ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
La situazione internazionale

Eleonora Neglia, 2001

Sezione prima: la religione

1.1. USA: in discussione la rafforzata tutela della libertà religiosa del detenuto (1)

La libertà religiosa del detenuto è forse l'unico settore immune dagli inasprimenti ricollegabili alla restrittiva politica criminale maturata negli USA nel corso del precedente decennio. Tale libertà è risultata anzi rafforzata in seguito alla promulgazione, avvenuta il 16 novembre 1993, del Religious Freedom Restoration Act. Questo provvedimento avrebbe dovuto "ristabilire la tutela tradizionale, garantita ai detenuti, di osservare la loro religione" e, per capire il riferimento all'esigenza del "recuperare", bisogna rifarsi ad un'importante decisione, (2) in cui la Corte Suprema ha subordinato la libertà di professare la propria fede religiosa all'assenza di motivi ricollegabili ad un non meglio precisato "legitimate penalogical interest". Applicando tale standard, la Corte ha sentenziato che non era ravvisabile alcuna violazione dell'emendamento in questione nel rifiuto opposto dalla direzione di un carcere del New Jersey ad un gruppo di detenuti di fede islamica, ammessi al lavoro all'esterno, di usufruire ogni venerdì di un anticipato rientro in istituto per partecipare alla cerimonia religiosa dello Jumu'ah. In seguito a tale decisione si è venuta a determinare una situazione di assai minore tutela rispetto al regime garantito dalla precedente giurisprudenza, prevalentemente orientata ad esigere, per le limitazioni della libertà religiosa, la ricorrenza di un "danno evidente ed attuale". (3) Invece, con la sentenza del 1987, la Corte Suprema si è attestata su un livello molto più basso, motivando il rifiuto a tutelare la richiesta dei detenuti con ragioni di sicurezza ed ordine e con ragioni educative: dicendo che per questi detenuti restavano salve altre opportunità di professare la loro fede religiosa; che una decisione di senso contrario sarebbe risultata contrastante con la convinzione dello staff carcerario, secondo cui ammettere tale eccezione avrebbe avuto ripercussioni negative sulla gestione generale dell'istituto; e aggiungendo che era da escludere l'incombenza sulla direzione carceraria di dimostrare l'impraticabilità di soluzioni alternative.

Con l'approvazione del Religious Freedom Restoration Act le affermazioni della Corte Suprema sono state quasi totalmente sconfessate: in particolare nella sezione 3 della legge è previsto che, per porre in essere una sostanziale limitazione del diritto di un individuo di praticare la sua religione, occorre dimostrare due elementi: la sussistenza di un irrinunciabile interesse contrario del Governo e l'inesistenza di soluzioni equivalenti sul piano dei risultati e meno lesive. (4)

Da ciò si ricava che l'onere della prova, (diversamente dal passato), grava sull'istituzione carceraria e che, per quanto riguarda il primo elemento, se è indubbio che eventuali problemi per l'ordine e la sicurezza siano motivi giusti di negazione, è altrettanto vero che dovrebbero risultare impedite quelle preclusioni aventi come unica giustificazione ragioni di carattere finanziario (es. richiesta di garantire una particolare dieta per motivi religiosi) o puramente organizzativo (es. il rifiuto di soddisfare le esigenze dei detenuti di fede islamica nel periodo del Ramadan).

Degna di nota è, inoltre, la mancata attribuzione da parte del legislatore di un qualsiasi rilievo alla circostanza che, nonostante la limitazione, il detenuto sia in grado di osservare alcuni precetti della sua religione: (5) in tal modo si è evitato di legittimare un criterio molto pericoloso poiché, com'è stato rilevato, (6) si potrebbe finire per escludere in ogni caso la violazione della libertà religiosa del detenuto, purché allo stesso sia consentito pregare nella propria cella. Naturalmente molto dipenderà dalle interpretazioni che prevarranno; per il momento non ci sono orientamenti consolidati, il che non esime dal registrare alcune pronunce tendenti a ridimensionare la portata innovativa della legge. Per esempio, riguardo alla definizione del concetto di "sostanziale limitazione" della libertà religiosa, in una pronuncia (7) la Corte d'Appello del nono distretto ha ritenuto che tale limitazione si verifichi solo se siamo in presenza di un divieto inerente ad un precetto classificato come obbligatorio dal credo religioso professato dal detenuto (in quest'ultima pronuncia non è stata considerata "sostanziale limitazione" l'impossibilità, per un detenuto, di osservare i vari precetti religiosi prescritti durante il periodo liturgico di Pentecoste).

Altrettante riserve possono essere espresse, a maggior ragione, a proposito di un'altra pronuncia (8) che, accettando del tutto acriticamente il punto di vista dell'amministrazione penitenziaria, ha reso lettera morta la clausola del "minor sacrificio possibile": si trattava del caso di un detenuto indoamericano che contestava, in quanto contrario ad un preciso precetto della sua religione, il taglio obbligatorio dei capelli. Se si può concordare sulla ricorrenza di un "interesse contrario" alla sicurezza dell'istituto (un'eccessiva lunghezza dei capelli avrebbe potuto favorire l'occultamento di oggetti e di sostanze vietate), riesce difficile condividere la tesi giudiziale relativa all'inesistenza di soluzioni meno onerose per il detenuto. (9) Le perplessità a cui l'autore fa riferimento emergono chiaramente se si mettono a confronto le precedenti decisioni con una più recente pronuncia (10) che, pur limitando la portata innovativa del Religious Freedom Restoration Act, sembra contrastare anche con le interpretazioni date con le sentenze precedentemente riportate a proposito dei concetti di "limitazione sostanziale"e di "minor sacrificio possibile". In questo caso la Corte si è pronunciata sulla legittimità o meno del divieto, sancito nei confronti di un gruppo di detenuti, di portare al collo una catenina con una piccola croce e ha stabilito l'illegittimità della decisione dell'Amministrazione penitenziaria, secondo la quale esistevano pericoli quali il rischio connesso alla circolazione di oggetti di valore in carcere e la possibile utilizzazione del simbolo come segno di appartenenza ad una gang criminale. (11) Essendo in discussione un precetto religioso non obbligatorio, se la Corte avesse seguito il criterio accolto nella decisione Bryant v. Gomez, la limitazione imposta al detenuto non avrebbe potuto essere considerata "sostanziale". La Corte è pervenuta, invece, all'opposta soluzione, privilegiando un'impostazione di carattere soggettivo: per il ricorrente, il poter indossare la catenina con la croce, dalla quale non si era mai separato finché non vi era stato costretto, risultava di fondamentale importanza, vista la sua personale e sincera convinzione religiosa. Per questo è stata ritenuta irrilevante l'obiezione secondo cui il detenuto poteva in ogni caso usufruire dei crocifissi appesi alle pareti della cappella del carcere. Una volta accertato che la proibizione integrava una "sostanziale limitazione" della libertà religiosa del ricorrente però, la Corte si è limitata ad individuare dei semplici correttivi in grado di scongiurare la soluzione più radicale: ha proposto la possibilità di stabilire un valore massimo non travalicabile riguardo alla circolazione di oggetti preziosi; ha osservato che sarebbe stata sufficiente una norma regolamentare che imponesse di tenere la catenina coperta dai vestiti riguardo al possibile uso ambiguo dell'oggetto. Ma è da notare che si è trattato di semplici suggerimenti: la Corte, infatti, ha esplicitamente riconosciuto che, una volta fatto salvo il diritto di libertà religiosa del detenuto, la scelta degli interventi più adeguati alla singola realtà carceraria rientra nell'esclusiva competenza dell'amministrazione penitenziaria.

Dunque, solo se correttamente interpretato e superando gli orientamenti giurisprudenziali che non tengono ancora conto della sua portata innovativa, il Religious Freedom Restoration Act risulta uno strumento incisivo per assicurare la tutela della libertà religiosa all'interno del carcere. Anzi, secondo alcune voci critiche, (12) il legislatore avrebbe peccato per eccesso, ponendo le premesse per un'eccessiva litigiosità e per l'emanazione di pronunce suscettibili di minare il regolare svolgimento della vita carceraria. Da qui la proposta di un intervento correttivo secondo il quale, ferma l'intangibilità del Religious Freedom Restoration Act per la generalità dei cittadini, riguardo ai detenuti si dovrebbe ripiegare su uno standard che esoneri il carcere dal fornire la prova del "minor sacrificio possibile". Dovrebbe, invece, essere ritenuta sufficiente la dimostrazione dell'esistenza di un collegamento più che ragionevole tra la limitazione imposta e l'esigenza del carcere da salvaguardare, ma così verrebbe amputata la clausola più significativa della legge del 1993, l'unica veramente in grado di assicurare un'efficace tutela della libertà religiosa del detenuto.

1.2. L'International Prison Chaplains' Association

Restando ancora sul piano internazionale, è da ricordare la Conferenza europea dell'IPCA (International Prison Chaplains' Association) che ha visto riuniti i cappellani carcerari luterani, riformati, battisti, anglicani, ortodossi e cattolici di Germania, Olanda, Francia, Italia, Grecia, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Norvegia, Russia, Lettonia, Populonia, Bulgaria, Repubblica Ceca. (13) Scopo di quest'incontro, tenutosi nel 1998 e poi ripetuto negli anni successivi, è stato fare il punto sulla situazione della cappellanìa carceraria in Europa e discutere sui modi in cui l'IPCA-Europe possa assistere il ministero dei cappellani, in particolare nei Paesi più svantaggiati.

Durante queste giornate sono state ripercorse alcune tappe del lavoro dell'IPCA, come la Conferenza dei Paesi nordici del 1988, quella dei Paesi dell'Europa orientale del 1998 (dove sono finalmente uscite dall'anonimato le cappellanìe evangelica e ortodossa, dopo che la stampa nazionale polacca si è accorta di una cappellanìa carceraria non cattolica) e quella dei Paesi dell'Europa meridionale, tenutasi a Siena nel 1999. Dalle relazioni dei vari rappresentanti sono emersi i dissensi su alcune questioni di una certa importanza. In particolare è apparso chiaro che la componente ortodossa (soprattutto orientale) teme l'attività dei cappellani di altre confessioni nelle prigioni dei propri Paesi. Il rappresentante russo, un alto prelato ortodosso, ha riconosciuto ai cappellani evangelici e cattolici il diritto di visitare gli appartenenti alle proprie confessioni - sempre previo consenso della chiesa ortodossa - ma rifiutava l'idea di visitare gli ortodossi, anche se questi ne avessero fatto richiesta. La generalità dei rappresentanti, pur comprendendo le preoccupazioni ortodosse (dovute in parte allo spirito proselitistico aggressivo di alcune chiese e sette) ha insistito sul fatto che ad un detenuto, già sottoposto ad una moltitudine di limitazioni, non si deve togliere anche il diritto alla libertà religiosa, diritto che include pure la possibilità di ricevere, su propria richiesta, la visita di altri ministri di culto.

In generale è risultato chiaro che le prigioni sono un po' lo specchio dei Paesi che le ospitano, per cui in quelli dove la situazione economica è più disastrosa, lo sono anche le condizioni dei detenuti. Interessante è la situazione di Paesi come la Lettonia, dove i cappellani delle tre maggiori confessioni (luterana, cattolica ed ortodossa) esercitano una buona collaborazione anche con i cappellani delle denominazioni minoritarie (battisti, pentecostali, ebrei) e con questi ultimi si attivano anche per fornire istruzione scolastica oltre che religiosa ai detenuti. In alcune delle prigioni di questo Paese le chiese hanno ristrutturato, a spese proprie, delle sezioni carcerarie fatiscenti per trasformarle in "christian dormitories", cioè aree riservate ai detenuti che intendessero iniziare programmi di vita comunitaria fondati sullo studio e sulla pratica della fede cristiana, con tanto di corsi di formazione quotidiani.

Sezione seconda: l'istruzione

Iniziative a Parigi per garantire ai detenuti il diritto di continuare gli studi

Per i detenuti è difficilissimo esercitare il diritto allo studio anche all'estero, dove spesso si ritrovano a dover studiare per conto proprio. Convinti che anche i reclusi debbano fruire di corsi degni di tale nome, con docenti qualificati, come qualsiasi altro studente, l'Università di Parigi VII e il suo dipartimento di educazione permanente hanno creato una sezione d'insegnamento "per studenti con impedimenti". Tale esperienza, praticamente unica in Francia, consente ai detenuti di ottenere diplomi universitari di vario grado, nonché un diploma d'inglese (Cambridge First Certificate). I corsi ed i cicli di conferenze vengono tenuti nelle carceri di Fresnes, della Santé, di Melun e di Poissy e il numero di studenti che passano gli esami è praticamente lo stesso riscontrato tra la popolazione studentesca ordinaria. Tale centro, nell'autunno 2001, avvierà corsi di laurea in informatica.

Note

1. Cfr. F. Della Casa, Usa: in discussione la rafforzata tutela della libertà religiosa del detenuto in Diritto penale e processo, anno II, settembre 1996, n. 9, pagg. 1165-1167.

2. V. il caso O'Lone v. Estate of Shabazz, 482 US 342 (1987).

3. Cfr. Krantz, The Law of Corrections and Prisoners' Rights', St. Paul, 1988, pag. 161.

4. La section 3 del Religious Freedom Restoration Act accoglie, in larga parte, l'impostazione risultante dalla "dissenting opinion" del giudice Brennan in O'Lone v. Estate of Schabazz. Nel motivare il suo dissenso, infatti, il giudice aveva sottolineato che la direzione del carcere avrebbe dovuto dimostrare non solo la finalizzazione delle restrizioni imposte rispetto ad un "importante interesse governativo", ma anche che le suddette restrizioni non erano più ampie di quanto fosse necessario per il raggiungimento di quel determinato obiettivo.

5. In O'Lone V. Estate of Shabazz, la Corte Suprema aveva sottolineato che, a parte l'impossibilità di partecipare alla funzione religiosa settimanale, i ricorrenti erano in grado di pregare insieme, di usufruire di un regime alimentare differenziato e di rispettare i precetti del Ramadan.

6. Cfr. Boston, Exercising Religious Freedom in Prison, in The National Prison Project Journal, 1996-97, n.1, pag. 15.

7. V. il caso Briant v. Gomez, 45 F. 3d 948 (CA 9 1995).

8. V. il caso Hamilton v. U.S. (CA 8 1996), in CrL, 31 gennaio 1996, 1384.

9. Ibidem. La Corte d'Appello, riformando quanto deciso in primo grado dalla District Court, ha ritenuto legittimo il divieto, contestato dal ricorrente, di celebrare un rito indiano (il "sweat lodge") in cui gli adepti, riuniti in preghiera all'interno di una struttura fuori dal controllo visivo, versano acqua su pietre preventivamente riscaldate al fine di ottenere vapori che favoriscano la sudorazione. La decisione è stata motivata in base al rifiuto del ricorrente di aderire alla proposta di un correttivo idoneo a consentire il controllo visivo.

10. V. il caso Sasnet v. Sullivan (DC W WIS 1995), in CrL, 10 gennaio 1996, pag. 1311.

11. Per una fattispecie sostanzialmente identica al caso in esame, v. Campos v. Coughlin, S.D.N.Y. 1994, in cui è stato accolto il ricorso di alcuni detenuti, aderenti ad una confessione religiosa radicata in Cuba e Portorico, contro il divieto d'indossare collanine multicolori, dirette a proteggerli dagli influssi esterni negativi.

12. Cfr. Call-Samarkos, RFRA, Wich Test Is Best? In Corrections Today, 1995, pag. 136.

13. Cfr. S. Manna, Relazione sull'incontro dell'IPCA-EUROPE tenutosi a Praga nel novembre 1998.