ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 6
Habitat urbano e immigrazione

Marco Poledrini, 2001

6.1 Premesse teoriche e terminologiche

La città è un insieme di spazio e relazione. Ambedue questi aspetti sono decisivi nei processi di integrazione delle comunità straniere all'interno del tessuto urbano. L'approccio ecologico definisce le relazioni spaziali e temporali fra esseri umani in quanto influenzati dalle forze selettive, distributive e adattative che agiscono nell'ambiente. Questo punto di vista conduce ad una conseguenza di primo ordine. Le città non sono delle entità precostituite o progettabili ma degli organismi dotati di vita propria che trovano origine nei tratti della natura umana. L'ecologia urbana in particolare, si occupa di come questi tratti intervengano nell'occupazione dello spazio cittadino e nello strutturarsi delle relazione tra i differenti gruppi che lo abitano.

Considerare le città come entità organiche presuppone che in queste siano attive le stesse leggi e gli stessi meccanismi che caratterizzano una comunità di tipo vegetale, dove gli esseri che vi abitano indirizzano la loro esistenza in funzione dell'accesso alle risorse di tipo limitato. In questa prospettiva, quindi, risulta fondamentale studiare gli effetti che la posizione, nel tempo e nello spazio, produce nelle relazioni e nel comportamento dei cittadini, allo stesso modo di come questa interviene nel determinare i meccanismi di un ecosistema di tipo vegetale.

In questo capitolo ho intenzione di studiare l'evoluzione 'naturale' del territorio urbano aretino, in seguito all'affluire al suo interno, di comunità straniere differenti e sempre più numerose. Il concetto di spazio sarà lo strumento privilegiato per osservare i tentativi di integrazione che si stanno sviluppando e per descrivere le relazioni nate fra le comunità dei nuovi e vecchi residenti. Inoltre focalizzerò la ricerca su un particolare aspetto della convivenza, nello stesso ambiente, di gruppi sociali tanto eterogenei quanto quelli formati da residenti e stranieri. Le limitate possibilità di accesso alle risorse primarie della città, da parte dei gruppi di stranieri, implica che questi, per la soddisfazione dei propri bisogni, siano costretti a tenere dei comportamenti generalmente valutati dalla cultura ospite 'devianti'. A causa di ciò, i residenti tendono ad attribuire alle culture straniere tratti che non le sono propri ma che riguardano invece la specifica condizione di immigrato e quindi di appartenente ad un gruppo svantaggiato. Questa circostanza rende ancora più precaria la situazione immigrata perché, come mostrerò, restringe ulteriormente l'accesso alle risorse cittadine.

Prima di affrontare lo studio dei processi di integrazione attraverso l'ottica territoriale vi sono però alcune questioni che intendo precisare. In primo luogo è necessario chiarire il particolare legame che, in ambiti definiti come quello urbano, intercorre tra i concetti di relazione e spazio. La città è un sistema di spazio e relazione che pone questi due elementi in uno stato di connessione tale da risultare l'uno funzione dell'altro. La Cecla (2000), a questo proposito, parla di città come dispositivo spazio-relazionale che può contribuire ad includere come ad escludere gli abitanti. La vita relazionale della città si svolge infatti in spazi definiti che assumono un significato specifico attraverso di essa. Non vi è attività, ritrovo o esercizio che non sia accolto da un luogo delimitato il quale viene rapidamente connotato, agli occhi dei cittadini, proprio dalla qualità dell'attività intrapresa. Allo stesso tempo, con un meccanismo inverso, gli spazi cittadini assumono dei valori differenti che possono influenzare il giudizio sull'attività relazionale che in essi si svolge. Porterò un esempio per chiarire.

Il quartiere Giotto, nella parte Sud Ovest della città, è una delle zone residenziali più ambite e costose che accoglie villette e appartamenti di lusso. Il quartiere confina con la zona della prostituzione posta dietro il distributore Mazzi e tempo fa l'attività delle ragazze (tutte di origine straniera) si è allargata fino a spingersi in Via S. Bernardino da Siena, la via che fa da confine ultimo tra il quartiere e la zona proibita. Questa strada ha così ospitato, per un breve periodo, sia le villette residenziali con gli ampi giardini e macchine di grossa cilindrata, sia le ragazze che di notte, ma neppure troppo tardi, passeggiavano per abbordare i clienti nel lato stradale che confina con i campi incolti. L'attività di prostituzione ha dato rapidamente una connotazione alla zona che, in questo caso, era contraria a quella datale in precedenza dai suoi abitanti (zona della città adibita ad una residenza di tipo medio alto). L'intervento della polizia ha ristabilito i confini antecedenti ed ha permesso che il significato originale non venisse più a lungo messo in discussione. Vi sono in ogni caso altri esempi che illustrano altrettanto bene il meccanismo contrario ovvero il caso in cui una particolare area dia significato all'attività che in essa si svolge. In P.za Sant'Agostino, nel centro storico, vi sono da sempre giri loschi e smercio di droga che attraggono più di uno sbandato della città. Può capitare, se non si ha la maglietta troppo pulita o la barba fatta di mattina e se, soprattutto, si decide di consumare un panino in un determinato locale della Piazza, di essere avvicinato da un assistente sociale di strada che fa imbarazzanti domande in merito ai tuoi familiari o a quelle che sono le tue prospettive di vita in generale. La zona degli sbandati ha dato un significato diverso alla mia azione che era semplicemente quella di rimediare una cena veloce ed economica; l'assistente sociale ha probabilmente pensato che fossi lì per cercare della droga o che comunque appartenessi al gruppo degli sbandati e non ha badato al fatto che fossi affamato e cercassi semplicemente del cibo.

Nella città, l'azione (o relazione) dà significato al luogo ma anche il luogo può dare significato all'azione. La bidirezionalità del meccanismo deriva dal fatto che ambedue questi elementi sono aspetti dello stesso fenomeno cittadino, o meglio sono le due modalità attraverso cui si esprime l'unica natura cittadina. Senza spazio non vi sarebbe relazione come senza relazione lo spazio non avrebbe un significato. Lo stretto rapporto tra i due elementi, prodotto dall'esser necessari l'uno all'altro, produce il processo d'intreccio dei significati così com'è stato descritto.

Nello studio delle dinamiche urbane è fondamentale tenere bene da conto questo meccanismo ed in particolare le modalità con le quali si riflette nell'ambiente cittadino. La più diretta è senza dubbio la suddivisione della città in zone con un diverso valore simbolico cui corrispondono diversi tipi di relazione e quindi di socialità. Ogni zona richiama una particolare tipologia di azioni (relazioni), o se preferiamo, è la socialità che in essa si svolge a connotare simbolicamente una determinata area. Il meccanismo, come detto, è bidirezionale e risulta inutile investigare su quale dei due elementi agisca per primo sull'altro. Un approccio del genere darebbe della città e delle sue aree una visione statica o meccanica, cosa che non è affatto nelle mie intenzioni. Le aree simboliche o 'aree naturali', come Park preferiva chiamarle, sono infatti soggette ad un continuo ridimensionamento dei propri confini e della propria natura. La loro connotazione è messa in discussione ogni giorno da 'aggressioni' di nuove forme di socialità in cerca di spazio vitale o dai tentativi dell'azione pubblica (piani regolatori, forze di polizia, politiche comunali, etc..) di intervenire sul territorio.

Le aree simboliche si differenziano non solo per natura ed estensione della connotazione ma anche per l'intensità di questa, che potrà essere molto forte quando l'area non accoglie altri simboli che quelli dominanti o invece debole quando vi sono interazioni e simboli differenti tanto che definire in modo univoco l'area risulta difficile. Questa seconda circostanza è senza dubbio la più interessante perché anticipa generalmente un cambiamento di connotazione. In essa il sociologo individua, molto più che nelle zone con simbologie forti e definite, le leggi di evoluzione della città poiché può assistere alla 'convivenza' di gruppi sociali diversi nello stesso ambiente. Anticipo subito come, in Arezzo, molti dei processi di urbanizzazione delle comunità straniere stanno avvenendo in aree di questo tipo, a seguito di un'immigrazione relativamente giovane che non ha seguito, per i motivi che poi esporrò, modelli concentrativi nell'insediamento residenziale.

Lo studio dei processi di integrazione inoltre non può prescindere da una chiarificazione terminologica in merito al significato del termine stesso. Per 'processo' può risultare buona la definizione offerta dal dizionario Garzanti: "Manifestazione, svolgimento nel tempo di un insieme di fenomeni o fatti che hanno una connessione tra loro e che danno luogo ad un'evoluzione (organica)." Per il termine 'integrazione' la questione appare più complicata. Il dizionario ci soccorre proponendo: "Fusione della popolazione bianca con quella di colore in un'unica comunità" per l'integrazione razziale, o altrimenti "disponibilità degli individui di una società a coordinare le proprie azione mantenendo ad un livello tollerabile i conflitti" per quanto riguarda l'integrazione di tipo sociale. In realtà ambedue le definizioni non chiariscono la natura della questione né tanto meno i differenti modelli ideologici e normativi che ne stanno alle spalle.

Più articolata e incisiva appare la definizione data da Bolaffi nel Dizionario delle Diversità:

Nella sociologia delle migrazioni si intende per integrazione quel processo graduale che conduce a una convivenza tra gruppi stranieri e autoctoni, caratterizzata da processi reciproci di adattamento e dell'accettazione della capacità dei due gruppi di confrontare e scambiare modelli di comportamento. Il termine è normalmente usato in contrapposizione ad assimilazione, situazione in cui un gruppo o i gruppi di minoranza sono costretti ad abbandonare i propri comportamenti per adottare le pratiche della maggioranza, e in accordo con la nozione di pluralismo culturale, che implica l'accettazione della coesistenza di culture differenti all'interno della società.

In verità, il termine integrazione ha assunto all'interno delle discussioni relative all'immigrazione una pluralità di significati spesso anche in contrasto tra loro. Tosi (2000) ha fatto notare come la parola abbia raggiunto lentamente un uso generico e adesso indichi "da un qualunque positivo rapporto degli immigrati con la società ospite a dei riferimenti connotati che rinviano a modelli della tradizione assimilazionista". Il problema, secondo lo studioso lombardo, sta nel fatto che il rapporto tra immigrati e città non è in nessun caso riconducibile al termine integrazione. Il concetto non descriverebbe gli aspetti fondamentali dei processi di urbanizzazione e soprattutto darebbe una visione statica della città che non distingue il processo di ridefinizione strutturale e culturale che si verifica nella società ospite. In una parola, il termine integrazione non sottolineerebbe con sufficienza il carattere bidirezionale del fenomeno. Questa preoccupazione è del resto avvertita anche da Bolaffi che nel formulare la definizione sopra citata, sembra porre particolare attenzione nel descrivere gli esiti relazionali del processo, sintomo quindi di un malinteso che pare sussistere all'interno delle discussioni sull'argomento. Per superare l'equivoco, Tosi propone di sostituire il termine integrazione con la nozione di multiculturalismo, una parola che permette di escludere quegli atteggiamenti estremistici, -integrazione per tutti, subito!- che hanno caratterizzato spesso il discorso pubblico. Tosi crede che il paradigma multiculturale, assunto sia come modello analitico che normativo, riassuma al suo interno i temi del rispetto degli ambiti di differenza privati, il riconoscimento dei problemi identitari e la necessità che alle relazioni tra immigrati e vecchi abitanti si applichino i principi di equità, uguaglianza e parità di trattamento. Questi elementi, considerati aspetti 'chiave' del costrutto, permetterebbero di descrivere con maggiore fedeltà del termine integrazione, sia la reciprocità dei processi di adattamento sia, in generale, la dinamicità della vita cittadina. Per Tosi inoltre il multiculturalismo è un'idea della città, nel senso che esso trova espressione nel riconoscimento della presenza straniera e nella visibilità delle comunità all'interno nel territorio urbano.

Il multiculturalismo non è solo un progetto: l'idea coglie i caratteri reali delle trasformazioni in atto a seguito di o in concomitanza con i fenomeni migratori. L'ipotesi multiculturale è una teoria della città, un'interpretazione del suo ristrutturarsi con l'immigrazione, e del nuovo tessuto spaziale e sociale che in questo modo sta emergendo. L'idea è che le nostre città si stanno riconfigurando in modo tale che il sincretismo multiculturale diventa una fattore potente di produzione di nuove forme sociali e culturali. (1)

Da questa prospettiva ha origine una serie di criteri per le politiche urbane dirette a privilegiare la "visibilità" delle comunità straniere. Si parla, ad esempio, della possibilità che le differenze si possano esprimere e di spazi cittadini definiti affinché questo avvenga; si pone l'accento sull'immigrazione come risorsa e quindi sulla valorizzazione delle risorse degli immigrati; si auspica, ancora, il coinvolgimento delle comunità nelle decisioni che le riguardano.

Molto interessante, anche in relazione con l'oggetto della mia ricerca, appare la posizione di Franco La Cecla, un architetto antropologo che si è occupato spesso di habitat urbano e immigrazione. La prospettiva che l'architetto assume nel leggere il significato di integrazione risente della sua formazione ed è quindi legata al concetto di spazio. Nella sua analisi egli mutua da Marcel Mauss il concetto di pratica come intreccio tra un'azione volontaria e un'abitudine. Se per l'antropologo francese, le pratiche sono tecniche del corpo attraverso cui esso esprime l'attitudine a camminare, dormire, mangiare ect..., per La Cecla le pratiche sono habitus mentali che determinano anche buona parte del nostro agire e vivere quotidiano. Lo spazio abitato, egli sostiene, è l'effetto di queste pratiche e da esse determinato in molti suoi aspetti. Ogni comunità (ma anche ogni gruppo sociale vorrei aggiungere) ha iscritto nella propria tradizione un modus vivendi che non può essere soppresso da nessuna politica o normativa esterna. Questo avviene perché le pratiche con cui le persone si insediano nel territorio sono un'intima proiezione della loro identità e benché l'avventura migratoria comporti una certa attitudine all'adattamento, questo non sarà mai tale da mettere in discussione un riferimento così determinante per la comprensione di se.

Le città sono insomma un luogo molto interessante perché trasformano le identità in qualcosa che assomiglia al luogo: le persone non sono più provenienti da qualche luogo ma si forma invece un paesaggio locale che definisce le persone.

Con questi presupposti, il significato di integrazione per La Cecla diviene la capacità di progettare spazi in cui le diverse comunità siano libere di esprimere le proprie pratiche dell'abitare. In questo contesto, lo spazio diviene lo strumento per la composizione di conflitti altrimenti irrisolvibili e l'unico mezzo che dia luogo ad una convivenza possibile nonostante le differenze.

Se musulmani e cristiani vivono accanto, la migliore soluzione non è che si spieghino tra di loro, non è che si conoscano, la migliore soluzione è che vivano accanto inventandosi delle pratiche quotidiane che consentano una leggera curiosità reciproca e molta negoziazione quotidiana. Questo vale molto di più di qualsiasi programma di educazione all'interculturalità. Non esiste l'educazione all'interculturalità, l'unica educazione è avere delle città che consentano pratiche dell'abitare soffici, in cui la gente può costruire i propri spazi......... questo è quello che potrebbe essere la città, un dispositivo che consenta allo stesso tempo la separazione e l'incontro (2).

Il pensiero di La Cecla, in particolare quello riportato, prende spunto dall'analisi del territorio urbano della città di Sarajevo. La sua critica allo spazio e all'educazione interculturale non può non essere inquadrata in tale ambito. In una città come Arezzo, dove solo da alcuni anni si sono stabilite delle comunità straniere, non è possibile affrontare i problemi di integrazione esclusivamente con l'ottica spaziale. Questo perché i processi attraverso cui lo spazio raggiunge la funzione di composizione dei conflitti richiedono tempo per attivarsi, spesso molti decenni. Nelle città italiane siamo ancora nella situazione in cui una grande maggioranza di persone, benché eterogenea per composizione, cultura, stratificazione sociale, impara a convivere con una nuova minoranza di cui in verità conosce pochissimo. Una minoranza, è il caso di aggiungere, che è la somma di altre minoranze ben definite e differenti tra loro, le quali inoltre non hanno molta intenzione di confluire in un'unica, generica identità 'di popolazione immigrata.' Con questo stato di cose, la convivenza è ancora assicurata dalla negoziazione con l'altro, almeno in tutte quelle situazioni in cui lo spazio non è in grado di svolgere la sua funzione mediatrice.

È necessario quindi che la città conosca i suoi cittadini. Questo può apparire un principio banale ma in verità è una strada che va percorsa al più presto. Le strutture sanitarie devono conoscere le religioni che abbracciano i nuovi iscritti, le maestre degli asili devono sapere perché i bambini bengalesi dormono e mangiano per terra, i datori di lavoro devono conoscere il significato (e la funzione) del ramadan.

La conoscenza e l'educazione interculturale sono dimensioni che non possono essere ignorate nel tentativo di dare significato al termine integrazione. Lo studio dei processi di urbanizzazione delle comunità straniere, del resto, mette in evidenza come questi siano determinati tanto dallo spazio, quanto dalla relazione e possibilità di comunicazione che intercorre fra i gruppi. Questo avviene perché, come gia detto, spazio e relazione sono i due aspetti con cui si esprime la natura urbana, i quali non possono essere scissi neppure per essere compresi. Minori saranno le possibilità, per lo spazio, di mediare il conflitto, maggiori dovranno essere le negoziazioni intraprese con il dialogo. Vi è, tra queste due grandezze, un rapporto inverso di proporzionalità che interviene nel determinare gli equilibri sociali di ogni città.

L'approccio multiculturale diviene fondamentale per istaurare il colloquio fra le comunità. In America, negli anni sessanta, i mezzi di comunicazione di massa e in particolare la televisione hanno messo in circolazione una quantità enorme di informazioni sulla vita, i valori, gli stili di vita di gruppi che fino a quel momento ignoravano tutto o quasi l'uno dell'altro. Questa circolazione di informazioni non ha generato l'omogeneizzazione delle differenze, ma ne ha però assicurato la messa in scena, e permesso di prendere coscienza della sua esistenza (Semprini 2000). Nelle città italiane una situazione che giustifichi un tale atteggiamento mediatico è ancora lontana a venire (in alcune grandi città tedesche, ad esempio, lo scenario è di uno straniero ogni tre abitanti); anche se in ambito scolastico sono stati compiuti molti sforzi in questa direzione. Per adesso è augurabile che le istituzioni cittadine tentino di comprendere le culture straniere almeno in quegli aspetti che le riguardano da vicino, in tema sopratutto di utilizzo degli stessi servizi e di convivenza negli stessi spazi. È augurabile che i cittadini si accorgano della 'differenza' almeno nelle occasioni in cui vi si imbattono: nel lavoro, nel condominio, nella vita di tutti i giorni. È augurabile infine che il termine integrazione o multiculturalismo che dir si voglia, non si limiti ad una funzione descrittiva di una nuova compresenza di nazionalità, ma si proponga come modello, anche normativo, che garantisca un certo grado di adattamento pure per la società ospite.

Dopo queste precisazioni è possibile affrontare ciò che mi sono proposto all'inizio del capitolo: l'analisi del rapporto tra spazio urbano e immigrazione nella città di Arezzo.

Fin dai primi giorni della ricerca mi sono accorto come lo studio dei processi di integrazione, attraverso l'ottica urbana, si risolvesse nello studio dei meccanismi segregativi che regolano la distribuzione degli stranieri all'interno dell'area cittadina. La posizione delle persone immigrate nel tessuto urbano sembra infatti determinata da particolari dispositivi che ne limitano la mobilità aggregativa relegandola in spazi determinati. La spiegazione di questa attitudine sta nel fatto che i dispositivi sono, in realtà, l'applicazione percepibile di leggi naturali che da sempre appartengono e definiscono l'idea di città. L'ecologia urbana è la materia che studia questi meccanismi attraverso un'ottica di tipo 'naturalistico'. In tale prospettiva, è bene ricordarlo, la città appare espressione di un ecosistema naturale in cui forze adattative, competitive e distributive, presenti fra i gruppi di abitanti, concorrono nel determinare la forma e le leggi di evoluzione della stessa e, in seconda analisi, anche le modalità di distribuzione dei suoi abitanti. Nello spazio urbano aretino, la presenza della popolazione straniera dipende da due meccanismi di questo genere: uno opera nello spazio pubblico, in quei luoghi dove si esprime la vita sociale della città, l'altro nell'ambito residenziale e determina, per buona parte, i percorsi d'accesso all'abitazione. Ho intenzione di affrontare in modo separato l'analisi dei due meccanismi benché mi piacerebbe che emergesse, durante la trattazione, come questi siano espressioni dell'unica attitudine naturale della città.

6.2 Perché gli stranieri non frequentano i locali pubblici della città?

Per spazio pubblico s'intende i luoghi dove si esprime la vita sociale cittadina, quindi piazze, strade, parchi, ma anche bar, ristoranti, pub, sale da gioco e in genere tutti i locali che possono essere considerati spazi d'aggregazione. Per comprendere come la popolazione straniera si distribuisce all'interno di questi ambiti, è sufficiente rispondere ad una domanda, per quale motivo gli stranieri evitano di riunirsi nei locali pubblici della città. Bar, discoteche, ristoranti e tutti quei luoghi dove, almeno nei mesi invernali, si svolge la maggior parte della vita sociale aretina, non sono frequentati da stranieri immigrati. Questa tendenza, da me verificata quasi locale per locale, conosce ben poche eccezioni e non ha mai finito di stupirmi durante la ricerca. Ho pensato così di chiedere direttamente agli stranieri quale fosse la ragione di quest'atteggiamento; ma con ulteriore sorpresa, la domanda ha sempre avuto bisogno di una pausa di riflessione per essere accolta, come se il problema che ponevo risultasse agli occhi dell'intervistato solo in quel momento. Le risposte inoltre non sono state molto concordi fra loro.

Alcuni hanno sostenuto che gli immigrati, in genere, non hanno tempo per divertirsi poiché eseguono i lavori più duri e mal pagati così, quando non sono in servizio, devono riposare e in ogni caso non avrebbero i soldi per affrontare i costosi locali cittadini. Altri, quelli di religione musulmana, hanno sostenuto che i locali sono posti in cui si consuma sostanze alcoliche e non avrebbe senso per una loro comunità il trovarsi all'interno. Altri ancora hanno parlato della difficoltà di essere accettati dalla popolazione ospite e della volontà di evitare problemi o complicazioni. A queste tipologie, si sono affiancate altre motivazioni isolate e singolari, ma altrettanto interessanti. Felix, Nigeriano da più di dodici anni ad Arezzo, ad esempio, si dichiara ancora impressionato dal fatto che i suoi coetanei italiani di trenta, trenta cinque anni, si ritrovino fra di loro ogni fine settimana, senza mogli, per andare nei locali e "...combinarne di tutti i colori". Nabi, dal Bangladesh, mi ha parlato di come la promiscuità fra uomini e donne che egli vede presente nella vita sociale aretina, non potrebbe essere accettata in alcun modo nella sua patria. In ogni caso, dal quadro che emerge, si desume negli stranieri immigrati una forte e diffusa sensazione di disagio nell'utilizzo delle strutture cittadine adibite alla socialità. Questo sensazione, come abbiamo visto, tende ad assumere le forme più diverse nella varietà delle risposte che mi sono state date, ma ha una radice che è comune in ogni straniero. Credo anzi, che il momento d'esitazione che tutti gli intervistati hanno lasciato passare, prima di rispondere, non fosse altro che il tempo a loro necessario per dare una forma concreta e descrivibile a questa comune sensazione.

Per spiegare la natura del sentimento che allontana la popolazione straniera dai luoghi del divertimento aretino, farò ancora riferimento allo stretto rapporto che intercorre tra spazio e relazione in ambito urbano.

6.2.1 La città naturale

Quando nella città si forma un area naturale significa che in questa zona tende a riunirsi un determinato gruppo sociale con determinate modalità di relazione e con parametri d'accesso definiti. Il territorio diviene il luogo che accoglie l'attività di relazione e che, di conseguenza, permette l'esistenza del gruppo, ma avviene anche qualcosa di più. Lentamente l'area occupata si colora delle immagini e dei simboli propri della comunità, mentre, allo stesso tempo, ciò che ostacola o che è estraneo alla nuova identità dominante tende a muovere verso altre zone, spesso con esiti conflittuali, per poi scomparire. Park parla, in questo caso, di zone della città che "si colorano dei sentimenti peculiari della popolazione". In realtà sono i differenti gruppi sociali che proiettano la propria immagine nel territorio in cui si sono stabiliti per ottenere due effetti. Dichiarare agli altri gruppi cittadini, con cui sono in competizione per lo spazio, di avere la "proprietà" della zona, mostrando, attraverso immagini e simboli, quali sono i presupposti per accedervi. Ottenere dal territorio connotato un "effetto specchio" che permette di rafforzare l'identità del gruppo e quindi la sua forza.

Quest'ultima disposizione, in particolare, merita un'analisi più approfondita perché può portarci direttamente al nocciolo della questione. L'attività con cui il gruppo rispecchia la propria immagine nel territorio in cui risiede, non è molto dissimile da quanto fa un singolo individuo nei luoghi in cui decide di vivere. Gli arredamenti, le case, i luoghi della vita quotidiana, rispecchiano le identità delle persone più di quanto esse si rendano conto. Soltanto in viaggio, quando uno strano senso d'insicurezza e non protezione (ma anche libertà!) ci avvolge, allora comprendiamo quanto l'ambiente in cui siamo nati e cresciuti influisca nella nostra vita (solo all'aeroporto di Milano, dopo due mesi che mancavo dall'Italia, ho capito quanto potevo affezionarmi finanche alla particolare forma delle cabine telefoniche). In verità lo spazio parla alle persone continuamente e gli dice cosa sono. E le persone, in modo cosciente o no, lo stanno ad ascoltare perché hanno bisogno di capire chi sono, tanto quanto hanno bisogno d'ossigeno e proteine. L'individuo si specchia nella realtà che lo circonda, nello stesso modo in cui deve fermarsi e nutrirsi almeno due volte il giorno; è la sua natura che lo richiede. Le nostre identità risiedono, per una buona parte, negli ambienti e nelle relazioni di tutti i giorni, che scegliamo, nella gamma più o meno variegata che la città offre, in base alla vicinanza con il nostro animo e il nostro modo di vedere le cose. Questa continua corsa verso noi stessi influisce sul tipo di persone che frequentiamo, sul quartiere dove abitiamo, sulle attività che intraprendiamo, finanche sul locale dove trascorreremo il sabato sera. Quindi, se un ecosistema vegetale è lo strumento con cui gruppi differenti di piante entrano in relazione (competizione) per spartirsi il bene primario luce; la città è un sistema anch' esso ecologico attraverso il quale viene stoccato e distribuito un bene non meno fondamentale per la vita dei suoi abitanti: 'la realizzazione del se'. Questa attitudine, intesa come proiezione della propria individualità nei supporti spazio relazionali, è una costante presente in ogni individuo tanto che ne determina in maniera quasi esclusiva il comportamento urbano. Spazio e relazione sono difatti gli strumenti attraverso i quali l'identità delle persone diviene reale, quasi tangibile, e sono quindi molto ambiti nella città. Per la loro conquista gli abitanti sono pronti a stringere alleanze e amicizie ma anche ad istaurare odi e conflitti spesso irrisolvibili.

Un'attività così naturale, come il tentativo di comprendere noi stessi, è in grado di definire chilometri e chilometri d'infrastrutture urbane e, al loro interno, la particolare disposizione dei cittadini. Le città sono infatti propense a dividersi in aree sempre più definite che i gruppo dominanti connotano con i propri simboli e le proprie attività. Si parla di zone residenziali, lavorative, ricreative, sportive, e, all'interno di queste, dello shopping, del sesso a pagamento, del borseggio, dello questua, dello skating, dello struscio, dei senza dimora, dei tossici, degli attivisti politici, degli studi professionali, degli albanesi, degli islamici etc... Ogni attività corrisponde ad un gruppo che ha un determinato linguaggio e dei determinati simboli, spessissimo dei vestiti di 'appartenenza'. Queste connotazioni richiamano e indirizzano il singolo cittadino che potrà scegliere di far parte di più gruppi e frequentare quindi zone diverse nella città. Imparerà ad usare differenti linguaggi, differenti simboli e si vestirà in maniera diversa a seconda della situazione. Maggiore sarà la stratificazione cittadina, più numerose saranno le dimensioni spazio relazionali in cui l'abitante potrà cercare 'la realizzazione del se' e maggiori potranno essere quindi le possibilità di successo.

Se questi meccanismi appaiono in modo chiaro nelle grandi città, dove è presente una stratificazione sociale più marcata e un'estensione territoriale rilevante, non per questo sono inattivi in una città di piccole medie dimensioni come Arezzo. In questa città, ad esempio, l'apertura di un nuovo ristorante di lusso difficilmente potrà avvenire in zona Saione dove fra Moschea, Call center e alta residenzialità di stranieri si comincia a parlare di piccola casbah. Questo non vuol dire che tale eventualità sarà impossibile ma appare, per le ragioni sopra spiegate, molto improbabile. Allo stesso tempo appare abbastanza difficile che, in una zona connotata dai gruppi sociali insediati come area adibita alla residenza, possa essere aperto un locale da ballo. Anche in questo caso non si può parlare d'impossibilità, se non altro perché questa circostanza si è verificata proprio nel momento in cui sto scrivendo, ma a riprova della validità delle tesi esposte, si possono esaminare gli effetti che ciò ha provocato.

In Via Isonzo, all'inizio dell'anno, è stata aperta una discoteca che ha attratto, nelle ore notturne, un numero sempre crescente di giovani aretini. Il gruppo dei residenti, in seguito a questa nuova circostanza, ha organizzato una 'offensiva' che, attraverso assemblee, petizioni in Comune e richieste di firme, mirava a chiedere la chiusura del locale. Come si desume dai volantini, che il comitato promotore ha distribuito e affisso per il quartiere, la cosa che più sembra infastidire queste persone non è affatto il rumore (il locale è totalmente insonorizzato), bensì la continua intromissione, nel loro territorio, di persone che appartengono ad un altro gruppo, 'i discotecari', un gruppo caratterizzato da evidenti altre finalità, da altri simboli e altri linguaggi.

I residenti sono stati invasi da un'ondata di disagio nel momento in cui il loro territorio è stato occupato da un altro gruppo, portatore d'immagini e simboli differenti. Questa eventualità ha ridotto le capacità della zona di proiettare l'identità dei residenti, cosa che avviene ormai solo di giorno perché la notte un nuovo gruppo sociale ha preso il campo. La nuova situazione ha creato un forte disagio nel quartiere, un disagio della stessa natura e intensità, io credo, di quello provato dagli stranieri quando cercavano di spiegare i motivi per cui non si ritrovavano nei luoghi del 'divertimento cittadino'.

Solo con un approccio ecologico, nello studio della città e delle dinamiche di relazione dei gruppi sociali, è possibile comprendere il particolare comportamento dei cittadini stranieri in relazione al tessuto urbano. Questo comportamento risponde alle stesse leggi che determinano la vita sociale di residenti, perché trova la propria ragione nella comune natura umana, più che in presupposti etnici o culturali.

6.2.2 I locali naturali

I locali pubblici cittadini hanno caratteristiche identitarie definite dalla cultura dei residenti e non certo degli stranieri. Ogni locale si rivolge ad un determinato gruppo, connotandosi delle immagini e dei simboli che più lo rappresentano. Un locale da ballo come un bar di quartiere, può essere visto, nel suo piccolo, al pari di un area naturale che accoglie persone appartenenti solo alla stessa comunità. Ogni locale è espressione di un gruppo sociale di riferimento che in esso si ritrova e che da esso ottiene quell'effetto di 'specchio della identità', di cui parlavo prima. Il singolo individuo è attratto al suo interno dalla possibilità di relazionarsi con i suoi 'simili' ma anche di trovarvi uno spazio che si accorda con il proprio modo di intendere la socialità e il divertimento. Da ciò si comprende perché un gruppo di diciottenni non frequenterà i ristoranti del centro storico; non è solo una questione di prezzo, in luoghi del genere non troverebbero né coetanei né ambienti adeguati al loro divertimento. Allo stesso modo si comprende perché i locali da ballo della città sono frequentati da avventori che si vestono, con una tendenza più che sorprendente, tutti allo stesso modo. In Arezzo, vi sono discoteche in cui giacca e cravatta sono un must, tanto che la mancanza può pregiudicare la stessa ammissione. Ve ne sono altre invece in cui l'abbigliamento richiesto è informale tanto che persone vestite in maniera elegante si troverebbero a disagio. Questi esempi servono per chiarire come i locali pubblici siano luoghi molto 'definiti', probabilmente i più definiti della città. Essi accolgono solo simboli e linguaggi determinati ed escludono, allo stesso tempo, ogni modalità d'aggregazione che non li rispetti (anche qui e più spesso che nelle aree naturali, con esiti conflittuali).

Devo aggiungere, comunque, che se la città è formata da differenti gruppi sociali, è anche vero che in tali gruppi è presente una comune cultura cittadina che limita gli esiti più segregativi dell'eterogeneità. Non vorrei dare di Arezzo un'immagine di città frammentata o troppo differenziata, anche perché queste sono caratteristiche proprie di città dove le relazioni fra abitanti sono secondarie e impersonali. Le ridotte dimensioni di Arezzo limitano la stratificazione socio-culturale e fanno si che le dinamiche della vita aggregativa abbiano confini meno marcati che altrove. Nei confronti delle comunità di stranieri, tuttavia, per le quali non si può parlare di 'comune cultura cittadina' bensì di 'differenti pratiche di socialità', la tendenza segregativa emerge con tutta chiarezza.

Le comunità di stranieri non possono ritrovarsi nei locali cittadini perché in questi non possono trovarvi (proiettarvi) nulla che appartenga alle loro identità. Essi proverebbero disagio nel frequentare strutture che nascono per soddisfare le esigenze spazio-relazionali di una parte della popolazione a cui non appartengono. Non è soltanto una questione di linguaggio o di tolleranza; è l'incapacità per questi luoghi, fortemente connotati dalla socialità dei residenti, ad ammetterne altre che abbiano natura differente. Solo da questa prospettiva, può essere compresa la particolarità delle risposte che mi sono state date sull'argomento; l'alcool, la promiscuità, la diffidenza, sono tutti sintomi di come la socialità degli stranieri non trovi, nella città, strutture disposte ad accogliere i simboli, i linguaggi, e le pratiche che caratterizzano il loro modo di vivere in comunità (3).

6.3 'Realizzazione del se' come fine primario del comportamento urbano: disagio e conflitto nella città

Come scritto in precedenza, i processi d'integrazione hanno un significato solo se sono osservati con l'ottica della "bidirezionalità". Il disagio degli stranieri sopradescritto, trova un suo simile in quello provato dai residenti quando devono rapportarsi con gli stranieri. Io credo che in ambedue le situazioni questo sentimento nasca da identici presupposti e possegga quindi stesse caratteristiche e motivazioni, forse anche stessa intensità.

Spiegherò questa convinzione.

Nel relazionarsi all'interno della città, stranieri e residenti sono soggetti ad un'influenza reciproca la cui origine sta nella comune partecipazione al processo di competizione per l'acquisto (difesa) del bene spazio. Questa circostanza produce due dirette conseguenza: negli stranieri, le soprachiarite difficoltà nell'utilizzare strutture già connotate e quindi il ricorso a soluzioni di ripiego o a tentativi di 'conquista'; nei residenti, la messa in atto di tecniche di ostruzionismo per difendere i propri spazi dall'assalto delle nuove socialità. L'attenzione va posta, secondo me, nel fatto che entrambi i comportamenti sono l'esito di un unico meccanismo: quello della 'realizzazione del se' come fine primario del comportamento urbano. Solo da questa prospettiva è possibile comprendere la bidirezionalità dei processi di integrazione.

I processi d'integrazione sono bidirezionali perché sono espressione di un'esigenza che è propria di ogni gruppo sociale e individuo, non perché implicano una 'ridefinizione delle identità' nell'immigrato e nella società ospite. Credo anzi che tale processo non si verifichi né per la società ospite né per il migrante. In ogni caso sarebbe una prospettiva troppo riduttiva per affrontare la questione. Quello che avviene in una città è descritto in modo migliore dal termine 'elasticità mentale', da applicarsi sia agli stranieri che ai residenti e con il quale indicare la capacità di ricercare la 'realizzazione del se', cioè la proiezione della propria identità nei contesti spazio-relazionali, nonostante quest'ultimi non siano immobili ma tendano a variare nel tempo presupponendo quindi, nell'agente, una certa tendenza all'adattamento. Nella prospettiva della realizzazione del se come fine primario del comportamento urbano, l'elasticità mentale non diviene altro che la capacità per gli associati di affrontare e metabolizzare i repentini cambiamenti verso cui, in era di globalizzazione, le nostre società vanno incontro. Fenomeni attuali quale la xenofobia e l'alto tasso di devianza nella popolazione immigrata, inquadrati in tale contesto, indicherebbero la parte della popolazione che, essendo meno propensa all'elasticità (xenofobia) o dovendo affrontare mutamenti ambientali estremi (immigrazione), è attratta maggiormente dalla disorganizzazione. Del resto, in ogni rivendicazione xenofoba fortissimi sono i richiami a non ben precisate (spesso mitologiche) identità nazionali o alla difesa della razza, così come nei baunlieus francesi criminalità urbana e rivendicazioni etniche si trovano spesso associate (4).

Se assumiamo la prospettiva della 'realizzazione del se' come principio ultimo del comportamento urbano, chiariamo inoltre come i conflitti che sorgono all'interno dell'aree cittadine abbiano natura esclusivamente simbolica (almeno in Arezzo). Da quanto detto finora, sembrerebbe che oggetto della competizione fra i gruppi sia la superficie cittadina. In verità, nell'analisi dello spazio urbano, almeno di quello adibito alla vita sociale, bisogna tener conto di una variabile che incide in maniera determinante sul valore dello spazio stesso. Si tratta della capacità degli ambiti urbani a connotarsi secondo le identità delle comunità che ne fanno il proprio territorio. Uno spazio senza questa caratteristica non ha un grande valore all'interno della città, benché possegga, ad esempio, un'ampia estensione o una buona posizione. La competizione per lo spazio è, in definitiva, la competizione per la possibilità di proiettarvi simboli e immagini, senza la quale, qualsiasi attività sociale perde significato. Lo spazio urbano non ha un valore fine a se stesso ma ha una qualità intrinseca, indicata come 'malleabilità' (tendenza ad essere connotato) che ne determina l'apprezzabilità in tale contesto. Questa attitudine è facilmente riscontrabile nel rapporto tra spazio urbano e comunità straniere. Quest'ultime, più di altre, hanno bisogno di spazi malleabili, che possano essere facilmente connotati e non di spazi rigidi o generici. L'incomprensione di questa esigenza è stata alla base, ad esempio, del fallimento dei progetti che la passata amministrazione di Arezzo aveva finanziato per la creazione di un centro di aggregazione interculturale.

Il progetto aveva individuato nei locali della 6º circoscrizione, posti in V. Buonconte da Montefeltro, le strutture idonee ad ospitare un centro di aggregazione che avrebbe dovuto attrarre la socialità delle comunità straniere e "liberare le piazze dalla presenza immigrata". Il progetto prevedeva che le stesse comunità, per mezzo dei propri rappresentanti, assumessero le responsabilità di gestione tramite la formazione di un comitato che avrebbe dovuto rappresentare tutte le nazionalità presenti in Arezzo. Il progetto ha incontrato molte difficoltà nella sua attuazione; il comitato di gestione non si è mai attivato in concreto e i locali sono stati utilizzati dalle singole comunità solo in modo separato. In realtà il concedere uno spazio a tante comunità, ha equivalso il non concederlo a nessuno. Difatti lo spazio del centro si proponeva come uno spazio generico, non idoneo ad essere connotato dalle comunità le quali, tra l'altro, non potevano usarlo in maniera esclusiva e continuata.

Nelle intenzioni delle amministrazioni la struttura avrebbe dovuto recepire, nello stesso spazio e allo stesso tempo, le molteplici socialità immigrate ognuna con le diverse immagini e simboli che le caratterizzano; i risultati però sono stati disastrosi. La naturale competizione tra i differenti gruppi etnici ha bloccato ogni pretesa di aggregare comunità diverse tra loro. La compresenza di differenti nazionalità non si è mai realizzata e alcune comunità hanno cominciato ad usare la sede nei fine settimana per attività festaiole. Gli abitanti della via (che sono molti perché la struttura è inserita in un complesso residenziale) se in qualche modo potevano abituarsi all'intrusione nel loro territorio di un nuovo gruppo, con nuovi linguaggi, nuovi simboli e nuove immagini, non hanno potuto tollerare le intrusioni di tanti gruppi diversi, con immagini e simboli destinati a cambiare quasi ogni sera. La risposta dei residenti non si è fatta attendere ed è culminata in denuncie alla magistratura e proteste, più o meno pubbliche, contro l'amministrazione. Nel giro di qualche mese, dopo aver costatato l'inefficienza della struttura e le proteste dei residenti, il centro è stato chiuso e il progetto abbandonato definitivamente.

Le vicende del centro interculturale sono un esempio di come la competizione per lo spazio sia in realtà una competizione simbolica poiché ciò che rileva è, come abbiamo visto, la malleabilità dello spazio in relazione all'accoglimento di simboli e non lo spazio in se. Vorrei chiarire inoltre, come nei rapporti tra immigrati e residenti, almeno nella città di Arezzo, gli esiti conflittuali hanno tutti una natura simbolica.

Se assumiamo come prospettiva quella dell'oggetto del contendere, i conflitti etnici possono essere distinti fra conflitti dove la posta in gioco è di tipo materiale e conflitti dove la posta è di tipo simbolico (Cotesta 1999). Nei conflitti del primo tipo, la risorsa contesa è appunto un bene materiale quale il lavoro, la casa, la salute, la qualità della vita urbana, etc..; nel secondo tipo invece l'oggetto del contendere riguarda direttamente le stesse identità degli attori e dei gruppi di cui fanno parte. Nella città di Arezzo non si registra ancora una conflittualità del primo tipo; la corsa all'accaparramento di beni concreti quali abitazione, opportunità di lavoro o accesso ai servizi, non è caratterizzata da alcuna competizione poiché i mercati che ne regolano l'accesso sono differenziati a seconda che la domanda provenga da un italiano o da uno straniero. Faccio un esempio: anche ipotizzando parità di titoli e formazione, un cittadino immigrato e uno residente non si contenderanno le mansioni più retribuite, ma lo straniero avrà accesso solo a lavori che i residenti preferiscono non svolgere. La stessa cosa, come chiarirò fra breve, avviene nella ricerca dell'abitazione dove le case peggiori, a parità di canone, sono destinate agli stranieri. Queste situazioni non creano alcuna competizione tra residenti e immigrati bensì segregazione dei primi verso i secondi; ciò non vuol dire, sia ben inteso, che da tale contesto siano assenti tensioni, le tensioni ci sono ma non si manifestano in conflitti di tipo materiale. Se gli stranieri hanno accesso ai beni e alle opportunità della città solo dopo che ne hanno usufruito i residenti, le tensioni generate dalla convivenza sono assorbite esclusivamente dalla dimensione simbolica del conflitto, di cui la segregazione spaziale è, come abbiamo visto, una delle più dirette conseguenze. L'assenza di forza politica, di sindacalizzazione, di qualsiasi organo strutturato di rappresentanza, esclude la popolazione straniera da ogni competizione o rivendicazione attiva di beni materiali. In particolare, gli immigrati trovano una società ospite disposta ad accoglierli a condizioni subordinate dettate da atteggiamenti di opportunismo ed esclusione, come anche Cotesta precisa nella sua Sociologia dei Conflitti Etnici (lui parla di 'inclusione subordinata': inserimento nel sistema produttivo sì, inserimento nel sistema sociale, no). Le tensioni provocate dalla convivenza, sia nella popolazione immigrata che in quella residente, trovano come unica strada per emergere, la dimensione simbolica del conflitto, poiché in quella materiale mancano le stesse condizioni iniziali affinché si instauri il confronto e la competizione:

... in questa dimensione si collocano le immagini del mondo. Il tipo di conflitto dominante a questo livello è appunto il conflitto per l'identità. Nella propria immagine si esprime, nello stesso tempo, la stima verso se stessi e la stima verso l'altro. Quando la definizione del proprio sé avviene per "comparazione invidiosa" con l'altro, prevale un'immagine negativa di lui. L'ostilità si esprime allora con il disprezzo, la maldicenza, la denigrazione. La difesa dell'identità comporta il ricorso a conflitti piuttosto duri. Questo tipo di conflitto appare infatti il più violento (5).

Le parole riportate sono quelle con cui Vittorio Cotesta affronta la dimensione simbolica del conflitto. Il sociologo campano, pone l'accento su come tale ostilità produca gli esiti più violenti e rilevanti in tema di convivenza civile, poiché coinvolta, in maniera diretta, nella percezione (cioè realizzazione) della propria immagine. Pare esservi un nesso, quindi, tra la violenza della rivendicazione e l'oggetto del conflitto.

Quando le città ospiti accolgono le comunità straniere sulla base di un apparato giuridico o sociale che tende ad estrometterle dalla normale competizione per i beni primari (negando sostanzialmente l'accesso ai mercati su basi paritarie) si verificano scontri etnici di intensità spesso violenta. Questo è successo negli Stati Uniti degli anni '60 e nella Germania di adesso. La situazione è cambiata, per le città americane, quando la segregazione 'materiale' si è progressivamente assottigliata permettendo alla competizione economica, politica, residenziale, etc.. di assorbire le tensioni che in precedenza si esaurivano nel conflitto per le identità.

Se ogni società produce un certo grado di tensione, è necessario individuare quali sono gli esiti conflittuali in cui essa si concretizza e come questi si distribuiscano, per intensità ma anche per natura, fra i differenti gruppi sociali. La dimensione urbana, per la stretta relazione tra identità e spazio, è lo strumento privilegiato per studiare i conflitti simbolici; per lo studio dei conflitti materiali è necessario osservare, invece, la struttura e le eventuali alterazioni dei mercati che distribuiscono e allocano nelle città i beni primari. Nelle prossime pagine affronterò il rapporto tra mercato immobiliare e immigrazione nella città di Arezzo ma, prima di ciò, voglio esaurire il piano urbano della mia analisi offrendo una descrizione, anche geografica, della socialità immigrata.

6.4 Comportamento urbano e socialità immigrata

La socialità degli stranieri, allontanata per le ragioni che abbiamo visto dagli ambiti che la città ha riservato a tali attività, è riuscita a trovare soluzioni e spazi che le hanno permesso in ogni caso di esprimersi. In base alle ricerche condotte sul campo, le modalità con cui gli stranieri stanno soddisfacendo le proprie esigenze spazio relazionali, nella città di Arezzo, sono tre e ad ognuna di queste corrisponde una particolare forma di socialità. La prima modalità, la più utilizzata ed anche la più spettacolare, riguarda l'utilizzo intensivo di spazi urbani comuni quali piazze, atri e giardini; ad essa corrisponde la 'socialità di ripiego'. La seconda modalità si riferisce alla socialità che si svolge nelle abitazioni private che, per gli stranieri, sono luogo di incontro e socializzazione molto più che per gli italiani; in questo caso si parla di 'socialità casalinga'. La terza modalità, infine, riguarda 'la socialità conquistata' ovvero la socialità che si svolge in strutture cittadine appartenute ai residenti ma adesso conquistate dalle comunità straniere. Quest'ultima eventualità va distinta in due ulteriori circostanze: la conquista ottenuta tramite l'utilizzazione intensiva di locali cittadini già frequentati e connotati dai residenti (circostanza ad alto rischio di conflitto); la conquista ottenuta con l'avviamento da parte di un cittadino straniero di una attività commerciale (circostanza a basso rischio di conflitto).

Queste tre modalità determinano il comportamento urbano delle comunità immigrate e rappresentano quindi gli 'schemi d'uso' con cui queste si relazionano con la città. Tutte tre le tipologie possono essere indicate come 'differenziate' in quanto sono proprie degli stranieri immigrati, i residenti non ne fanno uso.

La visibilità delle comunità, in ambito urbano, è legata a queste opportunità, tanto che, attraverso tali canali, viene percepito sia il numero sia le caratteristiche della socialità straniera. È facile constatare quindi come in tali circostanze si creino distorsioni e incomprensioni: il fatto che gruppi sociali di immigrati debbano ricorrere a soluzioni di ripiego per esprimere il loro modo di vivere insieme, fa si che tale ripiego sia apprezzato dalla società ospite come tratto caratteristico del loro modo di essere. I residenti non hanno né gli strumenti né le possibilità per comprendere come sia la carenza di spazi adeguati a causare il sovraffollamento serale dei condomini o il radicamento stabile in alcune piazze della città. Credono invece che questo atteggiamento sia da attribuire ad una non ben definita 'certa cultura' di cui conoscono poco, se non quello che vedono, e da cui sono, di conseguenza, infastiditi e spaventati.

Il ricorso a 'schemi di uso differenziati' nell'utilizzare la città, inoltre, indispone i residenti perché mostra un diverso modo di usare gli spazi urbani, un modo che non si accorda più con i tempi e i ritmi dettati dalla società. Giancarlo Paba fa notare, nel suo bellissimo saggio sul "mosaico urbano"(1997), come gli stranieri sono ormai gli unici che utilizzano nel giusto modo gli spazi collettivi e semipubblici propri della città tradizionale. Le piazze, gli slarghi, i giardini e i portici sono rimasti per molti anni privi della funzione cui erano destinati e soltanto adesso stanno ritornando a vita nuova. In Firenze, la città da cui prende spunto l'analisi dell'architetto, questa nuova vitalità non è stata però tollerata o forse ha dato luogo a dei malintesi. Le istituzioni hanno progressivamente chiuso tutti gli spazi collettivi del centro o li hanno sottoposti ad un'amministrazione che ne ha negato la natura aperta e disponibile scritta nella loro costituzione architettonica e urbanistica.

Anticipo subito come una circostanza del genere, ad Arezzo, non si è ancora verificata, se non altro perché gli spazi comuni che hanno accolto le comunità straniere sono pochi, tre o quattro, e non si prestano ad essere chiusi o controllati più del normale. Inoltre la situazione fiorentina è frutto di un contesto, non solo numerico, estremamente diverso da quello aretino. Ad Arezzo il disagio non si esprime con la proliferazione di transenne e telecamere ma si manifesta, ancora, con lo spostamento della socialità residente ogniqualvolta venga in contatta con quella immigrata e con il ricorso, da parte degli stranieri, alle socialità di ripiego elencate in precedenza. Prima di un'analisi dettagliata di quest'ultime mi preme mettere in luce, però, alcuni aspetti del comportamento urbano immigrato che hanno una diretta relazione con i processi di urbanizzazione delle comunità straniere; questi, come gli altri evidenziati in precedenza, sono rilevanti in tema di convivenza civile e disagio dei residenti, ma, in particolare, intervengono nel distorcere la percezione numerica del fenomeno e quindi ad alimentare sensazioni di assediamento o iper presenza.

Se ho chiarito in precedenza come l'identità delle persone risieda nello spazio e nelle relazioni quotidiane, quest'analisi, applicata agli stranieri immigrati, conduce ad un'ulteriore riflessione. Lo straniero nel momento che abbandona il paese di origine, perde tutti quei riferimenti identitari che risiedono nel rapporto con lo spazio e con i luoghi della propria vita. Fin dal primo giorno che giunge nella città ospite, esso si trova di fronte una serie di elementi che gli erano sconosciuti e con cui deve entrare in confidenza prima possibile. L'immigrato deve abituarsi a una serie di nuovi odori e nuovi suoni, a luci differenti da quelle in cui è cresciuto, a forme e oggetti il cui significato gli appare sconosciuto. La ricerca di punti di riferimento, anche fisici, nello spazio cittadino, diviene una necessità naturale, soprattutto se inquadrata all'interno della 'realizzazione del se' come fine primario del comportamento urbano. Anzi, la riuscita del percorso di integrazione dipende moltissimo dalla capacità di instaurare una relazione positiva con il nuovo ambito urbano.

In questo contesto si capisce per quale motivo gli stranieri siano portati, più di ogni altro abitante, a marcare il territorio, a stare sulla scena urbana. Il tasso di esposizione pubblica, la percentuale di tempo passata nei luoghi aperti della città, è altissima per queste persone, certamente superiore al tempo di esposizione di un residente medio che abbia un lavoro standardizzato e regolare ed una routine di vita stabilizzata e certa (Paba 1997). Se a questi motivi si associa la mancanza di locali idonei ad accogliere le differenti comunità, è facile comprendere come la presenza straniera sia una presenza totalmente visibile. I residenti però non si rendono conto di questa circostanza e valutano la quantità di stranieri nella città con gli stessi criteri con cui valuterebbero la presenza di altri gruppi sociali. Questo fattore gioca così un ruolo importante nella distorsione della percezione quantitativa ed ha riflessi importati nella diffusione di atteggiamenti allarmistici almeno quanto i toni e le modalità con cui i mass media affrontano la questione. In verità gli immigrati sono mobili per definizione. Nella città sono alla continua ricerca di una condizione migliore perché è questo, in fondo, che li ha spinti così lontano. Essi sono avidi di informazioni, di opportunità, di nuove dimensioni in cui proiettare la propria identità. Vi è una base di volontà, oltre ché di necessità, nella spiegazione del loro comportamento. Più di uno straniero mi ha confessato di aver trascorso le proprie giornate, nei primi tempi dell'ambientamento, spostandosi a piedi da un punto all'altro della città senza una reale metà; voleva ambientarsi ma allo stesso tempo scoprire le opportunità che la sua nuova città offriva. La mobilità spaziale è, del resto, la più stretta conseguenza della dinamicità mentale con cui l'immigrato, volente o no, deve affrontare l'esperienza che ha deciso di intraprendere.

Insieme alla mobilità, l'altro elemento che caratterizza la vita urbana degli immigrati è la grande quantità di tempo trascorsa con i propri connazionali. Circostanze quali la mancanza di radici nel territorio, l'assenza di un contesto familiare, la precarietà che caratterizza, se non altro da un punto di vista identitario, l'avventura migratoria, rendono il bisogno di socialità di uno straniero immigrato molto superiore a quello avvertito da un normale residente. La ricerca di solidarietà ed aiuto nei propri connazionali, con i quali si divide, tra l'altro, le stesse avventure e gli stessi bisogni, stempera le conseguenza dello sradicamento ed agevola il superamento dei passaggi più duri dell'ambientazione. L'alto numero di attività sociali intraprese diviene quindi un'altra spiegazione della massima esposizione dello straniero negli spazi pubblici, soprattutto in relazione alla già chiarita mancanza di locali chiusi idonei ad accoglierlo.

Suggerisco di inquadrare questo bisogno estremo di socialità all'interno, ancora una volta, del principio della 'realizzazione del se'. La circostanza per cui l'identità viene sottratta a tutti quei riferimenti in cui è nata e sviluppata determina nell'individuo un aumento del bisogno di relazione attraverso cui sopperire a questa riduzione nelle possibilità di riflettere se stesso. Infatti, nonostante lo straniero abbandoni il suo paese e decida di vivere in un altro di cui non conosce nulla ed in cui non è vincolato, teoricamente, da nessun precetto se non quello legislativo, la cosa più naturale gli appare quella di riunirsi con la sua comunità, di mantenere gli stessi stili di vita e di costume, spessissimo lo stesso modo di mangiare e di vestire. Un po' come è successo per i molti italiani che, emigrando all'estero, hanno ricostruito nelle Little Italy, dei quartieri che ricalcavano nelle immagini, nei suoni, nei colori quella che era la loro patria.

Una persona, nel momento che decide di vivere in un paese straniero e perdere tutti i riferimenti in base ai quali ha, per anni, valutato il suo comportamento, non trova validi sostituti che lo aiutino ad orientarsi, tanto che ne deve ricostruire di fittizi. Il grado di regolamentazione che una società produce nei confronti dei suoi abitanti sembra ridursi drasticamente nel momento in cui si indirizzi verso cittadini che non sono cresciuti in essa. Questo perché gli agenti di controllo attivi nella società, sono ricalcati sulle identità dei residenti e non operano nei confronti degli stranieri, tanto che questi sono 'costretti' sia a relazionarsi intensamente con i propri simili (con i quali condividono gli stessi parametri di comportamento) sia a cercare insieme di ricostruire i costumi e gli stili di vita propri della loro comunità. In questo contesto va inquadrato il bisogno di socialità degli stranieri; trascorrere ore in ambienti o fra persone che nulla sanno e nulla dicono della propria storia, può far desiderare molto intensamente, a fine serata, di ritrovarsi con i propri connazionali. Da questa analisi si possono allora trarre alcune constatazioni. Il controllo sociale è qualcosa di cui ogni persona prova un bisogno fisiologico; senza di esso pare difficile orientare il proprio comportamento e mantenere l'equilibrio mentale necessario ad affrontare la vita di tutti i giorni. Una riprova sta nel fatto che, se ne rimaniamo sprovvisti, spendiamo molto del nostro tempo e delle nostre energie nel tentativo di ricostruirne alcuni aspetti.

Emile Durkheim, che per primo, agli inizi del secolo, ha messo in evidenza la frequenza tra immigrati di comportamenti devianti, ha cercato di teorizzare, con il concetto di anomia, proprio lo smarrimento e la mancanza di punti di riferimento causati dalla fuoriuscita dalla società tradizionale e dalla seguente, difficile identificazione con la società ospite. Da questa impostazione risulta più facile comprendere come il controllo sociale non sia un fenomeno invasivo della sfera dell'attore, ma bensì una manifestazione estensiva della propria personalità. In particolare, esso si realizza con la capacità dell'individuo di proiettare la propria natura nell'ambiente in cui è inserito, in modo da ricevere, da questo, orientamento e conforto. L'intensità del controllo e la sua efficacia dipenderanno quindi da quante strutture e opportunità la società fornisce agli associati, per realizzare l''effetto specchio' proprio di ogni percorso identitario. Per le comunità straniere queste opportunità risultano drasticamente ridotte, basti pensare a quanto siano definiti su schemi mono direzionali, il mondo del lavoro, i mezzi di comunicazione, le stesse pratiche di socialità cittadina. In questo contesto si capisce come risulti un obiettivo 'strategico' delle politiche locali, assicurare la visibilità degli stranieri, e si capisce ancora come, indipendentemente da preventive pianificazioni urbane, questa visibilità tenderà ad emergere quanto prima, perché espressione di un bisogno di identità e orientamento connaturato con la natura umana.

Un'ultima considerazione: da queste conclusioni si comprende come la visibilità degli stranieri non sia fine a se stessa, ma sempre diretta alla connotazione simbolica. La visibilità ha significato solo in armonia con la possibilità di tracciare il territorio, di modellarlo fino a lasciare segni visibili della propria comunità, in modo che ogni aderente possa in tali segni rispecchiarsi ed intravedere il proprio modo di essere. Solo questo tipo di visibilità è 'funzionale' poiché offre la possibilità di produrre orientamento e quindi stabilità e controllo.

6.4.1 Le tre forme della socialità immigrata: le piazze e gli spazi collettivi

L'utilizzo intensivo di spazi pubblici come di aree urbane collettive è stata la prima modalità con cui le comunità straniere si sono presentate agli occhi degli aretini.

Gli spazi collettivi sono i luoghi meno 'definiti' della città, luoghi in cui nessun gruppo può rivendicare a priori la proprietà. La natura aperta e centrale di questi spazi ammette che ogni gruppo vi proietti le immagini e i simboli che più lo caratterizzano ma non oltre il tempo in cui concretamente vi risiede. Le piazze, come i giardini o i porticati, sono difatti gli ambiti urbani 'malleabili'; il loro essere espressione della città e della sua vita pubblica, non li associa direttamente ad un gruppo sociale, come avviene per i locali, bensì a tutta la cittadinanza. Per spazi di questo tipo, la 'proprietà' è legata quindi alla presenza: nel momento che il gruppo abbandona il territorio, la piazza è pronta ad accogliere le immagini e i suoni di un gruppo differente, non è possibile lasciare un segno o un simbolo che possa rivendicarne nel tempo la proprietà. Il territorio può essere reclamato solo con una presenza continuata e costante. Nella vita di una città, gli spazi collettivi tendono così a connotarsi e ad acquisire la natura dei gruppi che li frequentano maggiormente; tale connotazione non è però irreversibile, anzi, la facilità con cui questa può essere messa in discussione, è una delle caratteristiche che maggiormente distingue questi ambiti urbani.

Gli stranieri presenti ad Arezzo hanno trovato nei luoghi pubblici collettivi una risorsa primaria per soddisfare le proprie esigenze di spazio e visibilità. Il ricorso a questa modalità di incontro è stato un passaggio obbligato, poiché solo luoghi malleabili quali quelli collettivi potevano accogliere le pratiche e i simboli di comunità straniere. La distribuzione degli stranieri nello spazio urbano non avviene però in maniera omogenea ma risponde a precise leggi naturali, simili a quelle già evidenziate che operano negli spazi chiusi. Quando parliamo di utilizzo intensivo di luoghi pubblici, da parte delle comunità, dobbiamo infatti distinguere come non tutto lo spazio sia interessato dal fenomeno ma solo alcune zone definite. Nel caso di Arezzo, in particolare, la vita sociale straniera appare talmente confinata in ambiti circoscritti che, all'infuori di questi, non solo è improbabile trovarvi comunità riunite, ma è difficile scorgervi anche semplici passanti che non siano i residenti. Negli spazi pubblici aperti operano dunque dei meccanismi segregativi che determinano una divisione territoriale simile, benché di minore intensità, a quella incontrata negli spazi chiusi.

Figura 3

Se osserviamo il centro di Arezzo, il salotto dove si svolge la gran parte della vita pubblica cittadina, notiamo come lentamente si stia formano al suo interno un'area in cui la presenza straniera è altissima. L'area può essere indicata come 'l'Agorà straniera'. Questo spazio è il punto di riferimento degli stranieri nella città, il loro luogo di incontro e relazione ed anche lo strumento attraverso cui le comunità entrano nella realtà cittadina e partecipano alla rappresentazione quotidiana della vita che in essa si svolge.

Nella formazione di quest'area ha contribuito, in maniera determinante, la presenza al suo interno di luoghi che possono essere considerati le 'roccaforti' dell'immigrazione in città. In questi ambiti, marcati con dei quadratini blu, l'opera di connotazione e appropriamento del territorio può dirsi già realizzata e definita come in nessun altra parte della città; di conseguenza, non è più possibile scorgervi alcun residuo della socialità dei residenti, i quali considerano ormai questi ambiti come luoghi di transito e non più di ritrovo o frequentazione. L'intera 'Agorà' sta comunque assumendo, con processo lento ma inesorabile, i tratti che caratterizzano le roccaforti. La socialità dei residenti, come si desume dai colloqui con i gestori dei bar della zona, si sta spostando verso piazze o vie, esterne all'area, mentre la presenza delle comunità "aumenta a vista d'occhio quasi ogni mese" (osservazione della signora che gestisce un chiosco di libri, interno a P.za Monaco). Queste impressioni trovano un particolare riscontro nei fine settimana dei mesi primaverili quando il centro si popola dei cittadini in cerca di svago e divertimento. Allora, passeggiando per il centro aretino, appare chiaro come il territorio vada incontro ad una sempre più netta spartizione; i pochi stranieri che sono al di fuori dell'Agorà si stanno in realtà muovendo verso di essa, allo stesso modo in cui i giovani aretini vengono attratti verso Il Corso Italia e i portici di Via Roma per il rituale struscio del sabato.

Il fatto che le prime comunità di stranieri avessero cominciato a ritrovarsi nei pressi della stazione e nelle altre zone evidenziate in blu, ha connotato in tale maniera questi ambiti, così da richiamare al loro interno tutte le varie forme della socialità immigrata che nel tempo sono affluite nella città. Le comunità hanno trovato in questi ambiti dei luoghi idonei al loro ritrovo in quanto altri stranieri, benché di nazionalità differenti, li avevano 'colonizzati' in precedenza mostrando ai residenti quale fosse la loro funzione. L'Agorà è adesso il ritrovo di tutte le comunità straniere presenti ad Arezzo, che in poco meno di un chilometro quadrato, convivono e si spartiscono, senza alcuna tensione, lo spazio 'salottiero' strappato ai residenti. Non vi sono altre aree, nel centro, che accolgano una qualche comunità. Tutte si riuniscono all'interno dell'Agorà e soltanto tramite essa affermano la loro presenza agli occhi dei cittadini.

Gli immigrati, quindi, hanno zone di aggregazione e ritrovo divise da quelle dei residenti. I due gruppi partecipano alla vita della città su due contesti separati, in palchi ben distinti. La spiegazione di questo meccanismo (segregativo) risiede ovviamente nelle stesse motivazioni, in precedenza individuate, per le quali gli stranieri non frequentano i 'connotati' locali cittadini. Ma occorre qui una distinzione.

Se negli ambienti chiusi, data la più stretta relazione tra gruppo dominante e spazio, e dato anche il carattere non transitorio della connotazione, non è possibile la coabitazione di comunità nazionali differenti; negli spazi pubblici questa non solo è possibile ma appare la cosa più naturale. Tale circostanza deriva dal fatto che uno straniero come tiene a mente le sue origini e la sua cultura, ha ben presente anche la particolare condizione di immigrato in cui si trova. Questa, lo spinge, se non a identificarsi, almeno a condividere lo spazio con persone che, benché siano di nazionalità differente, sono nella sua stessa situazione. Un'eventualità di questo genere non va sottovalutata, soprattutto in relazione a quanto la dimensione spaziale influisca nel comportamento urbano.

Nella città, qualsiasi posizione assumiamo (nel senso geografico) ha, già di per se, un valore intrinseco, un particolare significato sia per noi che per chi ci osserva. Nell'Agorà, persone diversissime, per nazionalità, ma anche per sesso, età, religione, reddito o anzianità di migrazione, tendono a ritrovarsi tutte a pochissima distanza le une dalle altre, quasi giornalmente. È sufficiente una passeggiata per accorgersi di questa situazione. Nell'Agorà si possono trovare gruppi di donne filippine che parlano in modo sommesso sedute nelle panchine, giovani domenicani vestiti con la classica divisa metropolitana (cappellino e maglietta NBA), che si muovono invece frenetici al ritmo di grandi stereo; ragazze polacche, sui trenta anni, che si ritrovano fra loro dopo il lavoro, famiglie pakistane e bengalesi con passeggini al seguito e i lunghi abiti caratteristici; uomini di mezza età del Maghreb, gruppi di estoni che bevono birra fin dalle sei del pomeriggio, giovani romeni da poco arrivati, palestinesi che vivono qui ormai da molti anni e l'elenco potrebbe continuare ancora. Questa variopinta umanità è attratta, nello stesso luogo e allo stesso tempo, dalla condivisione di una condizione che nella società ospite arriva a pervadere l'intera identità del soggetto fino a farne il tratto principale della sua personalità. L'essere così 'strettamente definiti' dall'ambiente dove si risiede è il motivo principale per cui persone molto diverse tra loro, che in altra situazione non avrebbero molto da spartirsi, sono tutte attratte verso un unico luogo.

Una circostanza del genere può essere compresa solo se inquadrata, così come ogni altro aspetto dell'integrazione, nella cornice della bidirezionalità. Il meccanismo segregativo sopra descritto è il risultato di due forze, di due sentimenti ben distinti. Insieme agli atteggiamenti dei residenti che tendono a scoraggiare l'insediamento delle comunità nei loro territori, si sommano le inclinazioni degli stranieri a radunarsi nel luogo dove il gruppo sociale immigrati, a cui appartengono e in cui si identificano, ha posto la propria base e ha connotato il territorio. L'incontro di queste due attitudini determina l'effetto Agorà. Un effetto che dimostra, forse meglio di ogni altro, quanto la città sia determinata da forze ecologiche che trovano origine nella natura umana dei suoi abitanti.

L'analisi territoriale dell'Agorà mette in luce altri elementi. Delle quattro 'roccaforti' individuate la prima ad essere conquistata è stata la stazione. Le comunità immigrate, già nei primi anni 90', avevano eletto questa struttura come punto di riferimento e tale è rimasto fino ai giorni nostri. È solo da qualche anno comunque che la socialità residente è scomparsa del tutto. Nel bar interno, come nella piazza antistante, si trovano solo stranieri o viaggiatori che si affrettano verso i binari. Gli aretini sfruttano la stazione in relazione alla funzione ad essa propria ma non considerano più questo spazio, uno spazio di incontro, circostanza del resto comune a tutte le città che hanno accolto flussi consistenti di immigrati. Le stazioni che per molti anni sono state il cuore della vita sociale cittadina (si pensi al ruolo dei 'Caffè della Stazione') si sono ormai spersonalizzate. Questo luogo è divenuto il posto della città che meno appartiene ai residenti autoctoni; appare oggi, più di prima, il simbolo del movimento, del viaggio e quindi dell'immigrato. Le comunità straniere, ad Arezzo come in ogni altra città, trovano molta facilità nell'identificarsi con questa struttura; è attraverso essa che sono giunti nella città ed è da qui hanno che hanno cominciato i primi percorsi di ambientamento. La stazione è dunque il luogo che ha più significato per loro e appare naturale che in essa si ritrovino. La zona occupata dalle comunità non è però interna alla struttura poiché ad Arezzo questa è molto piccola e non vi sono panchine o sedili che possano agevolare l'aggregazione. Gli stranieri si ritrovano all'esterno, nelle panchine della piazza e sotto la pensiline o, in ogni caso, dentro il bar che come detto, già da qualche anno non ha più clientela fissa che non sia di nazionalità straniera. Le comunità più assidue nel frequentare l'area sono quella dei nordafricani, generalmente uomini sia giovani che adulti, e quella dei filippini che si ritrovano con le famiglie nei giovedì pomeriggio e alla domenica, i giorni in cui sono liberi dal lavoro (questa comunità svolge quasi esclusivamente le mansioni di collaboratori domestici).

Le comunità provenienti all'est Europa si ritrovano con maggiore frequenza nelle panchine dei giardini Michelangelo, un piccolo spazio verde vicino alla stazione ma anche abbastanza appartato a causa dei grandi alberi che ne delimitano il perimetro. Queste comunità, soprattutto le polacche e russe, sono solite consumare una grande quantità di alcolici come è nella tradizione della loro socialità. Quasi ogni sera è quindi possibile osservare vicino alle panchine, capannelli di dieci- quindici uomini circondati da bottiglie di birra o cartoni di vino, intenti a bere e a parlare nella propria lingua. Lo spettacolo non è dei più rassicuranti ed infatti i residenti quando non possono evitare di attraversare il giardino, lo fanno con passo decisamente affrettato. A dispetto delle apparenze, però, nella zona non si sono mai verificati problemi di ordine pubblico. Come ha confermato il gestore del chiosco interno al parchetto, gli stranieri si comportano sempre in maniera corretta: se capita che qualcuno, dopo aver alzato un po' troppo il gomito, dia fastidio, viene sempre bloccato e allontanato dai connazionali. In ogni caso gli aretini non utilizzino più questo spazio; in meno di due anni il giardino è divenuto, da luogo di incontro, luogo di transito nonostante la sua posizione centralissima. Le comunità straniere al contrario affluiscono sempre più numerose tanto che da qualche mese sono presenti con assiduità, anche gruppi di immigrati provenienti dal Nordafrica.

Altra roccaforte all'interno dell'Agorà è la piazza di Guido Monaco. Questo spazio è l'ultimo in ordine di tempo, tra i quattro messi in evidenza, ad essere stato colonizzato e risulta senza dubbio quello più frequentato. La piazza è difatti molto grande e posta in una posizione centrale poco distante dalla stazione; inoltre nelle sue vicinanze sono presenti due call center, altra circostanza che ha sicuramente attratto le comunità. Questo luogo è adesso il punto di riferimento principale di ogni straniero, lo spazio pubblico, più di altri, dove il gruppo sociale 'immigrati' si ritrova e prende parte alla vita della città. Quasi tutte le comunità si sono infatti ritagliate un piccolo ambito al suo interno. Inoltre, altra caratteristica di questo spazio, la visibilità straniera è presente con più o meno intensità, in quasi tutte le ore del giorno.

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Si parte già la mattina molto presto quando gruppi di immigrati, generalmente albanesi, aspettano i 'caporali' per ottenere lavoro a giornata. Da qualche tempo infatti la piazza è divenuta centro di reclutamento per la manodopera clandestina che da qui, aspetta l'arrivo di furgoni o grosse macchine per essere trasportata verso il luogo di lavoro. Nella tarda mattinata sono presenti invece le ragazze, di solito romene o polacche, che sono impiegate nell'assistenza alle persone anziane. Nella passeggiata mattutina con la persona assistita, le ragazze tendono a dirigersi nella piazza in modo da poter scambiare fra loro due parole e interrompere la monotonia del lavoro.

Nel pomeriggio la presenza straniera si arricchisce ulteriormente. Nelle prime ore sono presenti, per la maggior parte, stranieri privi di lavoro che si dirigono nella piazza per trascorrere qualche ora in città e allo stesso tempo cercare informazioni e scambiarsi indirizzi su possibili opportunità lavorative. Soltanto nelle ore serali però, quando termina l'orario di lavoro, la piazza riunisce tutta la 'sua' popolazione e il numero di gruppi stranieri diviene talmente rilevante che si può pensare, a vista d'occhio, di trovarsi in una piccola casbah proprio nel centro della città. La mappa, in particolare, descrive la posizione che le comunità assumono all'interno della piazza intorno alle ore 19.00-19.30 di un giorno festivo (o anche il venerdì), quando l'affluenza straniera è massima. La corrispondenza tra comunità e luogo non è così rigida come la rappresentazione grafica lascerebbe intendere ma è comunque interessante notare come vi sia una sorta di spartizione tacita degli spicchi. I gruppi formati dalle donne domenicane e da quelle filippine, a cui si aggiungono spesso i mariti e i figlioli di queste, sono i più stanziali e si ritrovano sempre nella stessa panchina tanto che ormai tutti la considerano di loro stretta proprietà. Le comunità pakistane e bengalesi, anche loro con una frequenza quasi mai smentita, si ritrovano invece nei vialetti della piazza che per loro rappresentano una sorta di 'struscio' di comunità al pari del Corso Italia per gli aretini. I gruppi di giovani immigrati, come quelli albanesi o domenicani, sono invece più mobili e tendono ad assumere posizioni differenti anche nel corso della stessa giornata ma sempre all'interno o nelle vicinanze della piazza. Vi è poi uno spicchio che ospita i tavolini dei bar vicini. Nello spicchio, che è anche l'unica parte illuminata della piazza, si riuniscono i pochi gruppi di socialità autoctona rimasta. Secondo quanto riferito dai gestori, la clientela è da qualche anno in diminuzione poiché gli stranieri non utilizzano i tavolini e gli italiani, a causa della forte connotazione che ha assunto l'area, stanno traslocando verso altri luoghi.

Come già accennato in precedenza, il convergere della presenza straniera in zone definite della città, ha causato il progressivo allontanamento, da queste, della socialità aretina. Nel corso degli ultimi tre anni, in particolare, periodo in cui la pressione straniera nell'Agorà è cresciuta notevolmente, le zone a questa adiacenti, hanno accolto gruppi sempre maggiori di residenti. Piazze come S. Francesco e S. Jacopo, per non parlare dei portici di Via Roma sono diventati, più di prima, il luogo di ritrovo degli aretini.

Figura 5

Piazza S. Francesco soprattutto, anche grazie all'apertura dei restaurati dipinti di Piero della Francesca, si è colorata di una nuova vita, come mai l'aveva conosciuta, almeno negli ultimi dieci anni. È stato aperto un nuovo locale, quelli già presenti hanno installato dei tavolini all'aperto e, allo stesso tempo, i gradini del sagrato che circonda la chiesa hanno accolto sempre più aretini, in cerca di riposo, dopo una passeggiata nel Corso Italia. Le comunità di residenti all'interno della piazza sono diventate sempre più presenti e visibili. Si tratta, per la stragrande maggioranza, di giovani aretini tra i venticinque e i trentacinque anni. Le persone appartenenti a queste generazioni si ritrovavano, fino a qualche tempo fa, in Piazza G. Monaco, tanto che da questa presenza la piazza traeva la maggiore connotazione. Dopo l'irruzione della socialità straniera, questi gruppi hanno però pensato di traslocare nella vicina S. Francesco e di porre qui la base del loro territorio (con grande rammarico dei due gestori di 'tavolini' in Piazza Monaco e la felicità di quelli di S. Francesco). Un fenomeno analogo si è verificato in P.za S. Jacopo; considerata in passato luogo di transito verso le più popolate zone del Corso Italia, dei Portici e di Guido Monaco, questa piazza sta accogliendo adesso quei gruppi di persone anziane che in precedenza si ritrovavano in Guido Monaco. Anche qui, come sopra, si è verificato un trasloco verso zone adiacenti e non connotate a seguito della presenza delle comunità straniere.

In generale, si può affermare come sia in corso una sorta di migrazione dall'Agorà da parte di quei gruppi che erano soliti frequentarla prima dell'arrivo degli stranieri. Questi gruppi, con un'attitudine naturale quanto necessaria, si sono diretti verso piazze della città a questa vicina, ma che non avessero, a loro volta, una connotazione tanto 'forte' da impedire un nuovo radicamento. Nessun gruppo in questione si è infatti diretto verso la zona dei portici, teatro degli adolescenti aretini (urla, schiamazzi, spesso botte), o nella Piazzetta Sopra i Ponti, luogo centrale ma appartato che da sempre ospita giri loschi e smercio di droga. I gruppi che in precedenza si ritrovavano nell'Agorà hanno cercato invece degli spazi capaci di accoglierli e disponibili, quindi ad, essere connotati; spazi dove nessun altro gruppo faceva sentire la sua influenza.

Il fenomeno di spostamento di gruppi sociali è stato accostato, da altri prima di me (Burgess 1925), al movimento di liquidi che si genera con l'effetto idraulico. Per comprenderlo si può figurare due vasi comunicanti riempiti d'acqua e soggiacenti ognuno alla stessa pressione. Nel caso che la pressione di uno dei due aumenti, la fisica insegna come l'acqua presente al suo interno arretri incanalandosi nel vaso a pressione inferiore. È possibile immaginare gli ambiti urbani come vasi comunicanti dove la pressione atmosferica è l'azione di connotazione che i differenti gruppi, con varia intensità, esercitano in tali ambiti. L'acqua è ovviamente il gruppo sociale. Quando la pressione connotativa di un gruppo antagonista altera l'equilibrio in un determinato ambito urbano, il gruppo dominante, o scivola verso spazi con pressioni 'leggere', o entra in conflitto. Ad Arezzo, le dinamiche che interessano l'utilizzo degli spazi collettivi pubblici, si sono risolte, nella prima eventualità. La cosa appare più complicata, come approfondirò oltre, in relazione agli spazi pubblici chiusi, dove la maggiore identificazione con lo spazio determina una più forte resistenza allo spostamento.

6.4.2 Le tre forme della socialità immigrata: la socialità 'casalinga'

La socialità casalinga è prodotta dall'intenso utilizzo che gli immigrati fanno delle proprie case, non solo in qualità di alloggi ma anche come luogo d'incontro e socializzazione. Una caratteristica della popolazione straniera di Arezzo, come già accennato in precedenza, è il fatto che le proprie abitazioni risultino molto più frequentate, rispetto a quelle dei residenti, sia da parenti che da amici e connazionali. Questa circostanza non deve essere confusa con un particolare modo di essere o con un determinato atteggiamento culturale, anche perché sembra ricorrervi, senza molta distinzione, ogni nazionalità. Una situazione di questo genere è, in realtà, un'ulteriore conseguenza della mancanza di spazi o locali chiusi, idonei ad accogliere la socialità degli immigrati e che spinge questi, nei mesi invernali, ad incontrarsi in maniera quasi esclusiva all'interno delle proprie abitazioni, allo stesso modo in cui di estate si riversano nelle piazze.

Già in precedenza è stato sottolineato come questa insufficienza di spazi, unita al "naturale" bisogno di socialità, costituisca una miscela letale nei rapporti tra stranieri e residenti, soprattutto in tema di percezione della presenza e sensazioni di assediamento. Spostando adesso l'attenzione nella dimensione condominiale delle relazioni tra i due gruppi, vorrei chiarire come la socialità di tipo 'casalingo' non solo incrementi le sensazioni sopradette ma influisca anche nello sviluppo di rapporti di tipo conflittuale.

Chi è stato studente fuorisede sa benissimo come le cose che i condomini sopportino meno in assoluto siano il continuo viavai di persone sconosciute e il qualsivoglia rumore di combriccole aggregative. Si può decidere di spostare i mobili ogni giorno per un mese, si può avere un cane che abbaia senza sosta dalla mattina alla sera o attaccare quadri su tutte le pareti del soggiorno ma nessuno si lamenterà mai come quando dalla abitazione sopraggiungono segnali inequivocabili di riunione, congregazione o festa che dir si voglia. È chiaro che non c'entra per nulla l'intensità del rumore, ciò che irrita è, in verità, scorgere all'interno del proprio condominio, la presenza di una serie di persone di cui non si sa nulla e nel caso di stranieri, come in un certo senso di studenti, appartenenti ad un comunità molto diversa dalla propria. Maggiore è il giro di frequentazioni, maggiori sono le facce di estranei e maggiore è lo smarrimento dei condomini che da anni sono abituate a varcare lo stesso atrio o salire le stesse scale senza ulteriori preoccupazioni. Il via vai di persone all'interno di condomini diviene uno dei mezzi più efficaci per trasmettere sensazioni come insicurezza o disagio, poiché intacca uno degli aspetti più intimi della propria individualità, quello della abitazione, della quale il condominio o il vicinato, ne sono pur sempre una proiezione.

Va aggiunto, inoltre, che se non sono presenti luoghi per accogliere la normale vita sociale degli immigrati, tanto meno ne sono presenti di idonei ad accogliere la socialità di tipo straordinario. Si pensi al fatto che le associazioni di comunità non hanno sedi proprie e che quando non trovano spazi adeguati si riuniscono nelle abitazioni private dove, fra l'altro, detengono anche la sede legale. Per questo motivo vi sono condomini che si vedono arrivare, una volta alla settimana, anche una trentina di persone straniere mai viste prima, senza sapere bene la causa. Si pensi ancora alla impossibilità, o al costo, di trovare spazi adeguati alla celebrazione di feste nazionali o religiose (che per un immigrato sono una priorità!) Alcune comunità, le più numerose e le meglio organizzate, stanno accedendo a stanze comunali che l'amministrazione fornisce dietro il pagamento di affitto; alle altre, le meno forti (vi sono nella città 87 diverse nazionalità), non resta altra strada che l'utilizzo delle proprie abitazioni. Inoltre ho riscontrato fra gli stranieri la tendenza a festeggiare, nelle proprie abitazioni, i classici riti sociali quali nascite, battesimi, matrimoni, così come i semplici compleanni. Anche per queste feste alcune comunità (sempre le più forti o numerose) si stanno organizzando nel trovare dei luoghi adatti fra i vari locali cittadini, ma la questione diviene sempre più attuale e problematica soprattutto in relazione alla rapida crescita dei ricongiungimenti familiari.

Il via vai condominiale, frutto di queste circostanze, occupa un posto sempre più rilevante all'interno della vita cittadina. I residenti ne sono ogni giorno più infastiditi e la sua pratica è in aumento tanto quanto i nuovi flussi di immigrati che sopraggiungono ad Arezzo. Per comprendere le dimensioni del fenomeno è necessario aggiungere che l'insediamento residenziale degli stranieri non sta avvenendo in base a modelli concentrativi. Il tessuto urbano cittadino sta accogliendo i nuclei stranieri sulla base di una disposizione a "raggiera" tanto che sono ormai molti i condomini che ne ospitano almeno uno. Tale situazione insieme ad altri due elementi quali il sovraffollamento abitativo e l'alta mobilità cittadina (gli stranieri cambiano domicilio con maggiore frequenza degli aretini), rendono la situazione critica.

Da quanto detto appare come la dimensione condominiale sia un terreno particolarmente delicato per i rapporti tra stranieri e aretini. La vicinanza delle proprietà nonché la condivisione di alcuni spazi, rende molto probabile che differenti abitudini o diverse necessità si sovrappongano fra loro con esiti conflittuali. Del resto, non si tratta solo di opposti modi di concepire la socialità, nel condominio entrano in gioco, in maniera decisamente più rilevante che altrove, le divergenze o le incomprensioni riguardanti le pratiche di abitare e i diversi modi di concepire lo spazio. Se negli ambiti urbani aperti è proprio la dimensione spaziale ha mediare tali divergenze, nel condominio, dove si presuppone una compartecipazione sia nella gestione che nel godimento di questo bene, le cose appaiono più complicate.

6.4.3 Le tre forme della socialità immigrata: la socialità 'conquistata'

I processi di integrazione e di inserimento urbano delle comunità immigrate raggiungono una nuova fase nel momento in cui sorgono, nella città, locali e strutture definite (chiuse) capaci di accogliere in modo esclusivo i nuclei stranieri. Strutture di questo genere permettono agli immigrati di partecipare alla vita sociale della città su posizioni 'paritarie' rispetto a quelle dei residenti. Aspetti della socialità straniera quali il commercio, la religione o la cultura, vengono accolti negli spazi idonei al loro svolgimento, interrompendo le pratiche svalutanti e di ripiego che caratterizzano i primi stadi dell'integrazione (non solo l'affollamento delle piazze, si pensi anche alle moschee negli appartamenti o ai venditori ambulanti). In questa seconda fase i residenti imparano ad associare la presenza straniera con precisi ambiti cittadini (che non siano i soliti luoghi collettivi), attribuendole una specifica attività ed un determinato contesto e ottenendo in tal modo informazioni sulla sua natura quando non la possibilità di un contatto diretto. Questa circostanza, come si può comprendere, facilità l'urbanizzazione delle comunità, agevola la percezione del "diverso" e la conoscenza delle culture straniere da parte dei cittadini autoctoni. Inoltre ad Arezzo, come nelle altre città teatro di immigrazione, queste strutture diventano presto i punti di riferimento principali delle comunità, tanto che l'insediamento residenziale tende ad accentrarsi molto spesso intorno a tali luoghi.

Anche questo tipo socialità, come le due precedenti, è determinata dalla disponibilità di spazio e dalla sua malleabilità ma, a differenza delle altre, la presenza di locali o strutture 'conquistate' da stranieri caratterizza città in cui i processi di integrazione non sono alla fase iniziale. Le modalità con cui il tessuto urbano produce locali esclusivi e quindi connotabili dalle comunità presuppongono che queste siano numerose o quantomeno capaci di competere, e non solo in termini economici, nei mercati che distribuiscono i beni immobiliari. Si parla di socialità 'conquistata', in definitiva, poiché la disponibilità di superficie è ottenuta attraverso due distinti metodi che necessitano entrambi di un''azione diretta' delle comunità sul tessuto urbano. Nella prima, uno straniero o un gruppo di questi, decide di intraprendere una determinata attività (economica come religiosa o culturale) e prende in affitto, quando non acquista, i locali idonei per il suo svolgimento. Nella seconda, un locale già esistente comincia ad essere frequentato intensamente dagli stranieri fino a che la loro presenza non connota totalmente, agli occhi della città, tale struttura. Fra i modi con cui le comunità accedono allo spazio urbano definito è inoltre prevista un'ulteriore eventualità. In questa sono raggruppati tutti i casi in cui le amministrazione comunali o altri enti quali associazioni, mettono a disposizione degli stranieri i propri locali. Tale eventualità però, discostandosi dall'attività 'di conquista' propria del tipo di socialità in esame, verrà affrontata solo nel capitolo relativo alle associazioni cittadine che si occupano di immigrazione.

Per tornare alle due modalità principali e alle loro caratteristiche, è necessario anticipare come nella città di Arezzo vi sia un netto prevalere della prima sulla seconda. Vi sono, come poi illustrerò, due o tre bar cittadini in cui, a seguito di un'intensa presenza straniera, si sta verificando il fenomeno di spostamento proprio dei cambi di connotazione; in realtà però, l'avviamento di un'attività economica rimane la strada più seguita dalle comunità straniere aretine in cerca di spazio sociale e visibilità. Questa circostanza si verifica, è bene chiarirlo subito, sia quando l'attività straniera sia diretta alla creazione specifica di spazi ricreativi, quali circoli, ristoranti o discoteche; sia quando essa abbia un'impronta commerciale di altra natura. In generale è sufficiente che l'attività sia avviata e gestita da una persona straniera per diventare luogo di ritrovo e di riferimento almeno per la comunità della quale essa è membro e questo anche nel caso in cui la struttura sia una macelleria, un'azienda orafa, o un centro telefonico.

I call center in particolare, sono un buon esempio di quanto messo in evidenza. Attività di questo tipo sono state il primo mezzo attraverso cui le comunità straniere hanno conquistato visibilità nella vita commerciale e cittadina di Arezzo. Il primo negozio fu aperto già nel 1996 da una titolare italiana, a questo ne sono seguiti altri sette tutti gestiti da extracomunitari. Ve ne sono tre in zona Saione, due in Piazza Monaco, uno in zona San Donato, uno in Zona Giotto e uno nella città vecchia. I call center sfruttano la possibilità di acquistare presso aziende straniere linee telefoniche verso paesi extraeuropei a prezzi inferiori (anche fino all'80%) rispetto al gestore nazionale. I clienti che si rivolgono a questi negozi possono trovare così tariffe vantaggiose oltre alla possibilità di ottenere linea con più facilità. Questa attività, come del resto la maggioranza di quelle intraprese da stranieri, nascono per soddisfare le esigenze della popolazione straniera che la città al contrario non esaudisce. Con i call center, come con la macelleria islamica o gli alimentari 'etnici', vengono offerti servizi e prodotti che hanno un particolare significato solo per chi si trova nella condizione di immigrato. Lo svolgimento di un'attività economica diviene quindi un occasione per rendere un servizio alla comunità e per soddisfare delle necessità spesso provate in prima persona. Questa sensazione è confermata dal fatto che i call center, contro ogni logica commerciale, non fanno nulla per attirare i clienti autoctoni. Le insegne o i cartelli nel davanzale degli ingressi sono scritti in Arabo e in Inglese, non ve ne sono di scritti in italiano; inoltre ho accertato in prima persona che i commessi, in almeno alcuni center, non parlano la lingua italiana. Da queste constatazioni risulta chiaro come il target specifico di questi negozi sia la popolazione immigrata; del resto accanto alle linee telefoniche vengono gestiti altri servizi la cui domanda non può che provenire da stranieri. Si parte dalla vendita di schede telefoniche internazionali, alla gestione di terminali di spedizione 'DHL'o 'Western Union'; dall'offerta di libri e riviste scritte nella lingua madre alla vendita di dischi o cassette con la musica tradizionale di determinate nazionalità. In alcuni center è possibile trovare prodotti alimentari tipici o altri generi che un italiano di certo non userebbe (si pensi alle lozioni per stirare i capelli); in altri ancora si può usufruire di una videoteca noleggio di film esclusivamente indiani, pakistani e bengalesi.

Per le comunità straniere, questi negozi sono diventati rapidamente dei punti di riferimento e di aggregazione nel tessuto urbano, sebbene la natura delle attività in essi intraprese non faciliti certo queste circostanze. In verità gli stranieri usufruiscono dei servizi offerti ma, data la mancanza di propri spazi, sfruttano i locali dei negozi anche come opportunità di incontro e socializzazione. Le persone vi si trattengono per un tempo più lungo della telefonata perché in essi trovano degli ambienti idonei per incontrare e riunirsi con i propri connazionali. I center e gli spazi a questi immediati appartengono ormai agli stranieri, sono i loro locali cittadini. Al sabato pomeriggio e alla domenica mattina, questi negozi svolgono le stesse funzioni che per noi hanno i bar di quartiere. Se l'italiano vi si ferma per un aperitivo con gli amici, gli stranieri lo fanno per una telefonata. In ambedue i casi si forma una comunità, un gruppo che si incontra e si riconosce in un determinato luogo. Solo in quest'ottica va letta l'esasperata volontà di connotare i center come luogo straniero. La presenza esclusiva di insegne arabe quanto quella di commessi che ignorano la lingua italiana o di servizi indirizzati unicamente allo straniero, non sono sintomo della mancanza di spirito imprenditoriale ma piuttosto di una volontà, più o meno conscia, di affermare e rivendicare agli occhi della città la connotazione di quel determinato ambito urbano. Paradossalmente questo non è un atteggiamento di chiusura, lo dimostra il fatto, se non altro, che in ogni center in cui sono entrato ho trovato molta disponibilità e attenzione verso la mia indagine quasi che le persone ogni volta intervistate desiderassero ancor più di me instaurare una buona sintonia e comunicarmi le loro impressioni.

In verità, la connotazione dei center non ha nulla ha che vedere con eventuali esiti segregativi dei processi di integrazione aretina. Locali di questo tipo, oltre ad essere presenti ormai in tutte le città italiane, nascono dal naturale bisogno dell'uomo di essere inserito in un ambiente che rispecchi la sua identità, la sua cultura e il suo modo di immaginare e vivere lo spazio. Lo dimostra il fatto, ad esempio, che vi sia una certa corrispondenza tra call center e comunità. La nazionalità di un gestore tende ad attrarre nel suo negozio persone provenienti dallo stesso paese fino a che tale negozio diviene espressione di una determinata comunità. Questo principio non si realizza con matematica precisione ma tenuto conto degli altri fattori che influenzano la scelta di un consumatore, come dell'utilizzo, da parte di comunità non rappresentate, di center gestiti da non connazionali, può essere tranquillamente affermato. In Via Trasimeno ad esempio, in una delle zone a maggiore residenza straniera, due centri telefonici posti a poca distanza l'uno dall'altro ma gestiti, il primo, da un pakistano e il secondo, da un bengalese, hanno raccolto in maniera univoca e separata le rispettive comunità. Allo stesso modo nel center di Baboo del Senegal o in quello di Felix della Nigeria si riuniscono, con più frequenza rispetto altrove, le comunità provenienti dall'Africa centro meridionale. In generale si ha l'impressione che per alcune comunità, pakistane e bengalesi su tutte, i call center siano, nell'ambito urbano, la più diretta e visibile espressione della loro presenza (se si esclude ovviamente i luoghi collettivi della socialità di ripiego).

L'avviamento di attività economiche è comunque una strada attraverso cui un po' tutte le comunità hanno ottenuto spazio e visibilità nell'area cittadina. Gli elementi messi in evidenza per i call center possono essere riferiti anche ad altre tipologie di negozi gestite da stranieri. Si pensi alla macelleria islamica, ai market etnici o anche ad attività di natura non commerciale: per la comunità palestinese ad esempio, punto di riferimento cittadino è diventata l'azienda orafa aperta da un suo rappresentane in zona Garbasso. In generale però un'attività di tipo commerciale facilità più di altre la creazione, al suo interno, di uno spazio aggregativo. La macelleria islamica è un altro buon esempio. Questo emporio che, oltre la carne lavorata secondo i precetti religiosi, offre una serie di merci, non soltanto alimentari, proprie dei paesi del maghreb, è posto vicino alla Moschea ed è gestito dallo stesso Imam della comunità musulmana locale. La connotazione islamica di questo spazio è, come si può comprendere, molto forte. Di conseguenza il negozio è diventato presto il punto di riferimento ed incontro dei musulmani aretini, soprattutto di quelli proveniente dal Nord Africa, che di fronte al negozio si ritrovano quasi ogni giorno, prima della preghiera serale.

Nell'ambito della socialità conquistata rientrano inoltre i locali aperti e gestiti da stranieri proprio con l'intenzione di creare uno spazio sociale per la propria comunità. Non vi sono in Arezzo molti luoghi del genere ma quelli presenti, non più di tre, sono attivi e molto frequentati. In Via Curtatone, tra zona Saione e San Donato, si trova il circolo culturale albanese 'L'Aquila'; nei pressi di porta S. Lorentino, nella città vecchia, è situato il ristorante africano 'Afroteranga'; nella zona industriale, si trova il circolo di cultura domenicana 'Pablo Suerte.' È interessante notare come i circoli siano stati tutti aperti da responsabili o ex responsabili di comunità. Si tratta di persone a lungo impegnate nelle associazioni o nei sindacati, per migliorare le condizioni delle proprie comunità ma che dopo anni di "lotte e richieste a vuoto" hanno visto nel mettersi in proprio l'unica strada per ottenere spazio e visibilità cittadina.

Il circolo domenicano benché sia un locale privato, esterno all'associazione, è il punto di riferimento principale per questa comunità. Il locale è inserito in una zona un po' anomala per il suo genere, la zona delle fabbriche e delle industrie posta ai margini della città, ma il gestore mi ha confessato di essere comunque soddisfatto della struttura anche perché ha dovuto aspettare più di un anno primo di trovare un proprietario disposto ad affittarne una. Inoltre le stanze, che in precedenza ospitavano una maglieria, sono molto ampie e questo permette se non altro, di accogliere molti clienti, fino a duecento persone. La vita del circolo può essere distinta in due fasi, una privata e una pubblica. Nella prima, il locale funziona come vero e proprio circolo per la comunità che in esso si ritrova e vi celebra ogni momento importante della propria vita. La comunità domenicana è una delle più numerose in Arezzo e senza dubbio la più attiva (hanno organizzato addirittura un Telegiornale in spagnolo, ospitato dall'emittente cittadina "TSD", con notizie sia sulla patria che sulla comunità locale). Questa vitalità si traduce nella grande quantità di feste, matrimoni, nascite o cene associative, le quali vengono tutte ospitate dal 'domenicano'. Questa fase può essere definita 'privata' poiché ad essa prendono parte solo domenicani o aretini che hanno sposato dei domenicani (un fenomeno molto diffuso sopratutto da parte maschile). Nella seconda fase definita invece 'pubblica' il locale diviene una discoteca di musica caraibica frequentata (intensamente) tanto da domenicani quanto da italiani che da persone appartenenti ad altre nazionalità. La clientela è davvero delle più eterogenee: si va da famiglie domenicane con figlioletti di pochi anni, a ragazzi maghrebini e dell'est Europa; da uomini italiani di mezza età in cerca di bellezze caraibiche, a giovani studenti attratti dalla novità; ancora, signore aretine appassionate di musica latino americana e 'noti' bevitori cittadini richiamati dai prezzi contenuti. Non si tratta quindi di una semplice compresenza di nazionalità, risulta presente in realtà una miscela di età, di culture, di intenti, di modi di vestire e addirittura di ballare, come mai mi era capitato di vedere. Tutto ciò rende questo locale uno dei più particolari fra i molti presenti in città. Esso è il simbolo del divertimento "immigrato" ma allo stesso tempo è anche un luogo capace di attrarre i gruppi di residenti curiosi e disposti a misurarsi con le nuove realtà. Il 'domenicano', complice forse la posizione marginale e isolata in cui è situato, è così un luogo che sembra non rientrare nel contesto cittadino di cui fa pur parte. Al suo interno non ho riscontrato nessuna delle leggi o delle dinamiche messe in evidenza, bensì uno spazio dove i processi di integrazione, qualsiasi significato si voglia dargli, sembrano riusciti alla perfezione poiché tutti appaiono soddisfatti e la clientela aumenta ogni giorno.

Nel circolo culturale "Afroteranga" vengono invece serviti piatti tipici delle cucine africane; si parla quindi di ristorante etnico ma che si differenzia da altri dello stesso genere poiché oltre all'attività di ristorazione il locale funziona come call center, come market etnico ed anche come spazio culturale in cui vengono allestite mostre o iniziative sui temi dell'immigrazione e intercultura. Il gestore, proveniente dal Senegal, ha voluto creare un locale in cui la cucina, insieme ad altri elementi quali musica o fotografia, concorressero fra di loro per formare un ambiente aperto e piacevole. Il ristorante durante la giornata è punto di riferimento della comunità senegalese e in genere delle persone provenienti dall'Africa centrale. La sera invece è molto frequentato anche dai residenti tanto che tra i tavoli, a cena, si contano in ugual numero clienti italiani e stranieri. Il ristorante africano è, per la verità, un'eccezione nel panorama della ristorazione aretina; a differenza di altre città, infatti, i ristoranti etnici non hanno riscosso qui molto successo. Un ristorante pakistano è stato aperto solo qualche mese per poi riciclarsi in pizzeria data la mancanza di clientela e in generale non si avverte la richiesta di nuovi locali di tal genere fra la popolazione.

Vi sono comunque quattro ristoranti cinesi che sono stati aperti, tutti tranne uno, già agli inizi degli anni 90, da prima quindi che si parlasse di immigrazione ad Arezzo. Questi ristoranti sono da tempo assorbiti nel contesto cittadino tanto che per loro riesce difficile parlare di trasformazioni urbane a seguito del fenomeno migratorio. Inoltre questi locali sono frequentati solo da aretini, la comunità cinese, oltre a non essere molto numerosa, è senza dubbio la più invisibile e tende a frequentare il meno possibile i locali pubblici. Ad uno di questi ristoranti, però, il più ampio e situato in Via Calamandrei, si sta appoggiando da qualche tempo la comunità filippina ogni qual volta necessiti di uno spazio capiente per organizzare cene o festeggiamenti.

Altro locale "conquistato" è senza dubbio il circolo di cultura albanese "L'Aquila", posto in una delle zone a maggiore residenza straniera è formato da una sala bar e una biliardo. Il locale è il punto di riferimento della comunità albanese tanto che il gestore è anche il presidente dell'associazione. A differenza degli altri due circoli questo appare il più chiuso verso l'esterno, non è frequentato infatti né da italiani né da stranieri di altra nazionalità.

La quantità di attività economiche avviate da stranieri è un indicatore fondamentale per analizzare l'andamento dei processi di integrazione di una città. Questi locali, sia commerciali che ricreativi, oltre a rappresentare dei preziosi spazi sociali, diventano presto punto di riferimento per le comunità straniere producendo una forza connotativa molto intensa nel territorio in cui sono inseriti. Essi sono il simbolo più diretto della presenza e della vitalità delle comunità e rappresentano uno dei cambiamenti più interessanti nel panorama urbanistico cittadino. Per le dimensioni che caratterizzano il fenomeno migratorio aretino, il numero di strutture straniere avviate è rilevante e testimonia la presenza di comunità attive e floride che hanno scelto questa città come punto di arrivo e non di passaggio del proprio percorso migratorio. Le banche, ad esempio, ricevono sempre più richieste di credito da parte di cittadini immigrati e una ricerca della Federimpresa stima oltre 1000 le aziende con titolare straniero presenti nell'intera provincia aretina.

La collocazione di queste attività nel tessuto della città non è caratterizzata però da modelli concentrativi cosicché la valenza simbolica propria della loro natura tende a disperdersi. Non sembrano ancora sorte, in Arezzo, zone capaci di attrarre e raccogliere in maniera univoca le attività economiche straniere come invece avviene in città con più lunghe tradizioni di immigrazione. Più o meno tutto il tessuto aretino appare interessato dal fenomeno poiché questo, per comprensibili ragioni, tende a seguire la dislocazione residenziale delle comunità, la quale avviene, come detto in precedenza, a raggiera. Vi sono comunque alcune strutture, le più importanti, che possono essere viste, almeno in prospettiva, come futuri poli attrattivi della presenza sia abitativa che socioeconomica. Una di queste è senza dubbio la Moschea che è stata fra i primi luoghi stranieri che la città di Arezzo abbia prodotto.

Figura 6

La zona in cui è inserita la Chiesa musulmana, zona Saione, è una delle aree cittadine più interessanti. La presenza di una struttura così importante per la vita religiosa degli immigrati, ha contribuito, insieme ad una certa disponibilità di abitazioni, ad attirare i nuclei di immigrati, di conseguenza la residenza straniera risulta più rilevante qui che altrove. Questa circostanza, come si desume dalla cartina, si esprime anche con una rilevante presenza di attività straniere, il cui numero e vicinanza rendono l'azione connotativa da esse prodotta, molto intensa. Attorno alla moschea si possono notare la presenza di ben tre call center più quella della macelleria islamica, locali in cui si svolge, come detto, molta della socialità e visibilità urbana delle comunità. Il fatto che la zona stia assumendo una connotazione straniera è testimoniata anche dal fatto che delle ditte orafe, gestite da pakistani, hanno preferito impiantarsi in quest'area piuttosto che nelle fasce industriali in cui la città ha confinato queste attività. A questo si aggiunga poi la presenza del circolo di cultura albanese. In generale quindi se ancora non si può parlare di casbah, ci troviamo di fronte ad uno spazio in cui la connotazione originale (zona residenziale media per nuclei familiari aretini) sta subendo un cambiamento. Non è possibile anticipare l'esito finale del processo anche perché da un'analisi urbana di questo territorio si traggono delle conclusioni che contrastano con un'eventuale evoluzione concentrativa. Benché la residenza straniera sia molto alta e funzioni come effetto richiamo anche per altri nuclei di immigrati, nella zona sono presenti isolati in cui gli edifici sono di ottima fattura. Questa circostanza, che come vedremo caratterizza un po' tutto il piano urbanistico di Arezzo, appare qui ancora più evidente. In Via Trasimeno ad esempio, in una delle strade dove la presenza straniera è percepibile con una semplice passeggiata, vi sono da un lato edifici vecchi da cui gli aretini stanno venendo via, mentre dall'altro, villette con giardino di ottima fattura il cui prezzo, anche per la posizione centrale in cui sono inserite, raggiunge probabilmente diverse centinaia di milioni. In ogni caso il fatto che la zona stia subendo profondi mutamenti nella sua composizione sociale è testimoniato anche da un altro elemento. In Saione, infatti, sono presenti gli unici locali dei residenti (oltre il bar della stazione) che gli stranieri frequentano assiduamente. I due locali, ambedue situati in Via del Trionfo, sono il Bar Europa e il Bar Lilly; mentre non ho molte informazioni riguardo al secondo, il primo corrisponde alla tipologia del classico bar di quartiere, con clientela fissa, residente nella zona. Questo bar è da qualche anno il ritrovo di gruppi sempre più numerosi di stranieri, soprattutto nordafricani; del resto Via del Trionfo è un'altra di quelle vie in cui la presenza straniera è visibile con una semplice passeggiata. L'utilizzo della stessa struttura tra residenti e stranieri è stato però, ed è tuttora, molto problematica. Come mi ha confidato il gestore, i rapporti tra le due comunità sono molto tesi e in più di una circostanza si è dovuti ricorrere alla forza pubblica. Si registra inoltre un continuo spostamento della vecchia clientela verso altri bar della zona alla stessa maniera di quanto avviene, come abbiamo visto, negli spazi pubblici aperti.

6.5 Stranieri e aree residenziali

Oltre allo spazio pubblico, la mia indagine si è occupata di studiare la disposizione delle comunità nello spazio urbano privato. In questo secondo ambito di analisi ho cercato di mettere in luce le leggi cittadine che determinano la distribuzione dei nuclei stranieri nelle aree residenziali aretine. In particolare ho analizzato il mercato immobiliare locale e come questo si riflette nei percorsi attraverso i quali gli immigrati giungono all'abitazione.

Il primo elemento di cui bisogna tener conto per affrontare la questione è come non vi siano, all'interno della città di Arezzo, aree o quartieri che abbiano accolto in maniera esclusiva le comunità straniere. L'insediamento degli immigrati non sta avvenendo secondo schemi concentrativi ma attraverso modalità "a raggiera" che distribuiscono i nuclei immigrati su tutta l'area residenziale. La presenza straniera è rintracciabile in ogni quartiere della città, con intensità minori o maggiori, ma sempre in maniera tendenzialmente uniforme. Ciò non significa che non si possano individuare delle zone residenziali con una maggiore presenza immigrata o addirittura, come visto nel paragrafo precedente, delle aree connotate da questa presenza. Tuttavia si tratta di variazioni territoriali contenute, che trovano significato, nell'area presa in esame, solo se riferite ad un particolare isolato o ad una serie di edifici le cui case sono state affittate, più che altrove, a nuclei stranieri.

La tendenza uniforme con cui avviene l'insediamento delle comunità immigrate trova spiegazione nell'analisi del piano urbano della città. Non si riscontra ad Arezzo la presenza di quartieri che corrispondano alla tipologia di 'quartieri depressi', da cui i residenti vogliano allontanarsi. Ogni zona possiede più o meno servizi efficienti, buoni collegamenti con il centro e aree verdi, non vi sono, anche a detta di operatori nel settore quali agenti immobiliari o amministratori, zone di degrado urbano o aree a rischio. L'unico fattore che discrimina la qualità abitativa di un area, risulta quindi la fattura delle abitazioni, ma, anche in questo caso, l'analisi del piano urbano mostra come zone di lusso coabitino, nello stesso quartiere, con zone medie e zone popolari tanto che la qualità strutturale degli edifici risulta mediamente uniforme per l'intera aria urbana. In ogni caso, ripeto, non vi sono aree 'svalutate' che i residenti stanno abbandonando. Anche il centro storico, le cui case antiche e le strade in pietra lascerebbero presupporre, come avvenuto per altre città, uno spostamento verso aree più confortevoli è tuttora molto abitato. Molti dei vecchi residenti sono rimasti nelle loro case ed altri vi si sono trasferiti provvedendo ad opere di restauro, tanto che alcune delle case più lussuose si trovano adesso in quest'area.

Da questo insieme di circostanze si può dedurre quindi la mancata formazione di aree con alte concentrazioni di stranieri e si può presupporre inoltre che, almeno nel breve periodo, queste non si realizzeranno. Il mercato immobiliare locale non ha infatti prodotto delle aree urbane con canoni di affitto bassi e disponibilità di case, così come è avvenuto in città in cui l'insediamento straniero ha seguito schemi concentrativi.

La segregazione delle comunità in zone definite si realizza a patto che un gruppo stanziatosi in una determinata area urbana l'abbandoni ritenendola non più idonea alla propria 'condizione sociale'. Questo avviene sia nel caso vi sia un effettivo deterioramento dei servizi, delle strutture e degli altri requisiti residenziali, sia quando la semplice compresenza di un'altra comunità (non necessariamente immigrata ma in ogni caso percepita come inferiore) concorre a svalutare e degradare la zona. In Arezzo non si sono verificate nessuna delle due eventualità descritte; non è avvenuto alcun spostamento residenziale, l'offerta del mercato immobiliare non ha riguardato zone specifiche e le comunità immigrate si sono così insediate su un po' tutto il territorio cittadino.

MaschiFemmineTotale
Circoscrizione 1 - Giovi 230190420
Circoscrizione 2 - Fiorentina 6635411.204
Circoscrizione 3 - Saione 6766291.305
Circoscrizione 4 - Giotto 6545711.225
Circoscrizione 5 - Rigutino 10690196
Circoscrizione 6 - Palazzo del pero 381755
Totale2.3672.0384.405

L'esame dei dati a disposizione conferma un'analisi di questo tipo. Vengono riportate nella tabella seguente le presenze, suddivise per circoscrizione amministrativa, degli immigrati iscritti all'anagrafe al 1º Luglio 2001.

Dall'analisi dei dati si osserva, innanzi tutto, come le circoscrizioni maggiormente interessate dal fenomeno siano quelle che includono il territorio cittadino. Le circoscrizioni esterne all'area urbana possiedono dei valori di presenza molto bassi, in particolare più una circoscrizione è lontana o marginale rispetto alla città meno nuclei stranieri sembrano esservi trasferiti. Il comune di Arezzo ha infatti un'ampia estensione che include non solo l'abitato cittadino e le periferie ma anche le frazioni limitrofi, per un'ampiezza di molti chilometri quadrati suddivisi in sei distretti circoscrizionali. Analizzando il territorio, la circoscrizione nº6, la più decentrata e lontana, segna una presenza straniera di solo 55 unità. La 5º circoscrizione, sempre decentrata ma meno distante dal tessuto urbano raccoglie 196 stranieri. La 1º circoscrizione situata a ridosso della zona cittadina registra già una buona presenza, pari a 420 stranieri ma la maggior parte della popolazione straniera si concentra nelle circoscrizioni che comprendono il territorio urbano. Le circoscrizioni 2º (Fiorentina), 3º (Saione) e 4º (Giotto) che dividono in tre sezioni la città, accolgono più dell'80% di tutta la popolazione straniera residente nel comune. Questo dato mostra come l'immigrazione aretina sia un fenomeno con caratteristiche cittadine; le comunità straniere sono concentrate in prevalenza nell'aree urbane, sia centrali che periferiche, mentre la residenza nei piccoli paesi limitrofi appare ancora irrilevante.

Inoltre se analizziamo i singoli valori di presenza per ognuna delle tre circoscrizione 'cittadine' troviamo conferma su quanto la disposizione dei nuclei stranieri abbia assunto un carattere conforme e omogeneo nell'intero territorio urbano. I valori per circoscrizione sono infatti molo simili tra loro e testimoniano pari presenza in ognuna delle tre parti in cui è divisa la città. In particolare abbiamo la circoscrizione Saione con 1305 stranieri, la circoscrizione Giotto con 1225 e la circoscrizione Fiorentina con 1204.

Il fatto che le comunità straniere si siano insediate su tutto lo spazio residenziale e che non siano sorte, a differenza di quanto avvenuto per lo spazio collettivo, delle zone esclusive per immigrati, può lasciar presupporre che in questo ambito non siano attivi meccanismi di tipo segregativo. Questa conclusione è tuttavia errata. Benché non sia sorto alcun quartiere etnico e sia addirittura difficile individuare aree ad alta concentrazione straniera è possibile in ogni caso indicare le leggi che predeterminano la disposizione dei nuclei stranieri nella città.

In Arezzo la segregazione, propria per la verità di città che hanno accolto comunità straniere molto numerose (i famosi 'quartieri ghetto'), ha lasciato il campo ad un meccanismo che, sebbene non concentri gli stranieri in zone definite, li confina verso abitazioni inferiori e onerose, a prescindere dalla zona in cui sono inserite. In particolare, la segregazione spaziale sembra sostituita nella città aretina da una segregazione di tipo qualitativo che relega i nuclei stranieri in quelle case, presenti su in tutto il territorio cittadino, che non risultano più idonee alle richieste abitative degli aretini.

Questa circostanza appare chiara esaminando il mercato immobiliare locale. In questo ambito si registrano condizioni differenziate a seconda che la domanda di abitazione provenga da uno straniero o da un residente. Non si tratta di semplici alterazioni ma dell'esistenza di un vero e proprio mercato parallelo per immigrati che distribuisce offerte abitative inferiori, quando non degradate, su basi di contrattazione vessatorie e per canoni anch'essi non paritari. In pratica il proprietario di un immobile nel momento in cui decide di affittarlo, si trova di fronte ad una scelta: affittare ad un nucleo di residenti italiani per il prezzo di mercato e provvedendo in anticipo agli interventi, ordinari e straordinari, di ristrutturazione; o rivolgersi al mercato parallelo degli immigrati, affittare a dei prezzi maggiorati del 30-40%, non preoccuparsi di compiere alcuna ristrutturazione (tantomeno straordinaria), con la possibilità di richiedere anticipi fino a sei mesi, sovrapprezzi in nero e di fornire una dotazione, nel caso di appartamenti ammobiliati, che sia del tutto al di sotto dei requisiti di sufficienza. La terza via, quella dell'affitto a stranieri in basi alle stesse condizioni a cui soggiacciono i residenti, è praticata, anche a detta delle agenzie mobiliari cittadine, in pochissime occasioni.

In particolare il mercato parallelo interviene in quelle situazioni in cui i proprietari posseggano immobili non più adeguati alle esigenze abitative dei residenti. In molti isolati di Pescaiola come di S. Donato o del Centro Storico la residenza straniera si sta disponendo secondo il modello 'dell'ultimo piano'; in base a questo modello i nuclei immigrati trovano spazio solo negli ultimi piani, nei primi, o in quegli appartamenti comunque male strutturati, male disposti o rumorosi che i residenti tendono ad accettare solo per canoni inferiori se non a rifiutare. I proprietari ricorrono agli immigrati in modo da non dover abbassare le pretese economiche (ma anzi alzarle) e con la certezza di non dover aspettare mesi prima di trovare un inquilino. Considerando che quasi tutti gli edifici condominiali presentano una serie di appartamenti male disposti o in ogni caso da restaurare, si comprende come i modelli di insediamento dettati dal mercato, non solo releghino la residenza immigrata a una condizione abitativa inferiore ma la distribuiscano anche in modo uniforme su tutto il territorio cittadino.

Le condizioni vessatorie e la segregazione qualitativa descritte hanno un'origine ben individuata. Le alterazioni verificatesi nel mercato immobiliare locale, profonde tanto da crearne uno autonomo e parallelo, sono dovute alla scarsità di abitazioni offerte agli immigrati. Gli aretini, in pratica, non vogliono affittare i propri immobili a stranieri anche nel caso in cui questi possano documentare con busta paga la propria capacità di solvenza. Uno straniero alla ricerca di casa si trova di fronte ad un percorso difficilissimo, probabilmente il più arduo fra quelli intrapresi; i rifiuti a cui deve sottostare, sia che si muova per contatto diretto sia per intermediazione, sono molteplici e ingiustificati, dettati solo dalla sua condizione di immigrato. Molto spesso infatti il primo 'no' viene ricevuto per via telefonica già al primo contatto, quando il proprietario si accorge dell'accento straniero dell'interlocutore. A differenza di altri ambiti, nel mercato immobiliare emerge con tutta chiarezza la diffidenza cittadina verso le nuove comunità. I residenti preferiscono addirittura tenere sfitti i propri immobili piuttosto che concederli a stranieri e la ragione di questo comportamento è difficilmente ravvisabile se non nel pregiudizio.

In questo contesto i pochi proprietari che entrano nel mercato degli immigrati hanno possibilità di dettare le proprie condizione senza la necessità di alcuna mediazione. Il bisogno di un'abitazione è talmente pressante per uno straniero, da costringerlo ad accettare qualsiasi condizione anche la più vessatoria; si ricordi infatti che dal possesso di una casa dipende sia il rinnovo del permesso di soggiorno sia la possibilità di far giungere i propri familiari.

Il disagio abitativo quando non la stessa esclusione risulta, per queste ragioni, il problema più rilevante delle comunità straniere presenti in città. Per ovviare a tale circostanza gli immigrati devono adattarsi a situazioni alloggiative al limite della tollerabilità. Si assiste alla convivenza di due o più nuclei familiari all'interno di un'unica abitazione o alla trasformazione di camere singole in doppie o triple. Il sovraffollamento diviene, in generale, una caratteristica molto diffusa fra gli stranieri, a cui vi ricorrono non solo per la difficoltà di rimediare alloggi ma anche per ammortizzare gli alti costi imposti dal mercato. Questa circostanza produce a sua volta degli effetti deleteri oltre che, in modo comprensibile, in ambito condominiale anche nelle stesse dinamiche del mercato. Come evidenziato in precedenza infatti, in tema di pratiche dell'abitare stanno sorgendo fra i residenti pregiudizi e malintesi relativi alle comunità straniere giunte in città e al loro modo di impiegare lo spazio. Si pensa, in particolare, che la predisposizione ad utilizzare in maniera intensiva i propri alloggi non sia da riferire alla precarietà della condizione immigrata (e alle alterazioni di mercato) bensì ad un non ben precisato modo di vivere delle comunità. Questa convinzione, ovviamente errata, restringe ancora di più le offerte di abitazioni rivolte agli stranieri e 'legittima' in qualche modo, coloro che invece le concedono, a richiedere condizione più onerose. Sebbene, soprattutto in relazione alla seconda eventualità, sembra si tratti di giustificazioni di comodo, in ogni caso il sovraffollamento è un problema molto sentito che rischia di far collassare il già particolare mercato degli alloggi per immigrati.

Osservando lo schema sopra raffigurato si comprende come le dinamiche del mercato immobiliare locale si avvicinino sempre più al modello del serpente che si morde la coda. Minore sono le disponibilità di case maggiore è il sovraffollamento che si traduce a sua volta in un ulteriore restringimento dell'offerta.

È necessario chiarire che se il sovraffollamento è molto diffuso non è però generalizzato e riguarda una parte minoritaria, benché consistente, dei nuclei stranieri. Inoltre è più probabile che si realizzi in quelle abitazioni dove il canone è ingiustamente alto e il ricorso alla divisione delle stanze appare l'unico modo per pagare il canone mensile. Ad ogni modo il mercato immobiliare sembra aver assorbito, fra i tanti, anche questo pregiudizio e appare quindi verosimile che per molto tempo ancora sarà negato agli stranieri l'accesso al mercato immobiliare su basi paritarie mentre continuerà ad essere attivo il mercato parallelo con le caratteristiche segregative e vessatorie evidenziate.

Note

1. Tosi, A., L'inserimento degli immigrati: case e città, in Le culture dell'abitare, Polistampa, Firenze 2000.

2. La Cecla, F., Metodologia della verità geografica, in Le culture dell'abitare, Polistampa, Firenze, 2000.

3. Una riprova di quanto affermato sta nel fatto che i pochi stranieri che ho visto frequentare i locali cittadini, erano comunque giovani di nazionalità est-europea, dove le pratiche sociali sono simili a quelle presenti in Italia.

4. Cfr. Film L'Odio regia di M. Kassovitz, 1996.

5. Cfr. Sociologia dei conflitti etnici di Vittorio Cotesta, Laterza editore.