ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
La disciplina normativa

Eleonora Neglia, 2001

Sezione prima: la religione

Nella cultura carceraria la religione ha da sempre rappresentato un fattore di educazione, ma con un significato non certo positivo, quanto piuttosto con una valenza coercitiva (infatti, parlare di educazione può sembrare strano, dato che il concetto di rieducazione comparirà solo dopo l'800). (1)

In tale contesto il ruolo del cappellano resta chiuso in un'ambiguità data dal ricoprire funzioni a volte antitetiche o comunque sia paradossali. Infatti costui è educatore di religione ma al tempo stesso è un educatore tout court, ha una funzione religiosa ma ne ha anche una disciplinare (il sacerdote può visitare il detenuto per dargli assistenza religiosa e conforto, ma allo stesso tempo appartiene al consiglio che può decidere sul comportamento del soggetto in questione, ad es. per l'accesso alla biblioteca). Inoltre tra i detenuti rappresenta l'istituzione carceraria che rende prigionieri i loro corpi ma è anche la persona che dà sollievo alle loro anime.

Addirittura nell'800 il cappellano era pure il maestro perché circolava l'idea che il carcerato andasse salvato o comunque sostenuto. Ciò che contava era l'intervento in suo favore, anche se poi l'intenzione non era certo solidaristica quanto paternalistica. Per lo meno in Italia questa situazione è venuta sempre più divaricandosi tant'è che oggi il cappellano è presente all'interno del carcere ma sempre più solo come assistente spirituale. (2) La figura del cappellano dovrebbe, cioè, attuare concretamente il principio esplicato dall'art. 3 Cost., secondo cui lo Stato ha il dovere di "rimuovere quegli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" e siccome il carcere è per eccellenza un luogo di restrizione della libertà materiale, è dovere dello Stato assicurare al detenuto il diritto alla libertà religiosa.

Fino alla riforma del 1975 la tradizione normativa italiana in materia rifletteva molto nettamente una concezione strumentale della religione, che finiva per essere un "servizio essenziale allo stesso compito rieducativo, e s'innestava nell'istituzione penitenziaria". (3) Si può dire, dunque, che per tutto l'800 e oltre la religione non cessava di essere maestra di moralità e di disciplina e doveva servire per far osservare le regole. Tutto ciò riflette una continuità tra il regime fascista e l'assetto seguente, continuità che si manifesta nell'idea del carcere come luogo impermeabile e isolato dalla società libera.

Gradualmente l'organizzazione e l'assetto delle funzioni religiose e d'istruzione all'interno del carcere hanno subìto una netta separazione: all'inizio il cappellano ricopriva il duplice ruolo di sacerdote e di insegnante; in una fase transitoria è andato perdendo quest'immagine omnicomprensiva e ha mantenuto solo quella di assistente religioso; con la riforma del '75 il cappellano è diventato mero assistente religioso affiancato da nuove figure competenti in materia di istruzione e così oggi l'iter di scissione tra le due carriere ha raggiunto l'apice.

1.1. Regolamento esecutivo del 1931

La prima tappa fondamentale, quella del reg.esec. del 1931, non ha fatto che seguire le orme del precedente periodo: spettava al cappellano, per esempio, annotare le condizioni di salute del detenuto, giudicare della sua idoneità al lavoro, valutarne le qualità morali. Tra i suoi poteri c'erano quelli dati dalla partecipazione al Consiglio di disciplina e quello secondo cui poteva proporre l'isolamento per i condannati inadatti alla vita in comune. Poteva controllare la corrispondenza ed era custode della biblioteca; insomma era un "tuttofare" poco sacerdote dato che anche l'aspetto religioso assumeva aspetti disciplinari. Come autentica particolarità si può segnalare la norma regolamentare secondo cui, chi avesse voluto cambiare religione, avrebbe dovuto farne richiesta scritta in attesa della determinazione della competente autorità amministrativa.

Ai singoli "non è consentito astenersi dalla partecipazione alle funzioni religiose, perché queste sono la manifestazione di quella disciplina morale che è la base di ogni forte ordinamento". Non a caso l'istituzione Chiesa è stata responsabilizzata nel carcere in termini organici, creando uno stabile collegamento tra la realtà burocratica penitenziaria e i ministri di culto cattolico.

La scelta del legislatore del 1931 è stata quella di inserire uno spazio religioso nell'organizzazione istituzionale; in cambio la Chiesa ha ottenuto una serie di privilegi per la religione di Stato, quali la partecipazione obbligatoria alle funzioni e la creazione di ostacoli per chi intendesse cambiare religione (a causa, sia della necessità di atti formali, sia del divieto di nuova scelta religiosa prima dei 21 anni).

In un ambito in cui la religione diventava obbligatoria e l'insegnamento diventava persuasione, era chiaro che l'aspetto più profondamente interiore, quello della coscienza dei propri sentimenti religiosi, ne restasse fuori: (4) l'obbligo di pronunciare solo mentalmente le preghiere durante la funzione religiosa, salva la speciale autorizzazione concessa dal direttore come premio per un certo comportamento adottato, (5) esprimeva una brutale incomprensione del vero momento della liturgia; (6) la pena sanzionata a pane ed acqua per coloro che non volevano rispettare l'obbligo di "partecipare alle funzioni del culto cattolico" (7) non smentiva l'ideologia di fondo e l'intento unico di addomesticare come animali i carcerati e di piegarli al volere e al pensiero dello Stato. Le pressioni sulla coscienza di un altro detenuto a fini religiosi e "ogni contegno irriverente nell'assistere alle funzioni di culto" erano anch'esse da punire con cella a pane ed acqua. (8) Per quanto riguarda il detenuto trasferito in una casa di punizione, il cappellano doveva visitarlo frequentemente "per studiarne l'indole e le tendenze e per incoraggiarlo o ammonirlo, e soprattutto per accertare le cause che lo hanno spinto al contegno ribelle". (9) Così il cappellano, che oltre a svolgere mansioni d'insegnante doveva controllare la corrispondenza dei detenuti, (10) era conseguentemente odiato per la sua opera di censura delle lettere. Tale situazione ha subìto un importante cambiamento d'impostazione già precedentemente alla riforma del 1975, nel periodo successivo all'entrata in vigore della Costituzione, con la legge 1963/323. (11) Con questa normativa si è proceduto ad unificare parzialmente su scala nazionale il servizio dei cappellani carcerari, mediante l'istituzione, presso il Ministero di Grazia e Giustizia, dell'Ispettorato dei cappellani, al cui titolare spetta il compito di intervenire nelle varie fasi dell'attività dei subalterni.

1.2. Legge 1975, n. 354

Il cammino verso la riforma del 1975 è stato lento e tortuoso, ma è stato necessario per proporre una visione del tutto opposta a quella portata avanti dal reg. Rocco, cioè quella dell'individualizzazione: "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose". (12)

La novità della riforma è che, per quanto concerne gli elementi del trattamento non vige più il principio di tassatività; infatti, il trattamento è attuato "avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro e della religione", (come già in precedenza), ma questa volta l'elenco continua con "attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti col mondo esterno e i rapporti familiari". (13) Le modalità del trattamento sono disciplinate nel regolamento interno, alla cui stesura provvede una commissione di cui fa parte anche il cappellano. (14) Questa inclusione della religione fra gli elementi del trattamento, fra l'altro, tradisce un residuo di mentalità confessionale unito alla concezione secondo cui la pietà è mezzo per combattere e vincere gli impulsi criminali. (15) Anche ammettendo però, che difficilmente una persona di sincera fede religiosa possa commettere delitti, ciò che invece non convince è il persistere di un certo tasso d'imposizione e di difficoltà visibile ancor più nell'inquadramento del cappellano nello staff penitenziario. Tutto ciò riduce la religione a mezzo quasi d'imbroglio perché il rapporto cappellano-detenuti viene ad essere di tipo unicamente utilitaristico: il carcerato sfrutta il sacerdote per ottenere utilità spicciole, non essendo molto faticoso fingersi disponibili al culto; da parte sua invece, il cappellano propone la sottomissione come valore cristiano. Comunque nell'affiancare la religione agli altri elementi del trattamento, neppure la riforma si atteggia in modo corretto, perché, se lavoro e istruzione possono anche essere imposti come strumenti di crescita umana, ciò non può valere per quanto riguarda la fede, strettamente legata alla dimensione soggettiva della coscienza. (16) Nonostante gli sforzi compiuti dalla nuova legislazione, quindi, i risultati raggiunti non possono ritenersi ancora idonei, dato che la religione continua ad essere intesa, non tanto in chiave attiva e promozionale, quanto in termini di pedagogia passiva opportunamente trasmessa dall'istituzione. (17)

Sono riconosciuti ai detenuti il diritto di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto, (18) nonché il diritto di partecipare ai riti della propria confessione e di tenere ed esporre nelle camere immagini e simboli religiosi. (19) Il cappellano, spogliato di funzioni e qualifiche non compatibili con quella ecclesiastica, è addetto alle "pratiche di culto, istruzione e osservanza religiosa della confessione cattolica". (20) Ciò che conta è che il fatto religioso non sia più concepito nella logica dello strumento per mantenere l'ordine, e correlativamente la figura del cappellano sia stata modellata secondo uno schema più consono all'espletamento del suo ministero pastorale, depurandola delle trascorse contaminazioni burocratiche: in questo contesto è significativo, ad esempio, che il cappellano non sia più ricompreso fra i membri del Consiglio di disciplina. (21)

La riforma, poi, determina un nuovo equilibrio fra i culti: infatti in ogni istituto sono previste una o più cappelle per le celebrazioni cattoliche e devono essere messi a disposizione, ove occorrono, dei locali idonei per riti di culti non cattolici. (22) Mentre però il cappellano cattolico è presente in ogni struttura penitenziaria con carattere di stabilità, le richieste dei detenuti non cattolici sono soddisfatte facendo ricorso a ministri indicati in elenchi da compilarsi mediante intesa con le singole confessioni. (23)

Si configura in tal modo una differenza di trattamento tra il cappellano cattolico e i ministri di altre confessioni religiose che sembra destinata ad essere caratteristica permanente del nostro ordinamento. (24) Il cappellano è incaricato dall'amministrazione carceraria ma nominato d'intesa con l'autorità ecclesiastica competente; fruisce del trattamento economico assicurativo e previdenziale connesso al predetto incarico a tempo indeterminato ed è soggetto a sanzioni disciplinari in qualche modo analoghe a quelle previste nell'ambito del rapporto pubblico d'impiego.

Per parte loro i ministri di culto di altre confessioni religiose accedono agli istituti penitenziari sulla base delle richieste dei detenuti e sono remunerati in base alle concrete prestazioni e secondo modalità stabilite da provvedimento ministeriale. Da tale punto di vista si può dubitare che la relazione che lega il cappellano all'amministrazione sia qualificabile come rapporto di pubblico impiego. (25) Infatti, la presenza costante nella struttura pubblica e la conseguente continuità dell'opera prestata hanno convinto il legislatore ad assoggettare il cappellano a determinati doveri ed eventuali sanzioni, tipici dell'impiego civile e ad estendergli il connesso trattamento economico; altre ragioni, invece, hanno fatto propendere per una diversa interpretazione secondo la quale le finalità e la natura dell'opera del soggetto in questione sfuggono a qualificazioni civilistiche e gli stessi doveri e sanzioni cui è assoggettato vanno intesi in senso strumentale, cioè connessi alla permanenza dell'interessato nella struttura carceraria. (26) Altrettanto, la subordinazione della nomina del cappellano al nulla osta dell'autorità ecclesiastica e la possibilità di revoca dello stesso atto con conseguente rimozione del sacerdote, fanno venir meno il requisito della stabilità come inerente ad un rapporto di ruolo dei pubblici dipendenti. Tutto ciò, sommato alla natura tipicamente confessionale e religiosa dell'opera prestata dal cappellano (che lo distingue da qualsiasi altro dipendente pubblico), fa propendere per una qualificazione del tutto peculiare di questa figura.

È stato affermato (27) che nella riforma la religione trascende l'ambito della mera confessionalità per fare riferimento alla sfera spirituale intesa come orientamento dell'uomo verso la trascendenza. Se nell'abrogato regolamento era possibile rinvenire il termine "cappellano" in una lunga serie di articoli a riprova della molteplicità dei compiti che tratteggiavano la sua figura, ben diversa è la situazione con la riforma e il suo regolamento d'esecuzione: quella miriade di attribuzioni è ridotta all'enunciazione di due soli articoli dell'attuale normativa. (28)

Cardine della materia è l'art. 26 Ord. penit. che sancisce la libertà di professare la propria fede religiosa, unitamente all'art. 1, c. 2º Ord. penit., da cui discende il divieto di discriminazioni. Il riconoscimento di tale libertà è accompagnato dalla soppressione di quei pericolosi condizionamenti del regime fascista: il "tenore di vita del detenuto nelle funzioni religiose" non è più elemento di valutazione della condotta per attribuire la qualifica di "buono", (29) poiché sono del tutto deconfessionalizzati i parametri da considerare al proposito, per ottenere le ricompense, per il giudizio che presiede alle riduzioni di pena e per l'ottenimento della liberazione anticipata. (30)

L'attenzione del legislatore alla sfera della spiritualità è sottolineata anche dalla constatazione che la sanzione disciplinare dell'esclusione dalle attività ricreative e sportive non si estende alle attività culturali e religiose. (31) E ciò acquista maggior risalto considerando che il regolamento abrogato non prevedeva un'analoga salvaguardia per i detenuti assoggettati alla punizione della cella (32) e anzi espressamente disciplinava l'impossibilità dell'assistenza alle funzioni religiose per i detenuti in isolamento continuo. (33)

Inoltre la riforma ha concesso a detenuti e internati di tenere presso di sé oggetti di particolare valore "morale o affettivo" (34) e in tale termine vengono inclusi anche gli oggetti con significato religioso spirituale; infatti l'art. 55, c. 2º reg. esec. tutela questo diritto in modo più specifico con una sola attenuazione secondo cui è vietato il possesso di oggetti di "consistente valore economico". (35) Tale facoltà, in un contesto di religiosità intessuto di elementi corporei e spesso superstiziosi, appare l'inevitabile riconoscimento di una valenza religiosa diversa dalla professione della fede, dall'istruzione religiosa e dalla pratica culturale, ma pur essa iscritta nella sfera dell'interiorità.

Nonostante gli sforzi effettuati dal legislatore del 1975 e da quelli immediatamente successivi, emergono dei punti di rottura tra la normativa varata e i dettami costituzionali. (36) Qualche rilievo andrebbe fatto sul versante dell'esercizio in forma "associata" dei diritti connessi alla libertà religiosa, ed in proposito è senza dubbio sintomatico, a fronte dell'esplicita indicazione contenuta nell'art. 19 Cost., il silenzio serbato dalla normativa penitenziaria riguardo a qualunque manifestazione religiosa che supponga, sia sotto il profilo della professione, sia sotto quello della propaganda, un momento di aggregazione di uomini e delle loro coscienze. (37) Rileva l'opinione (38) secondo cui all'omesso riconoscimento ai detenuti del diritto di propaganda religiosa corrisponde analoga e più generale omissione circa il riconoscimento di un loro diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero, almeno per quanto concerne l'aspetto della sua diffusione, (39) a parte il veicolo indiretto costituito da libri e giornali, nonché delle attività culturali che possono essere organizzate per "la realizzazione della personalità dei detenuti". (40) Tutto questo può essere compreso alla luce delle preoccupazioni di tutela dell'ordine e della sicurezza interna che hanno condizionato il legislatore, ma è chiaro che per tale via si è finito per togliere qualunque incidenza, nell'ambito dell'istituzione carceraria, a quella serie di diritti e libertà di sicuro rilievo costituzionale che spettano, sia pure con il correttivo di opportune limitazioni, anche ai detenuti. (41) Conseguenza inevitabile è che tale scelta non può non riflettersi, in termini di riduzione degli spazi di realizzazione della personalità individuale nel contesto comunitario, sulle stesse modalità di trattamento rieducativo e questo, chiaramente, va contro il principio costituzionale secondo cui lo Stato deve promuovere lo sviluppo e la crescita della persona abbattendo (e non certo creando) gli ostacoli. (42)

Considerando che la proclamazione del diritto di professare liberamente la propria fede religiosa sarebbe rimasta solo teorica se non fosse stata accompagnata da una serie di misure capaci di renderla concretamente operante all'interno del carcere, è stato evidenziato (43) a tal proposito che la legge del 1975 e il suo regolamento esecutivo si sono fatti carico anche delle modalità concrete di attuazione del diritto in questione, distinguendo tra religione cattolica e altre religioni. Essendo però più elevato il numero di reclusi filocattolici, il legislatore si è preoccupato di assicurare in ogni istituto, in via generale, la celebrazione del rito del culto cattolico e a predisporre un'organizzazione stabile di ministri di culto, cappellani, dediti al servizio religioso. Per i detenuti di religione diversa, invece, è stata prevista solo la facoltà di ricevere, su loro richiesta, l'assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti. Un tale trattamento, però, rischierebbe di fatto di impedire la realizzazione del principio costituzionale di uguaglianza, (44) sul piano dell'ampiezza del diritto a fruire dell'assistenza religiosa. Ecco perché bisogna dare la giusta interpretazione a queste disposizioni: (45) innanzitutto, se ci limitassimo ad un'interpretazione restrittiva del testo legislativo, dovremmo anche ipotizzare che l'autorizzazione ad accedere all'istituto possa mancare e in tal caso il servizio religioso verrebbe sottratto solo al detenuto non cattolico (perché al cattolico sarebbe assicurata quanto meno la presenza del cappellano); inoltre, a parità di onere di conseguire l'autorizzazione, il detenuto cattolico potrebbe essere avvicinato da qualunque ministro del suo culto, mentre il detenuto non cattolico potrebbe aspirare solo ai ministri di culto indicati nell'elenco formato dal Ministero dell'Interno sulla base delle intese con le rappresentanze delle varie confessioni. (46) Perciò è necessaria una lettura più aperta di tali disposizioni, (47) nel senso di interpretare l'art. 55 reg. esec. come previsione di un non possibile rifiuto da parte della direzione dell'istituto, di fornire il servizio richiesto dal detenuto avvalendosi dei ministri del culto indicati nell'elenco. Per questi ultimi, pertanto, non sorgono problemi di autorizzazione ad accedere all'istituto (o non dovrebbero sorgere), allo stesso modo del cappellano: perché se quest'ultimo fa parte dello staff penitenziario fin dall'inizio, i ministri degli altri culti ne entrano a far parte con la presentazione dell'istanza del detenuto o dell'internato. Quest'ultima affermazione sembrerebbe smentita dall'art. 103 reg. esec., il quale prevede che "i ministri del culto cattolico, diversi dai cappellani, e quelli indicati dall'ultimo comma dell'art. 55 sono autorizzati dal direttore, su richiesta dei singoli detenuti o internati, ad accedere all'istituto, per attività del loro ministero, previo accertamento della loro qualità". In realtà la contraddizione è solo apparente perché la lettura corretta dell'articolo in questione prevede che il direttore dovrà accertare soltanto la qualità del ministro del culto acattolico e l'inserimento del suo nome nell'elenco; al di là di questo, però, l'autorizzazione non può essere discrezionalmente negata. E se, al contrario, l'appartenente al culto acattolico richiede l'assistenza nominativa di un ministro di culto non incluso nell'elenco, egli ricade nella stessa situazione del detenuto cattolico che non voglia valersi del cappellano e cioè fruirà della presenza del sacerdote se e in quanto ottenga l'autorizzazione prevista dall'art. 67 Ord. penit.

Con l'assetto dato dalla legge Gozzini nel 1986 è stato fatto un ulteriore passo in avanti prevedendo che "nel 4º c. dell'art. 26 della legge del 26 luglio 1975 n. 354, la parola "facoltà" è stata sostituita con la seguente: "diritto"". (48) Ciò perché, nonostante il maggior rispetto per i detenuti non cattolici a paragone con la precedente regolamentazione, c'era ancora insoddisfazione negli esponenti di alcune confessioni religiose: continuare a parlare di "facoltà" di ricevere l'assistenza religiosa del ministro del proprio culto su richiesta lasciava al direttore un troppo ampio potere discrezionale.

1.3. DPR 30 giugno 2000, n. 23

Il recente intervento legislativo ha cercato di uniformare il più possibile il nostro Ordinamento penitenziario alle Regole penitenziarie Europee da un punto di vista del rispetto dei valori della persona: le disposizioni, nuove o solo modificate, puntano ad un maggior rispetto della sensibilità psichica, affettiva ed umana del detenuto. Si pone ancora il problema di garantire il diritto a professare pienamente la propria fede religiosa e c'è anche un aspetto diverso, che è quello di considerare il valore costruttivo che il credo, le pratiche e i legami religiosi possono avere per i percorsi riabilitativi delle persone e che per questo non vanno sottovalutati. (49) Così, per esempio, l'art. 11 reg. esec. è stato aggiornato, tenendo conto dell'ormai elevato numero di detenuti stranieri o anche italiani che professano un credo diverso da quello cattolico: siccome la scelta religiosa può anche comportare la volontà di seguire certe restrizioni o certi divieti alimentari, con l'aggiunta del comma 4º si è previsto che "nella formulazione delle tabelle vittuarie si deve anche tener conto, in quanto possibile, delle prescrizioni proprie delle diverse fedi religiose". La disposizione relativa alle manifestazioni della libertà religiosa è stata cambiata su vari punti significativi. Viene individuato un criterio di valutazione della compatibilità del culto religioso di singoli detenuti o internati con la situazione detentiva. Anziché il generico riferimento al pregiudizio dell'ordine e della disciplina, si indica come limite del culto religioso quello di non esprimersi in comportamenti molesti per la comunità, limite che sembra più oggettivo e meno strumentalizzabile da chi voglia svolgere azioni di mero disturbo di comportamenti inusuali. (50) Il legislatore ha sostituito il termine "riti" religiosi (passibile di ambivalenze) con "culti", sottolineando che la disponibilità di locali idonei riguarda le "pratiche di culto [...] anche in assenza di ministri di culto". Chiarimento che può essere in particolare pertinente per le pratiche rituali della religione musulmana, che non ha ministri religiosi in senso proprio e che viene professata dal fedele anche singolarmente, senza il bisogno di particolari funzioni religiose collettive. Infine, in relazione alla previsione del "diritto" all'assistenza religiosa degli appartenenti a religione diversa dalla cattolica, (51) vengono stabilite maggiori garanzie dell'osservanza di tale diritto. Così, da un lato, si prevede che, per le confessioni religiose che hanno regolato con legge i propri rapporti con lo Stato, l'accesso dei ministri di culto prescinde dal loro inserimento nell'elenco formato presso il Ministero dell'Interno; e, dall'altro lato, per i culti diversi e non rientranti nelle altre previsioni, si prospetta il ricorso all'art. 17 comma 2º della legge e all'autorizzazione all'ingresso negli istituti, di competenza del magistrato di sorveglianza, di coloro che hanno concreto interesse per la risocializzazione dei detenuti - finalità, questa, propria di qualsiasi riflessione e pratica religiosa. (52)

Infine, per quanto riguarda l'accesso dei ministri di culto agli istituti, il nuovo regolamento ha semplicemente aggiunto un ultimo periodo dove si specifica che "tale attività si svolge in modo da assicurare la necessaria riservatezza". (53)

1.4. Il diritto alla pratica religiosa nell'esecuzione delle misure alternative al carcere

Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda le misure alternative che sono state introdotte e disciplinate dalla legge di riforma del '75 e dalle successive leggi di modifica. (54)

Per la maggior parte di esse il problema dell'assistenza spirituale si pone in termini diversi rispetto a come viene regolato negli istituti di pena: infatti il più delle volte si attribuisce al condannato o all'imputato uno status libertatis che permette, senza uno specifico intervento dello Stato, l'esercizio del diritto di libertà religiosa.

Tuttavia ci sono dei casi in cui il soggetto, essendo sottoposto ad un rapporto di soggezione speciale dai caratteri custodiali e coercitivi, non può fruire concretamente di tale diritto senza un positivo intervento statale. Questa è la situazione dell'imputato sottoposto agli arresti domiciliari o ricoverato presso una comunità terapeutica per tossicodipendenti, oppure quella del condannato sottoposto alla detenzione domiciliare o affidato in prova al servizio sociale presso una comunità terapeutica. Relativamente a queste forme, il legislatore fino ad ora non ha ritenuto opportuno dettare delle norme specifiche a garanzia della libertà religiosa; quindi è necessario trovare adeguati strumenti giuridici di garanzia, adottando soluzioni analoghe a quelle assicurate nell'ambito delle strutture penitenziarie. (55)

A questo riguardo, risultano particolarmente interessanti alcune decisioni della giurisprudenza che, posta di fronte alla richiesta di imputati in stato di arresti domiciliari di poter partecipare alla messa la domenica e nei giorni "di precetto", ha dato risposte diverse alle singole istanze, con motivazioni più o meno convincenti. Il giudice istruttore di Pisa, con un'ordinanza, (56) ha accolto la richiesta presentata da un imputato, affermando che alla persona sottoposta al regime degli arresti domiciliari non può riservarsi un trattamento deteriore rispetto a quello assicurato dalle norme sull'Ordinamento penitenziario agli imputati detenuti. La partecipazione alla messa del credente, infatti, rientra tra quelle "indispensabili esigenze di vita" che consentono al giudice di autorizzare l'imputato "ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze". (57)

Successivamente, in presenza di analoghe istanze presentate da imputati cattolici, le soluzioni adottate dalla giurisprudenza sono state totalmente diverse. Sia il Tribunale di Milano, sia la Corte d'Appello di Firenze, (58) hanno rigettato le istanze presentate, ritenendo soddisfatto il precetto religioso attraverso la mera fruizione dei mezzi radio-televisivi, ed equiparando quindi la funzione religiosa effettivamente "partecipata" con quella trasmessa dai suddetti mezzi. (59) Queste due ultime sentenze sollevano dubbi e fanno sorgere il sospetto che, dietro alle motivazioni espresse, si nasconda la preoccupazione di sindacare la sincerità delle convinzioni religiose degli imputati, dubitando che esse possano rappresentare un pretesto per assentarsi dal luogo di arresto. In particolare, appare poco opportuno il giudizio di un organo dello Stato riguardo al grado di doverosità che promana dalla norma di un ordinamento confessionale, con ingerenza nell'ambito di altrui competenze e scarsa sensibilità per il principio di distinzione tra Chiesa e Stato. (60)

Il problema della garanzia del diritto di libertà religiosa si presenta anche nei confronti degli imputati e dei condannati ricoverati presso le comunità terapeutiche per tossicodipendenti e alcoolisti. La libertà religiosa costituisce, infatti, un valore costituzionale e perciò deve essere garantito in tutte quelle situazioni che riproducono dei rapporti di soggezione speciale. Tuttavia, il problema sembra assumere delle connotazioni diverse a seconda che la comunità terapeutica si ponga come "agnostica" rispetto al fenomeno religioso o sia caratterizzata da un'ispirazione di tipo religioso: nel primo caso si tratterà d'individuare strumenti concreti in grado di assicurare l'esercizio di tale libertà; nel secondo, invece, si pone il diverso problema di garantire la libertà religiosa e di coscienza di chi, pur ricorrendo alle prestazioni offerte dalla comunità, non intende partecipare alle pratiche religiose. (61)

Di fronte al silenzio del legislatore ci si rende conto che l'assistenza spirituale dovrà presto essere disciplinata normativamente sotto questo nuovo punto di vista; sia la Chiesa che le altre confessioni religiose dovranno porre una specifica attenzione pastorale verso queste nuove forme di soggezione speciale, cooperando con i diversi organi dello Stato che concorrono a garantire il diritto di libertà religiosa della persona.

Sezione seconda: l'istruzione

2.1. Regolamento esecutivo del 1931

Anche l'istruzione costituisce un elemento da garantire ad ogni individuo, anche se detenuto, e in questo senso lo sforzo del legislatore è stato molto intenso e dignitoso. Si è capito (62) che all'istruzione non può essere assegnato il ruolo fideistico di "medicina" caro al regolamento Rocco: per molto tempo si è pensato che istruire i delinquenti valesse di per sé a riadattarli alla società perché, essendo visto il delitto come prodotto dell'ignoranza e dell'oziosità tendenziale, questo "male" poteva essere rimosso automaticamente con la pratica, se del caso coatta, dell'istruzione (così come della religione e del lavoro). (63)

Seguendo quest'impostazione politico-culturale, il regolamento Rocco stabiliva che "i detenuti sono obbligati a frequentare le scuole istituite negli stabilimenti". (64) In tale quadro i tre elementi del trattamento potevano essere utilizzati in funzione della pressione totalitaria esercitata dal regime, cercando di ricavarne la massima utilità: così il lavoro era svolto a vantaggio delle opere giovevoli alla comunità degli onesti tramite lo sfruttamento della manodopera; e l'istruzione e la religione allo scopo di un progressivo indottrinamento o quanto meno come mezzo di "addomesticamento" dei detenuti. (65)

Gli obblighi cui erano tenuti i carcerati venivano ben precisati prevedendo che: i detenuti analfabeti di età inferiore ai 40 anni dovessero frequentare giornalmente la scuola per almeno due ore e in ogni istituto dovessero essere istituite scuole elementari; (66) per i detenuti già forniti dell'istruzione offerta dai corsi elementari pubblici, il carcere potesse migliorare la loro cultura (67) e a questo scopo dovevano riunirsi nelle sale di studio, divisi in gruppi omogenei, a turno nei giorni festivi, o nelle ore in cui non si lavorava negli altri giorni. (68) Ai minori veniva impartita l'istruzione delle scuole di avviamento (69) e il suddetto compito era affidato al direttore, al sanitario, al cappellano, all'insegnante, al dirigente tecnico, all'agronomo, ad altri funzionari dello stabilimento o anche a privati cittadini debitamente autorizzati dal Ministero: (70) figure, queste ultime, non certo "qualificate" a tutti gli effetti per svolgere il ruolo didattico. Inaccettabile era anche la metodologia che veniva utilizzata nell'impartire l'istruzione: l'attività didattica era obbligatoria e anche l'attaccamento alla scuola era considerato motivo di conferimento della qualifica di "buono". (71) Conseguenza inevitabile è stata quella di indottrinare in modo paternalistico e ideologico piuttosto che fornire una vera educazione e una formazione per maturare la personalità del detenuto.

2.2. Legge 1975, n. 354

Con la riforma del 1974 la disciplina ha subìto notevoli modifiche (72) in quanto il legislatore ha preso atto dei mutamenti avvenuti nel frattempo, non tanto in riferimento al livello globale d'istruzione, che è rimasto più o meno il solito, o al problema dell'analfabetismo che continua a dilagare, quanto perché ci si è resi conto che l'istruzione ha poca efficacia risocializzante se non tende a risolversi in capacità critica, e quindi in cultura.

In attuazione dei principi costituzionali, (73) il legislatore s'impegna a promuovere non solo la generica istruzione, ma la "formazione culturale e professionale"; a istituire corsi scolastici a vari livelli, sino a quelli universitari; a favorire nel carcere tutte le "attività culturali" alla cui organizzazione partecipano anche i detenuti. (74) A tal proposito la legge sull'ordinamento penitenziario ha voluto distinguere il genus "istruzione" sotto i tre aspetti della didattica scolastica, dell'apprendistato professionale e della formazione culturale, ma questa è una tripartizione che non è coerentemente ripresa in tutte le disposizioni della legge. (75)

Ad ogni modo la nuova impostazione è importante perché basata sul concetto di facoltatività dell'istruzione: la legge, cioè, pur continuando a considerare quest'ultima un elemento trattamentale, coerentemente non impone l'istruzione come passaggio obbligato della rieducazione, poiché concepisce il trattamento come un'offerta d'interventi; per cui nelle carceri la formazione culturale e professionale da questo momento "è curata", il compimento degli studi universitari "è agevolato" e l'accesso alle pubblicazioni "è favorito". (76)

L'unica pressione verso lo studio - ma assai blanda - consiste nell'impegno dei direttori a sollecitare i detenuti e gli internati alla frequenza dei corsi. (77) Così sono previste anche delle incentivazioni alla partecipazione dei detenuti ai corsi scolastici o comunque formativi: l'istruzione diventa uno dei punti di riferimento per la concessione della semilibertà, e per ottenere riduzioni di pena per la liberazione anticipata; (78) le spese del procedimento e di mantenimento vengono inserite nel meccanismo di remissione del debito; (79) le ricompense sono elargite in relazione al "particolare impegno e profitto nei corsi scolastici e di addestramento professionale"; (80) l'istruzione è liberalizzata anche dal punto di vista dell'autodidattica (concepita nel termine più vasto di "cultura") concedendo l'autorizzazione a tenere presso di sé quotidiani, periodici e libri in libera vendita all'esterno e altri mezzi di comunicazione; (81) la preparazione professionale, infine, è favorita anche dopo la dimissione dal carcere. (82)

A differenza del regolamento Rocco, per quanto riguarda l'approntamento delle strutture necessarie a permettere l'esercizio del diritto d'istruzione, il nuovo ordinamento aspira a coinvolgere nell'impegno istituzioni, enti e persone private. Le svariate disposizioni del regolamento esecutivo fanno riferimento al Ministero della Pubblica istruzione, che impartisce direttive per l'organizzazione dei corsi di scuola dell'obbligo; (83) ai Provveditorati agli studi e ai direttori didattici, che concertano con l'ispettore distrettuale la dislocazione e il tipo di corsi; (84) alla Regione, che organizza corsi di addestramento professionale e alle Autorità accademiche, che collaborano per consentire ai detenuti di sostenere esami universitari. (85)

Per le attività di osservazione e trattamento dei detenuti il direttore si avvale della collaborazione degli educatori, i quali fanno parte del Consiglio di disciplina, partecipano alle commissioni per le attività culturali, ricreative e sportive e per la redazione del regolamento interno, e normalmente gestiscono il servizio di biblioteca, che precedentemente era affidato al cappellano con l'eventuale ausilio di un altro funzionario designato dal direttore. (86)

Oltre che dal personale incaricato giornaliero, l'educatore, su proposta del magistrato di sorveglianza, può anche essere supportato da persone idonee a dare assistenza e quindi sostegno morale ai detenuti in vista di un futuro reinserimento sociale. (87)

Ruolo importante è perciò assunto anche dalla comunità esterna che può dare un contributo volontario da raccordare con le disposizioni in materia di attività culturali per le quali gli istituti devono essere dotati di idonee attrezzature (88) e nella cui gestione i detenuti possono anche esercitare un diretto intervento attraverso le loro rappresentanze (89) e con la cooperazione di assistenti volontari. (90)

Un rilievo particolare meritano le disposizioni che si occupano delle agevolazioni riservate agli studenti: i detenuti frequentanti i corsi d'istruzione secondaria superiore sono esonerati dal lavoro (91) e l'esonero vale anche per gli internati, per cui l'assoggettato alla casa di lavoro può vedere commutato in studio l'intero contenuto della misura di sicurezza. Analoga concessione vale per chi segue corsi universitari, in base all'impegno e al profitto dimostrati (92) ed è inoltre prevista un'assistenza tecnica per coloro che manifestano una seria aspirazione alla prosecuzione degli studi di secondo grado. (93) Infine sono consistenti gli incentivi di carattere economico a favore degli studenti: è stabilito che vi sia un sussidio orario per la frequenza ai corsi d'addestramento professionale, un sussidio giornaliero per la frequenza ai corsi d'istruzione secondaria superiore e uno ridotto per il periodo di vacanza scolastica; allo studente spetta un rimborso per le spese scolastiche, affiancato addirittura da un premio di rendimento per i detenuti e gli internati che abbiano frequentato con profitto la scuola dell'obbligo. (94)

Riguardo a questa normativa operante a livello penitenziario, è stato rilevato l'insorgere di problematiche al momento dell'attuazione della legge. (95) Secondo le previsioni del 1975, infatti, tutti i sussidi, i rimborsi e i premi di rendimento dovevano essere determinati con decreti ministeriali, alla cui emanazione non pare si sia provveduto; il compimento degli studi universitari trovava un grande ostacolo nella normativa sui permessi; l'accentuata mobilità dei detenuti vanificava la frequenza ai corsi di addestramento professionale, così come la previsione di più attività da svolgere contemporaneamente nei medesimi orari impediva la partecipazione alle varie discipline preferite (non più oggi dopo l'emanazione del regolamento esecutivo del 2000, dato che è stato privilegiato il principio di "non sovrapposizione" delle attività trattamentali). Inoltre sono stati oggetto di critiche i metodi non aggiornati con cui si impartiva l'insegnamento, a causa dei programmi non individualizzati che non tenevano conto della fascia di età di persone a cui avrebbero dovuto essere rivolti; infatti, nonostante la specificazione che i corsi devono essere organizzati "secondo gli ordinamenti vigenti" richiamandosi "all'ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti", (96) di fatto è difficile che uomini di 30-40 anni siano stimolati da programmi elaborati per ragazzi. Altro rilievo critico riguarda la possibilità di sostenere gli esami universitari. Infatti, se è vero che gli studenti iscritti sono stati agevolati per il compimento degli studi e che a tal fine furono stabilite intese con le Autorità Accademiche, (97) in concreto solamente il permesso può consentire di sostenere gli esami, ma quest'ultimo veniva (e viene tuttora) concesso con grandi difficoltà. Ultimamente, però, la situazione sta cambiando (come dimostrano i vari casi di lauree ottenute all'interno degli istituti penitenziari), (98) anche perché spesso sono le stesse commissioni d'esame a trasferirsi nelle carceri, pur con tutte le difficoltà da sottolineare laddove il detenuto sia ristretto in luogo diverso e lontano dalla sede universitaria.

I risultati degli anni successivi alla riforma possono sembrare paradossali, poiché all'aumento del livello medio d'istruzione, si è affiancato un aumento della criminalità, ma questo non deve certo far pensare ad un collegamento tra i due fenomeni. Il fatto è che la tendenza criminologica prevalente in quegli anni si è alimentata di un troppo marcato rifiuto di ogni elemento di coercizione, equivocando sui concetti di "rieducazione" e "afflittività": così, negando, giustamente, che la pena dovesse essere retributiva, si è finito solo per cancellare qualsiasi contenuto impositivo al di là della privazione della libertà personale e, rendendo facoltativa l'istruzione, si è finito per assolvere l'Amministrazione che non prepara o non utilizza strumenti adeguati. Infine, proclamando la neutralità ideologica si è accettata di nuovo la condizione preesistente del detenuto, libero di oziare. Con questo non si vuole negare l'importanza della neutralità dell'istruzione, ma solo chiarire che il pluralismo ideologico non si realizza lasciando il soggetto libero di scegliere se istruirsi oppure no, quanto piuttosto offrendogli un'istruzione libera e articolata, ed esigendone la fruizione. Il rimedio ad una probabile influenza ideologica va cercato proponendo una gamma estesa e non ufficializzata di docenti carcerari, che riflettano il più possibile le espressioni politico-culturali presenti nella società civile e favorendo la circolazione dei messaggi all'interno della comunità dei detenuti. (99)

2.3. DPR 30 giugno 2000, n. 230

Uno dei fini più rilevanti dell'intervento modificativo riguarda il fatto di dare nuova efficacia e nuova concreta attuabilità al trattamento penitenziario, articolato nei vari elementi indicati dalla legge. (100) Sotto questo profilo l'inadeguatezza del "carcere reale" non può essere ancora a lungo accettata. È ormai chiaro quanto sia necessario un incremento organizzativo della Amministrazione penitenziaria, in ogni sua componente, ma in particolare in quelle più impegnate sul versante trattamentale (così trascurate nei due decenni di vigenza della legge). Tenendo conto che a ciò dovrebbe rimediare la legislazione in preparazione sul riordino e il potenziamento organizzativo della amministrazione penitenziaria, il legislatore ha voluto intervenire nel frattempo sulla normativa di esecuzione. A tal fine è stata indicata l'esigenza che il Ministero della Giustizia, da un lato, e il Ministero della Pubblica Istruzione e le Regioni, dall'altro, contribuiscano a realizzare un sistema di corsi in materia. In maniera generica si può dire che per quelli scolastici, oltre alla diffusione della scuola dell'obbligo in tutti gli istituti, si deve favorire la presenza, con almeno un'esperienza in ciascuna regione, dei corsi di scuola secondaria successiva a quella dell'obbligo. Concrete iniziative, di cui si indicano le possibili modalità, sono anche previste per consentire ai reclusi di seguire gli studi universitari. (101)

Tra le modifiche effettuate dal nuovo regolamento ci sono anche piccole novità in materia d'istruzione, che però possono migliorare di molto il servizio offerto. Ad esempio, in riferimento alla biblioteca carceraria, sono stati risolti i problemi posti dal testo precedente, prevedendo esplicitamente che anche l'attività svolta dai detenuti o internati in tale spazio deve essere considerata di tipo lavorativo regolarmente retribuita. (102) La biblioteca è stata individuata anche come sede di lettura, di studio ed eventualmente di discussione, da attrezzarsi con una sala lettura che i detenuti e gli internati sia lavoratori che studenti possano frequentare anche in orari successivi a quelli di svolgimento dell'attività di lavoro e di studio. Il regolamento interno stabilisce le modalità e gli orari di accesso alla suddetta sala.

Da tutto ciò e da quello che seguirà si evince l'intento di aumentare le opportunità di offrire spazi e tempi culturali allo scopo di attuare pienamente il trattamento penitenziario. Il nuovo regolamento, infatti, autorizza ad utilizzare anche in cella "personal computer, lettori di nastri e compact disc portatili" quando, e solo quando, siano presenti motivi di lavoro e di studio. (103) Soprattutto l'uso del computer corrisponde ad una situazione di fatto frequente negli istituti penitenziari e garantisce la disponibilità di uno strumento divenuto indispensabile per molti. Si tenga conto, fra l'altro, che i corsi di formazione professionale informatica sono fra i più diffusi negli istituti. Il nuovo regolamento punta su una concezione innovativa dell'istruzione e della formazione professionale concependole ormai alla stregua di elementi indispensabili per una modificazione conoscitivo-comportamentale dell'individuo detenuto in quanto catalizzatori delle sue potenzialità e non più come strumenti di mero controllo disciplinare. (104)

La disposizione relativa ai "Corsi d'istruzione a livello di scuola dell'obbligo", nell'attuale regolamento è slittata all'art. 41 (105) che continua a prevedere le necessarie e opportune intese fra Ministero della Pubblica Istruzione e Ministero della Giustizia, ma ora tratta esplicitamente di un protocollo d'intesa fra i due ministeri per l'attivazione, lo svolgimento e il coordinamento dei corsi scolastici in questione. Tale protocollo dovrebbe essere prevalentemente la fonte per l'attuazione dei corsi stessi, particolarmente utile nei casi in cui non funzioni affatto o funzioni male il rapporto fra gli organi locali dei due ministeri. (106)

Significativo è l'incarico affidato alle direzioni di favorire la partecipazione ai corsi, di organizzarli in orari compatibili con lo svolgimento di altre attività trattamentali (particolarmente di lavoro) e di evitare trasferimenti che possano interrompere la frequenza dei corsi da parte degli iscritti. A tal proposito il legislatore specifica che "le direzioni, quando ritengono opportuno proporre il trasferimento di detenuti o internati che frequentano i corsi, acquisiscono il parere degli operatori dell'osservazione e trattamento e quello delle autorità scolastiche, pareri che sono uniti alla proposta di trasferimento trasmessa agli organi competenti a decidere. Se viene deciso il trasferimento, lo stesso è attuato, in quanto possibile, in un istituto che assicuri alla persona trasferita la continuità didattica". È prevista, inoltre, l'istituzione di una Commissione didattica in ciascun istituto penitenziario con il compito di formulare un progetto annuale o pluriennale di istruzione, realizzando così una integrazione tra la direzione dell'istituto e il corpo insegnante. (107) Infine, viene aggiunto che "quando si rende necessario un trasferimento collettivo di detenuti o internati non sono inclusi, ove possibile: i detenuti o internati per i quali sono in corso attività trattamentali particolarmente in materia di lavoro, istruzione e formazione professionale [...]". (108)

L'art. 42 si adegua alla nuova prospettiva, non più paternalistica, con cui le carceri si impegnano a fornire adeguate opportunità di cambiamento della personalità del detenuto anche attraverso la conoscenza culturale. Infatti la nuova rubrica non si riferisce più ai "corsi di addestramento professionale" ma ai "corsi di formazione professionale". I Provveditori regionali devono programmare, con la collaborazione degli enti locali, i corsi di formazione, che saranno poi attuati dagli enti territoriali competenti. La formazione sarà strutturata in modo da tener conto, non più solo delle esigenze della popolazione detenuta, ma anche delle "richieste del mercato del lavoro" (parametro necessariamente indicativo e indispensabile affinché l'attività dei detenuti possa trovare uno sbocco esterno). Inoltre i corsi si svolgeranno in tutto o in parte all'esterno degli istituti, con particolare riferimento alle esercitazioni pratiche. I protocolli d'intesa con gli enti locali devono garantire al detenuto o internato la continuità della frequenza e la possibilità di conseguire il titolo di qualificazione anche dopo la dimissione. (109) Per quanto riguarda i corsi d'istruzione secondaria superiore la normativa si limita semplicemente a rimandare alle indicazioni del protocollo d'intesa di cui al comma 1º dell'art. 41 con riferimento alla dislocazione delle succursali di scuole del predetto livello, assicurando la presenza di almeno una di queste in ogni regione. (110) Al di fuori dei corsi di studio regolari, possano essere organizzati, com'è già avvenuto in alcuni istituti, corsi di studio con intervento di personale volontario qualificato, con la finalità di preparare i partecipanti a sostenere annualmente gli esami previsti per i corsi di studio seguiti. (111)

La disciplina sugli studi universitari, inoltre, resta per lo più immutata: si è semplicemente aggiunto che "i detenuti e internati, studenti universitari, sono assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo, inoltre, disponibili per loro, appositi locali comuni. Gli studenti possono essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio". (112) La creazione di reparti appositi, fra l'altro, potrebbe favorire un contatto sistematico con i docenti all'interno degli istituti, come sta avvenendo in alcune realtà penitenziarie con progetti sperimentali.

Esaurito l'elenco delle possibilità di studio da garantire anche negli istituti di restrizione, il regolamento esecutivo nuovo ripete quasi per intero la vecchia disposizione sui benefici economici degli studenti, precisando, però, che sia i corsi di formazione professionale, sia quelli a livello di scuola dell'obbligo possono svolgersi anche durante le ore lavorative "solo nel caso in cui non risulti possibile lo svolgimento in tempi diversi da quelli delle attività di studio e di lavoro". (113) In pratica le modifiche apportate sono finalizzate ad agevolare la partecipazione degli studenti alle attività di studio, senza ridurre quelle di lavoro. (114)

Si attribuisce una così grande importanza alle attività trattamentali, da stabilire per prima cosa, che la decisione sull'esclusione dai corsi di istruzione e di formazione professionale deve essere adottata dalla direzione col parere indispensabile, però, "del gruppo di osservazione e trattamento oltre che delle autorità scolastiche", e secondariamente, che l'eventuale provvedimento "deve essere motivato, particolarmente nel caso in cui l'esclusione sia disposta in difformità dal parere espresso dalle autorità predette. (115) Inoltre il provvedimento può essere sempre revocato ove il complessivo comportamento del detenuto o dell'internato ne consenta la riammissione ai corsi". (116) Infine si chiarisce, in conformità con la prassi e gli orientamenti giurisprudenziali, che la sanzione dell'isolamento non esclude l'ammissione alle attività lavorative e che ciò riguarda anche il momento formativo e, quindi, la partecipazione ai corsi di formazione professionale. (117) Sono possibili anche le attività d'istruzione attraverso rapporti singoli con docenti, volontari o non, e la partecipazione alle attività religiose. Il fine di tale intervento è quello di evitare che l'esecuzione della sanzione, che interviene sovente a distanza di anni dall'inizio della detenzione, interrompa le acquisizioni del soggetto e il percorso riabilitativo dallo stesso già avviato. (118)

La recente normativa ha puntato molto sulla partecipazione dei volontari e, in generale, "della comunità esterna all'azione rieducativa" e a questo scopo ha collegato le iniziative ex art. 17 Ord. penit. alle attività trattamentali degli operatori penitenziari per sottrarre le prime alla precarietà che le caratterizza, prevedendo invece modalità e tempi determinati per la loro attuazione. (119) Si è voluto agevolare ed incrementare la partecipazione della comunità civile, inserendola in una programmazione, nella quale, accanto alla direzione dell'istituto, è coinvolta anche la direzione del centro servizio sociale. (120) Inoltre, tenendo conto dell'ormai generalizzata tendenza del volontariato a lavorare tramite associazioni, il legislatore ha prescritto che l'autorizzazione ex art. 78 Ord. penit. (per gli assistenti volontari) può riguardare, oltre a coloro che dimostrano sensibilità e interesse per la condizione umana dei detenuti e internati, anche "più persone appartenenti ad organizzazioni di volontariato, le quali assicurano, con apposite convenzioni con le direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale, la continuità di presenza in determinati settori di attività. La revoca della convenzione comporta la decadenza delle singole autorizzazioni". (121)

2.4. Conclusioni

Dall'analisi particolareggiata del nuovo regolamento esecutivo si evince l'intenzione di dare un aspetto nuovo alla vita carceraria, affinché possa dirsi attuata veramente la riforma penitenziaria. Per questo è stato importante modificare il vecchio regolamento fin nei minimi termini: per esempio le celle, in realtà, vanno chiamate "camere di pernottamento" e la differenza è fondamentale perché le prime sono luogo di vita nelle quali il detenuto sta per quasi venti ore al giorno; le seconde evidenziano la necessità di costituire locali idonei e di organizzare attività per far trascorrere la gran parte della giornata fuori dalle "celle" e non in maniera oziosa. L'obiettivo è quello di rendere vivo il carcere, in modo che la preoccupazione principale degli operatori non sia di tenere il detenuto in cella per semplificare il lavoro, ma attuare un progetto omnicomprensivo. Su questo punto uno dei padri del nuovo regolamento (122) insiste molto perché bisogna evitare che il detenuto possa ribaltare la visione delle cose: un carcere di puro contenimento renderebbe il detenuto "innocente", mentre se gli si forniscono gli strumenti per ragionare e partecipare all'evoluzione del proprio trattamento, lo si responsabilizza.

Tra le luci e le ombre che avvolgono questo regolamento, solo la volontà, unita all'empatia, può infrangere la tendenza auto-referenziale del sistema: bisogna, non solo aprire le celle, ma l'intero carcere, per restituirlo alla società e al volontariato. La stessa parola "educatore", tanto cara alla vecchia tradizione, è anticostituzionale, così come lo è il termine "ri-educare", considerato in senso meramente unidirezionale, cioè volto al soggetto, (e non "col" soggetto), secondo una visione totalitaria del rapporto con il detenuto. È molto meglio parlare di "operatore sociale o operatore di rete". (123) In quest'ottica anche la società esterna può accedere alla relazione d'aiuto verso i detenuti, purché la premessa sia quella di tentare di limitare il danno, e non di convertire o rieducare. La scuola, elemento importante del trattamento, non è più uno strumento da poter usare per tenere buoni i detenuti: c'è un'attenzione particolare all'autorità scolastica che si reca a fare formazione dentro le carceri e la stessa autorità dovrà esser sentita anche ai fini del Consiglio di disciplina.

Note

1. L'argomento della religione non sempre è stato inserito con facilità in un settore specifico nel dubbio che dovessero occuparsene le fonti statali o quelle cd. particolari. Lo Stato ha preferito disciplinare, per lo più autonomamente, i diversi aspetti dell'assistenza spirituale e a volte la norma pattizia (concordataria, sulla base di intese), ha finito col "consacrare" una realtà normativa già definita unilateralmente dallo Stato. Questo è ciò che è accaduto per la legislazione sull'assistenza spirituale nelle carceri. Spesso poi, nella storia, c'è una sorta di strumentalizzazione reciproca tra l'ordinamento civile e quello canonico: lo Stato separatista liberale, per esempio, tendeva a limitare la sfera di influenza della Chiesa cattolica, servendosene al tempo stesso; d'altro canto la Chiesa, pur contribuendo con il personale ecclesiastico nelle strutture segreganti, perseguiva il parallelo obiettivo di permeare determinate strutture pubbliche e statuali. Solo di recente, con l'affermarsi del pluralismo religioso, si è venuta affievolendo la contaminazione tra strutture pubbliche ed apparati confessionali, ed il concetto di assistenza spirituale è stato riconosciuto al più giusto significato di servizio a disposizione di chiunque sia impedito nella soddisfazione di bisogno religioso. Cfr. Cardia, Stato e confessioni religiose, Bologna, 1992, pagg. 34-35.

2. L'assistenza spirituale si differenzia dall'assistenza religiosa in quanto la prima, dal contenuto più ampio, racchiude in sé il significato della seconda. È assistenza spirituale ogni attività rivolta comunque al conforto umano, a fornire quel "supplemento di cuore oltre che di anima" necessario allo sviluppo della persona umana. Ma questa distinzione ha senso oggi e non certo per l'Italia fino al 1890, quando le Confraternite e le Opere pie univano inscindibilmente i concetti di assistenza sociale, spirituale e religiosa. Cfr. Consorti intr. a Codice dell'assistenza spirituale, (a cura di Consorti e Morelli), Milano, 1993, pagg. 23-25.

3. Cfr. Cardia, Op. cit., pag. 149.

4. Cfr. V.E. Sanna, Inchiesta nelle carceri, Bari, 1970, pagg. 133-134.

5. Art. 142 Reg. esec. del 1931.

6. Cfr. C. D'Amelio, Analisi della situazione carceraria e prospettive, in Atti del seminario Caritas: Pastorale della Caritas e problemi carcerari, Napoli, 8-10 maggio 1975. Sui problemi sorti circa la questione di legittimità costituzionale dell'art. 142 comma 2º del reg. del 1931, v. M. Seitz Ursino, La libertà religiosa e la posizione giuridica dei detenuti, in Diritto Ecclesiastico, 1967, vol. II, pagg. 369 ss.; Id, Regolamenti anteriori alla Costituzione e riserva di legge (a proposito della libertà religiosa dei detenuti) in Studi in memoria di Orazio Condorelli, Milano, 1974, pagg. 1221 ss.; Onida, Sulla disapplicazione dei regolamenti incostituzionali (a proposito della libertà religiosa dei detenuti), in Giurisprudenza Costituzionale, vol. VIII, 1968, pag. 1032.

7. Art. 164 n. 12 reg. esec. del 1931.

8. Art. 164 n. 11 reg. esec. del 1931.

9. Art. 233 reg. esec. del 1931.

10. Art. 308 reg. esec. del 1931.

11. Infatti la normativa rimasta in vigore fino al 1975 era incostituzionale e più volte venne portata innanzi alla Corte Costituzionale. Secondo Catalano, gli artt. 142-143-145 del reg. del 1931 violavano non tanto il principio di uguaglianza dei cittadini in materia di religione, quanto la libertà religiosa dei singoli, poiché da tali norme limitatrici erano colpiti sia i cattolici che i non cattolici, essendo tenuti, anche i primi, a seguire pratiche di culto che spontaneamente non avrebbero seguito. Cfr. G. Catalano, Sovranità dello Stato e autonomia della Chiesa nella Costituzione repubblicana, Milano, 1974, pag. 200.

12. Art. 1 nn. 1-2 reg. esec. del 1931.

13. Art. 15 Ord. penit.

14. Art. 16 Ord. penit.

15. Per la concezione lombrosiana della pena, cfr. E. Fassone, Religione e istruzione nel quadro del trattamento in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario (a cura di V. Grevi), Bologna, 1981, pag. 134.

16. Cfr. E. Fassone, Op. cit., pag. 120.

17. Sulla problematica relativa al rispetto per la religione nelle carceri e all'assistenza morale ai detenuti, nonché sulla figura del cappellano, cfr. C. Curioni, Spunti introduttivi ad una pastorale carceraria in Rivista del clero italiano, 1965, II, pag. 76; Linee generali di pastorale carceraria in Ibidem, 1965, X, pag. 573; Per una pastorale carceraria: obiettivi in Ibidem, 1965, XII, pag. 714; Per una pastorale carceraria in Ibidem, 1966, IV, pag. 218. In questi scritti sono tracciate le linee anticipatrici degli orientamenti seguiti dall'Ispettorato dei cappellani carcerari.

18. Art. 25 Ord. penit.

19. Art. 55 Ord. penit. Cfr. anche Renzoni, La libertà religiosa negli istituti di prevenzione e pena in Diritto Ecclesiastico, 1968, II, pag. 288; R. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia, Torino, 1971, III, pag. 201; A. Pizzorusso, I cappellani degli istituti di prevenzione e di pena nel diritto vigente e nel progetto di riforma penitenziaria, in Studi per E. Graziani, Pisa, 1973, pag. 555.

20. Art. 5, l. 1982/68.

21. Durante i lavori preparatori della riforma penitenziaria, l'eventualità che il cappellano continuasse a far parte dei membri del Consiglio suddetto era stata stigmatizzata quale espressione di una sostanziale conferma dell'indirizzo accolto nel reg. del 1931. Cfr. A. Pizzorusso, Op. cit., pag. 561.

22. Art. 55 DPR. 1976 n. 431.

23. Le intese con le confessioni valdese, avventista, pentecostale ed ebraica prevedono la trasmissione alle autorità competenti dei nominativi dei ministri di culto territorialmente responsabili dell'assistenza spirituale, i quali possono visitare gli istituti senza particolare autorizzazione. In tal modo il servizio di assistenza spirituale nelle istituzioni penitenziarie è venuto sempre più assumendo un carattere pluralistico, e le differenze tra le condizioni giuridiche del cappellano cattolico e il trattamento riservato ai ministri di altri culti, rispondono più alla volontà di certe confessioni o ai rapporti di carattere quantitativo esistenti tra le confessioni religiose, che non a preferenzialità del legislatore. Cfr.Cardia, Op. cit., pagg. 293-5.

24. Con l'avvio della legislazione negoziata - dopo il 1984 - tra Stati di religioni diverse dalla cattolica, si afferma in teoria un principio valido per tutti: il cappellano è una figura stabile all'interno delle carceri. E con esso si afferma pure la tesi che, per le confessioni "con intesa", i ministri possono entrare negli istituti senza orario e possono prestare il loro servizio senza la necessità di una richiesta dall'interno da parte del detenuto. Ma il problema che si pone di fatto è di tipo pratico perché, essendo pochi i detenuti praticanti un culto diverso dal cattolico, difficilmente questi pastori vanno al carcere se non vengono chiamati o quanto meno se non sanno che ci sono quei fedeli. Per le confessioni "senza intesa", invece (e sono tante), resta il dubbio sull'applicazione ancora della "legge dei culti ammessi" del 1929 e ciò perché la religione musulmana, per es., non è compresa fra questi. Cfr. Consorti Op. cit. pag. 18.

25. Cfr. F. Tritto, La religione e la figura del cappellano negli istituti di pena, in Operatori penitenziari e legge di riforma, Milano, 1985, pag. 261.

26. Tesi rafforzata dalla previsione dell'art. 12 l. 1982 n. 68 secondo cui il cappellano può cessare dall'incarico "quando circostanze anche a lui non imputabili rendono la sua persona incompatibile con la comunità penitenziaria".

27. Cfr. Fassone, Op. cit., pag. 124.

28. Si tratta degli artt. 26, c. 3º Ord. penit. e 55, cc. 4º- 5º reg. esec. Al contrario, nel reg, del 1931, il termine "cappellano" ricorreva negli articoli: 50, 51, 52, 53, 107, 111, 139, 141, 142, 145, 149, 173, 187, 200, 205, 226, 233, 237, 285, 293, 308, 310.

29. Art. 173 reg. esec. abrogato.

30. Rispettivamente artt. 71, 94, 54 reg. esec. del 1975.

31. Art. 39 Ord. penit.

32. Art. 153 nn. 3-6 reg. abrogato.

33. Art. 145 reg. abrogato.

34. Art. 7, ultimo comma Ord. penit.

35. Art. 10 Reg. esec.

36. Per le seguenti considerazioni, cfr. Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980, pag. 166 ss.

37. Nondimeno, per un giudizio negativo sulla eccessiva liberalità del legislatore in materia di pratica religiosa, cfr. Granito, Nuovi aspetti del regime penitenziario e problemi di applicazione della normativa, in Rassegna penitenziaria, 1976, pag. 3.

38. Cfr. Fassone, Religione e istruzione nel quadro del trattamento in I diritti dei detenuti e il trattamento penitenziario, a cura di Grevi, Bologna, 1981, pag. 121.

39. Anche l'art. 3 della legge Gozzini (l. 1986/663) disporrà quanto segue: "Dopo l'art. 14-ter della l. 1975/354 è inserito il paragrafo seguente: 14-quater (contenuti del regime di sorveglianza particolare) 1. Il regime di sorveglianza particolare comporta le restrizioni strettamente necessarie (omissis) [...] 4. In ogni caso le restrizioni non possono riguardare (omissis) [...] la lettura di libri e periodici, le pratiche di culto".

40. Artt. 12, 2º c., 18, 6º c. e 27, 1º c. Ord. penit.

41. Cfr. Stortoni, Op. cit., pag. 50; e Neppi-Modona, Formazione sociale carceraria e democrazia partecipativa, in Politica e diritto, 1976, pag. 175.

42. Art. 2 Cost.

43. Cfr. Moneta, sub Commento all'art. 8 l. Gozzini. La libertà religiosa nelle carceri: i passi avanti e le carenze della disciplina del'75, in Legislazione penale, 1987, pagg. 133-135.

44. Art. 3 Cost.

45. Artt. 26 e 67 Ord. penit e 55 reg. esec.

46. Cfr. Fassone, Op. cit., pag. 125 ss.

47. Ibidem, pagg. 70-71.

48. Art. 8 l. 1986, n. 663.

49. Per queste considerazioni e le seguenti, cfr. Ministero della Giustizia (a cura di), Relazione al regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure preventive e limitative della libertà.

50. Art. 58 reg.esec. (ex art. 55), c. 3º.

51. Diritto riconosciuto dall'art. 26, c. 4º Ord. penit.

52. Art. 58, cc. 6º e 7º reg. esec.

53. Art. 116 reg. esec. (vecchio art. 103).

54. Per le seguenti considerazioni, cfr. Panzani, L'assistenza religiosa in carcere, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, 1997.

55. Cfr. V.Turchi, in Misure alternative alla pena detentiva: la garanzia della libertà religiosa, in Iustitia, n. 2, 1989, pag. 155.

56. Cfr. Ordinanza del 13 novembre 1984, in Diritto Ecclesiastico, 1985, II, pagg. 584 ss.

57. Art. 254-quater, 2º c. Ord. penit.

58. Cfr., rispettivamente, Ordinanza del 19 agosto 1986 e Ordinanza del 24 luglio 1987, in Diritto Ecclesiastico, 1988, II, pagg. 288 ss.

59. In realtà nell'Ordinamento canonico non vi è alcuna traccia di questa equiparabilità, anzi vi sono alcuni elementi normativi che affermano l'impossibilità di sostituire la partecipazione diretta e personale all'assemblea eucaristica con la partecipazione mediante mass-media.

60. Cfr. V.Turchi, in op. cit., pag. 160. L'autore, inoltre, afferma che la persona sottoposta agli arresti domiciliari, in mancanza di specifiche esigenze cautelari contrarie, può sempre fruire dell'assistenza spirituale che i membri della propria confessione intendono offrirgli nel luogo di arresto.

61. Di Marzio, Ancora in tema di arresti domiciliari e assistenza spirituale. Appunti su misure alternative alla carcerazione e libertà religiosa, in Diritto Ecclesiastico, 1988, vol. II, pag. 307; Sul diritto di libertà religiosa in Diritto Ecclesiastico, 1989, vol. I, pag. 482.

62. Cfr. Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980, pagg. 196 ss.

63. Cfr. Di Gennaro, Breda, La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 167.

64. Art. 1 reg. Rocco.

65. Per le seguenti considerazioni, cfr. Fassone, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V.Grevi, Bologna, 1981, pagg. 120-122.

66. Art. 136 reg. Rocco.

67. Art. 138 reg. Rocco.

68. Art. 139 c. 1º reg. Rocco.

69. Art. 218 reg. Rocco.

70. Art. 139 c. 2º reg. Rocco.

71. Il carattere afflittivo impresso volutamente dal legislatore del 1931 è chiaro ed evidente, come risulta anche dalla proibizione di "ogni gioco, festa, o altra forma di divertimento" al fine di evitare forme di distrazione per il detenuto: certe modalità d'intrattenimento, come ad esempio quello musicale, dovevano essere riservate alla popolazione libera.

72. Cfr. Fassone in Op. cit., pagg. 123 ss.

73. Art. 34 Cost.

74. Artt. 19 e 27 Ord. penit.

75. Infatti, l'art. 15 sembra considerare le attività culturali e l'istruzione come fenomeni distinti, ma già al 3º comma non inserisce l'istruzione fra le attività alle quali possono essere ammessi gli imputati; nella rubrica dell'art. 19 compare il termine "istruzione", ma il corpo della norma dispone in particolare che "la formazione culturale e professionale è curata mediante l'organizzazione dei corsi della scuola dell'obbligo", facendo intendere che i primi assolvono alla formazione culturale e dunque considerando tale formazione come non professionale. D'altra parte, se i detenuti e gli assistenti volontari organizzano "attività culturali", queste sono diverse dallo svolgimento dei corsi scolastici regolari: in questa accezione, quindi, la cultura appare distinta dall'istruzione. Nonostante la fusione operata dall'art. 19 Ord. penit., perciò, si può individuare una scansione tra istruzione scolastica e attività culturali, e una bipartizione all'interno del primo concetto, a seconda che l'istruzione sia impartita ai fini di immediato apprendimento professionale oppure no. Fra l'altro, anche l'istruzione professionale è pur sempre "scolastica", in quanto l'apprendimento si muove secondo linee organizzate e con tecniche di trasmissione da docente ad allievo. Le attività culturali non partecipano né dell'aspetto burocratico organizzativo, né della formazione professionale, né del carattere della continuità. Per questa e le seguenti considerazioni, cfr. Di Gennaro, Breda, La Greca, Op. cit., pagg. 129-130.

76. Art. 19 Ord. penit.

77. Art. 39 c. 3º reg. esec.

78. Artt. 48 Ord. penit. e 94 reg. esec.

79. Art. 56 c. 2º Ord. penit.

80. Art. 71, lettera b reg. esec.

81. Art. 18 c. 6º Ord. penit.

82. Art. 75 n. 4 Ord. penit.

83. Art. 39 c. 1º reg. esec.

84. Art. 39 c. 2º reg. esec.

85. Rispettivamente artt. 40 c. 1º e 42 c. 2ºreg. esec.

86. Art. 21 c. 3º reg. esec.

87. Le attività di queste persone, qualificate come "assistenti volontari", sono stabilite dall'art. 78 Ord. penit.

88. Art. 27 c. 1º Ord. penit.

89. Art. 27 c. 2º Ord. penit.

90. Art. 78 c. 2º Ord. penit.

91. Art. 41 ultimo c. reg. esec.

92. Art. 42 c. 3º reg. esec.

93. Art. 41 c. 4º reg. esec.

94. Art. 43 reg. esec.

95. Cfr. Fassone in Op. cit., pag. 130.

96. Art. 19 c. 1º Ord. penit.

97. Art. 19 c. 4º Ord. penit.

98. V. i casi riportati nel capitolo 3.

99. Cfr. Fassone in Op. cit., pagg. 131-132.

100. Per queste considerazioni e le seguenti, cfr. Relazione al Regolamento come in nota 49.

101. Cfr Relazione al Regolamento come in nota 49, seconda parte. La Relazione del Ministero della Giustizia si suddivide in varie parti e si occupa del diritto all'istruzione nella seconda. "In questa parte del regolamento si sono individuati gli aspetti più significativi per rendere concreto il modello d'istituto penitenziario disegnato dalla legge di riforma. Quello che tale legislazione intende escludere è un istituto penitenziario di mera segregazione, luogo di reclusione in camera dei singoli all'interno del luogo generale di detenzione".

102. Art. 21 cc. 3º e 5º del reg. esc. del 2000.

103. Art. 40 reg. esec. del 2000.

104. Cfr. Relazione al Regolamento come in nota 49, seconda parte, sub paragrafo 4º, in riferimento agli artt. 41-46. "È una parte di estrema rilevanza nel modello di istituto penitenziario che la legge ha disegnato. Se il concetto portante della legge è quello della realizzazione della individualizzazione del trattamento nei confronti delle persone recluse, l'effettiva disponibilità degli strumenti trattamentali è indispensabile. La situazione penitenziaria reale risente di molte povertà organizzative e il risultato di questa povertà è la grave insufficienza degli strumenti trattamentali e, in sostanza, l'adeguamento a tale insufficienza nelle prassi operative e nei sistemi organizzativi che le sostengono: così l'inattività e le lunghe permanenze in cella dei detenuti sono diventate la regola. Se è pacifico che occorrono nuove risorse organizzative per fare funzionare gli istituti, è vero però che vanno sottolineate le regole di tale funzionamento per contrastare le dinamiche prodotte da un lungo periodo di disapplicazione di fatto della legge".

105. Ex art. 39.

106. Art. 41 cc. 1º e 2º reg. esec. del 2000.

107. Art. 41 cc. 4º e 6º reg. esec. del 2000.

108. Art. 83 c. 9º reg. esec. del 2000 (ex art. 78).

109. Art. 41 cc. 1º e 2º. I comma 4º e 6º richiamano le stesse indicazioni dell'art. 41 rispettivamente a proposito dei trasferimenti e della Commissione didattica.

110. Art. 43 reg. esec. del 2000 (ex art. 41).

111. Art. 43 c. 4º reg. esec. del 2000.

112. Art. 44 del reg. esec. del 2000 (ex art. 42).

113. Art. 45 reg. esec. del 2000.

114. Principio seguito anche nel prevedere che lo svolgimento delle "attività culturali, ricreative e sportive" deve essere organizzato in modo tale da consentire, ancora una volta, la partecipazione dei detenuti che lavorano o che frequentano corsi formativi o scolastici, per cui gli orari di svolgimento dei due tipi di attività dovranno essere resi compatibili tra loro. Art. 59 c. 1º reg. esec. del 2000 (ex art. 56).

115. Il parere della suddetta commissione è necessario anche per autorizzare lo svolgimento delle attività artigianali, intellettuali e artistiche previste dall'art. 51 reg. esec. del 2000 (ex art. 49).

116. Art. 46 c. 2º reg. esec. del 2000 (ex art. 44).

117. Art. 73 c. 4º reg. esec. del 2000.

118. Cfr. Relazione al Regolamento come in nota 49, in riferimento all'art. 73 reg. esec. del 2000.

119. Art. 68 c. 4º reg. esec. del 2000 (ex art. 63).

120. Art. 68 ultimo c. del reg. esec. del 2000.

121. Art. 120 c. 1º reg. esec. del 2000 (ex art. 107).

122. Si tratta dell'intervento di Margara al Convegno dell'Elsa, Carcere e diritto agli albori del xxi secolo, Luci e ombre sul regolamento esecutivo, tenutosi presso La Sapienza di Pisa, il 6 e 7 aprile 2001.

123. Intervento di Salvatore Rigione (Educatore penitenziario e attualmente responsabile degli educatori di Firenze) al Convegno in nota 122.