ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
Le strategie difensive di Romiti

Chiara Ruffino, 2000

2.1. La negazione

Per comprendere le scelte difensive di Cesare Romiti e, in definitiva, della Fiat stessa, occorre rapportarle al contesto in cui l'imprenditoria italiana operava ed alle sollecitazioni a cui essa veniva sottoposta. L'apparato industriale conviveva, infatti, con un sistema consolidato in cui "chi deve dare denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto. Sa che in quel determinato ambito si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua e promette di consegnarlo. Chi accetta il pizzo non si mortifica più nel chiederlo, nel pretenderlo, ma aspetta. Non c'è più l'ammiccamento da parte del corruttore né la minaccia o l'induzione da parte del pubblico ufficiale, tipico del reato di concussione" (1).

Le stesse politiche di sviluppo aziendale erano obbligate a tenere conto di questo sistema, definito da Antonio Di Pietro "dazione ambientale", in quanto scegliere di non pagare tangenti significava non poter più reggere il peso della concorrenza e, di conseguenza, uscire dal mercato. Da un lato, quindi, i manager ed i dirigenti delle aziende erano spinti ad adottare il comportamento deviante dagli stimoli che ricevevano dalla cerchia sociale di appartenenza, entro la quale i reati di corruzione e concussione avevano perso la loro connotazione stigmatizzante e negativa; dall'altro lato, tuttavia, l'elevato status sociale costringeva questi stessi manager a definirsi osservanti delle norme di diritto e delle regole della morale.

Si verificavano, quindi, le condizioni che, secondo Minor, inducono i criminali ad utilizzare strategie di negazione: la contemporanea presenza di un forte desiderio di violare la legge e di un'altrettanto forte convinzione della validità morale della norma (2).

Per poter rappresentare con sufficiente precisione il quadro di riferimento motivazionale dei crimini dei colletti bianchi, il modello di Minor deve, tuttavia, subire due modifiche. La prima consiste nell'allargare l'ambito di analisi, passando da un piano meramente individuale, in cui gli stimoli e le remore ad adottare una condotta deviante provengono esclusivamente dal soggetto, ad un livello in cui l'attore viene spinto ad agire e, nello stesso tempo, ad occultare il proprio comportamento dalla sua cerchia sociale di riferimento e dalla società nel suo complesso. La seconda modifica, invece, consiste nel non ritenere necessario che l'individuo creda profondamente alle norme che si trova costretto a violare perché nasca in lui l'esigenza della neutralizzazione, ma sufficiente che egli si senta obbligato a dimostrarsi convinto della validità morale di quelle norme per non mettere a repentaglio il suo prestigio e la sua reputazione.

Il criminale dal colletto bianco deve fronteggiare due vincoli, entrambi di origine strutturale: il primo, in ragione della sua collocazione "verticale" in un alto gradino della scala sociale, lo obbliga a dichiararsi osservante delle norme di diritto vigente per evitare di perdere prestigio e onorabilità e, quindi, status e posizioni di potere; il secondo deriva, invece, dalla sua collocazione "orizzontale", cioè dal suo inserimento in una determinata cerchia sociale, che può, come nel caso esaminato, offrirgli stimoli e occasioni per adottare il comportamento deviante.

Finché il colletto bianco si trova ad agire all'interno della sua cerchia di riferimento, rappresentata dai grandi industriali, dai manager dei vari settori produttivi, dagli esponenti dei partiti più influenti, cioè di quella schiera di persone che hanno conosciuto il sistema della "corruzione ambientale" ed hanno imparato a convivere con esso per sfruttarne i vantaggi, egli non deve utilizzare alcuna giustificazione: la sua condotta, deviante secondo la normativa statale, non viola, infatti, le regole non scritte di quella "comunità di interessi" e non verrà quindi condannata, né sanzionata in alcun modo.

Al contrario, fuori dal gruppo di riferimento, la costituzione di fondi riservati, la falsificazione dei bilanci e i pagamenti di tangenti non si giustificano più come condotte funzionali al buon andamento del sistema, ma vengono puniti e stigmatizzati perché intaccano valori ritenuti fondamentali dalla comunità nel suo complesso, quali la libera concorrenza, la parità di trattamento tra imprenditori dello stesso settore, il diritto all'informazione ed il diritto all'imposizione.

Proprio per evitare la stigmatizzazione del resto della comunità, quando le prime inchieste cominciarono a far emergere gli illeciti, i vertici Fiat iniziarono ad utilizzare strategie di negazione che escludessero, limitassero, dirottassero su altri le responsabilità, per prendere le distanze dall'accaduto e conservare così reputazione, prestigio e status sociale.

Stanley Cohen, uno dei maggiori studiosi che si sono occupati delle tecniche di negazione, ritiene che ogni strategia di difesa debba essere, preventivamente, valutata con il criterio della falsità/verità, dovendosi stabilire se il soggetto fosse a conoscenza dell'effettivo svolgimento dei fatti e se abbia quindi deliberatamente scelto di mentire. Successivamente, secondo l'autore, si deve procedere all'analisi della tipologia di negazione utilizzata. Nel caso in esame, dall'analisi della sentenza di primo e secondo grado emerge un Gruppo Fiat dalla struttura verticistica e centralizzata, in cui l'operato delle società partecipate è periodicamente controllato dalla capogruppo, il cui amministratore delegato Cesare Romiti è perfettamente a conoscenza della presenza di riserve extracontabili e degli illeciti finanziamenti ai partiti. La stessa strategia difensiva processuale si è dedicata solo marginalmente alla confutazione degli elementi di fatto dell'imputazione, attraverso la delegittimazione dei testimoni Mosconi, Bernardini, Belliazzi e Ghidella, preferendo, significativamente, puntare sulla confutazione degli elementi di diritto ed, in particolare, cercando di scardinare l'impianto accusatorio basato sulla riconduzione della fattispecie delittuosa all'art. 2621 c.p. La difesa sembra considerare più probabile ottenere l'assoluzione dimostrando la mancanza della fattispecie incriminatrice, piuttosto che confutando la prova storica, mostrando, così, di essere consapevole della presenza di schiaccianti prove di fatto.

Dall'analisi del materiale processuale esaminato, si può concludere che le varie forme di negazione adottate da Romiti, il quale era a conoscenza di come si erano svolti realmente i fatti, derivano dalla consapevole decisione di tutelare se stesso e la rispettabilità dell'azienda. Romiti stesso, il 15 giugno 1995, aveva rivelato agli allibiti magistrati di Torino, di avere "da un lato l'esigenza di dire tutta la verità, dall'altra di difendere l'azienda, il suo prestigio e la sua immagine" (3).

Se era pronto a mentire per tutelare l'azienda nel 1995, quando ormai le indagini dei magistrati avevano fatto emergere un gran numero di addebiti, a maggior ragione si deve ritenere dovesse esserlo nel 1992, quando l'inchiesta Mani Pulite era appena iniziata e, forse, il mondo imprenditoriale ancora credeva di poterla fermare in fretta. Non devono, quindi, sorprendere le lapidarie affermazioni di Romiti, pronunciate il 30 giugno 1992, durante l'assemblea dei soci della Fiat S.p.A.: "La Fiat non ha mai corrisposto denaro a partiti o movimenti politici, neppure sotto forma di tangenti" (4). Non deve stupire neppure che agli azionisti, che domandavano chiarimenti sull'inchiesta milanese, e ad un concessionario Iveco, che chiedeva la restituzione del denaro speso per una mazzetta a un ente pubblico, Romiti avesse risposto seccamente: "Ci rifiutiamo di sottoporre all'attenzione di questa assemblea osservazioni sulla base di indiscrezioni giornalistiche obbiettivamente diffamatorie" (5).

La minaccia esterna, rappresentata dalle indagini della magistratura, viene affrontata da Romiti e dall'intero vertice aziendale con una strategia che può essere ricondotta alla teoria della negazione di Cohen. Questo autore ha, infatti, sostenuto che un soggetto, individuale o collettivo, sceglie di negare che un fatto sia accaduto, o che si sia verificato come è stato ricostruito, per difendersi da qualcosa di esterno che considera in grado di mettere in pericolo la sua posizione. Tre sono, per Cohen, le principali tipologie di negazione:

  • l'esclusione dell'esistenza del fatto (negazione letterale);
  • l'ammissione dell'episodio contestato attraverso un'interpretazione diversa (negazione interpretativa);
  • l'accettazione del fatto e dell'interpretazione che ne è stata data, cercando di limitarne le conseguenze negative e le responsabilità dell'autore.

La strategia più vantaggiosa è rappresentata dalla negazione letterale, perché consente, se accolta, di escludere ogni addebito, preservando la propria rispettabilità. Poichè, peraltro, presenta il rischio di non riuscire a sostenere l'affermazione categorica che il fatto non si sia verificato, tale strategia viene scelta quando il soggetto ritiene che la semplice negazione dell'accaduto possa essere sufficiente per superare tutte le obiezioni di fatto. Può essere, incidentalmente, interessante notare come la negazione letterale venga frequentemente utilizzata in quelle situazioni in cui il rischio di essere smentiti è ridotto al minimo, come ad esempio nei casi di violazione dei diritti umani sotto regimi totalitari. Tornando al caso in esame, si può osservare come, nella prima fase dell'inchiesta, in cui gli inquirenti non dispongono ancora di sufficiente materiale probatorio e in cui le contestazioni degli azionisti sono ancora poche e scarsamente circostanziate, Romiti ritenga di poter difendere se stesso e l'azienda semplicemente negando qualunque addebito senza fornire spiegazioni supplementari. Egli è convinto di non poter essere smentito sia perché negli ultimi anni le indagini della magistratura non hanno raggiunto risultati di rilievo, sia perché sa di poter contare sul preordinato silenzio dei manager del Gruppo.

L'inchiesta, però, continua e gli inquirenti cominciano a disporre di una serie di fatti rivelati da politici e confermati da manager del gruppo Fiat: Papi ammette di aver versato una tangente da un miliardo e ottocento milioni per far ottenere alla Cogefar Impresit la costruzione del passante ferroviario, Cozza rivela che la Fiat Ferroviaria ha pagato due miliardi e settecento milioni al Psi in relazione agli appalti per la metropolitana milanese e Caprotti confessa di aver pagato tangenti per ottenere una fornitura di autobus dal comune di Milano.

La comoda soluzione della negazione letterale non è più praticabile e la strategia di Romiti e del resto del Gruppo deve subire un aggiustamento: non si nega più che gli episodi illeciti si siano verificati, ma si cerca di circoscriverne l'importanza. Si utilizza, cioè, una strategia riconducibile alla "negazione interpretativa di isolamento" con la quale si ammette che il fatto sia accaduto, ma lo si presenta come un episodio isolato. Questa soluzione è meno vantaggiosa della precedente perché costringe i vertici Fiat ad ammettere qualche addebito, ma conserva il vantaggio di limitare i danni senza affrontare il tema delle responsabilità. Il primo a rendersi conto della necessità di modificare l'atteggiamento difensivo è l'Avvocato. Alla folta platea degli imprenditori che, il 17 aprile 1993, affolla il teatro "La Fenice" di Venezia, egli rivela: "Si, anche alla Fiat si sono verificati alcuni episodi di commistione con il sistema politico non corretti", ma "non credo ci siano dubbi sul fatto che il cuore della Fiat sia quello d'una impresa impegnata in una libera e forte competizione sul mercato". [...] occorre distinguere il cuore sano, l'auto, dalle zone periferiche infettate per un giro di commesse che rappresenta appena il 5 per cento del fatturato dell'intero gruppo" (6).

Il 24 aprile Cesare Romiti consegna ai magistrati di Milano la cosiddetta "memoria Romiti-Fiat" che ripropone con maggior precisione la tesi difensiva dell'Avvocato. Romiti è consapevole che le indagini degli inquirenti hanno già fornito importanti riscontri, ma cerca di dimostrare che "quello che è accaduto non è ciò che sembra" (7).

Per avvalorare ulteriormente la propria tesi, Romiti confronta il fatturato delle aziende che riforniscono la pubblica amministrazione, considerate maggiormente "a rischio di tangente", con quello complessivo del gruppo Fiat, sottolineando come queste aziende rappresentino nel loro complesso il 3,4 % dell'intero fatturato del Gruppo (8). Egli ritiene, così, di dimostrare come una condanna del loro operato non possa intaccare il giudizio positivo sull'azienda nel suo complesso, entro il quale esse rivestono un'importanza del tutto marginale.

La strategia difensiva adottata nella memoria presentata da Romiti ai giudici di Milano è molto articolata: accanto alla c.d. "negazione interpretativa di isolamento", compaiono altre argomentazioni riconducibili alla teoria della "negazione giustificativa" di Cohen. Questa parte delle argomentazioni difensive di Romiti è particolarmente importante in quanto non viene più posta in discussione l'esistenza del fatto, ma viene affrontato il tema delle responsabilità. Le argomentazioni utilizzate da Romiti per allontanare dall'azienda la minaccia dell'imputazione sono estremamente varie, ma ispirate implicitamente e, talvolta esplicitamente, a convincere che "il vertice non sapeva". L'obiettivo ultimo dell'impianto difensivo è la protezione, a qualunque costo, dei vertici del Gruppo, i fratelli Agnelli e Cesare Romiti, in primis. È interessante notare che quando i risultati delle indagini dimostreranno che il vertice della Fiat S.p.A. non solo conosceva, ma coordinava i rapporti con il sistema politico e le gestione delle riserve extracontabili e non potrà, quindi, più essere sostenuta la tesi dell'iniziativa autonoma delle società partecipate, Romiti inizierà a "sacrificare" collaboratori sempre più stretti fino ad arrivare al fedele Francesco Paolo Mattioli, e, forse, a se stesso.

Al momento della presentazione della "memoria Romiti-Fiat" la situazione del Gruppo, peraltro, non è ancora così compromessa. Romiti, pertanto, cerca di attribuire le responsabilità al livello delle società partecipate. A tal fine, fornisce dati molto minuziosi che fotografano il Gruppo come un impero vastissimo dislocato in sessantacinque paesi con 252 stabilimenti, 95.000 fornitori e 9.500 concessionari, per un giro d'affari complessivo di 350.000 miliardi all'anno. L'intento è quello di suggerire al lettore che una realtà così complessa non poteva che essere gestita attraverso il più ampio utilizzo dello strumento della delega. "L'operato dei relativi dirigenti viene valutato dalla holding essenzialmente sulla base dei risultati emergenti dai consultivi, senza sindacato sulle modalità operative della gestione" (9) e, poiché non c'è spazio per un controllo sulle singole operazioni da parte del vertice della capogruppo, tale vertice deve essere sollevato da ogni responsabilità.

L'interpretazione proposta da Romiti può essere ricondotta alla tecnica di negazione che Zamperini chiama "diniego dell'intenzione". Per "diniego dell'intenzione" si intende la strategia difensiva in cui l'offensore accetta di considerare dannoso l'atto compiuto, ma rifiuta di attribuirsene la responsabilità e tenta di diminuire la correlazione tra la sua azione e gli eventi indesiderati che si sono verificati, spostando l'attribuzione causale da elementi, come l'intenzione e la volontà, legati alla sua persona ad elementi esterni e periferici. Tale strategia si basa su un principio relativamente semplice: nelle regole della morale comune e nelle norme di diritto, l'attribuzione della responsabilità è normalmente legata all'agire del soggetto e viene, quindi, esclusa nel momento in cui si riesce a dimostrare che l'evento è stato determinato da circostanze che sono sfuggite al diretto controllo dell'interessato (10).

Nel caso in esame, le circostanze attorno a cui ruota l'argomentazione di Romiti sono rappresentate dall'estensione del Gruppo e dal decentramento delle funzioni che renderebbero, secondo il manager, impossibile per la capogruppo il controllo delle singole iniziative delle partecipate.

Accanto al c.d. "diniego dell'intenzione", la memoria Romiti-Fiat tenta di utilizzare altre strategie di negazione, riconducibili alla categoria delle giustificazioni (11), volte a garantire la più ampia immunità dell'azienda, estendendola anche alle società partecipate. Le diverse giustificazioni addotte muovono dal concetto di "corruzione ambientale":

"Negli ultimi anni, in Italia, si era sviluppato progressivamente, a causa di degenerazioni e deviazioni politico istituzionali non addebitabili alla volontà degli imprenditori, un sistema altamente inquinato entro il quale le imprese avevano dovuto convivere per lavorare" (12).

Romiti fa discendere da questa constatazione alcune argomentazioni:

La prima argomentazione, che potrebbe essere ricondotta alla giustificazione definita da Cohen "negazione della vittima", è utilizzata dal manager per invertire l'ordine delle responsabilità: i manager del gruppo non sarebbero stati colpevoli di corruzione, false comunicazioni sociali e illecito finanziamento ai partiti, ma vittime di un sistema perverso che li obbligava a compiere quei reati per evitare "le gravi conseguenze che altrimenti si sarebbero verificate per la loro azienda, mettendo in crisi il lavoro svolto da loro a dai loro collaboratori" (13).

Quest'ultima parte di giustificazione è particolarmente interessante perché sembra evocarne un'altra, rappresentata da ciò che viene comunemente chiamato "richiamo a lealtà superiori". Romiti sottolinea come nessuno degli amministratori "fosse portatore o beneficiario di propri interessi o vantaggi patrimoniali" (14).

Pare che questa "concussione ambientale" che, in un certo senso, quasi giustificava gli illeciti compiuti dagli amministratori delle società partecipate, cessasse quando nella contrattazione interveniva Romiti. Egli stesso racconta infatti che "in quelle occasioni, rare ma molto importanti, nelle quali ho trattato affari di interesse del gruppo con soggetti pubblici, nessuna richiesta illecita mi è mai stata formulata dai miei pur qualificati interlocutori" (15).

La figura di Romiti che emerge dalla memoria presenta tratti ambigui: da un lato, egli appare desideroso di collaborare con gli inquirenti al punto da recarsi spontaneamente al Palazzo di Giustizia di Milano per spiegare in ventisei pagine la sua verità sulle tangenti Fiat, dall'altro si preoccupa soprattutto di allontanare da sé qualsiasi sospetto anche a costo di sacrificare gli amministratori delle partecipate o, come nel caso appena citato, la credibilità e la coerenza della propria linea difensiva.

È interessante sottolineare il filo conduttore che lega idealmente tutte le fasi della strategia difensiva di Romiti e dell'azienda: fin dall'inizio dell'inchiesta gli esponenti della casa automobilistica torinese hanno elogiato l'operato della magistratura, accompagnando le attestazioni di stima con l'assunzione dell'impegno di fornire, per quanto possibile, dati utili per la prosecuzione delle indagini. Sulla lealtà di tale collaborazione è lecito nutrire qualche dubbio, soprattutto se si considera che Romiti, nell'invitare i manager intervenuti nel Comitato di Coordinamento ad informare l'autorità giudiziaria dei fatti che potevano interessarla, li richiama a seguire il "superiore interesse dell'azienda" (16). E se qualche dubbio vi può essere sul fatto che l'interesse superiore dell'azienda possa essere compatibile con quello della magistratura, è chiaro che, in caso di conflitto, sarà il primo a prevalere. Durante l'analisi dei fatti, ci siamo infatti imbattuti, con una certa frequenza, in episodi incompatibili con uno spirito di leale collaborazione, quali la "gita a Vaduz", il tentativo di Montevecchi di eliminare la documentazione inerente al conto Sacisa, il coordinamento delle difese attraverso l'opera dell'avvocato Gandini, il consiglio di quest'ultimo a Mosconi di rendere dichiarazioni "prudenti" ai magistrati di Roma ed, infine, le stesse memorie di Romiti che l'evoluzione delle indagini hanno dimostrato intenzionalmente lacunose.

Nonostante questi limiti, che definirei fisiologici in relazione alla situazione, è opportuno sottolineare la scelta della Fiat di collaborare con gli inquirenti. Probabilmente tale scelta è dovuta ad una migliore valutazione, rispetto ad altri gruppi, della capacità espansiva delle indagini.

La Fiat ha ritenuto che sarebbe stato controproducente attaccare l'operato della magistratura, autodefinendosi magari vittima di un complotto ordito dai propri avversari politici, consapevole del sostegno dell'opinione pubblica alle iniziative dei giudici, considerati gli artefici della moralizzazione del Paese.

La maggior parte dei politici e degli imprenditori indagati nell'ambito dell'inchiesta Mani Pulite, tra cui Silvio Berlusconi, hanno ritenuto, invece, più vantaggioso difendersi attaccando, mettendo "sotto processo" l'intera categoria dei magistrati, facendo ricorso alla strategia, riconducibile alla negazione giustificativa, che Cohen chiama "condanna di chi ti condanna".

È interessante confrontare le dichiarazioni rese da Berlusconi durante un'assemblea della Confagricoltura, il 9 settembre 1998, con la lettera aperta sottoscritta da Cesare Romiti e pubblicata con gran risalto sul Corriere della Sera il 24 aprile 1993.

Nella prima, il deviante cerca di spostare l'attenzione dal proprio comportamento a quello di coloro che lo stanno sanzionando:

"Quando una parte politica usa l'arma della giustizia al fine di eliminare gli avversari politici [...] non credo che ci sia nessuno che possa ritenere che siamo in una democrazia. In questo momento in Italia c'è una maggioranza che ha dato vita ad un sistema giustizialista ed autoritario. [...] alcuni settori della magistratura utilizzano la giustizia a fini politici" (17).

Nella seconda, invece, il potenziale obiettivo delle indagini, Cesare Romiti, esalta il compito dei magistrati. L'articolo ha un titolo emblematico: "Aiutiamoli, questi giudici, stanno cambiando l'Italia". Dalle colonne del Corriere della Sera, Romiti riesce addirittura a ritagliarsi un ruolo di promotore dell'opera dei magistrati presso i colleghi, lanciando l'appello:

"E ora, cari amici, confessate tutti [...]. Bisogna agevolare il più possibile la piena ricostruzione di ciò che è avvenuto" [perché] "il riconoscimento dell'errore commesso, per quanto difficile e penoso, è l'unico modo per poter realmente iniziare il cambiamento morale del Paese" (18).

Non è possibile, in questo momento, valutare quale atteggiamento sia stato più redditizio dal punto di vista dei risultati processuali perché i processi sono ancora pendenti, ma si possono avanzare due considerazioni.

La prima considerazione riguarda il fatto che tra gli inquirenti e gli indagati e le loro difese, nel caso esaminato, si è instaurato un rapporto non sempre sereno (19), ma sostanzialmente improntato al dialogo ed alla collaborazione. Tale clima, ritengo, ha favorito i rapporti fra accusa e difesa anche attraverso incontri, come quello tenutosi il 17 aprile 1993 in Procura tra il pool di Milano e i difensori del gruppo Fiat, di cui Chiusano ricorda:

"Non parlerei di accordo, parola che non fa parte né del mio vocabolario né del codice penale. C'è stato un chiarimento sulle rispettive posizioni tra la Procura e noi [...]. Non si sono verificate negoziazioni, né transazioni, però è cambiata l'atmosfera. Non ci sono più incomprensioni ed equivoci interpretativi" (20).

Il secondo vantaggio della strategia difensiva adottata dal gruppo Fiat è rappresentato dalla relativamente scarsa risonanza pubblica del processo. L'adozione di una tecnica difensiva come quella definita "condanna di chi ti condanna" comporta la necessità di sferrare continui attacchi all'avversario attraverso i vari mezzi di informazione e, di conseguenza, richiede di attirare su di sé l'attenzione dell'opinione pubblica, per dare alla propria condizione di vittima il maggior risalto possibile. Questa strategia può portare benefici all'imputato in termini di immagine, ma fornisce necessariamente maggior risalto alla vicenda e all'imputazione del soggetto.

In situazioni di grande incertezza, come quella determinatasi dopo l'avvio dell'inchiesta di Tangentopoli, in cui spesso i sospetti contano più dei fatti accertati, la strategia di fomentare polemiche può rivelarsi controproducente e la Fiat, rendendosi conto della serietà degli addebiti contestati ai suoi amministratori, ha scelto di non correre questo rischio, cercando di limitare al minimo le occasioni di affrontare pubblicamente il tema del suo coinvolgimento nelle indagini.

Rientra a mio giudizio in questa strategia anche la richiesta, per i due top manager Romiti e Mattioli, del rito abbreviato. Tale rito, oltre a garantire uno sconto di pena e a permettere di abbreviare i tempi della pronuncia, consente di evitare la pubblicità e il clamore derivante dal pubblico dibattimento, in quanto la decisione sul merito, che viene anticipata in sede di udienza preliminare, si svolge in camera di consiglio (21).

Si può osservare come Romiti abbia fatto ricorso alla negazione "condanna di chi ti condanna" non per colpire l'operato della magistratura, ma come strumento di difesa contro gli attacchi di quei manager del Gruppo che avevano deciso di collaborare seriamente con gli inquirenti e le cui dichiarazioni erano tali da inchiodare alle proprie responsabilità i vertici della casa automobilistica torinese. Il tentativo di ricondurre l'atteggiamento di Romiti a questa strategia difensiva costituisce forse una forzatura, perché i manager attaccati non rappresentano, come richiederebbe il modello interpretativo, i soggetti chiamati ad emettere un giudizio sulla vicenda, ma ritengo li si possa ugualmente ricondurre a quella categoria perché, in qualità di testimoni, anch'essi giudicano l'operato di Romiti e valutano le sue responsabilità all'interno dell'azienda.

Il primo manager di rilievo a trasgredire l'implicito imperativo della "bocca Chiusano" è Antonio Mosconi. Con le sue dichiarazioni egli conferma agli inquirenti la consapevolezza di Romiti in merito al conto Sacisa ed alle tangenti relative al consorzio Intermetro e ventila l'ipotesi che sia proprio Romiti l'ideatore della "gita a Vaduz" e del conseguente inquinamento probatorio (22).

Alle accuse di Mosconi Romiti risponde:

"Da un lato, posso supporre che abbia voluto in questo modo attenuare, almeno sul piano morale, le sue responsabilità e, dall'altro, ammetto che tra me e il Mosconi si erano create delle incomprensioni e dei risentimenti da parte sua allorché scegliemmo Papi, anziché lui, come amministratore delegato della Cogefar Impresit" (23).

Se Mosconi viene presentato come un manager "silurato", guidato dal desiderio di vendetta, ancora più severo è il giudizio che Romiti infligge ad altri due ex collaboratori, Vittorio Ghidella e Clemente Signoroni.

Il primo è colpevole di aver rivelato agli inquirenti i pagamenti in nero, estero su estero, dei premi ai dirigenti, i prelievi mensili da Fiat Auto e i loro presunti utilizzi, le competenze all'interno del Gruppo che non riflettevano la distribuzione di funzioni descritta nell'organigramma aziendale ed, infine, le modalità utilizzate dalla Fiat S.p.A. per alimentare i propri fondi riservati. Romiti reagisce alle accuse di Ghidella con un feroce attacco personale finalizzato a minarne la credibilità. Afferma, infatti:

" [Ghidella] Non andò via, come hanno scritto i giornali, per problemi di poteri o non poteri. Andò via perché l'abbiamo acchiappato con le mani nel sacco. Purtroppo sono stato io che l'ho dovuto acchiappare: aveva cospicui interessi in molti fornitori che fornivano Fiat" (24).

E pochi mesi dopo, il 20 novembre 1995, completa il ritratto dell'ex manager del Gruppo scrivendo, nella memoria difensiva:

"Ghidella è posseduto da una sfrenata passione per le interviste giornalistiche delle quali sono, quindi, disseminati tutti i principali quotidiani e settimanali italiani e stranieri. [...] Ne emerge confermata la figura tipica dell'uomo di potere, ambizioso, decisionista, prepotente" (25).

Nella foga di fornire elementi per "condannare" chi lo aveva precedentemente condannato Romiti dimentica di aver delineato, nel libro-intervista Questi anni alla Fiat, scritto pochi anni prima, una descrizione del suo collaboratore diametralmente opposta. Alla domanda di Pansa "Mi dice una qualità che lei possiede e Ghidella no?" aveva, infatti, risposto:

"È la capacità di entrare in rapporto con le persone. Ghidella è uno schivo" (26).

Il secondo degli uomini di Romiti, Clemente Signoroni, ribattezzato in azienda "indossatore delegato", per la sua eleganza e per aver ricoperto la carica di amministratore della GFT (27), è "colpevole" di aver rivelato ai magistrati il sistema che permetteva di stornare risorse dalla Fiat Auto a favore della Fiat S.p.A. e, soprattutto, di aver affermato la responsabilità personale di Romiti in merito. Signoroni ha anche confermato il forte accentramento aziendale, rivelando l'utilizzo, all'interno di Fiat Auto, di un programma computerizzato, denominato "320/322", in grado di ottenere un quadro dettagliato, mese per mese, della gestione finanziaria delle società partecipate.

Romiti si difende insinuando dubbi sull'integrità professionale del manager e riportando le lamentele sul suo conto ricevute dal suo superiore Marco Rivetti, direttore della Gft:

"Abbiamo pescato Signoroni con le mani nel sacco. Questo qua si è approfittato [...]. Ha tentato di vendere la sede [della Gft] a Giraudo [manager dell'Ifil] a un prezzo che è la metà del suo valore".

Anche Cantarella, che aveva affidato a Signoroni l'operazione di vendita di automobili denominata World Wide, ricordava di aver avuto qualche sospetto "che si fosse messo in tasca dei soldi, che tale operazione fosse il ricavato di un suo guadagno personale" (28).

In realtà, Rivetti, interrogato dai magistrati pochi mesi prima di morire, riferirà che "su Signoroni c'erano soltanto voci" (29). A queste voci, Romiti si era affrettato a dare risalto, per supportare la sua strategia di negazione "condanna di chi ti condanna".

2.2 I capri espiatori

Le scelte difensive di Romiti e della Fiat, esaminate nel paragrafo precedente, possono essere osservate anche attraverso uno schema interpretativo che, a differenza della "teoria della negazione", focalizzi maggiormente l'attenzione sui soggetti, sul loro ruolo e sulle loro interrelazioni. Alle dinamiche che si instaurano tra i soggetti nelle organizzazioni complesse è dedicata l'opera di Bonazzi il quale analizza, in particolare, come le situazioni di conflitto possano essere risolte con la creazione di un "capro espiatorio".

Per comprendere di che cosa si tratta può essere utile riportare un episodio narrato da Freud:

"Un racconto popolare di origine ungherese riferisce che in un villaggio venne trovata uccisa una ragazza. Le indagini condussero ad incolpare il fabbro ferraio, il quale confessò di essere l'assassino. I vecchi del villaggio, radunati in tribunale, lo condannarono a morte e decretarono che venisse impiccato sulla pubblica piazza. Ma alla vigilia dell'esecuzione il Borgomastro si accorse che l'assassino era anche l'unico fabbro della comunità, che nessuno era in grado di sostituirlo e che pertanto a condanna eseguita la comunità sarebbe ben presto rimasta senza attrezzi da lavoro. Il Borgomastro convenne altresì che nel villaggio vivevano due sarti e che uno solo sarebbe stato sufficiente per i bisogni della popolazione. Decise quindi di sorteggiare un sarto che l'indomani sarebbe stato impiccato al posto del fabbro ferraio. Così avvenne; la comunità continuò ad avere aratri, chiavi e coltelli ed al contempo appagò, grazie al sacrificio sostitutivo, la sua attesa di giustizia riparatrice del misfatto" (30).

Gésa Roheim ritiene che l'origine di ogni sacrificio rituale di capro espiatorio debba essere individuata "nella ripetizione simbolica dell'assassinio ancestrale del padre (e/o della sua castrazione) da parte dei figli desiderosi di ribellarsi al suo potere" (31). Di fronte al desiderio di eliminare il padre o, più in generale, il capostipite mitico o il "re divino" della comunità, ed alla contestuale percezione del divieto del gruppo di appartenenza, ci si orienta verso forme di appagamento simbolico, sostituendo il padre o il capostipite della comunità con un soggetto estraneo: il "capro espiatorio". Roheim sottolinea che generalmente il capro espiatorio ha caratteristiche particolari che lo rendono inviso alla comunità. Perciò essa sceglie di riversare su di lui tutte le sue colpe compiendo un rituale di autopurificazione.

Tentando di tradurre gli spunti offerti da Roheim in un linguaggio sociologico, al sacrificio sostitutivo del "re divino" potrebbe corrispondere la situazione in cui, quando ad un individuo, dotato di potere, viene richiesto dimettersi in relazione al verificarsi di un evento negativo attribuito alla sua responsabilità, al suo posto, vengono sacrificati uno o più capri espiatori che permettono sia di soddisfare il desiderio di giustizia sia di conservare inalterata la posizione di potere.

Anche in questo caso si può rilevare che, spesso, i sentimenti ostili di scontento e di aggressione derivanti da una situazione negativa vengono dirottati su individui le cui caratteristiche particolari conducono il gruppo di riferimento a percepirli come "diversi" o marginali.

Drabeck e Quarantelli studiano, in particolare, le dinamiche collettive che si instaurano quando si deve procedere all'individuazione di colpevoli in caso di disastri. I due studiosi ritengono che, durante i lavori delle commissioni d'inchiesta, il potere costituito tende a reagire alle situazioni di emergenza che lo possono minacciare con meccanismi di difesa che conducono ad occultare i difetti della struttura sociale, favorendo la creazione di un capro espiatorio ed impedendo così di individuare il vero centro delle responsabilità. L'incriminazione di singoli individui permette, così, di ritardare o evitare i mutamenti strutturali che soli sarebbero in grado di impedire in futuro il verificarsi di nuovi incidenti (32). Allo stesso modo, la strategia difensiva dei vertici Fiat ha tentato di attribuire la responsabilità degli illeciti del Gruppo a singoli individui, Mosconi prima e Mattioli poi, per impedire che le indagini della magistratura giungessero al cuore del sistema e lo inchiodassero alle sue responsabilità.

Gli studi sociologici che, sulla scia delle ricerche di Drabeck e Quarantelli, hanno approfondito la tematica del capro espiatorio come strumento di difesa del potere costituito, sono stati molto pochi anche perché la maggior parte delle ricerche fondava la propria analisi sull'implicita assunzione che un'organizzazione complessa, come ad esempio una società, dovesse sempre essere studiata in condizioni di normalità. L'originalità del lavoro di Bonazzi consiste nell'aver compreso che il capro espiatorio costituisce il prodotto di una situazione di crisi intesa come un momento qualitativamente diverso dalle normali condizioni di funzionamento del sistema. La creazione di un capro espiatorio costituisce, infatti, "il prezzo sostitutivo che un gruppo omogeneo di potere offre nel quadro di una strategia volta a superare la crisi stessa con il minor danno possibile" (33).

Una questione preliminare si pone affrontando lo studio con un approccio di questo tipo: come si può distinguere un responsabile effettivo da un capro espiatorio?

Sembra opportuno, a tal fine, osservare il rapporto tra le "risorse" (34) di cui il soggetto può disporre per svolgere il suo compito e gli "obiettivi" che è tenuto a raggiungere. Quando le risorse sono adeguate agli obiettivi e questi sono perseguibili in condizioni di relativa prevedibilità e controllabilità, si può ritenere con ragionevole approssimazione di essere in presenza di un responsabile effettivo. La situazione descritta non tiene, però, conto della possibile presenza della variabile "potere", che ha conquistato sempre maggiore importanza all'interno delle organizzazioni complesse. I criteri suggeriti per individuare il responsabile effettivo rimangono validi solo se l'esercizio dei poteri rimane associato all'assunzione di tutte le responsabilità che ne derivano. Il caso esaminato in questa tesi è un significativo esempio di come il detentore di un ruolo importante all'interno dell'organizzazione, Cesare Romiti, cerchi di sfruttare il potere derivante dalla sua posizione per non rispondere in prima persona delle sue responsabilità e le scarichi sui capri espiatori rappresentati dagli amministratori delle partecipate, prima, e della capogruppo, in seguito.

Per esaminare correttamente le condizioni che determinano la creazione di un capro espiatorio è necessario partire dall'analisi dell'organizzazione aziendale. Alcuni modelli di organizzazione del personale, infatti, permettono più facilmente di allontanare le responsabilità dal gruppo centrale di potere: la poca chiarezza nelle dipendenze, nelle funzioni e nei criteri di valutazione dell'operato potrà produrre, per i dipendenti, il continuo pericolo di venire in qualche modo additati fra i responsabili in caso di incidente; al contrario, la preventiva definizione di ruoli "plenipotenziari" in cui viene concentrata la maggior parte delle funzioni determinerà, fin dall'inizio, i soggetti su cui cadrà la responsabilità per qualunque tipo di problema. In entrambe le ipotesi, comunque, il vertice aziendale precostituisce le condizioni per poter utilizzare la strategia del capro espiatorio garantendosi un'ampia rosa di candidati o una singola vittima predestinata.

Nel caso in esame, invece, il responsabile effettivo, Cesare Romiti, non può servirsi degli strumenti forniti dall'organizzazione aziendale, ma solo sfruttare, per attribuire la formazione e la gestione dei fondi riservati all'autonoma iniziativa degli amministratori delle società partecipate, il forte decentramento attuato negli ultimi anni dalla fabbrica torinese. La struttura della Fiat potrebbe rientrare nelle "situazioni normalmente definite", cioè in quelle società dotate di una struttura gerarchico-funzionale provvista di procedure in grado, in linea di principio, di garantire l'accertamento della colpevolezza effettiva e la tutela degli incolpevoli. Si dovrà quindi tener conto di questa struttura quando si esamineranno le tecniche con cui il gruppo di potere cercherà di individuare il capro espiatorio e di renderlo credibile. Un importante aspetto da considerare è, infatti, quello della reazione del pubblico, rappresentato sia dall'opinione pubblica sia, come nel caso in esame, dalla magistratura inquirente e giudicante.

L'operazione di attribuzione delle responsabilità al capro espiatorio deve mantenere un certo livello di "credibilità sociale": si deve, cioè, individuare un soggetto il cui incarico all'interno della società renda verosimile una sua responsabilità nella vicenda (35).

La credibilità è garantita, secondo Bonazzi, dall'equilibrio di tre assunzioni. La prima richiede che vi sia, in linea di principio, una sostanziale proporzionalità tra la gravità del fatto e il livello gerarchico a cui si colloca il responsabile effettivo. Con tale assunzione entra in conflitto la seconda, che registra la tendenza dei gruppi di potere ad "ottenere il massimo allontanamento periferico ed il massimo abbassamento gerarchico di ogni imputazione di colpevolezza" (36). L'obiettivo limite sarà quello di accreditare la "tesi della fatalità" che sostiene che non esistono colpevoli, ma il fatto si è verificato per cause imprevedibili e indipendenti dall'umana volontà. Quando non si riuscirà a supportare questo genere di tesi, il gruppo di potere sarà costretto, come nel nostro caso, ad adottare la linea difensiva denominata "strategia del polipo": come il polipo, sentendosi, minacciato si ritira nella tana e allunga un tentacolo verso il predatore affinché se ne cibi e risparmi il resto dell'animale, così il gruppo di potere decide di sacrificare uno o più dei propri membri per garantire la salvezza agli altri.

Ovviamente, tanto più i soggetti sacrificati proverranno da aree decentrate e marginali rispetto al gruppo di potere, tanto meno risulterà dolorosa per tale centro la decisione di sceglierli come capri espiatori. Per mantenere un grado di credibilità sociale accettabile, l'allontanamento dal centro di potere dovrà, però, rispettare due condizioni: il possibile capro espiatorio dovrà occupare un ruolo funzionalmente connesso all'area in cui si è verificato l'incidente e dovrà esserci una certa proporzionalità tra la gravità dell'incidente e il livello gerarchico in cui si colloca il presunto responsabile. Si verificherà, quindi, un contrasto tra la volontà del gruppo di potere di abbassare il più possibile il livello gerarchico da cui trarre il capro espiatorio e la necessità di elevare questo stesso livello, derivante dal principio di proporzionalità rispetto alla gravità del fatto. A tale riguardo, Bonazzi formula un'ipotesi generale: "il risultato ottimale di una punizione vicaria si raggiunge allorché il capro espiatorio si trova nel punto di intersezione tra il livello gerarchico più basso (più lontano) dal vertice del gruppo omogeneo di potere ed il grado minimo sufficiente di credibilità sociale" (37).

La scelta di un capro espiatorio collocato ad un livello gerarchico superiore a quello minimo necessario, comporta per il gruppo di potere un costo aggiuntivo, ma non ne modifica il risultato. Al contrario, scegliendo un capro espiatorio privo del minimo di credibilità richiesta, si può rischiare di ottenere l'effetto controproducente di suscitare l'ostilità del pubblico che, non soddisfatto dalla sanzione adottata ed indispettito dal tentativo di salvaguardare il livello gerarchico superiore, può richiedere provvedimenti ancora più radicali di quelli che sarebbero stati presi se fosse subito stato individuato un colpevole adeguato.

Il vertice societario, per massimizzare la distanza tra il responsabile effettivo e l'individuo scelto come capro espiatorio, può creare o sfruttare alcune situazioni: può, ad esempio, sacrificare individui che godono di una cattiva reputazione sociale perché considerati in possesso di caratteristiche considerate in contrasto con i valori socialmente condivisi. Questo "carisma negativo" consentirà di abbassare il livello gerarchico a cui il pubblico accetterà di veder collocato il responsabile della condotta illecita.

Nel caso in esame, invece, è stata utilizzata una strategia che sfrutta la tipologia di organizzazione adottata dalla società e, in particolare, che focalizza l'attenzione sulle sue strutture paraformali, ossia, scrive Bonazzi, su "tutti quegli elementi, rapporti e istituzioni sociali che non sono apertamente riconosciuti e recepiti dall'organizzazione ufficiale" e sono espressione "della tendenza dell'organizzazione ad articolarsi delegando responsabilità" (38).

In sostanza, settori decentrati dell'azienda compiono azioni vietate dalla normativa vigente con l'implicito assenso del vertice aziendale, ma senza che ufficialmente questo appaia minimamente coinvolto. Finché la pratica non viene scoperta, l'intera azienda godrà dei benefici apportati dall'attività illecita, ma, se si verificherà qualche intoppo, il vertice aziendale sconfesserà le pratiche utilizzate dalla periferia ed i soggetti posti ai livelli inferiori della gerarchia appariranno come i diretti responsabili dell'area in cui si è consumato l'illecito.

Nella prima fase della sua strategia difensiva, la Fiat sembra proprio aver usato questo stratagemma per abbassare il livello gerarchico da cui trarre i responsabili dell'accantonamento delle riserve non contabilizzate e del loro utilizzo per finanziare illecitamente il sistema dei partiti. Come si è visto, infatti, queste attività, tacitamente coordinate dal vertice aziendale, ufficialmente erano svolte dalle società partecipate tramite gli amministratori Papi, Cozza, Aimetti, Bertini, Ruggeri, indicati, inizialmente, come gli unici responsabili.

Gli inquirenti non hanno ritenuto credibile la tesi dell'iniziativa autonoma delle società partecipate, incriminando per quegli addebiti l'amministratore delegato della capogruppo e il suo direttore finanziario, cioè Cesare Romiti e Francesco Paolo Mattioli.

Si potrebbe, pertanto, dire che il processo di Torino abbia confermato anche la seconda parte dell'assunto della teoria di Bonazzi, cioè che se viene fornito un capro espiatorio non credibile il pubblico, in questo caso rappresentato dai pubblici ministeri torinesi, pretenderà addirittura un provvedimento più radicale, cioè l'offerta di un capro espiatorio collocato ad un livello gerarchico più alto, di quello che, forse, avrebbe preteso se fosse subito stato indicato un colpevole dotato di sufficiente credibilità: il gruppo Fiat, infatti, pressato dai risultati raggiunti dagli inquirenti, si è trovato costretto a sacrificare manager di livello sempre più elevato, da Mosconi a Mattioli, giungendo fino a Romiti, responsabile effettivo, ma anche vittima immolata per salvare la famiglia Agnelli.

Come si è detto, riveste una cruciale importanza, nella scelta del capro espiatorio, la sua credibilità sociale. Essa aumenta, inoltre, se il soggetto predestinato è collocato ad un livello gerarchico proporzionato alla gravità del fatto ed occupa, nell'impresa, un ruolo connesso all'area in cui si è verificato l'illecito. L'impresa è, quindi, interessata a fornire all'esterno "un'immagine più allargata dei suoi confini [...] facendo apparire come compartecipi all'area del potere una frangia di soggetti che in realtà non lo sono, o che lo sono in una posizione assai più marginale di quella esternamente percepita" (39) per poter disporre di un maggior numero di soggetti, collocati ai margini dell'azienda e di cui quindi risulta meno doloroso il sacrificio, su cui scaricare le responsabilità in caso di difficoltà. Dal memoriale consegnato alla Procura di Milano e dai successivi interrogatori resi da Cesare Romiti emerge chiaramente questo tentativo di allargare la sfera delle responsabilità presentando un gruppo vastissimo in cui, per necessità, le decisioni sono decentrate a livello delle varie aziende "con la correlativa responsabilizzazione dei vari settori operativi" (40). Le cifre del colosso industriale e il decentramento rappresentano i due strumenti utilizzati da Romiti nei vari interrogatori davanti ai magistrati per confondere i ruoli, per sovrapporre le responsabilità, per indurre gli inquirenti ad accogliere la tesi difensiva "il vertice non poteva sapere": se il "polipo", nel momento in cui sacrifica il tentacolo, intorbidisce anche le acque intorno a sé con l'inchiostro che è in grado di secernere, avrà più possibilità di dare al predatore l'impressione di aver mangiato una parte più vitale di quella effettivamente addentata!

Alla luce delle riflessioni svolte, si può ora presentare lo sviluppo della strategia difensiva della fabbrica automobilistica torinese.

La progressione delle indagini e la correlativa presa di coscienza da parte degli organi inquirenti della gravità del fenomeno hanno reso necessario un progressivo innalzamento del livello delle responsabilità fino ad arrivare a sfiorare la famiglia Agnelli con l'imputazione e la condanna, oggi definitiva, del numero due del Gruppo, il dottor Cesare Romiti. I primi ad aver vestito i panni del capro espiatorio in questa vicenda giudiziaria sono stati gli amministratori delle società partecipate in cui si erano verificati i primi illeciti: alcuni di questi fatti erano stati scoperti dagli inquirenti, altri erano stati suggeriti da Romiti con le due memorie consegnate alle procure di Milano e Torino.

È interessante notare come i manager citati fossero già tutti "bruciati", cioè già indagati o comunque, in qualche modo, nel mirino degli inquirenti. Il loro sacrificio si presentava quindi come la soluzione meno dolorosa per l'azienda, permettendole di ottenere benefici, se non in termini di risultati processuali per lo meno in termini di immagine, senza comportare ulteriori oneri.

In termini di risultati processuali, questa prima designazione di capri espiatori non ha sortito gli effetti desiderati, non impedendo che il pubblico ministero di Torino rinviasse a giudizio Romiti, Mattioli e Signoroni ed archiviasse, invece, il procedimento riguardante Piccoli, Cozza e Ghidella. La strategia del capro espiatorio ha finito, paradossalmente, per favorire proprio i manager delle società partecipate. In particolare, non solo non è stata accolta la tesi difensiva che, accollando loro le responsabilità dei vertici societari, li presentava come gli unici responsabili degli illeciti verificatisi a livello delle società partecipate, ma i manager non sono stati neppure accusati degli addebiti che sono conseguenza immediata e diretta delle loro condotte e delle loro mansioni, perché il pubblico ministero li ha ritenuti estinti per l'esteso operare dell'amnistia tributaria.

Tale ultima scelta è stata duramente criticata dal giudice di primo grado, secondo "non era tanto il profilo fiscale che veniva in evidenza, quanto la copertura di situazioni irregolari che si voleva sopravvivessero, di anno in anno, per garantire il mantenimento dell'utilità di sfruttare quelle ricchezze nell'ottica di un malinteso interesse della compagine societaria" (41).

Alla base della decisione dei pubblici ministeri di Torino è stata, probabilmente, la consapevolezza che le responsabilità erano allocate ad un livello superiore e che, per la prima volta, vi erano le condizioni per arrivare a colpire i "motori immobili" del sistema delle tangenti alla Fiat. Colpire pesantemente i manager di secondo piano avrebbe significato congelare un'importantissima fonte di materiale investigativo ed accusatorio e pregiudicare pesantemente la possibilità di colpire i vertici del Gruppo.

Per ottenere un quadro chiaro della linea difensiva del gruppo Fiat occorre analizzare con attenzione l'intero svolgimento delle indagini, a partire dalle rivelazioni di Maurizio Prada ai pubblici ministeri di Milano, del 1992. In particolare, può essere utile mettere a confronto le reazioni dei manager sempre più importanti, sacrificati per difendere il buon nome dell'azienda.

Il primo "tentacolo del polipo-Fiat", per continuare con il paragone etologico di Bonazzi, ad essere stato sacrificato è Enzo Papi, amministratore delegato della Cogefar Impresit, accusato da Prada di aver pagato tangenti per circa due miliardi tra il 1990 e il 1991 per permettere all'azienda di costruzioni del gruppo Fiat di ottenere importanti appalti nell'area milanese (42). Papi sembrava racchiudere in sé tutte le caratteristiche del capro espiatorio "ottimale": era infatti, contemporaneamente; lontano dal vertice del gruppo e dotato di sufficiente credibilità sociale. Non era vicino né a Romiti, né al suo eterno antagonista Umberto Agnelli e quindi il suo sacrificio non sarebbe stato particolarmente doloroso per nessuna delle due fazioni che si fronteggiano all'interno del Gruppo Fiat. Inoltre, essendo impiegato fin dal 1985 presso la Fiat Impresit e ricoprendo dal 1990 la carica di amministratore delegato della Cogefar Impresit (43), egli occupava nell'organizzazione un ruolo funzionalmente connesso con l'area in cui si erano verificati gli illeciti. Infine, Papi era collocato ad un livello gerarchico sufficientemente elevato da rendere verosimile un suo coinvolgimento nei fatti.

Per i motivi appena esposti, Papi "ha dovuto", quindi, fermare al suo livello le responsabilità per i pagamenti di tangenti e i finanziamenti illeciti ai partiti operati dalla Cogefar Impresit, assoggettandosi docilmente all'imperativo della "bocca Chiusano". La sua condotta è stata irreprensibile: è rimasto cinquantacinque giorni a San Vittore senza dire una parola; appena uscito ha rivelato i meccanismi dei fondi neri e delle tangenti alla Cogefar, ma non ha coinvolto il suo superiore Mattioli: "Non l'ho messo al corrente dei predetti fondi neri [...]" (44) perché "si tratta di soldi che ho distribuito per iniziativa personale e per onorare gli impegni presi prima che la Fiat Impresit acquistasse la Cogefar" (45).

Il sacrificio di Papi è stato ricompensato con ampi indennizzi e con l'appoggio dei vertici del gruppo. Così, infatti, lo difendeva Mattioli durante l'assemblea degli azionisti del 17 giugno 1992: "Ho fatto svolgere in azienda gli accertamenti necessari. Da essi è emerso che nessun finanziamento ai partiti politici in qualunque forma è stato disposto dalla società e tanto meno dazioni di denaro a favore di pubblici funzionari [...] la presidenza della società tiene a confermare il proprio giudizio positivo sulla serietà operativa di Enzo Papi" (46).

La credibilità e l'efficacia di questo capro espiatorio sono state, peraltro, messe in crisi delle nuove dichiarazioni di Maurizio Prada. Egli, ammettendo di essersi incontrato, nel maggio dell'88, con Mattioli e Mosconi in una saletta appartata del "Club 44" per parlare degli appalti milanesi e delle relative tangenti, ha precisato che "Mattioli e Mosconi sapevano perfettamente che le contribuzioni sarebbero state pagate dagli amministratori delegati delle società che dovevano operare a Milano" (47). Tali dichiarazioni hanno costretto Papi ad ammettere che "Sì, i vertici della Cogefar Impresit sapevano che si pagavano tangenti". Egli, tuttavia, non ha rinunciato a difendere ancora una volta i suoi superiori:

"Noi eravamo dei concussi, obbligati a pagare dai politici, mica potevamo ribellarci e fare la rivoluzione contro quella legge non scritta. Tant'è vero che Mattioli e Mosconi mi dissero, se proprio si doveva pagare, che almeno pagassi il meno possibile" (48).

Con la prosecuzione delle indagini, tuttavia, il capro espiatorio Papi ha perso progressivamente la sua credibilità sociale in ragione dell'emersione di fatti sempre più gravi la cui responsabilità non poteva che appartenere ad un soggetto collocato ad un livello gerarchico superiore. Con le sue dichiarazioni, Prada ha coinvolto due manager ai vertici della Fiat da parecchi anni, candidati ideali a costituire il nuovo capro espiatorio della fabbrica torinese: entrambi ricoprivano, infatti, cariche che potevano giustificare un loro coinvolgimento nell'accaduto e, soprattutto, una loro responsabilità diretta negli illeciti. Mosconi, come si è già detto, aveva iniziato la sua carriera alla Fiat nel 1968 con un modesto incarico presso la segreteria del condirettore generale (49), ma aveva progressivamente ricoperto ruoli sempre più importanti. Era stato infatti vicepresidente di Fiat Engineering, amministratore delegato della Fiat Impresit, vice presidente della Cogefar Impresit e infine, dal dicembre '92, amministratore delegato della Toro Assicurazioni (50). Mattioli, invece, era arrivato in Fiat nel 1975 a soli trent'anni e, fin dall'inizio, era stato chiamato "nell'alto dei cieli all'ottavo piano di corso Marconi" (51) dal suo amico e protettore Cesare Romiti.

Può essere interessante notare come Mosconi fosse, invece, legato a Umberto Agnelli. La sconfitta di tale sponsor nella lotta al vertice del Gruppo, descritta nel dossier Arnaudo, ha certamente contribuito a determinare, per Mosconi, la condizione di vittima designata ad impedire il coinvolgimento negli addebiti del vertice aziendale. A peggiorarne la posizione, inoltre, si aggiungeva l'aperta ostilità di Romiti, il quale si era, già in passato, opposto alla sua ascesa al vertice della Toro, tradizionale feudo umbertiano. È lo stesso Mosconi a ricordarlo: "Sono stato nominato amministratore delegato della Toro il 3 dicembre 1992 alle ore 10.00 su volontà precisa di Umberto Agnelli. Il dottor Romiti, invece, ha ostacolato con ogni mezzo la mia nomina a tale incarico" (52).

I contrasti con Romiti non si limitavano all'episodio della nomina alla Toro. Mosconi, infatti, rimproverava a Romiti ed a Mattioli di aver favorito l'ascesa di Papi ai vertici della Cogefar Impresit nonostante conoscessero i suoi rapporti non corretti con il sistema dei partiti e la sua disponibilità a pagare tangenti ed, anzi, proprio per questi motivi (53). Romiti invece non perdonava a Mosconi di aver fatto emergere, tramite una perizia giurata commissionata ad un architetto nel gennaio 1993, che il prezzo fissato dai romitiani Mattioli e Zumino, amministratore delegato della Fivi (54), per la vendita di due palazzi della Toro alla Sai di Ligresti, buon amico di Mediobanca, era quasi la metà del suo valore reale, stimato in circa cinquanta miliardi. Mosconi ricorda, infatti, che quando emerse questa vicenda, "vi fu una riunione fra Zunino, Romiti, Mattioli e Torri, i quali si recarono dal dottor Umberto Agnelli per sollecitare le mie dimissioni anche per il diniego che avevo opposto alla vendita degli immobili" (55).

La posizione di Mosconi, già fortemente compromessa prima del suo coinvolgimento nella vicenda di Mani Pulite, è precipitata al momento delle dichiarazioni di Maurizio Prada, che hanno reso improrogabile il sacrificio di un manager di livello elevato, imponendo di scegliere tra Mosconi e Mattioli. Quest'ultimo, tuttavia, pur ricoprendo ruoli altrettanto importanti nelle aziende coinvolte nello scandalo (56), a differenza di Mosconi, godeva della protezione di Cesare Romiti.

Il sacrificio di Mosconi avrebbe, comunque, presentato un certo costo, almeno in termini di immagine, per il vertice del Gruppo e, quindi, si è cercato di evitarlo in tutti i modi, anche attribuendo falsamente responsabilità a manager minori. È Mosconi stesso ad aver rivelato a Di Pietro che l'avvocato Ponzio, suo difensore, era stato convocato d'urgenza da Chiusano, "fatto accompagnare urgentemente da Torino a Milano [dove Mosconi si trovava incarcerato in custodia cautelare] in elicottero, per venirmi a riferire che stavano approntando delle dichiarazioni da rendere alla procura su alcuni fatti delittuosi commessi da dirigenti Fiat Impresit - Chicco, Montevecchi, Leodari - e che quindi, se volevo, potevo guadagnarmi la libertà riferendo di fatti di cui secondo loro dovevo essere a conoscenza" (57).

Avendo rifiutato di utilizzare i nomi dei suoi collaboratori per ottenere la libertà, Mosconi ha firmato così la propria condanna.

Mosconi non era stato fin dall'inizio contrario a tutelare l'azienda sacrificandosi in prima persona. Una settimana prima di essere arrestato si era recato, infatti, da Romiti giurando, forse per timore di venir allontanato dal vertice della Toro: "Dottor Romiti, io mi metto sulla negativa, non dico niente" (58). Aveva, tuttavia, abbandonato questo atteggiamento remissivo quando le dichiarazioni di Papi a Di Pietro avevano chiarito i veri intenti della linea difensiva: non tanto salvare l'azienda sacrificando i manager direttamente coinvolti, quanto tutelare Romiti scaricando le sue responsabilità su altri amministratori, primo fra tutti Mosconi.

In particolare, determinanti sono state le dichiarazioni rese da Papi il 27 aprile '93:

"Nel 1988, quando divenni amministratore delegato della Cogefar, Mosconi mi fornì una lista di tangenti da pagare e mi disse che d'ora in poi dovevo pensarci io. [...] Fu Mosconi ad indicarmi il conto dal quale attingere le mazzette" (59).

A tali affermazioni, furibondo, Mosconi ha replicato, chiarendo la corretta allocazione delle responsabilità:

"Nel 1985, allorché divenni amministratore delegato di Fiat Impresit, il dottor Romiti mi fece presente che il gruppo Fiat nel suo insieme aveva a disposizione in Lugano un tesoretto [...] da cui poteva prelevare, in caso di necessità, il dottor Romiti stesso" (60).

L'11 febbraio 1994, di fronte ad un nuovo ordine di cattura per aver ordinato il versamento di duecento milioni a finanziamento della campagna elettorale della sezione veneta del Pds, Mosconi, ha raggiunto il punto di saturazione, rispondendo a Montevecchi, che l'aveva indicato come il mandante della tangente:

"Voglio evitare che altre persone del gruppo Fiat utilizzino il mio nome per cose che hanno fatto loro" (61).

Egli ha pertanto deciso di raccontare la sua verità sulla mazzetta al Pds veneto, ma soprattutto su quelle informazioni che, secondo lui, Romiti e i suoi collaboratori avevano potuto "centellinare a questa procura". Ha parlato della "gita a Vaduz", dello scoop sulle rivelazioni di Prada messo a segno dall'avvocato Chiusano, delle pressioni ricevute da Gandini e Montevecchi per non rivelare agli inquirenti particolari compromettenti, ovvero di quella che Travaglio, Novelli e Griseri definiscono "la lista completa dei presunti inquinamenti probatori utilizzati per salvare Romiti dai guai, tanto a Milano quanto a Roma".

A questo punto, Mosconi non costituiva più un capro espiatorio sicuro, ma, anzi, metteva in pericolo l'immunità dei veri responsabili. Occorreva, quindi, un dirigente disposto a sostenere il grande carico di addebiti scoperti dagli inquirenti.

Francesco Paolo Mattioli costituiva l'uomo che la Fiat poteva schierare davanti ai magistrati, ultima strenua difesa di un vertice ormai sull'orlo della capitolazione. Egli rappresentava, infatti, "l'ultimo grande esempio di quello che un tempo era il celebrato "stile Fiat", un'austera regola non scritta che voleva il manager potente ma modesto, grigio ma responsabile di ogni suo atto (e non solo), autonomo ma fedele" (62).

Per ironia della sorte, tuttavia, il capro espiatorio più verosimile non ha soddisfatto i pubblici ministeri di Milano e Torino: la sua versione, infatti, è stata talmente categorica nell'escludere qualunque addebito a carico del supermanager Romiti da risultare, dopo le dichiarazioni di Mosconi, scarsamente credibile.

I tempi erano ormai maturi perché Cesare Romiti riconoscesse le sue responsabilità ed accettasse il suo ruolo di scudo protettivo nei confronti degli ultimi responsabili effettivi non coinvolti: Gianni e Umberto Agnelli.

Interessante è osservare la lettura della condotta processuale di Mattioli fornita, il 29 novembre 1996, da Maurizio Tortorella, su Panorama: "A Milano, Mattioli, mente finanziaria del gruppo, lo scorso aprile aveva confermato in tribunale l'aura di martire aziendale che si era già guadagnato nella primavera del 1993, con 36 giorni e 36 notti a San Vittore: una condanna a due anni e sei mesi per le tangenti pagate dalla Cogefar-Impresit sui lavori della metropolitana. A poco era servita, allora, la difesa prestigiosa dell'avvocato Vittorio Chiusano, che gli aveva fatto rifiutare un patteggiamento e si era accanita sulla tesi di una concussione subita dalla Fiat da parte dei politici milanesi [...]. L'importante, però, era che i danni giudiziari per la Fiat si fermassero a quel punto" (63). Ma "San" Francesco Paolo Mattioli, come ormai lo chiamano molti in azienda, ha insistito anche a Torino: interrogato il 13 novembre dal procuratore aggiunto Marcello Maddalena, Mattioli ha ribadito di essersi fidato sempre dei suoi dipendenti, di aver difeso la Fiat dalle pressioni esterne, di aver appreso dei fondi neri soltanto nel 1989: "Non ne parlai con Romiti" ha precisato "se non dopo la mia carcerazione, e per questo tipo di ragionamento: data la mia qualifica, mi consideravo il terminale delle problematiche che venivano da fuori e non mi sono mai sentito obbligato a riferire al dottor Romiti. Ho sbagliato, ma se avessi dovuto regolarizzare le posizioni, avrei messo in imbarazzo i consigli d'amministrazione"" (64) e "il presidente Carli che era ministro del Tesoro" (65).

Mattioli ha illustrato dettagliatamente la sua situazione senza via d'uscita:

"Per me è stato un tormento, l'errore iniziale mi ha impedito poi di fare delle ammissioni successivamente...Riconosco di aver sottovalutato, ma ritenevo che singoli episodi occorsi nell'arco di 12-13 anni fossero sporadici... Speravo di risolvere la faccenda senza che ci fosse pubblicità" (66).

La finalità ultima dell'azione di Mattioli, quindi, ha riguardato non tanto evitare che la Fiat tenesse condotte punibili ai sensi della legge penale, quanto, piuttosto, impedire che gli illeciti eventualmente compiuti diventassero di pubblico dominio.

Mattioli non ha mancato, inoltre, di presentare l'amico Cesare come uno strenuo difensore della legalità di cui lui, autoproclamatosi responsabile unico del mantenimento del conto Sacisa e delle tangenti ai politici romani per l'affare Intermetro, temeva fortemente la reazione. I timori di Mattioli si dimostrarono fondati perché in effetti la reazione di Romiti fu "brutta, brutta, proprio come temevo conoscendolo e lavorandogli insieme da trent'anni...", [ma] "mi ha perdonato. Prima mi ha duramente ripreso, ma alla fine l'Avvocato Agnelli e il dottor Romiti hanno creduto alla mia buona fede" (67).

Mattioli rappresenta un modello quasi paradigmatico di capro espiatorio perché ha saputo accettare, senza cedimenti, le prove che sono conseguenza diretta del ruolo che gli è stato assegnato, cioè la carcerazione preventiva e la condanna al processo di Milano, senza cedere mai una volta alla tentazione di coinvolgere nelle responsabilità i suoi superiori, neanche durante il processo di Torino che minacciava di concludersi con una sua nuova condanna. Non altrettanto si può dire di Romiti. In Fiat dal 1974, sempre in posizioni di vertice, dal 1976 amministratore delegato dalla Fiat Spa e, tra il 1988 e il 1990, anche amministratore delegato di Fiat Auto, capace di determinare, insieme all'avvocato Chiusano, le scelte difensive dell'intero Gruppo dalla "svolta" morale "a base di memoriali smemorati e atti di contrizione nel confessionale del cardinal Martini" (68) alla molto meno "morale" strategia occulta della "bocca Chiusano", Romiti non ha esitato, invece, a coinvolgere nelle responsabilità i suoi superiori, cioè i fratelli Gianni e Umberto Agnelli, quando le dichiarazioni dei manager usciti dal Gruppo, invano presentate da lui come vendette personali, lo hanno inchiodato alle sue responsabilità.

Il livello gerarchico adeguato ad addossarsi le responsabilità per i fatti rivelati da Mosconi, Ghidella e Signoroni è quello di Romiti ed, infatti, i tentativi di autoaccusarsi di Mattioli non sono apparsi credibili perché la posizione da quest'ultimo occupata non gli consentiva di assumersi totalmente la responsabilità dell'accaduto.

Romiti, comprendendo di non poter sacrificare altri manager, ha adottato una condotta peculiare. Ha deciso infatti, di "giocare la carta" degli Agnelli, non per segnalare nuovi capri espiatori, che generalmente si collocano ad un livello inferiore al responsabile effettivo, ma per assimilare la sua posizione a quella di soggetti tradizionalmente immuni dagli attacchi della magistratura.

Questa posizione emerge chiaramente dai verbali dell'ultimo interrogatorio chiesto da Romiti (69). La prima allusione alle responsabilità dei fratelli Agnelli ha riguardato il sistema di finanziamento ai partiti:

"Vi sono aneddoti di rapporti addirittura negli anni '50". [...] "Non credo che un livello di questo genere venisse lasciato all'iniziativa delle singole società...".

Successivamente, Romiti ha dimostrato che la sua entrata in azienda non ha modificato lo stato dei fatti, in quanto i fratelli Agnelli hanno continuato ad essere informati degli illeciti commessi dal Gruppo:

"Se avessi saputo una cosa del genere [tesoretti e tangenti], io per quanto riguarda l'Avvocato, il mio Presidente, il mio Vicepresidente [...] non è che gli vado a dire se mando via il fattorino: però le cose importanti le conoscono. Allora io una cosa del genere non me la sarei tenuta [...]. Voi mi accusate non soltanto di saperlo e non dirlo, ma addirittura anche di aver fatto 21 anni di cattiva collaborazione o di collaborazione sleale..." (70).

Il fine di Romiti non è accusare gli Agnelli, ma garantirsi uno strumento per superare la prova logica dell'accusa, cioè l'assunto "non poteva non sapere". Infatti alla, provocazione del pubblico ministero Giangiacomo Sandrelli: "Se lei ci dice "io sapevo e ho detto tutto all'avvocato Agnelli", facciamo una comunicazione giudiziaria all'avvocato Agnelli! E lo stesso vale per il dottor Umberto", Romiti risponde: "No, io vi dico l'inverso: che se avessi saputo io glielo avrei detto, a lui come a Umberto [...]. Allora voglio dire: se voi dite questo [che io non potevo non sapere], dovete tener conto anche di questa dichiarazione" (71).

Significative sono le parole di Marcello Maddalena. Spiega, infatti, il magistrato: "Non è vero che ci basiamo sul teorema secondo cui Romiti non poteva non sapere. Se fosse così, avremmo processato anche Gianni e Umberto Agnelli, e l'intero Cda Fiat". Per Romiti "noi crediamo che dagli atti emerga la prova che sapeva di queste aree extracontabili" (72), per gli altri, mancando riscontri oggettivi, non si può procedere (73).

La sentenza di primo grado sembra allinearsi alle posizioni assunte dal pubblico ministero, riconoscendo provate le responsabilità dei soli Romiti e Mattioli. Le successive pronunce della Corte d'Appello e della Cassazione sembrano confermare che l'unico capro espiatorio non designato, Cesare Romiti, forse perché più vicino al responsabile effettivo, è stato quello considerato più credibile dai giudici chiamati a decidere.

Note

1. B. Vespa, Telecamera con vista, Nuova Eri, Roma, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1993, p. 20; E. Nascimbeni, A. Pamparana, op. cit., p. 57.

2. Cfr. O. Vidoni Guidoni, Come si diventa non devianti, Trauben edizioni, Torino, 2000, p. 96 ss.

3. P. Nicotri, op. cit., p. 204.

4. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 100-101.

5. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 101.

6. P. Nicotri, op. cit., p. 71-72.

7. Cfr.pp. 49 ss.

8. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 23.

9. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 22.

10. Cfr. O. Vidoni Guidoni, op. cit., p. 45-46.

11. Con il termine "giustificazioni" ci si riferisce a quella tipologia di negazioni in cui l'individuo ammette di aver compiuto un'azione illecita, ma ne rifiuta la sua lettura in chiave negativa. Cfr. O. Vidoni Guidoni, op. cit., p. 36.

12. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 24.

13. Ivi, p. 25.

14. Ibidem.

15. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 74.

16. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 26.

17. O. Vidoni Guidoni, op. cit., p. 41.

18. P. Nicotri, op. cit., p. 83.

19. Ricordiamo ad esempio le famose sfuriate dell'avvocato Chiusano, come quella, espressa in occasione del rigetto da parte del Tribunale della libertà delle richieste di scarcerazione di Mosconi e Mattioli, "presto o tardi qualcuno si ricorderà che in Italia esiste un codice" (cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 62-63) o quella riportata il mattino seguente sul quotidiano Il Giorno "A quanto pare essere dirigente Fiat è diventata una colpa" (P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 64).

20. P. Nicotri, op. cit., p. 77.

21. Cfr. D. Siracusano, Diritto processuale penale, vol. II, Giuffrè Editore, Milano, 1996, p. 227.

22. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 77 e 83.

23. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 35.

24. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 157.

25. Ibidem.

26. Ivi, pag.158.

27. Gruppo Finanziario Tessile di Torino.

28. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 170-171.

29. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 171.

30. Cfr. S. Freud, Il motto di spirito, Newton Compton, Roma, 1976, p. 212.

31. G. Bonazzi, Per una sociologia del capro espiatorio nelle organizzazioni complesse, in "Studi organizzativi", anno 10, n. 3 (sett. 1978), F. Angeli, Milano, p. 4.

32. Cfr. T. Drabeck, E. Quarantelli, Scapegoats, Villians and Disasters, in "Trans-action", n. 4, mar. 1967, p. 12-17.

33. G. Bonazzi, Colpa e potere, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 31.

34. Intendendo con tale termine le risorse materiali, gli uomini e le capacità professionali, nonché il tempo a disposizione, le strutture organizzative e le direttive generali di azione fornite dalla società.

35. Cfr. G. Bonazzi, op. cit., p. 16.

36. Ivi, p. 42.

37. Cfr. G. Bonazzi, op. cit., p. 19.

38. Cfr. G. Bonazzi, op. cit., p. 21.

39. Cfr. G. Bonazzi, op. cit., p. 27.

40. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 22.

41. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 412.

42. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 53-54.

43. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 32.

44. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 57.

45. P. Nicotri, op. cit., p. 34.

46. Ivi, p. 42.

47. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 58.

48. P. Nicotri, op. cit., p. 46.

49. Ivi, p. 43.

50. Ivi, p. 45.

51. Ivi, p. 43.

52. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 154.

53. Ivi, p. 67.

54. Fiat Iniziative Valorizzazione Immobiliare.

55. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 154.

56. È, infatti, presidente della Cogefar Impresit e si trova ai vertici del Gruppo fin dall'inizio della sua carriera in Fiat.

57. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 66.

58. Ivi, p. 224.

59. Ivi, p. 75.

60. Ivi, p. 76.

61. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 83.

62. M. Tortorella, San Francesco Paolo Mattioli.

63. Ibidem

64. M. Tortorella, op. cit.

65. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 229.

66. Ibidem.

67. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 228.

68. Ivi, p. 149.

69. Occorre, peraltro, osservare che Romiti ha chiesto ed ottenuto di eliminare queste dichiarazioni compromettenti dagli atti del processo. Ciò è stato reso possibile dal fatto che l'interrogatorio, fissato a fine maggio '95, è poi slittato al 15 giugno, cioè oltre la scadenza dei termini d'indagine.

70. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 196.

71. Ivi, p. 197.

72. Ivi, p. 242.

73. A titolo di esempio, si può, infatti, ricordare che anche l'Avvocato negò, durante l'assemblea degli azionisti, che nel Gruppo si fossero verificate delle commistioni con il sistema politico non corrette, ma per lui è mancata la prova che fosse consapevole di mentire.