ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
Lo straniero nel diritto italiano prima della legge n. 40\98

Marco Poledrini, 2001

La nostra nazione è stata uno dei maggiori esportatori di manodopera. Lavoratori italiani, prima dal triveneto poi in maggior numero dal meridione, hanno varcato per molti anni i confini nazionali diretti verso paesi, anche extraeuropei, in cerca di condizioni di vita migliori. Una breve ricerca legislativa mostra come i primi provvedimenti del periodo repubblicano relativi alla voce 'migrazione' si riferiscano esclusivamente a questi lavoratori. Nel periodo compreso tra il 1950 e il 1980 si calcola infatti che più di 7 milioni di italiani abbiano abbandonato la propria patria per motivi economici. A testimonianza di quel periodo della nostra storia sono rimasti gli accordi che i governi di allora avevano sottoscritto con i paesi di destinazione nell'intenzione di agevolare gli emigranti nella loro avventura. Protocolli di intesa o accordi bilaterali di tal genere occupano lo spazio dei cataloghi legislativi almeno fino agli inizi degli anni ottanta, quando, dopo un miglioramento delle condizioni della nostra economia, il dato di tendenza migratoria si invertì; i lavoratori non emigrarono più all'estero bensì il numero di quelli giunti nel nostro territorio, provenienti da paesi stranieri, cominciò a farsi rilevante. L'ordinamento italiano però non predispose per tempo, una 'accoglienza' giuridica adeguata al mutato panorama migratorio. Probabilmente la mancanza di forza politica nei nuovi lavoratori, i quali in un primo tempo non erano organizzati in associazioni, provocò nel legislatore un prolungato atteggiamento di indifferenza.

Fino alla legge Martelli del Febbraio del '90, il testo fondamentale che definiva la condizione dello straniero è stato il Testo Unico della Legge di Pubblica Sicurezza, un testo approvato con Regio Decreto del 1931 che, inevitabilmente, aveva nel garantire l'ordine pubblico la sua unica preoccupazione. La mentalità poliziesca del provvedimento, aggravata dalla natura illiberale di molte disposizioni, dava vita a due evidenti problemi. Il primo era la totale inadeguatezza del testo ad amministrare un contesto che già negli anni ottanta aveva un'alta rilevanza sociale. Il secondo era rappresentato dai pesanti obblighi e imposizioni previsti in capo allo straniero che facevano dubitare finanche della legittimità costituzionale di alcune norme (1). In particolare oltre ad una generale ingerenza dell'autorità di pubblica sicurezza nella vita di tutti i giorni, esasperata dall'obbligo di giustificare la propria presenza nel territorio, lo straniero era anche passibile di espulsione, ad opera dell'autorità amministrativa, senza che fosse instaurato un regolare contraddittorio. Ad aggravare la rigidità, ogni violazione del testo, anche di tipo formale, comportava l'espulsione e inoltre i ricorsi sia amministrativi che giurisdizionali contro questa non possedevano alcun effetto sospensivo, ledendo profondamente il diritto di difesa.

I due capi del Testo Unico che si occupavano dello straniero contavano inoltre di sole dieci disposizioni le quali, oltre al tono autoritario su cui erano enunciate, si mostravano inadeguate, nel numero, alla disciplina di una materia tanto ampia quale quella migratoria. Aspetti della vita di uno straniero quali il lavoro, l'assistenza o la scuola per i figli, si trovavano in un vuoto normativo la cui estensione comprometteva i diritti più essenziali.

La mancanza nell'ordinamento di una legge quanto meno più articolata del Testo Unico di Pubblica Sicurezza indusse il potere esecutivo ad emettere alcune circolari con le quali colmare lacune non più sostenibili; fra queste, due apparivano fondamentali. La prima circolare, emessa nel 1963 su iniziativa del Ministro del Lavoro d'intesa con il Ministro dell'Interno e degli Affari Esteri, si occupava delle "norme per l'impiego in Italia dei lavoratori subordinati". La circolare introdusse il documento di autorizzazione al lavoro come requisito necessario per l'ingresso e subordinato, per quanto attiene al suo rilascio, alla "indisponibilità di lavoratori nazionali idonei e disposti ad occupare il posto". La circolare avviò il meccanismo di chiamata diretta, preferendo non prolungare oltre l'apertura incondizionata delle frontiere ma accettare solo chi disponesse di una occupazione certa e vincolando in ogni caso la sua permanenza alla continuazione del rapporto di lavoro. Il meccanismo della chiamata diretta è risultato poi una costante di tutte le politiche di immigrazione fino a oggi attuate. Nonostante le varie modifiche che ne hanno levigato nel tempo gli aspetti più rigidi, tuttora non è possibile trasferirsi in Italia se non si è chiamati direttamente o, dopo l'ultima riforma, se non si ha uno 'sponsor' che garantisca per noi. Nel '64 quindi il nostro ordinamento conobbe il concetto di immigrazione clandestina. In quella data fu compiuta una scelta politica rilevante. Si negò in sostanza l'esistenza di un 'diritto all'immigrazione' e proposto invece una 'facoltà di immigrazione', facoltà variamente subordinata ai vincoli che le leggi nel tempo hanno disposto. La Corte Costituzionale, dieci anni più tardi, fu investita della questione e con sent. 224\74 legittimò l'affermata inesistenza di un diritto acquisito all'ingresso e soggiorno in capo allo straniero. Prima di questa sentenza il peso politico di una scelta così rilevante era stato sopportato da una semplice atto amministrativo.

La seconda circolare in questione fu invece emanata nel 1970 dal Ministero degli Affari Esteri. Questa si occupava di aspetti relativi al soggiorno e al transito degli stranieri, cercando di stemperare, per quanto non potesse abrogarne alcuna, la rigidità delle disposizioni del Testo Unico di Pubblica Sicurezza.

Dalla sovrapposizione di differenti fonti, legislativa per il T.U., amministrativa per le circolari ministeriali, risultava una disciplina frammentaria e disorganica. Ogni normativa che contribuiva a definire la condizione straniera, trattava questa solo in relazione all'ambito della sua competenza, senza comprendere, nella specificità, che dietro allo studente straniero, al lavoratore straniero, al soggetto di diritto straniero vi era principalmente un uomo con le proprie difficoltà e incertezze, aggravate per giunta dalla precarietà della avventura migratoria. Inoltre le circolari emanate non si conciliavano con la riserva di legge contenuta nell'articolo 10 della Costituzione (2). La natura amministrativa di questi provvedimenti infatti, rendeva incerta da un punto di vista costituzionale, la produzione di effetti giuridici verso terzi non appartenenti alla pubblica amministrazione.

Nel 1986 la politica delle circolari pareva messa in disparte dalla pubblicazione della legge nº 943, una legge moderna e liberale che rappresentava, in ogni caso, un atto dovuto del Parlamento a seguito della ratifica della convenzione O.I.L. del 24 Giugno 1975 concernente "le migrazioni in condizioni abusive e la parità di trattamento". La legge benché lasciasse vigente l'autoritario Testo Unico di Pubblica Sicurezza in materia di ingresso e soggiorno, interveniva profondamente nell'ambito lavorativo, disegnando una disciplina più aperta e vicina allo spirito della Costituzione. La legge garantiva al lavoratore straniero la tutela dei diritti fondamentali, la parità di opportunità e di trattamento, il rispetto pieno dei diritti sindacali, delle sicurezza sociale e delle libertà sia individuali che collettive. Per rendere l'azione legislativa più efficace erano previste l'istituzioni di organi consultori (3) alla cui partecipazione erano invitati anche rappresentanti di lavoratori stranieri. In conformità con la convenzione O.I.L., veniva infine interrotta la consequenzialità tra permanenza nel paese e posto di lavoro, la cui perdita "non costituisce motivo per privare il lavoratore extracomunitario ed i suoi familiari legalmente residenti, del permesso di soggiorno" (4). La legge del 1986 non assecondò invece le direttive che la Convenzione O.I.L. tracciava in merito alla "prevenzione e contrasto della clandestinità", le cui dimensioni, va aggiunto, cominciavano anche in Italia ad assumere aspetti preoccupanti. Fu in verità previsto una procedura di regolarizzazione (5) ed una diretta alla repressione del lavoro nero, ma la sostanza del fondamentale art. 2 della Convenzione, volto a contrastare lo sfruttamento della clandestinità, rimase inattuata (6).

La legge nº 924 interveniva profondamente in un ambito, quello lavorativo, dove numerosi sono i legami con il fenomeno migratorio ma si proponeva in ogni caso come intervento 'di settore'. La specificità delle sue disposizioni infatti non colmarono la mancanza di una cornice legislativa chiara, omogenea e soprattutto espressione di una politica univoca.

Nel 1989 si ebbe così una nuova ingerenza del potere esecutivo nella condizione giuridica straniera. Un 'telex urgentissimo' spedito dal Ministro del Lavoro agli uffici di collocamento, liberalizzò l'avviamento al lavoro di migliaia di stranieri presenti per turismo o ricongiungimento familiare, sprovvisti quindi di relativa autorizzazione. Le reazioni nel dibattito politico di allora furono molto accese e il Governo vi rispose con la pubblicazione di un Decreto Legge il quale, oltre a disporre nuove norme in materia, prevedeva, in un articolo, la regolarizzazione di tutti coloro che si trovassero in Italia, anche senza documenti, con una previsione generale di non punibilità. Questa circostanza accese ancora di più i toni del dibattito politico e allo stesso tempo provocò un vero e proprio assedio delle Questure da parte dei clandestini convinti di poter regolarizzare la propria posizione. La sensibilità dell'opinione pubblica fu inevitabilmente coinvolta e le piazze di quell'autunno furono attraversate da cortei anti o pro immigrati che forse poco conoscevano del decreto e delle sue modifiche ma che mostravano con chiarezza come il fenomeno dell'immigrazione non fosse più governabile con telex, circolari o provvedimenti del periodo regio. In un clima di incandescenza politica, nel Febbraio del '90 fu votata la legge di conversione del decreto, non senza modifiche e con una maggioranza trasversale che riunì socialisti, democristiani e comunisti.

Questo provvedimento, passato alle cronache con il nome del relatore Martelli, proponeva per la prima volta una disciplina organica, interessata agli aspetti principali della condizione straniera e capace di interrompere la frammentarietà e la sovrapposizione legislativa che aveva in precedenza ostacolato la tutela dei diritti riconosciuti. La legge abolì espressamente (sebbene ne mantenesse in vita le norme legittimanti il potere della pubblica sicurezza) il Testo Unico, la cui permanenza all'interno dell'ordinamento repubblicano risultava sempre meno opportuna e introdusse alcuni elementi di novità. Fra questi, la procedura per l'ingresso veniva riformata con l'introduzione del permesso di soggiorno. La concessione del visto, indispensabile per il permesso, era subordinata ad una certificazione sanitaria e una assicurativa nonché alla dimostrazione di un reddito o da una possibilità di esso una volta giunti in Italia. Il provvedimento di rifiuto del permesso, o rifiuto del suo rinnovo, erano comunicati in lingua comprensibile; per la revoca e il mancato rinnovo si prevedeva la possibilità di ricorso ai tribunali amministrativi. Lo straniero poteva iscriversi all'anagrafe e ottenere una carta di identità italiana non valida però per l'espatrio.

La legge inoltre convertiva la sanatoria disposta dal decreto con le relative previsioni di non punibilità e introduceva per la prima volta il principio della regolamentazione dei flussi di ingresso. Annualmente un decreto ministeriale avrebbe stabilito la quantità di immigrati a cui veniva concesso il permesso di soggiorno sulla base di parametri quali l'andamento dell'economia nazionale, la capacità di accoglienza delle strutture sociali, nonché la natura degli obblighi internazionali e della concertazione. Con il meccanismo della programmazione in entrata, la legge dimostrava quindi una certa sensibilità verso esigenze quali occupazione, integrazione e lotta alla clandestinità che fino allora erano rimaste ai margini dell'attenzione legislativa.

Durante la sua vigenza, terminata nel 1998, si alternarono numerose revisioni necessarie ad adattare il testo sia alla ratifica della convenzione di Schengen che all'aumentata pressione migratoria. La rapidità con cui in quegli anni il fenomeno aveva mutato le proprie caratteristiche, qualitative oltre che quantitative, aveva reso in poco tempo inadeguata la disciplina disposta. Già nel '95 la proposizione, seguita da un'audace reiterazione, di un decreto (7) che introduceva nuove disposizioni in materia, aveva mostrato l'esigenza di pervenire ad una nuova normazione. Quando il comitato esecutivo Schengen raccomandò all'Italia la disposizione di leggi che assicurassero una gestione più decisa del fenomeno, l'esigenza non poté essere ulteriormente ignorata. Il 19 Febbraio 1998, sotto la presidenza di Romano Prodi fu approvata la legge nº 40 intitolata "Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero". Una legge che, proprio per l'impossibilità di ulteriori differimenti e contrattazioni politiche, non prevedeva il diritto di voto, il quale nel progetto iniziale veniva riconosciuto a determinate condizioni (8) ma che nel testo finale era subordinato ad ulteriori e improbabili statuizioni.

Note

1. La Corte Costituzionale intervenne più volte nel tentativo di attenuare gli aspetti più autoritari delle disposizioni. Quando, tuttavia, fu chiamata a pronunciarsi sul potere di controllo e d'indagine attribuito alle autorità di pubblica sicurezza, potere peraltro confluito in buona parte nella legislazione vigente, la Corte ne confermò la legittimità con la Sent. n. 104\1969.

2. Art. 10, comma 2º; la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

3. L'attuazione di questi organi rimase però sempre sulla carta.

4. Articolo 11, comma 3º, della convenzione O.I.L.

5. La procedura di sanatoria a cui erano tenuti a partecipare sia gli immigrati clandestini che i loro datori di lavoro, nonostante le innumerevoli proroghe della data di scadenza, registrò una minima partecipazione degli immigrati ed una ancor più misera dei datori di lavoro.

6. In particolare il testo della legge non faceva riferimento a nessuna previsione di meccanismi di controllo o di ricerca sul territorio attraverso cui individuare i responsabili degli ingressi illegali, relegando, quindi, nella non-operatività, le disposizioni di contrasto allo sfruttamento previste nel suddetto art. 2 della convenzione.

7. Si tratta del Decreto legge n. 489\95, il quale fu reiterato senza fortuna ben cinque volte fino ad indurre la Corte Costituzionale, nel Novembre del '96, a considerare illegittima un'eventuale nuova reiterazione dei decreti legge decaduti.

8. L'Art. 38 del progetto presentato alla camera proponeva l'elettorato passivo e attivo, nelle consultazioni locali, per lo straniero titolare della carta di soggiorno.