esibizione della ricevuta di presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno unitamente alla copia della domanda presentata alla locale Questura". È chiaro che, in mancanza del cedolino, provare la regolarità del rapporto di lavoro diventa più complicato. In tal caso la prassi seguita dagli ispettori del lavoro è quella di ritenere sufficiente che il lavoratore straniero dichiari di aver ottenuto un appuntamento per il rinnovo del permesso di soggiorno.

Peraltro anche quando il cedolino viene effettivamente rilasciato, cioè dopo qualche mese dalla prima richiesta di rinnovo, ho constatato come si verifichi un problema ulteriore per quei lavoratori stranieri che durante il procedimento di rinnovo desiderino cambiare lavoro. Infatti, la Direzione provinciale del lavoro di Pisa, in base alla sua interpretazione della succitata circolare 67/2000, non consente l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro tramite la sola ricevuta della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno. L'interpretazione è che la circolare si riferisca esclusivamente a quegli stranieri che continuino il rapporto di lavoro precedentemente instaurato e non a quei cittadini stranieri che instaurino un rapporto di lavoro nuovo. La prima conseguenza di tale interpretazione restrittiva è che i datori di lavoro non accettano di assumere lavoratori provvisti della sola ricevuta di rinnovo del permesso di soggiorno, temendo che dai controlli degli ispettori del lavoro possano scaturire delle sanzioni.

La seconda conseguenza è che i cittadini stranieri non possono in assoluto permettersi di perdere il posto di lavoro poco prima del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno. Ciò li esporrebbe al rischio di non riuscire più a rinnovare il permesso di soggiorno, in mancanza di un'occupazione.

È paradossale il fatto che tali problemi siano il risultato di una circolare intervenuta, come tante altre, "per uniformare le prassi operative degli uffici periferici ... avendo presente che l'obiettivo da perseguire è quello di mantenere la stabilità della permanenza legale, evitando automatismi nell'applicazione della legge che possano produrre "ricadute" nell'illegalità" (dal Documento programmatico triennale, previsto dall'art. 3 del Testo Unico in materia di immigrazione). Sembra che il risultato di tali interpretazioni sortisca l'effetto opposto se, come spesso accade, la perdita del posto di lavoro nelle more del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno rende difficilissimo trovare un nuovo posto di lavoro, determinando la conseguente ricaduta nel lavoro in nero.

Un altro problema che può capitare in questa fase è rappresentato dall'impossibilità di prolungare, in mancanza del cedolino, l'iscrizione al servizio sanitario nazionale, essendo scaduto il permesso di soggiorno. Anche a questa situazione si ovvia solo con l'intervento da parte degli operatori delle associazioni di tutela dei diritti degli stranieri e con l'elasticità e la comprensione di singoli funzionari presso le ASL. Questi ultimi, come ho avuto modo di constatare, sono coscienti dei ritardi causati dalla Questura, e spesso erogano prestazioni sanitarie anche verso quei cittadini stranieri la cui iscrizione al servizio sanitario nazionale è scaduta.

Ma proseguiamo nell'analisi della prassi seguita per la procedura di rinnovo. Quando il cittadino straniero, dopo qualche mese, si presenta presso l'ufficio immigrazione nel giorno dell'appuntamento, la prassi seguita dalla Questura è quella di chiedergli di depositare all'apertura dell'ufficio, un foglio in cui si chiede di poter presentare la domanda di rinnovo. A seguito di un rapido esame delle suddette "richieste", l'ufficio immigrazione decide se accogliere o meno le domande di rinnovo. A questo punto, al momento della presentazione della domanda di rinnovo, con contestuale deposito della relativa documentazione, allo straniero viene rilasciato il famoso cedolino su cui viene indicata la data in cui verrà emanato il provvedimento (di rilascio o di rifiuto del rinnovo). Questa data, in base all'art. 10, comma 9 del Testo unico, non può superare il ventesimo giorno dalla presentazione della domanda. Invece, sulla base delle esperienze di cui mi hanno parlato gli operatori di associazioni come Africa Insieme e Batik, normalmente al cittadino straniero viene consigliato di presentarsi dopo diverse settimane, ben oltre il ventesimo giorno. Peraltro, quando lo straniero si presenta il giorno previsto, capita frequentemente che il suo appuntamento venga spostato ad un'altra data.

In generale possiamo dire che tutto il procedimento amministrativo di rinnovo del permesso di soggiorno è caratterizzato presso la Questura di Pisa da una serie di rinvii orali, senza che venga rispettata la normativa né per quanto riguarda i tempi di risposta in merito alla domanda, né per quanto riguarda il rilascio allo straniero del cedolino, che costituisce il requisito necessario per provare la regolarità della permanenza e del rapporto di lavoro, per poter cambiare lavoro ed ottenere una serie di servizi, come la continuazione dell'iscrizione al servizio sanitario.

Ho avuto modo di chiedere presso la Questura di Pisa ad agenti dell'ufficio immigrazione il perché di tali pratiche, ma la risposta è stata che in realtà il procedimento di rinnovo viene espletato nei tempi previsti dalla legge, "massimo in 15 giorni" e che la pratica degli appuntamenti era legata al passato, ma ora non viene più applicata.

Tutto questo è stato smentito, tante dalle interviste ai lavoratori stranieri ed agli operatori delle varie associazioni di tutela dei diritti degli stranieri, quanto dalla mia esperienza diretta. Infatti più volte ho avuto modo di assistere nei locali della Questura di Pisa alla situazione di stranieri che, chiedendo di poter presentare un determinata istanza, si vedono fissare direttamente un appuntamento per una data superiore ai due mesi.

4 La conversione del permesso di soggiorno

Cercherò di indicare quali sono le questioni maggiormente controverse in ordine all'ottenimento della conversione del permesso di soggiorno da parte dei lavoratori stranieri che ho contattato nel comprensorio del cuoio.

La conversione consente la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno per un motivo diverso da quello del precedente permesso. Se questa possibilità interessa potenzialmente tutti i cittadini stranieri, per alcuni di loro, possessori di determinati permessi, lo strumento della conversione si rivela fondamentale.

Innanzitutto vorrei cominciare dalla possibilità, garantita dal Testo unico, di convertire il permesso di soggiorno per turismo in un permesso per lavoro autonomo, al momento della scadenza del primo di questi due titoli. Si tratta di una strumento di grande rilevanza, potenzialmente. Infatti (come spiegato più ampiamente nel capitolo relativo al comprensorio del cuoio) molti cittadini stranieri entrano in Italia tramite questo tipo di visto (poi convertito in permesso). Subito dopo trovano un lavoro, e, a permesso scaduto, rimangono nel nostro paese come irregolari, lavorando a nero e sperando in una sanatoria, o tornando in patria per tentare di ricorrere alla chiamata nominativa o all'entrata in garanzia. La conversione in un permesso per lavoro, autonomo, eviterebbe secondo molti studiosi questi processi di clandestinizzazione, consentendo, all'opposto, un reale incontro tra domanda ed offerta di lavoro. In tal senso viene auspicato che, nell'ambito del decreto flussi

per quanto riguarda l'ingresso per lavoro autonomo ... si programmi una quota coraggiosamente alta, consentendo così non tanto gli ingressi, quanto le conversioni di altro permesso (anche di breve durata) in un permesso per lavoro autonomo. Nello stesso spirito dovrebbe essere consentita la conversione dei permessi di breve durata in permessi per lavoro subordinato, se vi è un contratto disponibile e sia trascorso un congruo lasso di tempo dall'emanazione del decreto senza che la quota prevista per lavoro subordinato sia stata esaurita (5).

Come mi ha spiegato l'avvocato Andrea Callaioli, che si occupa di tutela dei ditti degli stranieri, la conversione di un permesso di soggiorno per turismo in un permesso per lavoro autonomo non è così semplice. Alcuni contratti, per quanto molto diffusi nel mercato del lavoro in Italia, non possono essere utilizzati dai cittadini stranieri per ottenere il rinnovo/conversione in permesso di soggiorno per lavoro autonomo.

Infatti la Questura di Pisa nega la conversione in permesso per lavoro autonomo ai cittadini stranieri dotati di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa.

Ricordo che il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (disciplinato dagli artt. 2222 e seguenti del codice civile) è un rapporto di lavoro che viene definito nella pratica quotidiana in diversi modi. Si parla di prestazione d'opera, consulenza, lavoro parasubordinato etc. La differenza con il lavoro autonomo è che il collaboratore agisce in assenza di rischio economico e senza mezzi organizzati d'impresa, oltre al fatto che il l'oggetto della prestazione ha solo una portata sussidiaria per il raggiungimento degli obiettivi del committente.

L'ufficio immigrazione della Questura di Pisa, in tali casi, sentito il parere della Direzione provinciale del lavoro, non riconosce al contratto di collaborazione coordinata e continuativa valore di contratto di lavoro autonomo. Pertanto non accetta la conversione/rinnovo del permesso di soggiorno per turismo in permesso di soggiorno per lavoro autonomo. Eppure, il decreto del Ministero degli esteri emanato il 12 luglio del 2000 (di concerto con quelli dell'interno, della giustizia e del lavoro), contiene un'indicazione opposta. Il provvedimento in questione ha introdotto "la disciplina per il rilascio del visto per lavoro autonomo nelle ipotesi di esercizio di attività autonome che non trovano corrispondente iscrizione nel registro delle imprese e che sono svincolate da licenze e autorizzazioni o da iscrizione ad albi o registri". Il decreto fa espresso riferimento a riguardo ai "contratti di collaborazione coordinata e continuativa (lavoro parasubordinato)" ed allo "svolgimento di attività in qualità di socio e/o amministratore in società e cooperative di produzione e lavoro". Non si vede perché l'equiparazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa ai contratti di lavoro autonomo debba avvenire ai fini dell'ottenimento del solo visto d'ingresso (e conseguente permesso di soggiorno) e non anche della conversione del permesso di soggiorno. Ciò genera una sostanziale contraddizione tra normativa sui visti e normativa sui rinnovi dei permessi di soggiorno.

Un altro tipo di contratto molto diffuso è quello dell'associazione in partecipazione, regolamentato dall'art. 2549 del codice civile. Anche in questo caso la Questura, sentita la Direzione provinciale del lavoro, non ritiene che questo tipo di contratto di lavoro sia idoneo a consentire il rinnovo del permesso di soggiorno. In base alla disciplina del codice civile, l'associante (imprenditore) attribuisce all'associato (lavoratore) una partecipazione agli utili dell'azienda, o in cambio di una prestazione d'opera o in cambio di una prestazione a carattere patrimoniale. In nessuna delle due ipotesi, secondo la giurisprudenza (6), tale tipo di contratto rientra tra quelli di lavoro subordinato. In particolare, nel caso in cui l'apporto dell'associante sia costituito dalla sola attività lavorativa, non esiste un effettivo vincolo di subordinazione, ma solo un generico e ristretto potere dell'associante d'impartire istruzioni e direttive all'associato. Pertanto non trova applicazione il principio della retribuzione sufficiente che la nostra Costituzione sancisce con esclusivo riferimento al lavoro subordinato (7).

Eppure, anche se meno diffuso del contratto di collaborazione coordinata e continuativa, più lavoratori stranieri lo stipulano, perché molto diffuso sul mercato.

La stessa prassi è stata seguita da parte della Questura di Pisa nelle ipotesi in cui la conversione in lavoro autonomo o subordinato, è stata chiesta da parte di cittadini stranieri che, entrati con un visto (ed un conseguente permesso di soggiorno) per ricongiungimento, hanno trovato la possibilità di stipulare dei contratti come quelli appena citati.

Stando così le cose, la situazione diventa paradossale se si pensa che le persone entrate per ricongiungimento possano lavorare con tali tipi di contratti, ma devono limitarsi a chiedere il rinnovo per ricongiungimento, visto che il contratto trovato non consente loro il rinnovo per lavoro autonomo o subordinato.

Viceversa, i cittadini stranieri entrati con un visto per turismo, pur avendo trovato un regolare contratto di lavoro autonomo, devono abbandonare il paese allo scadere del relativo permesso di soggiorno.

5 L'istituto della garanzia

Vorrei brevemente riepilogare la normativa relativa all'istituto della garanzia. In particolare vorrei sottolineare i tratti che, rispetto al meccanismo della chiamata nominativa, rendono l'ingresso tramite il garante lo strumento d'inserimento lavorativo più realistico, tra quelli della normativa sull'immigrazione.

Nella prima fase del procedimento d'ingresso tramite lo sponsor, la persona che fa da garante per il cittadino straniero deve presentare la domanda di autorizzazione alla Questura. Ottenuta l'autorizzazione, questa verrà inviata dal garante al cittadino straniero perché la presenti alla rappresentanza diplomatica o consolare italiana del proprio paese. Quest'ultima rilascerà il relativo visto per inserimento nel mercato del lavoro al cittadino straniero.

Una volta entrato in Italia, il, cittadino straniero otterrà il permesso per inserimento nel mercato del lavoro. Questo titolo consente al cittadino straniero di permanere in Italia un anno per cercare un'occupazione, entrando, in tal modo, in contatto diretto con il datore di lavoro.

Questa diversa impostazione (rispetto alla chiamata nominativa), ma anche l'attuazione pratica dello strumento, secondo diversi operatori del settore dell'immigrazione (sindacalisti, immigrati, esponenti delle associazioni di tutela dei diritti degli stranieri) fa di questo strumento il più "ragionevole" all'interno della Turco Napoletano per consentire l'ingresso dei cittadini extracomunitari. Infatti, le critiche più forti rivolte al meccanismo delle chiamate nominative è quella di non consentire l'incontro diretto tra la domanda e l'offerta di lavoro. In questo senso la chiamata nominativa viene definita come uno strumento assolutamente irrealistico. Per quanto ho potuto vedere nell'ambito del comprensorio del cuoio, posso senz'altro affermare che il sistema delle chiamate nominative, come congegnato dalla legge Turco Napoletano non ha trovato applicazione. L'incontro a distanza tra domanda e offerta di manodopera straniera non è mai avvenuto tra i lavoratori stranieri che ho contattato. Questi ultimi sono riusciti a trovare un lavoro, durante la prima permanenza in Italia con un visto di breve durata, per poi passare attraverso una fase di clandestinità e ricorrere, infine, al meccanismo della chiamata nominativa solo per regolarizzare la propria posizione.

Viceversa, almeno in teoria, l'istituto della garanzia sarebbe congegnato in modo tale da favorire l'incontro ravvicinato tra il datore di lavoro ed il lavoratore. In questo senso anche autorevoli associazioni di volontariato di settore (8) hanno auspicato che, nell'ambito dell'annuale decreto flussi, questo strumento possa essere utilizzato per un numero più elevato di ingressi.

Nella realtà dei fatti, come avevo spiegato nel paragrafo relativo all'ingresso in Italia, lo strumento della garanzia è utilizzato nella maggior parte dei casi (al pari degli altri strumenti d'ingresso) per consentire di regolarizzare la propria posizione a quegli stranieri che, entrati in Italia irregolarmente, o divenuti irregolari dopo la scadenza di un permesso di breve durata (per affari o turismo), sanno di poter ritrovare e continuare, rientrando in Italia legalmente tramite lo sponsor, un'occupazione che in realtà hanno già iniziato a nero nel periodo precedente.

È bene ricordare come, nell'ambito del decreto flussi (emanato dal Presidente del Consiglio) che annualmente stabilisce quante persone devono entrare in Italia dall'estero, le quote di persone che possono fare il loro ingresso in Italia con un visto (seguito da un permesso di soggiorno) in "attesa occupazione" non sono suddivise per Regione. Ciò a differenza di quanto accade (ad esempio) per le quote dei lavoratori subordinati a tempo determinato ed indeterminato. Ora spiegherò, in relazione al funzionamento di tale strumento presso la provincia di Pisa, l'importanza di tale dato.

Diciamo che lo strumento delle sponsor non ha quasi trovato applicazione nella provincia di Pisa durante gli ultimi due anni. In particolare, per quanto riguarda l'anno scorso, la Questura di Pisa non ha rilasciato nessuna autorizzazione ai cittadini italiani o stranieri che chiedevano di fare da sponsor per l'ingresso di cittadini stranieri. Infatti, dopo pochi giorni dalla pubblicazione del decreto flussi, la Questura ha cominciato (in data 20 maggio 2001) a concedere i cosiddetti appuntamenti per la presentazione della documentazione da parte della persona garante, in alcuni casi soltanto a partire dal mese di luglio, mentre in altri casi (con una disparità di trattamento subito pubblicamente denunciata da più associazioni, come la Caritas o Africa Insieme) l'appuntamento è stato dato dopo pochi giorni, cioè per i primi giorni di giugno.

In realtà in data 4 giugno 2001 la Questura comunicava l'avvenuto esaurimento delle quote a livello nazionale e pertanto le richieste dei garanti non potevano più essere accettate. Tutti gli appuntamenti già fissati nel mese di luglio, per il deposito della documentazione da parte dei richiedenti, vennero revocati.

In relazione all'anno scorso pertanto le richieste dei garanti non vennero neppure accettate, contrariamente a quanto indicato dalla legge che indica come tutte le richieste di autorizzazione pervenute entro sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto flussi vadano comunque prese in considerazione (lasciando che i diretti interessati depositino la relativa documentazione), per poi concedere o meno l'autorizzazione, in relazione al numero complessivo di entrate in garanzia.

L'accettazione di tutte le domande (pervenute entro e non oltre 60 giorni), con il conseguente inserimento nel sistema informativo nazionale (gestito dal Ministero degli interni), ha lo scopo di testare quanta effettiva richiesta di ingressi tramite garante ci sia, in maniera tale da ridefinire, per l'anno successivo, lo spazio che tale strumento d'ingresso deve avere nell'ambito del relativo decreto flussi. Ma l'ufficio immigrazione della Questura di Pisa su tale punto non ha rispettato il dettato normativo.

La situazione è stata in un primo momento denunciata pubblicamente dalle varie associazioni di tutela dei diritti degli stranieri (9). Le accuse rivolte alla Questura hanno poi trovato sbocco in una serie di ricorsi di fronte al T.A.R. della Toscana, ricorsi di cui ancora non si conosce l'esito. I ricorsi denunciano la violazione delle norme del Testo unico. Infatti la Questura di Pisa non ha neppure motivato la mancata accettazione delle richieste di autorizzazione da parte dei garanti entro sessanta giorni. Come mi è stato spiegato da Sergio Bontempelli (dell'associazione Africa Insieme) il Questore, nel riceverci, ha spiegato che avrebbero ricevuto "solo le richieste di quelle persone che facevano molte insistenze". Ma anche nel caso di ricezione delle richieste, fu specificato agli istanti che l'autorizzazione non sarebbe stata concessa. La situazione è stata denunciata pubblicamente dalle varie associazioni di tutela dei diritti degli stranieri.

6 Il ricongiungimento familiare

Il ricongiungimento familiare è uno strumento che consente l'ingresso in Italia ai cittadini stranieri legati da determinati vincoli familiari (indicati nel Testo unico) ai loro parenti che già risiedono in Italia con un permesso di soggiorno non inferiore ad un anno. Vorrei ricordare che il numero di persone che possono entrare con un visto (ed un conseguente permesso) per ricongiungimento familiare è indeterminato perché escluso dalle quote previste per gli stranieri che entrano con la chiamata nominativa o in cerca di lavoro.

In realtà anche il ricongiungimento (come spiegato meglio nel paragrafo dell'ultimo capitolo dedicato all'ingresso in Italia) è stato ampiamente sfruttato da tanti lavoratori stranieri per regolarizzare la propria posizione.

Come viene applicata la disciplina relativa a questo istituto presso la Questura di Pisa ?

Gli avvocati, i volontari di associazioni di settore e gli immigrati contattati mi hanno spiegato come le maggiori difficoltà siano legate da un lato al non rispetto dei tempi da parte della Questura, dall'altro alla situazione di confusione e scarsa efficienza amministrativa nella quale versano le ambasciate ed i consolati italiani all'estero. È un problema riscontrato anche per altre procedure.

Infatti, come abbiamo visto nel paragrafo dedicato alla disciplina giuridica del permesso per ricongiungimento familiare, la relativa procedura si compone di due parti. In Italia c'è la procedura di richiesta del nulla osta alla Questura, avviata dal familiare che, essendo già dotato di permesso di soggiorno chiede il ricongiungimento. Il nulla osta deve essere rilasciato entro novanta giorni dalla Questura e presentato (con la relativa documentazione) alla rappresentanza diplomatica o consolare italiana all'estero da parte del cittadino straniero che intenda ricongiungersi per l'ottenimento del visto.

Già nella prima fase di tale procedimento l'ottenimento del nulla osta subisce dei ritardi dovuti al mancato rispetto del termine di novanta giorni da parte della Questura. Su questo punto voglio specificare che, nell'ambito di tutte le procedure svolte dalla Questura nei confronti dei cittadini stranieri, la disciplina del rilascio del nulla osta costituisce un'ipotesi particolare. Infatti l'art. 29, comma 8 del Testo unico consente al familiare all'estero, qualora la Questura non abbia emesso un provvedimento entro novanta giorni, di ottenere il visto direttamente dalle autorità diplomatiche o consolari italiane nel Paese d'origine, esibendo la copia dei documenti presentati e la relativa ricevuta rilasciata dalla Questura.

La pratica degli appuntamenti purtroppo vanifica l'avvio del termine di 90 giorni, che decorre solo dal momento del rilascio della ricevuta di presentazione della domanda. Inoltre, quando finalmente viene consentito di depositare la documentazione al richiedente deve essere quest'ultimo a procurarsi, prima della presentazione della domanda, una copia della documentazione stessa, visto che la Questura non la rilascia, contravvenendo a quanto disposto dall'art. 29, comma 7 del Testo unico.

Quanto alle delibazioni nel merito è capitato più volte che un provvedimento di rifiuto del nulla osta sia stato motivato sulla base di valutazioni che la Questura non era tenuta a svolgere. Mi sto riferendo ai parametri di reddito che il richiedente deve soddisfare per poter ottenere il nulla osta. La disciplina spiega come il richiedente debba avere un reddito non inferiore all'assegno sociale qualora effettui il ricongiungimento solo per una persona. Tale circostanza deve essere provata tramite una fotocopia della dichiarazione dei redditi, una fotocopia del contratto di lavoro e una dichiarazione del datore di lavoro da cui risulti natura, durata e reddito annuo, oltre alla fotocopia delle ultime tre buste paga. Ebbene, la Questura molto spesso ha rifiutato il rilascio del nulla osta sulla base di calcoli che tenevano in considerazione l'entità del reddito del lavoratore straniero (che era comunque superiore all'assegno sociale), rapportandola alle spese relative all'alloggio (documentate tramite la fotocopia del contratto di locazione). A seguito di tali calcoli l'ufficio immigrazione valutava se la cifra (rimanente) a disposizione del cittadino straniero fosse sufficiente in concreto al mantenimento suo e del familiare ricongiunto. Si è trattato di casi nei quali sin dalla prima udienza di fronte al T.A.R. della Toscana la questione è stata chiarita nel senso della nullità del provvedimento di rifiuto e la Questura è stata invitata dal Tribunale a concedere il nulla osta.

Altri problemi sono quelli inerenti la ricerca di un alloggio. Per questo tipo di problemi esporrò un caso verificatosi nella città di Pisa, ma che potenzialmente riguarda i cittadini stranieri di altre città italiane. Per diversi mesi le pratiche relative ai ricongiungimenti per gli stranieri residenti a Pisa sono rimaste bloccate perché il Comune si rifiutava di rilasciare il certificato di idoneità dell'alloggio, secondo i parametri della normativa regionale (per la Toscana si tratta della legge n.96 del 1996). L'ASL che in alternativa avrebbe dovuto rilasciare il certificato di idoneità igienico-sanitaria si occupava (e si occupa) di tali pratiche, ma con criteri ben più rigidi rispetto ai parametri minimi della legge regionale sull'edilizia pubblica. Il risultato era che per ottenere il certificato di idoneità igienico-sanitaria da parte dell'ASL era necessario (come lo è ancora oggi, qualora l'ufficio comunale competente non rilasci il certificato di idoneità) spendere del danaro per piccole (ma a volte grandi) riparazioni domestiche. Per quanto riguarda i cittadini stranieri residenti a Pisa, solo a seguito di ripetuti incontri tra i volontari dell'associazione (di tutela dei diritti degli stranieri) Africa Insieme e l'assessore competente, il Comune ha aperto un apposito ufficio per le certificazioni di idoneità, e dal marzo 2001 le procedure per i ricongiungimenti sono state sbloccate.

Per quanto riguarda la questione del rispetto dei parametri minimi regionali (art. 29, comma lettera a)) rimando al paragrafo relativo alla carta di soggiorno, visto che le problematiche, a fronte dei medesimi requisiti richiesti dal Testo unico, sono esattamente le stesse.

Se queste sono le problematiche legate alle prassi distorte della pubblica amministrazione in Italia, la situazione presso le ambasciate o i consolati italiani è decisamente peggiore in termini di certezza del diritto. Ho dedicato un paragrafo apposito a questo argomento, ma vorrei comunque fare delle precisazioni inerenti le complicazioni che sorgono nel procedimento volto al rilascio del visto per il ricongiungimento familiare.

Molto spesso, infatti, il nulla osta (e la relativa documentazione) può essere presentato all'ambasciata o al consolato italiano all'estero soltanto quando ormai è stata superato il termine massimo validità dello stesso (60 giorni dal rilascio della Questura). Ciò è dovuto al fatto che la rappresentanza italiana, per il deposito dell'istanza di rilascio del visto, spesso fissa al cittadino straniero una data che supera abbondantemente quella di scadenza del nulla osta. Ciò comporta la necessità di rinnovare la richiesta di nulla osta alla Questura e riavviare tutto il procedimento necessario all'ottenimento del visto per ricongiungimento.

7 La carta di soggiorno

Vediamo ora qual'è la situazione in ordine all'ottenimento della carta di soggiorno, che segna una tappa fondamentale per il cittadino straniero in vista del raggiungimento di una maggiore integrazione nel nostro paese, quantomeno a livello giuridico.

Ho riscontrato durante i colloqui avuti con operatori del mondo dell'associazionismo e del volontariato di settore nella provincia di Pisa l'esistenza di notevoli difficoltà da parte degli stranieri ad ottenere la carta di soggiorno. Si tratta di difficoltà comunque riscontrabili a livello nazionale, visto che, secondo una stima riportata dal quotidiano "il manifesto" del 12 maggio 2001, su trecentomila aventi diritto (rispetto ai requisiti indicati dal solo Testo unico) solo il 5% ne è entrato in possesso durante i primi tre anni di attuazione della legge Turco Napoletano. Le carte di soggiorno erogate a quella data erano state soltanto sedicimila. La spiegazione è in parte dovuta al ritardo che ha caratterizzato l'avvio del rilascio delle carte di soggiorno, per il quale si è atteso, dopo l'emanazione del Testo unico, l'entrata in vigore del Regolamento d'attuazione. Ma è anche il risultato di interpretazioni della legge così restrittive da escludere dalla fruizione del diritto alla carta di soggiorno un numero elevatissimo di cittadini stranieri.

In particolare mi riferisco ai requisiti inerenti l'aspetto del lavoro e dell'alloggio.

Per quanto riguarda l'aspetto del lavoro, partiamo proprio dal Testo unico. Questo, all'art. 9, stabilisce che "lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno cinque anni, titolare di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi, il quale dimostri di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari, può richiedere al questore il rilascio della carta di soggiorno per sé, per il coniuge e per i figli minori conviventi".

Successivamente è stato il Regolamento d'attuazione del 1999 a specificare all'art. 16 i requisiti da soddisfare ed i relativi documenti da produrre, anche per l'aspetto inerente il lavoro. In particolare per quanto riguarda quest'ultimo punto veniva specificato che lo straniero tra gli altri requisiti (indicati nel primo capitolo) avrebbe dovuto produrre una copia della dichiarazione dei redditi o del modello 101 rilasciato dal datore di lavoro, relativi all'anno precedente, da cui risultasse un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale, come indicato nella disciplina relativa al ricongiungimento familiare.

Ad intervenire ancora sull'aspetto della documentazione del lavoro però sono state alcune circolari del 2000 e del 2001 del Ministero dell'interno, che hanno precisato sia quali siano i permessi di soggiorno suscettibili di rinnovi illimitati, sia il modo in cui interpretare il requisito della permanenza in Italia da 5 anni. Per quanto riguarda la prima questione, con la circolare del 23 ottobre 2000, è stato spiegato che non può chiedere la carta lo straniero titolare del permesso per attesa occupazione (a seguito di entrata tramite il garante o dopo la perdita del posto di lavoro con conseguente iscrizione nelle liste di collocamento e ottenimento di un rinnovo del permesso in attesa d'occupazione), quello titolare di un permesso per lavoro nell'ambito dello spettacolo oppure titolare di un permesso per motivi di studio. Con la seconda delle circolari in questione, del 4 aprile 2001, si è chiarito (dopo l'acquisizione del parere del Ministro del lavoro su tale punto) che anche i titolari del permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato non possono chiedere la carta di soggiorno perché "le offerte di lavoro, strettamente connesse alle esigenze del mercato del lavoro, appaiono imprevedibili a priori". La ratio di tale interpretazione è che il permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato non dia alla permanenza degli ultimi 5 anni dello straniero quei caratteri di stabilità, o meglio di stabilizzazione necessari per poter "premiare" tale percorso di integrazione con il rilascio della carta di soggiorno. L'intervento di quest'ultima circolare interpretativa era doveroso visto che il Testo unico non sembra né escludere, né ammettere la possibilità di rilasciare la carta ai titolari di permessi di soggiorno per lavoro a tempo determinato.

In questo senso, anche dopo l'emanazione della circolare del 4 aprile 2001, un'ordinanza (10) del T.A.R. Lazio accoglieva la richiesta di sospensiva di un provvedimento di rifiuto della carta di soggiorno. Il provvedimento della Questura di Roma era stato motivato sulla base dell'interpretazione per cui i titolari di permesso di soggiorno per motivi di lavoro a tempo determinato non hanno diritto alla carta. La motivazione dell'ordinanza del T.A.R. Lazio spiega che "la norma non richiede la prova della titolarità di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma si limita a prescrivere che il motivo in base al quale sia stato rilasciato il permesso consenta l'astratta possibilità di rinnovo "per un numero di volte indeterminato" fatta salva ovviamente la verifica degli altri requisiti, tra cui quello del reddito sufficiente e della serietà delle relative fonti (nel caso di specie quello di Ausiliario di P.G. e consulenza di P.M.) e tenuto conto che l'espressione della norma, ad una prima valutazione, non appare intesa ad escludere dal beneficio ogni diversa modalità di riferimento del reddito, altra essendo e non applicabile nella specie, l'ipotesi in cui il permesso di soggiorno sia stato ab origine rilasciato per lavoro subordinato a tempo determinato".

A restringere ulteriormente le possibilità di ottenere la carta di soggiorno è stata, ad avviso degli operatori del settore, un'altra disposizione contenuta nella circolare del 23 ottobre 2000. Il Ministero dell'interno precisava che la norma relativa alla carta di soggiorno lega concettualmente le due condizioni della permanenza almeno quinquennale dello straniero in Italia e del possesso di un permesso di soggiorno suscettibile teoricamente di un numero indeterminato di rinnovi. La conseguenza è che nel periodo di 5 anni necessario per poter chiedere la carta di soggiorno va calcolato solo il periodo dal quale lo straniero ha posseduto senza soluzione di continuità un permesso di soggiorno dotato dei requisiti ivi previsti. Il risultato di quest'interpretazione è agli effetti pratici quello di rilasciare la carta di soggiorno (essendo presenti gli altri requisiti) solo ed esclusivamente a quegli stranieri che negli ultimi 5 anni abbiano effettivamente mantenuto, senza alcuna interruzione, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con relativo permesso di soggiorno rinnovato di volta in volta.

A costituire un ostacolo difficilmente superabile nella quotidianità per l'ottenimento da parte dello straniero della carta di soggiorno è proprio la continuità del lavoro per una serie ininterrotta di 5 anni nei quali lo straniero deve riuscire a mantenersi sulla base di uno o più lavori a tempo indeterminato senza alcuna interruzione (neppure temporalmente limitata) del rapporto di lavoro. Peraltro tale interpretazione, contenuta nella circolare del 23 ottobre 2000, ha anche l'effetto di azzerare il periodo di soggiorno regolare utile all'ottenimento della carta di soggiorno in ogni caso di intervenuta disoccupazione.

Si tratta di un'interpretazione che nei fatti vincola il cittadino straniero, che desideri ottenere la carta di soggiorno, al mantenimento dello stesso posto di lavoro per 5 anni di fila. Alcune comunità presenti nel comprensorio del cuoio hanno difficoltà molto forti a soddisfare tali requisiti. Ad esempio, l'immigrazione dei lavoratori senegalesi è di tipo temporaneo anziché stanziale, ed è caratterizzata da periodi di permanenza che si alternano ad altri di assenza, trascorsi nel paese d'origine. Per riuscire a passare alcuni periodi in Senegal è necessario che il lavoratore abbia un contratto a tempo determinato, oppure, quando non può fare altrimenti, che si licenzi, cercando (e generalmente trovando senza difficoltà) al ritorno in Italia, un'altra occupazione. Queste abitudini non incidono negativamente sul settore produttivo delle pelletterie e delle concerie (dove trova lavoro la quasi totalità della comunità senegalese), visto che nel comprensorio del cuoio

si è creato nel tempo un sistema funzionale di arrivi, partenze, contratti a tempo determinato e riassunzioni che non lascia mai le aziende scoperte (11).

Ma le stesse abitudini, legate alle peculiarità del progetto migratorio della maggioranza delle persone appartenenti alla o comunità senegalese, escludono tali cittadini stranieri dalla concreta fruibilità del diritto alla carta di soggiorno nell'interpretazione data dal Ministero dell'interno.

Senz'altro la disposizione contenuta nella circolare del 23 ottobre 2000 ha finito per essere quella più contestata, tanto dalla dottrina quanto dagli operatori del volontariato di settore che dalle varie comunità straniere. L'accusa è quella di aver sostanzialmente svuotato il diritto alla carta di soggiorno, condizionandone il conseguimento alla soddisfazione di requisiti che difficilmente la maggioranza dei cittadini stranieri potrebbe assolvere. Per di più, tutto ciò è avvenuto attraverso una circolare, ossia un atto amministrativo interno, che pur non essendo una fonte del diritto, ha finito per prevalere, a livello applicativo, sulla norma dell'art. 9 del Testo unico.

Eppure, in questi anni, varie pronunce dei Tribunali Amministrativi avevano indicato in modo inequivocabile la corretta interpretazione dei requisiti sulla carta di soggiorno.

Possiamo citare, ad esempio, la sentenza del 2001 del T.A.R. Abruzzo (12) cui ricorreva un cittadino senegalese contro il rifiuto della carta di soggiorno emesso nei suoi confronti dalla Questura di Pescara. La motivazione del rifiuto era che nel "computo del periodo di pregresso soggiorno regolare sul territorio nazionale (cinque anni), deve essere preso in considerazione esclusivamente il termine a partire dal quale il cittadino straniero è detentore, senza soluzione di continuità, di un permesso di soggiorno teoricamente rinnovabile un numero indeterminato di volte". Il Tribunale, commentando la motivazione, affermava che "l'interpretazione dell'Amministrazione, invero, appare essere restrittiva e tale da vanificare tutto il pregresso periodo di soggiorno, superiore ai cinque anni, pur in costanza di un permesso di soggiorno per motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi, quale posseduto al momento della presentazione della istanza per la concessione della carta di soggiorno". Il T.A.R. riteneva che "la norma (l'art. 9) nella sua ambiguità, va interpretata in senso favorevole al destinatario, ragion per la quale, il periodo di cinque anni di soggiorno rappresenta un requisito oggettivo assoluto, mentre la titolarità di un permesso di soggiorno, teoricamente rinnovabile per un numero indeterminato di volte, deve sussistere al momento della presentazione della domanda per la concessione della carta di soggiorno". Veniva annullato pertanto il provvedimento di diniego della carta di soggiorno.

Più recentemente il T.A.R. della Lombardia (13) si è pronunciato su un altro provvedimento di rifiuto della carta di soggiorno (da parte della Questura di Pavia), anche questo motivato sulla base del mancato possesso, nel periodo pregresso di 5 anni, di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, conformemente alla circolare esaminata. Il provvedimento della Questura è stato annullato dal Tribunale amministrativo lombardo che ha di fatto lasciato intendere come la circolare del 23 ottobre 2000 abbia impropriamente legato concettualmente le due condizioni del periodo di regolare permanenza in Italia da 5 anni e del possesso di un permesso di soggiorno suscettibile di rinnovi illimitati. Tale interpretazione secondo la sentenza del Tribunale amministrativo non è assolutamente desumibile dalla lettera dell'art. 9 del Testo Unico. Infatti, accogliendo il ricorso presentato da un cittadino albanese, il T.A.R. ha precisato che la legge si limita a richiedere, separatamente: un periodo di soggiorno regolare di almeno 5 anni (a qualunque titolo) e la titolarità al solo momento delle richiesta di un permesso di soggiorno illimitatamente rinnovabile. In concreto questo significa che un cittadino straniero può chiedere la carta semplicemente dopo 5 anni di regolare permesso di soggiorno, purché abbia già convertito, prima della richiesta, il permesso per motivi di studio o per lavoro a tempo determinato in un permesso per lavoro a tempo indeterminato.

Viene fatto notare dalla dottrina che questa interpretazione corretta consentirebbe alla maggior parte dei circa 800.000 stranieri che oggi soddisfano i due requisiti qui riportati di ottenere la carta di soggiorno, mettendosi così al riparo dal rischio di incapacità di rinnovo del permesso.

Soltanto a seguito di varie sentenze dello stesso tenore da parte di vari Tribunali amministrativi, il Ministero dell'interno è tornato a pronunciarsi sulla questione con un'altra circolare, datata 3 giugno 2002, con la quale ha rilevato che la precedente interpretazione dell'art 9 del Testo unico "ha provocato ... una frequente adozione, da parte dei Tribunali amministrativi regionali, di pronunce di annullamento dei provvedimenti di rifiuto della carta di soggiorno". Pertanto "un'attenta riflessione sulla problematica che ha investito anche aspetti connessi allo snellimento delle attività burocratiche degli uffici immigrazione ha condotto questo dicastero a riesaminare la posizione-assunta fino alla data odierna in ordine alla valutazione dei requisiti previsti per la concessione del citato beneficio, aderendo ad una lettura giuridicamente meno restrittiva della norma, in conformità a quanto ormai ritenuto dalla giurisprudenza in materia". Il Ministero conclude che "si dovrà considerare il possesso del permesso di soggiorno rinnovabile un numero indeterminato di volte come requisito sussistente al momento della richiesta e non più durante l'arco del quinquennio, fermo restando che dovrà essere accertata la condizione relativa al regolare soggiorno dello straniero nel periodo minimo prescritto dalla legge".

Ci sono poi altre difficoltà legate al problema della residenza e degli alloggi. I problemi riguardano tanto i casi in cui la richiesta della carta di soggiorno venga effettuata dal cittadino straniero solo per se stesso quanto le richieste fatte per se e per i propri familiari.

Si tratta di difficoltà in parte connesse al mercato della casa in Italia, incontrate pertanto anche dai cittadini italiani. Ma la ricerca di un appartamento con un contratto ragionevolmente economico, oltretutto in relazione a stipendi mensili parzialmente destinati alle rimesse verso l'estero, è decisamente più difficile per i cittadini stranieri stante la discriminazione palese che esiste nei loro confronti. Le difficoltà comportate dalla ricerca della casa rendono problematica la richiesta di carta di soggiorno per il singolo straniero, visto che deve essere esibito da parte del richiedente la copia di un contratto di locazione registrato o l'atto di proprietà dell'alloggio (14). Le cose si complicano poi notevolmente quando la carta di soggiorno viene chiesta anche per un proprio familiare. Infatti in questo caso (come per i ricongiungimenti) subentra il requisito dell'abitabilità dell'appartamento secondo i parametri della legge regionale in materia di edilizia residenziale pubblica, che in Toscana è la n. 96 del 1996. Tale requisito va provato (come nel caso dei ricongiungimenti) tramite la dichiarazione di idoneità del Comune di residenza del cittadino straniero o con il certificato di idoneità igienico-sanitaria rilasciato dall'A.S.L.

Se, come abbiamo visto, per i cittadini stranieri le difficoltà si incontrano anche solo per riuscire a trovare un regolare contratto d'affitto per se stessi, possiamo immaginare cosa significhi provare a trovare un alloggio dotato dei requisiti previsti dalla legge regionale in termini di metri quadri. I prezzi difficilmente sono all'altezza degli stipendi di un lavoratore straniero.

Nel complesso è possibile riscontrare l'esistenza anche da parte della Questura di Pisa di un atteggiamento di "resistenza culturale" (15) nel rilascio di questo documento. La ragione è che la disciplina contenuta nell'art. 9 del Testo unico fa si che il titolare di carta di soggiorno non venga sottoposto a periodici controlli di polizia e anche la sua espulsione sia più difficile rispetto a quella del titolare di un semplice permesso di soggiorno. La conseguenza è che questo titolo viene giudicato così forte che la sua concessione merita valutazioni più attente ed approfondite di quelle effettuate per l'emanazione di altri provvedimenti da parte degli uffici immigrazione.

8 Le dichiarazioni sostitutive

È stata la recente entrata in vigore del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (d.p.r. 28 dicembre 2000 n. 445) a dare l'indirizzo in materia di dichiarazioni sostitutive anche per quanto riguarda i cittadini stranieri. L'art. 3 del Testo unico prevede che sia possibile per i cittadini extracomunitari ricorrere all'autocertificazione in relazione a tutte le qualità personali ed ai fatti certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici italiani, con l'eccezione delle disposizioni speciali derivanti da leggi e regolamenti relativi alla disciplina dell'immigrazione e la condizione dello straniero o da specifiche convenzioni col paese di provenienza.

Il contenuto di tali disposizioni è stato ripreso da una circolare del Ministero dell'interno (del 9 maggio 2001) che ha precisato come il suddetto Testo unico dia semplicemente seguito al Regolamento d'attuazione in materia d'immigrazione, visto che quest'ultimo all'art. 2 confermava quanto indicato sopra, precisando che il ricorso all'autocertificazione è possibile anche per quegli stati attestabili da parte di soggetti privati italiani.

La stessa circolare specificava che non rientravano in tale disciplina le certificazioni che, per esplicita previsione del Testo Unico sull'immigrazione e del relativo Regolamento d'attuazione, devono essere prodotte a corredo della relativa istanza, oltre a quelle che, per loro natura, non possono essere sostituite da nessun documento (art. 49 del d. p. r. 445/2000).

In tal senso la succitata circolare (cui se ne aggiungeva un'altra dello stesso tenore, datata 5 settembre 2001) concludeva che le dichiarazioni sostitutive erano ammissibili in tutte le ipotesi di rinnovo del permesso di soggiorno, ma non nei procedimenti di rilascio della carta di soggiorno e del nulla osta per il ricongiungimento familiare visto che "la documentazione indicata dall'art. 16 commi 3, 4 e 6 del d.p.r. 394/99 per quel che concerne la carta di soggiorno e dell'art. 29 comma 3 lett. a) e b) del D. l.vo 286/98 per il nulla osta per ricongiungimento familiare, non può essere oggetto della citata semplificazione amministrativa in quanto espressamente prevista dalle norme in argomento tra quella da esibire a corredo della domanda".

All'opposto, secondo quanto riferitomi da avvocati che si occupano di tutela dei diritti degli stranieri, l'atteggiamento dell'ufficio immigrazione della Questura di Pisa non rispetta né le indicazioni date dalla legge né l'interpretazione data del Ministero dell'interno tramite le circolari menzionate.

L'atteggiamento dei funzionari della Questura di Pisa è quello di un netto rifiuto di qualsiasi autocertificazione prodotta dagli stranieri. Ho chiesto presso la Questura di Pisa di poter avere una spiegazione, e la risposta è stata che in realtà loro non possono fidarsi dei cittadini stranieri, perché "accanto a tante persone oneste ce ne sono altre che sfrutterebbero questa possibilità per raggirare la legge". Ho replicato che la stessa circolare di cui sopra invita i funzionari delle Questure, nei casi in cui vi siano fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive, ad idonei controlli, anche a campione, secondo le modalità previste dall'art. 71 del d.p.r. 445/2000. La risposta è stata che agire in questo modo significherebbe caricare l'ufficio immigrati di ulteriore lavoro, cosa che, vista la situazione di carenza cronica di personale nell'ufficio stesso, non è opportuna.

9 La disciplina dei termini nelle procedure amministrative e le prassi della Questura di Pisa

Volevo confrontare la disciplina dei termini del procedimento amministrativo e la prassi degli appuntamenti. Questa prassi caratterizza, presso la Questura di Pisa, l'avvio di tutta una serie di procedimenti di cui mi sono occupato nell'ambito della tesi, quali il procedimento di rinnovo e di conversione del permesso di soggiorno e quello di rilascio della carta di soggiorno (art. 5, comma 9 del Testo unico), oltre ai procedimenti inerenti il rilascio del nulla osta e dell'autorizzazione per l'entrata garanzia.

Voglio precisare di essere stato testimone diretto di come la pratica degli appuntamenti sia stata applicata quanto meno fino alla fine di maggio di questo anno. Soltanto l'ultimo dirigente dell'ufficio immigrazione ha deciso di abolirla, per ora, dimostrando peraltro una disponibilità al dialogo con le associazioni di volontariato di settore e con le comunità straniere che lascia ben sperare per il futuro, secondo il giudizio di questi soggetti. Tuttavia, a causa dei tempi recentissimi di questi cambiamenti, non posso essere in grado di dare informazioni né sui nuovi tempi impiegati dall'ufficio immigrazione per espletare i vari procedimenti che ho esaminato né sulle altre prassi descritte in questo capitolo.

In tutti questi casi è bene precisare come siamo di fronte a veri e propri procedimenti amministrativi, come tali assoggettati alla disciplina della legge sulla trasparenza, ossia la legge 7 agosto 1990, n. 241. E ciò perché il diritto dell'immigrazione, in quanto ritenuto tra le posizioni giuridiche rilevanti dalla nostra pubblica amministrazione parifica di fronte a quest'ultima la posizione dei cittadini italiani a quella dei cittadini stranieri.

In tal senso la Questura, la Direzione provinciale del lavoro, il centro per l'impiego, l'Ambasciata o il Consolato non sono altro che enti statali, e come tali sono soggetti tenuti al rispetto del principio di legalità, di efficacia, di economicità, pubblicità e ragionevolezza.

Ebbene, esaminiamo cosa succede se, a fronte del procedimento avviato dal cittadino straniero con la richiesta di carta di soggiorno oppure del rinnovo del permesso di soggiorno, non vi è alcuna provvedimento da parte della Questura dopo lo scadere del termine massimo di risposta.

In realtà, il termine massimo dipende dalla data di rilascio del cosiddetto cedolino, ossia la ricevuta della richiesta effettuata, ma, come abbiamo visto, ad esempio, per il procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno, il rilascio del cedolino non avviene se non dopo il primo appuntamento. Purtroppo l'appuntamento viene concesso al cittadino straniero solo dopo svariate settimane, senza che gli venga data la possibilità di depositare sin dal primo ricorso agli uffici della Questura la documentazione relativa alla sua istanza. In tal senso possiamo parlare di un procedimento amministrativo che nella pratica viene sin dall'inizio "viziato" da un atteggiamento che non consente al cittadino straniero di far avviare, nel senso tecnico del termine, lo stesso.

Andiamo avanti; per legge (art. 5, comma 9 del Testo Unico) entro venti giorni dalla presentazione della domanda di rinnovo, il procedimento dovrebbe concludersi con il permesso di soggiorno rilasciato, rinnovato, convertito o con il rigetto dell'istanza stessa.

La previsione del termine di venti giorni da parte del Testo Unico si fonda sull'art. 2 della legge 241 del 1990, per cui ogni Amministrazione dovrebbe indicare il termine massimo di durata per i procedimenti di propria competenza, a meno che questo termine non sia stato indicato da una legge o per regolamento. La giurisprudenza in questi anni ha avuto un orientamento che non ha considerato il termine massimo della durata dei procedimenti amministrativi perentorio. Ciò significa che il non rispetto di tale termine non comporta né (il vizio di) illegittimità del procedimento né la formazione di un silenzio assenso. Visto che il termine non è cogente per la Questura, il mancato rilascio del permesso di soggiorno entro venti giorni non rende il provvedimento adottato (in ritardo) censurabile di fronte al giudice amministrativo. Questo è un discorso che vale anche per una serie di altre disposizioni contenute nella normativa vigente sugli immigrati (16).

Infatti, in tali casi, il silenzio della questura è un silenzio-inadempimento o silenzio-rifiuto che si manifesta nell'ipotesi in cui la pubblica amministrazione, di fronte alla richiesta di un provvedimento da parte del cittadino, abbia omesso di provvedere entro i termini previsti dalla legge e questa non contenga alcuna indicazione sul valore da attribuire al silenzio.

In queste ipotesi, si può impugnare il provvedimento come se fosse un provvedimento scritto, solo in presenza di due condizioni. La prima è che siano trascorsi almeno 60 giorni di inerzia della pubblica amministrazione in relazione all'istanza presentata; la seconda è che sia stata presentata una diffida formale ad adempiere, notificata tramite deposito o a mezzo A/R al dirigente dell'unità responsabile del procedimento; inoltre dalla data del deposito o del ricevimento della diffida devono essere trascorsi ulteriori trenta giorni di inerzia dell'amministrazione.

A questo punto, trascorso il termine di trenta giorni senza alcuna risposta, ci si trova di fronte ad un silenzio rifiuto della P.A. che come tale potrà essere impugnato di fronte al Tribunale amministrativo regionale. Dal T.A.R. si potrà ottenere una sentenza che andrà ad accertare l'obbligo della questura ad emettere il provvedimento, rinviando eventualmente la questione alla stessa perché adotti il provvedimento omesso.

In realtà il sistema dell'impugnazione contro il silenzio-rifiuto è molto efficace se si ricorre alla diffida ad adempiere e cioè all'atto formale con il quale si diffida il responsabile del procedimento a compiere l'atto del suo ufficio, esponendo al contempo le ragioni del ritardo entro 30 giorni dalla ricezione della diffida.

Solo a questo punto, qualora il responsabile del procedimento di rilascio del permesso di soggiorno continui ad essere inerte, il cittadino straniero potrà, trascorsi 30 giorni, denunciarlo alla competente autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 328 del codice penale comma 2 e cioè per omissione d'atti d'ufficio. A carico del responsabile del procedimento c'è anche una potenziale responsabilità disciplinare.

Vorrei ricordare che esisterebbero anche altri strumenti di difesa del cittadino (straniero e non). Infatti con l'art. 17, lettera f) della legge 15 marzo 1997 n. 59 il Governo è stato incaricato di provvedere alla creazione di forme di indennizzo forfettario ed automatico, conseguenti ad un superamento infruttuoso del termine massimo di durata del termine. Inoltre c'è il risarcimento del danno che deriva dall'omissione o dalla ritardata adozione di un atto cui un pubblico impiegato è tenuto per legge o regolamento, previa messa in mora della P.A. interessata, secondo l'art. 25, ultimo comma del d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3.

Nella realtà, però, è bene non dimenticare che l'interesse principale del cittadino straniero è quello di ottenere nei tempi di legge (o comunque in tempi ragionevoli) il provvedimento richiesto, finendo per essere assai meno rilevante l'indennizzo forfettario o il risarcimento del danno a fronte dei problemi innescati dal mancato rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno ad esempio.

Altro punto che vorrei sottolineare è che sin dal momento del deposito della documentazione è difficilissimo per gli stranieri ottenere informazioni da parte dei funzionari dell'ufficio immigrazione della Questura di Pisa sulla completezza o meno dei documenti presentati. Inoltre, al cittadino straniero, interessato a verificare eventuali incompletezze nella documentazione allegata alla propria istanza, non è consentito l'"accesso ai documenti amministrativi", ai sensi dell'art. 22 della legge n. 241 del 1990. Infatti, come mi è stato confermato da diversi volontari di associazioni di settore, in questi anni è stato l'ufficio relazioni col pubblico della Questura a svolgere una preziosa attività d'intermediazione con l'ufficio immigrazione che si rifiutava di dare informazioni ai volontari suddetti e tanto meno ai cittadini stranieri.

Questa totale mancanza di assistenza da parte dell'ufficio immigrazione (presso la Questura di Pisa) nei confronti dei cittadini stranieri ha comportato per questi ultimi un ricorso enorme alle consulenze degli avvocati, anche per farsi assistere nella presentazione di una semplice domanda di rinnovo del permesso di soggiorno. L'intervento di un avvocato o di un mediatore culturale o di un volontario di un associazione del settore è sufficiente, nella maggioranza dei casi, per velocizzare una pratica i cui tempi di conclusione sono incompatibili, ad esempio, con le esigenze di un lavoratore straniero che ha bisogno di un rinnovo in tempi rapidi, o quantomeno del cedolino, per riuscire a cambiare lavoro.

Certo il rapporto tra cittadini italiani e P.A. non comporta normalmente questa necessità di assistenza.

I funzionari della Questura con cui ho parlato, ma del resto anche altri operatori del settore, come avvocati e volontari di varie associazioni lamentano la carenza di personale nell'ufficio immigrazione, a fronte dell'alto numero di procedimenti che devono (dovrebbero) essere avviati quotidianamente.

Oltre ad un incremento del personale, c'è chi propone (17), de iure condendo, anche un innalzamento (da venti a trenta giorni) del termine di cui all'art. 9 del Testo unico, relativo ai procedimenti di rilascio, rinnovo e conversione del permesso di soggiorno.

Proposte molto più radicali provengono poi dal mondo dell'associazionismo e da parte della dottrina (18). In particolare la richiesta avanzata è stata una riforma della legislazione in materia d'immigrazione che comporti il trasferimento agli enti locali delle competenze in materia di permesso e carta di soggiorno.

Note

1. Consiglio di Stato, sez. IV, 29-1-1998, N. 112; T.A.R. Lazio, sez. I, 13-3-1998, n. 1546.

2. Dal permesso alla carta di soggiorno. I nodi problematici di un percorso di Integrazione. Ricerca condotta dall'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione per conto della Commissione per le Politiche d'Integrazione degli Immigrati, p. 10.

3. Cfr. il comunicato della Farnesina del 2 novembre 2001.

4. Corte Costituzionale, sentenza 21 novembre 1997, n. 353.

5. Dal permesso alla carta di soggiorno. I nodi problematici di un percorso di Integrazione. Ricerca condotta dall'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione per conto della Commissione per le Politiche d'Integrazione degli Immigrati, p. 11.

6. Vedi, rispettivamente, Cassazione 9-11-1992, n. 12052, rv. 479393 e Cassazione 6.5.1997, n. 3936, rv. 504099.

7. Anche per tale motivo il più grande sindacato confederale italiano, la Cgil, congiuntamente al suo ufficio vertenze legali nazionale, ritiene tale tipo di contratti una sostanziale elusione del contratto di lavoro subordinato, e pertanto auspica che venga scoraggiato e contrastato.

8. Tra le altre, la Caritas, attraverso il suo responsabile immigrazione, Sergio Briguglio, Proposte alternative sul diritto dell'immigrazione, intervista al Manifesto del 2 luglio 2000, p. 8.

9. Vedi Il Tirreno, 14-7-2001, Odissea allo sportello, articolo redazionale, pagine locali, pag. II.

10. T.A.R. Lazio, ord. del 20 dicembre 2001, n. 8031.

11. Serena Vitale, Immigrazione, transnazionalità e prospettive di sviluppo. Il caso della Provincia di Pisa. Studio condotto per conto del Dipartimento di Statistica, Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pisa, p. 5.

12. T.A.R. Abruzzo, sezione Pescara, 4 ottobre 2001, n. 819.

13. T.A.R. Lombardia, 8 maggio 2002, n. 105.

14. Paradossalmente (viste le difficoltà comportate dal soddisfacimento degli altri requisiti), finisce per essere proprio la non regolarità del contratto di affitto a far si che molti stranieri rimandino la richiesta di carta di soggiorno.

15. Dal permesso alla carta di soggiorno. I nodi problematici di un percorso di Integrazione. Ricerca condotta dall'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione per conto della Commissione per le Politiche d'Integrazione degli Immigrati.

16. Possiamo citare, tra gli altri, i termini di cui all'art. 26, comma 7 del Testo Unico ed agli artt. 5, comma 8, 17, comma 1, 30, comma 4, 31, comma 2 e 5, 35, comma 2, 38, comma 1, 39, comma 5 del regolamento di attuazione. Costituiscono delle ipotesi particolari quelle dei termini contenuti nell'art. 29, comma 7 e 8 del Testo Unico e nell'art. 6, comma 2 e 3, (questi ultimi due artt. relativi al nulla osta che la Questura deve rilasciare nel procedimento di ricongiungimento familiare) e nell'art. 48, comma 2 e 3 del regolamento d'attuazione (inerente il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all'estero.). L'art. 24, comma 2 (inerente il rilascio dell'autorizzazione al lavoro stagionale) del Testo Unico sembra prevedere un termine a carattere perentorio, mentre nell'art. 54, comma 2 (relativo al procedimento di iscrizione di organismi privati, enti o associazioni, nel Registro delle associazioni o enti che svolgono attività a favore degli immigrati) del regolamento d'attuazione c'è un vera e propria ipotesi di silenzio assenso.

17. Luigi Gili, I termini del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno. Note a margine delle sentenze pubblicate, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 3 (2000), p. 83-89, Franco Angeli editore.

18. Cfr. il dibattito sviluppato, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2/1999, Franco Angeli, pp. 11-19.