ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
Il processo ai vertici Fiat

Chiara Ruffino, 2000

1.1 La lunga storia della corruzione in Italia

Nella seconda metà dell'Ottocento il mondo politico, la pubblica amministrazione e la magistratura si trovavano in una situazione di "sostanziale sanità" (1), destinata, già con l'avvento della Prima Guerra Mondiale, ad essere messa in crisi dalla pressione dei grandi gruppi imprenditoriali privati e dalle distorsioni provocate dall'intervento dello stato nell'economia. Anche nell'Ottocento, peraltro, le cronache registrano l'esplosione di alcuni scandali bancari che, sebbene episodici e circoscritti, rivelano una serie di illegalità così diversificate e "trasversali" rispetto alle categorie interessate da non differenziarsi troppo, sotto il profilo qualitativo, dalla corruzione dei giorni nostri.

Nell'Italia post unitaria, non esistendo un istituto specificamente preposto all'emissione della moneta, tale importante compito veniva assolto da un limitato numero di banche che, per questo motivo, accrescevano la loro influenza sulla vita economica e politica del paese (2). Le grandi banche furono anche protagoniste, negli anni Settanta e Ottanta, della speculazione edilizia che imperversò nelle maggiori aree urbane italiane e, soprattutto, nella città di Roma. La recessione che colpì, in quel periodo, l'economia europea e gli ingenti investimenti nel settore delle costruzioni portarono numerosi istituti di credito sull'orlo del fallimento, costringendo il governo ad intervenire per salvare la Banca Tiberina e il Banco di Sconto e delle Sete. Il governo, consapevole di quanto fossero ormai noti gli illeciti compiuti dalle banche, avviò, contemporaneamente, un'indagine sugli istituti di emissione, ma non ritenendosi in grado di affrontarne le conseguenze, rifiutò di renderne pubblici i risultati. Dalle indagini, infatti, emersero finanziamenti illeciti ai partiti e a singoli uomini politici, partendo dai "moretti", cioè dai parlamentari di secondo piano spesso decisivi nelle votazioni, fino ad arrivare ai ministri e ai membri delle commissioni. Poiché i destinatari dei finanziamenti occulti furono gli stessi che dovettero prendere decisioni politiche in materia bancaria, la situazione sembra presentare le caratteristiche del reato di corruzione.

È interessante notare come, non solo questo sistema corruttivo avesse utilizzato, per gestire i contatti e i pagamenti di denaro, soggetti terzi rispetto al rapporto di scambio, precursori dei moderni procacciatori d'affari, ma come anche si fosse già compresa l'importanza dell'appoggio degli organi d'informazione. Uno dei filoni di uscite non ufficiali della Banca romana, infatti, riguardava proprio le elargizioni a giornali e giornalisti che appoggiarono gli istituti bancari nella loro battaglia per mantenere il diritto di emissione di moneta e ne difesero la reputazione dopo gli scandali provocati dalle inchieste governative. Anche la vicenda processuale presenta sorprendenti analogie con le recenti inchieste sulla corruzione: venne ampiamente utilizzato lo strumento della carcerazione preventiva anche nei confronti di imputati di età avanzata ed in precarie condizioni di salute; le accurate indagini coinvolsero più di trecento testimoni e fecero ricorso a perizie contabili, ripetuti interrogatori e confronti; si verificarono numerose fughe di notizie e venne aspramente criticato l'operato dalla magistratura, ma soprattutto, come è accaduto anche durante le vicende di Tangentopoli, i difensori degli imputati cercarono di ricondurre le ipotesi di reato alla fattispecie di concussione anziché di corruzione, attribuendo, in questo modo, la responsabilità dell'evento ai politici e alle loro condotte. Significativa, in questo senso, è la conclusione dell'arringa del difensore di uno dei principali imputati: "...mentre i veri colpevoli passeggiano pettoruti per le vie di Roma, colui che essi hanno sfruttato era costretto a sopportare i martiri della causa" (3). È, infine, interessante notare che, anche allora, processi importanti come quello della Banca Romana e quello della c.d. "causa del riso" si conclusero con l'assoluzione di tutti gli imputati in primo grado (4) o, comunque, in appello.

Nei primi anni del secolo, emersero numerosi episodi di corruzione legati agli appalti per le grandi opere pubbliche, di cui costituiscono emblematico esempio le vicende legate alla costruzione del palazzo di giustizia di Roma. L'inchiesta evidenziò rapporti collusivi tra parlamentari e responsabili delle imprese costruttrici che condizionarono gli organi decisionali in sede di scelta e determinarono un aumento dei costi e dei tempi di realizzazione del lavoro (5).

Il legame tra pubblica amministrazione e gruppi economici dominanti si cementò con la prima guerra mondiale quando l'urgenza di beni di prima necessità e la scarsità dei controlli favorì l'avvento di imprenditori senza scrupoli. Lo stato di emergenza, inoltre, determinava per la pubblica amministrazione una situazione di soccombenza nei confronti dei grandi industriali e, viceversa, di predominio nei confronti degli altri cittadini i quali, di riflesso, perdevano la fiducia nelle istituzioni e l'interesse ad intervenire nella gestione della cosa pubblica, cessando così di costituire un freno al dilagare del malcostume. Durante il ventennio fascista la situazione si aggravò ulteriormente perché lo strapotere e la discrezionalità della pubblica amministrazione e gli abusi dei suoi funzionari non vennero neppure più arginati dal sistema giudiziario, ormai completamente asservito al sistema. La corruzione dilagava senza indagini e processi che cercassero di ristabilire la legalità, tra l'indifferenza rassegnata dei cittadini che si erano mantenuti onesti (6).

Con la fine della guerra e l'inizio dell'età repubblicana la situazione non diede segni di miglioramento, anche perché i Cln avevano scarsissime possibilità di incidere sul sistema organizzativo del Paese. Iniziarono, anzi, a delinearsi in questo periodo le caratteristiche che qualificheranno i decenni successivi: la mancanza di un controllo della magistratura sulla corruzione dei politici, il corporativismo parlamentare sostanziatosi nell'uso distorto della forma di tutela dell'autorizzazione a procedere, la strumentalizzazione delle vicende corruttive per finalità di partito o di schieramento.

Negli anni Sessanta, il boom economico e la conseguente necessità di spartirsi nuovi mercati provocarono un ulteriore incremento del fenomeno corruttivo e delle sue capillari ramificazioni. Costituiscono esempi di ciò lo scandalo delle banane e quello del tabacco, entrambi causati dal tentativo di un'azienda di ottenere un posizione di monopolio all'interno del mercato comprando la collaborazione di qualche esponente della classe politica al potere. Entrambe le vicende videro protagonista il Ministro delle Finanze democristiano Giuseppe Trabucchi. Nel primo caso, egli aveva indetto un'asta nazionale per la vendita delle banane la quale era stata vinta dai grossisti dell'Assobanane che si erano avvalsi della consulenza di un'ex sottosegretario alle Finanze, compagno di partito di Trabucchi: gli esclusi protestarono vivacemente e la magistratura aprì un'inchiesta da cui emerse che i grossisti dell'Assobanane avevano pagato somme ingenti per conoscere in anticipo le offerte dei concorrenti, ma non fu accertata alcuna responsabilità specifica del ministro. Nel secondo caso, Trabucchi venne, invece, accusato di aver favorito l'importazione di tabacco dal Centro America di due aziende private in cambio di cospicui finanziamenti al suo partito, la Democrazia Cristiana. Trabucchi si difese affermando di aver agito nell'interesse del partito, senza vantaggi di ordine personale, ma l'entità degli importi versati alimentò l'indignazione pubblica (7).

Negli anni Settanta la situazione si presentava contraddittoria, in quanto se, da un lato, i processi che vedevano coinvolti uomini politici si concludevano spesso con un "nulla di fatto" o con la condanna degli esponenti del partito di minoranza (es. caso Lockheed), dall'altro lato, sembravano scorgersi segnali di un mutato atteggiamento della magistratura verso i crimini dei colletti bianchi concretizzatosi in un maggior numero di indagini e in una più ampia collaborazione tra sedi giudiziarie diverse. Verso la fine degli anni Settanta, i processi sulle frodi petrolifere fecero emergere chiaramente una fitta rete di corruzione che collegava stabilmente il mondo imprenditoriale, quello politico e quello della pubblica amministrazione, a livello centrale e territoriale. Purtroppo, anche in questo caso, pochi vollero prendere atto della rilevanza del fenomeno e l'intervento della magistratura, nonostante l'impegno iniziale, finì per rivelarsi privo di significativi risultati.

Negli anni Ottanta le indagini della magistratura si orientarono, con rinnovato impegno, verso il campo dei reati commessi dai pubblici ufficiali sia a livello di amministrazioni locali, in particolare comunali (8), sia a livello nazionale (9). A questo livello, può essere particolarmente utile approfondire l'analisi della vicenda del Banco Ambrosiano in quanto essa permette di formulare alcune considerazioni che potranno venir utilizzate successivamente per esaminare altri fenomeni corruttivi. Innanzitutto, tale vicenda rivela come la globalizzazione dell'economia e della finanza abbia fornito nuovi strumenti per realizzare attività illegali e riciclaggio di denaro e come questa possibilità sia stata sfruttata dagli uomini politici per ragioni di profitto personale e di finanziamento del proprio partito (10). Secondariamente, essa offre un brillante esempio della teoria della negazione giustificativa illustrata da Cohen, ed, in particolare, della sottocategoria da lui denominata "condanna di chi ti condanna": quando, infatti, nel 1982, la magistratura dispose l'arresto di Roberto Calvi e focalizzò la propria attenzione sulle operazioni illegali del Banco Ambrosiano, una parte del mondo politico cominciò ad attaccare i magistrati con accuse pesantissime di abusi di potere dettati da faziosità politica. Infine, in tale vicenda risulta particolarmente incisiva la campagna di delegittimazione degli organi inquirenti portata avanti da molti quotidiani e periodici legati a partiti politici e a gruppi di potere che ritenevano le inchieste dei magistrati pericolose per i loro interessi.

Negli anni Novanta, le indagini di Tangentopoli hanno confermato la natura strutturale della corruzione politico-amministrativa, sebbene la classe politica al governo continuasse a negarla adottando strategie di negazione, considerando il fatto come un episodio isolato (c.d. negazione interpretativa di isolamento), accusando i magistrati di strumentalizzare le indagini (c.d. negazione giustificativa "condanna di chi ti condanna") o, semplicemente, rinviando ogni valutazione all'esito del processo. I dati resi noti dalla Procura della Repubblica milanese mostrano chiaramente l'ampiezza e la profondità del fenomeno che ha coinvolto, in misura diversa, i più alti esponenti di tutti i partiti politici e dei maggiori enti economici, pubblici e privati, del Paese. Le cifre parlano di oltre 4000 persone iscritte nel registro degli indagati, di oltre 2500 richieste di rinvio a giudizio, di oltre 800 sentenze di patteggiamento, di alcune centinaia di sentenze emesse con rito ordinario o al termine di un giudizio abbreviato (11). Le dimensioni del fenomeno hanno reso inderogabili alcune modifiche che colmassero le carenze normative. In particolare, l'istituto dell'autorizzazione a procedere, nato come strumento di garanzia dell'attività dei parlamentari ma trasformatosi in ingiustificato privilegio, è stato riformato nell'ottobre del 1993: il nuovo testo non prevede più l'autorizzazione a procedere per la prosecuzione delle indagini e la celebrazione del processo in danno di un parlamentare, ma l'istituto viene conservato per tutte le attività di indagine che toccano la sua libertà o la sua privacy, come l'arresto e la detenzione, la perquisizione e l'intercettazione telefonica (12).

Quasi per controbilanciare il maggior raggio di indagine concesso agli organi inquirenti si è, inoltre, proceduto alla riforma dell'istituto della carcerazione preventiva. Alcuni magistrati, ed in particolare quelli della Procura di Milano, erano, infatti, stati accusati di aver abusato di questo strumento costringendo spesso gli indagati a scambiare la propria libertà con ammissioni che potevano allargare il raggio d'indagine ed aggravare la posizione di altri soggetti. Il primo tentativo di riforma, il c.d. "decreto Biondi", presentato nell'estate 1994 dal governo Berlusconi, finiva per escludere quasi la possibilità di emettere misure cautelari coercitive (carcerazioni) nei confronti degli indagati per tangenti e reati economici collegati. Il progetto fu accantonato per la vivace protesta dell'opinione pubblica e dei giudici di "Mani Pulite", ma l'istituto della carcerazione preventiva venne infine modificato, con legge, l'anno successivo (13). Indubbiamente, il tema della libertà personale e delle sue garanzie doveva essere affrontato, ma è significativo che le forze politiche vi abbiano posto tanta attenzione soltanto dopo che l'incremento qualitativo e quantitativo delle indagini dei magistrati stava portando in carcere un numero elevato di imprenditori, uomini politici e loro collaboratori (14).

1.2 I "precedenti" all'interno del Gruppo Fiat

Le inchieste degli anni Novanta non costituiscono, per la grande casa automobilistica torinese, una novità, ma rappresentano solo l'ultimo di una serie di procedimenti intentati ai danni del Gruppo fin dai primi anni del secolo (15). Nelle inchieste, prima del pool di Milano, poi dei pool di Roma e Torino, si registra, però, un elemento nuovo che le differenzia completamente dalle precedenti: per la prima volta viene incrinata quella cortina di impunità che proteggeva il Gruppo torinese da quasi cent'anni.

Il primo processo nel 1908, appena nove anni dopo la nascita dell'azienda, vide accusati Giovanni Agnelli e gli altri soci fondatori di falso in bilancio, aggiotaggio e truffa, si trascinò per quattro anni di rinvio in rinvio e, alla fine, vide l'assoluzione di tutti gli imputati, sia in primo grado che in appello. Nel 1945 il Comitato di liberazione nazionale accusò Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta di aver collaborato con il regime fascista, ma l'intervento degli angloamericani garantì l'assoluzione ad entrambi. Nell'agosto 1971 il pretore Raffaele Guariniello scoprì trecentocinquantamila dossier e schedature illegali di altrettanti lavoratori, sindacalisti, giornalisti, insegnanti, comuni cittadini e, in una cassaforte, un gran numero di mazzette che l'azienda aveva già predisposto per quei poliziotti e carabinieri che si fossero adoperati per fornire all'azienda le informazioni riservate. L'inchiesta venne trasferita a Napoli per "legittima suspicione" a causa di motivi di ordine pubblico e, dopo cinque anni, la sentenza di primo grado portò a qualche lieve condanna, cancellata dall'assoluzione per prescrizione del secondo grado. Nel 1983 la Fiat tornò nel mirino della magistratura. Il suo responsabile per gli enti locali, Umberto Pecchini, venne condannato a due anni di reclusione per aver promesso una tangente al faccendiere Adriano Zampini. La sentenza fu, però, ribaltata in appello e il processo si concluse con un nulla di fatto come avvenne anche, un anno più tardi, alla sentenza che condannava Gianni e Umberto Agnelli, insieme ad altri manager del Gruppo, a sei milioni di multa per la vendita irregolare in Italia di auto prodotte all'estero. Nel 1989 Raffaele Guariniello scoprì violazioni dello Statuto dei lavoratori e presunti abusi nelle sale mediche aziendali e aprì un procedimento nei confronti di Gianni Agnelli, di Cesare Romiti e di tre dirigenti di Fiat Auto. Il procuratore generale Silvio Pieri cercò nuovamente di trasferire il processo in altra sede sollevando l'eccezione di "legittima suspicione", ma questa volta la Cassazione negò l'autorizzazione. Il processo, però, si chiuse prematuramente per l'intervento di un provvedimento di amnistia.

1.3 Tangentopoli: il quadro di riferimento

Singolarmente esaminati, gli episodi corruttivi nell'Italia post unitaria presentano sorprendenti analogie con gli illeciti dei giorni nostri, tanto da indurci ad escludere che il fenomeno abbia subito, negli ultimi tempi, un mutamento qualitativo; in verità, la spaventosa crescita quantitativa dei fenomeni illegali verificatasi negli anni Ottanta ha determinato un vero e proprio "salto qualitativo", cioè una radicale modifica delle caratteristiche del fenomeno, perché ha comportato il passaggio da una situazione in cui gli episodi illegali erano importanti, ma localizzabili, all'avvento di un vero e proprio sistema che affonda le sue radici nel tessuto sociale e che ha trasformato la corruzione in "un dato strutturale capace di stendere sulle cose un velo di nebbia che tutto confonde e appiattisce, che tutto fa diventare normale fin quasi ad annullare il senso di illegalità" (16).

Negli anni Ottanta, numerosi fattori contribuirono a rendere la corruzione politica più organizzata e sistematica. Il sistema dei partiti aveva urgente bisogno di individuare fonti alternative di finanziamento, in quanto il venir meno dei finanziamenti esteri, determinato dalla fine della "Guerra Fredda", e la diminuzione delle entrate derivanti dal tesseramento, causata dal calo costante del numero degli iscritti, avevano determinato una decisa diminuzione delle risorse che non riuscivano più a coprire i costi di mantenimento dell'apparato di partito e delle campagne elettorali. Il mondo imprenditoriale era più disponibile a cogliere le sollecitazioni dei politici più influenti perché la crescente diffusione del sistema di scambi corrotti ne aveva diminuito i "costi morali d'ingresso", cioè il prezzo pagato dal singolo individuo per essersi allontanato dai valori condivisi all'interno della sua cerchia sociale di riferimento (17), e la rapida crescita economica ne aveva aumentato le occasioni e i benefici. Lo stesso sistema corruttivo si autoalimentava attraverso una serie di circoli viziosi. I politici che erano in grado, con la loro influenza, di garantire agli imprenditori la buona riuscita dell'affare, acquisivano "reputazione" e allargavano le schiere dei beneficiati, e quindi le loro reti di relazione, diventando così ancora più potenti (18). Il deterioramento dei servizi amministrativi e la progressiva sistematica esclusione dalle commesse pubbliche, che derivava dalle condizioni preferenziali offerte agli imprenditori collusi, inducevano quelli che non si erano ancora avvicinati al sistema corruttivo a cercare proprie strategie preferenziali, incrementando quindi la spirale della corruzione (19). All'inizio del 1992, questo sistema, ormai così radicato nel tessuto sociale da spingere alcuni autori a parlare di "corruzione ambientale" (20), venne progressivamente messo in crisi da un'inchiesta che, proprio come il fenomeno corruttivo, fin dall'inizio, "...aveva preso la forma di una spirale che, seguendo i contorni di un immaginario cono rovesciato, partendo dal vertice, si estendeva e saliva" (21). Ci si potrebbe chiedere perché i giudici non si siano mossi in precedenza e la risposta sarebbe sicuramente complessa e diversificata. Alcuni di essi, infatti, erano collusi con le forze al potere o addirittura coinvolti nel sistema delle tangenti, altri svolgevano semplicemente il loro incarico attenti a non colpire un sistema così potente e ben protetto. Coloro che si erano spinti, con le loro indagini, troppo vicino al cuore del sistema venivano esclusi dalla conduzione dell'inchiesta, la quale veniva trasferita ad altri colleghi o ad altro tribunale. In alcuni casi, come si era verificato già per i magistrati che si erano occupati di criminalità organizzata, i giudici scomodi venivano sottoposti a procedimenti disciplinari, trasferiti in altre sedi, colpiti da campagne diffamatorie e, talvolta, dai proiettili di qualche killer (22). Anche durante Tangentopoli si tentò di arginare l'inchiesta: l'avvocato Agnelli, ad esempio, si recò, nel 1995, dal giudice Pieri per chiedere il trasferimento dell'inchiesta da Torino a Roma, ma non venne accontentato come era invece avvenuto in precedenza (23); Craxi tentò, durante l'inchiesta, di screditare l'operato dei magistrati accusandoli di aver creato "un clima infame" (24) abusando dello strumento della carcerazione preventiva; la Questura di Milano ricevette addirittura un biglietto intimidatorio con l'eloquente messaggio "Borsellino e Di Pietro sono fottuti", il giorno prima dell'attentato al giudice impegnato nella lotta alla mafia (25). Quelli citati sono solo alcuni esempi delle pressioni, anche pesanti, che hanno accompagnato l'inchiesta Mani Pulite, ma che non sono riuscite a circoscriverne i temi di indagine e soprattutto gli effetti, come era invece avvenuto alle inchieste sulla corruzione, che pure vi erano state, prima di Tangentopoli, rimaste limitate a livello locale. Che cosa era cambiato? Ritengo che sarebbe semplicistico individuare le ragioni della fortuna di quest'inchiesta unicamente nell'abilità e nella determinazione di un Pool di magistrati. È vero, infatti, che Di Pietro, la "mente informatica" del gruppo, sfruttando le conoscenze che gli derivavano dal diploma di perito elettronico e dall'esperienza di commissario di polizia, aveva, da parecchi anni, immagazzinato una serie impressionante di dati su ogni forma di corruzione che gli avevano permesso di percepire l'ampiezza del fenomeno prima ancora dell'avvio dell'inchiesta Mani Pulite. Aveva infatti scritto, già nel 1991, sul numero di maggio del mensile "Società civile" che "chi deve dare denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto. Sa che in quel determinato ambito si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua e promette di consegnarlo. Chi accetta il pizzo non si mortifica più nel chiederlo, nel pretenderlo, ma aspetta. Non c'è più l'ammiccamento da parte del corruttore né la minaccia o l'induzione da parte del pubblico ufficiale, tipico del reato di concussione. Questo fenomeno andrebbe classificato meglio con la formula nuova della dazione ambientale" (26). Lo stesso Di Pietro, tuttavia, aveva denunciato già nel 1988 lo scandalo delle tangenti sulla refezione scolastica, l'anno successivo gli illeciti legati alla costruzione della metropolitana milanese e nel 1990 aveva indagato sulla ricostruzione in Valtellina, ma nessuno di questi episodi era riuscito ad incrinare gli equilibri del sistema e tanto meno ad attirare l'attenzione dei cittadini e dei mezzi di informazione (27). In realtà, erano cambiati i presupposti politico-economici che avevano permesso alle trame corruttive di svilupparsi e consolidarsi nel tempo. A livello internazionale, il crollo del comunismo e la correlativa graduale attenuazione della rigida contrapposizione tra Europa dell'est ed Europa dell'ovest, ha avuto un ruolo cruciale nel mettere in crisi gli equilibri politici basati sull'alleanza, guidata dal potentissimo Caf (28), tra la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. Gli stessi giudici Davigo e Colombo ritengono che la fine della contrapposizione internazionale abbia determinato l'esaurimento della funzione storica di baluardo contro il comunismo dei partiti di maggioranza e quindi l'arresto dei flussi di finanziamento provenienti dagli Stati Uniti (29). La diminuzione del sostegno internazionale e la crisi delle ideologie di destra e di sinistra determinata dagli eventi internazionali, ma anche, in Italia, dalla mancanza di una reale alternanza al governo e di un correlativo ricambio di uomini e di idee, stavano incrinando la solidità della maggioranza al governo. La nascita della Lega Nord rifletteva, inoltre, l'insoddisfazione della piccola imprenditoria settentrionale che percepiva la classe politica romana inefficiente, accentratrice, costosa e, soprattutto, corrotta e si aspettava che gli "homines novi" spazzassero via il vecchio sistema parassitario e centralizzato per istituire un governo più attento alle particolarità locali. Lo stesso procuratore Francesco Saverio Borrelli riconosceva che"...gli scenari sono cambiati, i movimenti di protesta hanno acquistato sempre maggiore spazio nell'opinione pubblica, soprattutto nel Nord, la situazione di instabilità politica che andava profilandosi prima delle elezioni del 5 aprile '92 ha costituito il clima favorevole perché certe verità emergessero" (30). La recessione economica, inoltre, rendeva gli imprenditori sempre meno disponibili a pagare la mediazione politica per vincere gli appalti pubblici e per tutelare i propri interessi economici (31).

Contribuì sicuramente al buon esito dell'inchiesta anche la sopracitata modifica dell'istituto dell'autorizzazione a procedere che aveva costituito, in precedenza, un comodo strumento per evitare che gli scandali locali arrivassero a coinvolgere i politici che sedevano in Parlamento.

Ci si potrebbe ancora chiedere se sia stato un caso che la città di Milano sia stata il centro di Tangentopoli. David Nelken, che ha studiato a fondo la vicenda di Mani pulite, osserva come il capoluogo lombardo rivestisse il duplice ruolo di base del Psi e di capitale economico-finanziaria del Paese. La contestuale presenza di un partito, alla ricerca di fonti di finanziamento, in grado di controllare gli appalti pubblici, e di un folto gruppo di ricchi industriali desiderosi di ottenere le commesse, ha creato i presupposti per un prodigioso sviluppo della trama corruttiva e, quindi, ha costituito un fertile terreno di indagine. Nelken ritiene che la vicenda di Tangentopoli possa essere interpretata come una rivincita dei giudici sui politici, nella continua lotta tra magistratura e classe politica per determinare chi rappresenta meglio gli interessi dello Stato. Secondo l'autore, il mondo politico aveva inferto un duro colpo alla magistratura nel 1987 quando il referendum sulla responsabilità civile dei giudici per gli errori giudiziari aveva visto un massiccio voto a favore. Quel voto, che aveva rappresentato una brusca inversione di tendenza rispetto alla grande popolarità goduta dalla magistratura durante il periodo della lotta alle Brigate rosse, era stato fortemente voluto dal governo Craxi. L'inchiesta Mani Pulite, che aveva così duramente colpito il Psi, potrebbe, pertanto, secondo Nelken, essere considerata una rivincita dei giudici (32).

Tangentopoli non ha colpito solo il partito socialista. Le indagini dei giudici di Milano hanno infatti riguardato i partiti al governo nel loro complesso, anche se hanno insistito soprattutto sulla Dc e sul Psi che, per il loro maggiore peso politico, avevano maggiore possibilità di influenzare gare d'appalto o scelte di politica economica e, quindi, più facilmente si trovavano coinvolti nel circuito tangentizio.

Il primo a finire in manette, il 17 febbraio 1992, fu un esponente del partito socialista milanese Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, un ricovero per anziani che quest'ultimo aveva desiderato mettere a nuovo con ingenti spese e correlative opportunità di ottenere tangenti. La sua metodicità e la sua puntualità nel richiedere il pizzo gli erano valse l'appellativo di "Ingegner 10 per cento" (33). L'episodio corruttivo, per il quale Chiesa fu arrestato, fu denunciato da Luca Magni, titolare di un'impresa di pulizie, il quale, vinto un appalto da centoquaranta milioni, si era visto chiedere una tangente di quattordici. Deciso a non tollerare questo abuso, Magni si era recato dai carabinieri che gli avevano fornito banconote segnate con cui aveva pagato l'ingegner Chiesa, registrando anche su nastro la conversazione avvenuta al momento della consegna. Agli inquirenti non era rimasto che fare irruzione nell'ufficio del direttore della clinica milanese e procedere all'arresto (34). Da quel momento, gli inquirenti incominciarono a controllare le disponibilità finanziarie di Mario Chiesa, constatandone l'assoluta sproporzione rispetto alle sue effettive possibilità di guadagno: "e allora, via a controllare da dove erano venuti quei soldi in più, per scoprire che arrivavano da altri imprenditori, meno recalcitranti, anzi disponibili a ottenere vantaggi, le cui aziende restauravano o approvvigionavano lo stesso istituto. Imprenditori che, a loro volta, prestavano la loro opera anche presso altri istituti, acquisendo commesse, possibilità di lavoro con metodi analoghi. Via a controllare queste altre commesse, gli appalti con i nuovi enti, e poi i patrimoni di quei funzionari, e a scoprire che il metodo era davvero lo stesso, gli imprenditori versavano e i funzionari ricevevano, corrispondendo in cambio privilegi nei rapporti con l'istituto" (35).

L'inchiesta si estese, così, dalla sola Milano all'intera Lombardia, al Piemonte, con l'ingresso della Fiat e delle sue partecipate, ed infine a Roma ed al resto della penisola, ed acquisì un progressivo risalto perché, partita dai piccoli funzionari periferici, aveva cominciato a coinvolgere sindaci, parlamentari, segretari di partito, ministri ed ex capi di governo, in una continua corsa al rialzo che sembrava non dovesse risparmiare nessuno, neanche i vertici, fino ad allora inarrivabili, della grande imprenditoria pubblica e privata. Questa prodigiosa espansione dell'inchiesta è sicuramente da ricollegare alla grande disponibilità alla collaborazione riscontrata nei soggetti coinvolti che, riferisce Gherardo Colombo, "... si presentavano, accompagnati dal difensore, in uno dei nostri uffici, generalmente in quello di Antonio [Di Pietro], e senza che noi sapessimo nulla di loro raccontavano, raccontavano fatti, reati, persone coinvolte, circostanze, date, passaggio di contanti, aperture di conti in Svizzera e così via. Qualche volta erano persone già coinvolte nelle indagini, ma per fatti diversi da quelli che improvvisamente, e spesso con nostra sorpresa, essi stessi ci rivelavano senza ritegno" (36).

Era, quindi, crollato il muro di omertà che da sempre circondava e caratterizzava lo scambio corruttivo. Nonostante l'apparente robustezza, infatti, l'equilibrio del reciproco silenzio può sfaldarsi rapidamente se si verificano le condizioni che, nella teoria dei giochi, caratterizzano la situazione denominata "dilemma del prigioniero": due detenuti, che non possono stringere tra loro accordi vincolanti, sono interrogati separatamente e possono scegliere di confessare o tacere. Se nessuno dei due confessa, ad entrambi verrà irrogata una sanzione abbastanza lieve. Se uno dei due confessa e l'altro no, il primo verrà liberato e il secondo dovrà subire una pena molto severa. Se entrambi confessano, la condanna sarà abbastanza pesante per entrambi. Ad ognuno di loro, pertanto, converrà confessare, qualunque sia la scelta dell'altro, anche se in questo modo si otterrà comunque un risultato peggiore di quello garantito dal silenzio congiunto. L'astuzia dei magistrati di Mani Pulite è consistita proprio nel creare i presupposti del "dilemma del prigioniero" durante le indagini. La strategia consisteva nel lasciar trapelare all'esterno della Procura la notizia della confessione di un indagato senza precisare, però, chi avesse in effetti chiamato in causa. Il pericolo di trovarsi nella situazione peggiore della "teoria dei giochi" induceva a collaborare i soggetti anche minimamente coinvolti e "la notizia della piena collaborazione di Mario Chiesa con il magistrato inquirente [...] ha determinato alcuni pubblici amministratori ad abbandonare le cariche ricoperte e ad assumere un atteggiamento di disponibilità verso l'autorità procedente" (37). La consapevolezza del fatto che i giudici fossero a conoscenza di una massa sempre più consistente di dettagli, creava i presupposti per una vera e propria corsa a confessare per primi e a nulla servivano i tentativi dei partiti di presentare le confessioni come singoli episodi isolati riconducibili all'iniziativa di qualche "mariuolo", come Mario Chiesa veniva definito da Bettino Craxi (38).

Se, a volte i magistrati erano veramente a conoscenza di particolari scottanti, altre volte cercavano di ottenere la confessione bluffando un po', come nel caso dell'interrogatorio condotto da Antonio Di Pietro nei confronti di Roberto Mongini, potente esponente della Dc lombarda, il quale ricorda: "Di Pietro mi disse che mi controllava da tre anni, con molta assiduità [...]. Poi aggiunse [...]: "ho anche delle foto che la ritraggono mentre entra nella sua Porsche". C'è però un piccolo particolare: io la Porsche non ce l'ho più da cinque anni" (39).

Altre volte gli inquirenti lasciavano trapelare indiscrezioni, su indagini secondarie, che venivano prontamente amplificate dai giornalisti che affollavano i corridoi della Procura. Questo stratagemma permetteva di svolgere con più tranquillità e riserbo indagini più importanti e fu adottato, ad esempio, nel caso della fuga di notizie sugli appalti per la ristrutturazione dell'Ortomercato, orchestrata ad arte dal Pool per coprire le ultime fasi dell'indagine che doveva condurre all'arresto di Ligresti (40).

Un altro mezzo utilizzato dai magistrati per incrementare i risultati delle indagini è stato l'uso, forse a volte un po' troppo disinvolto, dello strumento della carcerazione preventiva. Il codice di procedura penale prevede la possibilità di utilizzare la custodia cautelare, come le altre misure cautelari personali, solo quando vi sia un concreto pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato (art. 274 c.p.p.). Il nostro sistema costituzionale, tutelando fortemente la libertà personale, ammette, inoltre, la carcerazione preventiva solo se essa non si risolve in un'anticipazione di pena, in violazione della presunzione di non colpevolezza, e se non sacrifica il diritto alla difesa che si concretizza anche nel diritto al silenzio. L'esercizio di questo diritto può, di fatto, essere ostacolato da una linea di indagini preliminari in cui la custodia cautelare sia utilizzata per indurre l'indagato a confessare, linea che potrebbe essere rappresentata dalle formule udite o sottintese negli interrogatori di Mani Pulite "se parli non vai in carcere" o "quando parlerai uscirai dal carcere" (41). La risposta del procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli a questa accusa è chiara: "Perché noi abbiamo aspettato assai spesso le confessioni per porre fine alla custodia cautelare? Non già perché la custodia fosse finalizzata a confessioni di cui sovente non avevamo neppure bisogno, ma perché l'ammissione dei fatti e l'indicazione di ulteriori particolari di quei fatti o addirittura di altri episodi, costituiva per noi la riprova che la persona aveva ormai reciso i propri legami con il tessuto dell'ambiente di provenienza [...], che egli non è più affidabile per coloro che invece in quell'ambiente sono rimasti e che continuano a operare con quelle modalità" (42).

In una situazione di emergenza come quella che si era determinata in seguito alla valanga di arresti operati dai magistrati del Pool, la tentazione di ricorrere a procedure straordinarie come quelle che vennero adottate per fronteggiare il terrorismo o la mafia, era sicuramente grande. Ne è una prova evidente la proposta elaborata dal Pool di premiare la confessione con un'esenzione dalla pena totale e quindi, ancora più delle misure antimafia e antiterrorismo, in conflitto con un principio cardine della nostra legislazione quale la parità di trattamento (43). Si scelse, comunque, di utilizzare le leggi penali esistenti sfruttando al massimo le loro potenzialità e si portò a termine una "rivoluzione" senza ricorrere ad alcun "diritto rivoluzionario" (44).

1.4 La situazione del Gruppo alla vigilia dell'inchiesta

Delineata la situazione che ne costituisce il quadro di riferimento, si può passare alla trattazione della vicenda che giudiziaria che vede coinvolto il gruppo Fiat.

La Fiat, all'inizio degli anni Novanta, si trova in una situazione difficile: da un lato, deve affrontare il problema della crisi economica, dall'altro, deve gestire il conflitto interno che vede contrapposti uno dei maggiori azionisti, Umberto Agnelli, e il più influente dei manager, Cesare Romiti.

La crisi economica si presenta in anticipo nella casa automobilistica piemontese rispetto al resto del Paese. La Fiat si trova, alla fine degli anni Ottanta, molto in ritardo nel rinnovamento della gamma dei modelli, come dimostra il fatto che "per la Tipo B (la futura Punto) il lancio commerciale, che a metà '88 era programmato per la fine del '92 (e cioè a più di quattro anni dalla presentazione del modello di stile) è ora (nel 1991) indicato [...] a fine '93" (45).

Il problema viene amplificato dal fatto che, coincidendo con il periodo di massima espansione del mercato, che si avrà nel 1992, tale ritardo penalizza doppiamente il Gruppo impedendogli di cogliere i benefici del boom e creando i presupposti per una progressiva penetrazione del mercato interno da parte delle case automobilistiche straniere.

La crisi economica si intreccia e si confonde con la lotta per il potere, combattuta a colpi di cifre e interrogazioni in assemblea da Umberto Agnelli e Cesare Romiti e documentata con puntualità dal "dossier Arnaudo", ritrovato il 7 marzo 1995 dagli uomini della Guardia di Finanza durante una perquisizione nella sede dell'Ifil, la finanziaria di partecipazioni della famiglia Agnelli. Questo voluminoso dossier di circa quattrocento pagine, il cui solo limite è rappresentato dalla visione unilaterale della situazione, è pieno di cifre, tabelle e soprattutto lettere autografe con il timbro "riservato" che, peraltro, descrivono con chiarezza lo scontro che si scatenerà nei primi anni Novanta per la successione ai vertici del gruppo torinese. La guerra inizia nel 1988 con la cacciata di Ghidella, padre della Uno e artefice del boom di Fiat Auto negli anni Ottanta, fortemente voluta da Romiti che, "in senso di sfida", cumula dall'88 al '90 le cariche di amministratore delegato della holding e di amministratore delegato di Fiat Auto (46). Il conflitto si conclude nel settembre '93 con il trionfo di Romiti che riesce a sfruttare a suo favore il dato, apparentemente negativo, del peggioramento della situazione patrimoniale del Gruppo durante la sua gestione, riuscendo ad ottenere da Enrico Cuccia, presidente onorario di Mediobanca, il risanamento del bilancio dell'azienda. In cambio del reperimento dei fondi per effettuare il maggior aumento di capitale mai richiesto alla Borsa italiana, Cuccia si riserva il diritto di determinare i ruoli strategici all'interno dell'azienda: Romiti e l'Avvocato rimarranno al comando e Umberto non diventerà presidente. In questo modo Cuccia offende sia Umberto sia Gianni Agnelli, il quale riteneva di lasciare, nel 1994, la presidenza al fratello. Romiti esce rafforzato dalla situazione di crisi perché, oltre a mantenere la carica di amministratore delegato, pur non possedendo un rilevante pacchetto azionario, costituisce di fatto l'azionista di riferimento del Gruppo, potendo contare sull'appoggio di Mediobanca.

Tra la cacciata di Ghidella e l'intervento di Cuccia si collocano i fatti rivelati dal "dossier Arnaudo", il quale contiene le lettere scritte da Umberto Agnelli ai vertici aziendali dal 1991 (47). L'accusa è chiara: i bilanci presentano una situazione migliore di quella effettiva in quanto Romiti sta "forzando i conti per nascondere i suoi errori di manager" (48). Se, a giudizio di Romiti, la causa della crisi deve essere imputata al ritardo tecnologico, alla ridotta competitività sul mercato ed alla conseguente minore possibilità di avere un ruolo di primo piano nelle alleanze a livello internazionale, Umberto Agnelli accusa Romiti di voler accentrare il potere all'interno della società capogruppo di cui è amministratore delegato. È interessante notare che l'accusa di un forte accentramento di fatto, peraltro confermato da tutti i manager interrogati, sarà riproposta anche dai magistrati di Torino per dimostrare, a contrario, che Romiti e Mattioli non potevano ignorare i fondi neri e le tangenti delle società partecipate.

Nel gennaio 1992 le generiche accuse di "forzare i conti" si fanno più precise: i manager della Fiat S.p.a. vengono accusati di aver prodotto "tabelle errate", di non aver segnalato "fatti rilevanti" e di aver compiuto "raggruppamenti errati e/o fuorvianti" (49). A sostegno delle proprie affermazioni, Umberto Agnelli ed i suoi collaboratori forniscono una tabella in cui compaiono i nomi delle società del Gruppo con i risultati di gestione registrati il 30 novembre accanto a quelli consegnati a fine anno. I risultati sono eloquenti: "si assiste, in soli trentun giorni, a discese ardite e contemporanee risalite di questa o quella società che magari, fino a quel momento, aveva avuto solo trend continui senza particolari scossoni" (50). Le accuse di Umberto Agnelli sono congruenti con quelle, future, dei magistrati di Torino: false comunicazioni sociali. È estremamente interessante notare come l'atteggiamento tenuto da Mattioli e Garuzzo in questa occasione ricalchi la linea difensiva che sarà scelta dalla Fiat per fronteggiare le accuse di falso qualitativo che le verranno mosse dai pubblici ministeri di Torino. Non si ritiene grave che la somma non sia inserita nella corretta voce di bilancio: "la cosa importante è che i costi ci siano tutti" (51).

La partecipazione alle riunioni, resesi necessarie in seguito alle continue accuse di Umberto e svoltesi nei primi mesi del 1993, tra Romiti, Garuzzo e Mattioli, da un lato, Arnaudo, in qualità di rappresentante di Umberto Agnelli, dall'altro, e l'Avvocato in posizione super partes, ha condotto Arnaudo a concludere che l'Avvocato, promotore delle riunioni di chiarimento, non era in realtà seriamente intenzionato ad approfondire le indagini. Non solo le pressioni di Romiti erano troppo forti per continuare a perseguire la via del chiarimento, ma vi era il rischio di arrivare alla rottura con un "sistema", quello creato da Romiti, che era stato in grado di occultare anche per lungo tempo i veri risultati della sua gestione evitando di fornire spiegazioni su fatti anche rilevanti (52).

Cesare Romiti, al momento dall'avvio dell'inchiesta Mani Pulite, gode di una posizione di leadership all'interno dell'azienda, ma deve badare a tenere sotto controllo gli esponenti della corrente "umbertina" desiderosi di riconquistare le posizioni di vertice dopo la sconfitta del settembre '93 e a monitorare costantemente lo stato di avanzamento delle indagini della magistratura.

1.5 L'inchiesta parte da Milano e ... passa a Roma

Per ottenere un quadro chiaro del ruolo che la casa automobilistica torinese ha avuto nelle spartizioni dei grandi appalti, pubblici e privati, degli ultimi anni e dei suoi rapporti con la classe politica locale e nazionale, si rivela utile l'analisi della documentazione processuale delle inchieste condotte dalla procura di Milano e, successivamente, da quella di Roma. La conoscenza di tali inchieste, infatti, costituisce, per la stretta correlazione, indispensabile presupposto per comprendere appieno il lavoro di indagine dei magistrati torinesi.

Appena ottanta giorni dopo l'arresto di Mario Chiesa, viene arrestato, con l'accusa di concussione, Maurizio Prada, presidente dell'Atm e segretario reggente della Dc milanese. Interrogato dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, egli rivela i nomi delle aziende più generose con i partiti. Nella lista compaiono ben quattro aziende del gruppo Fiat: l'Iveco, la Fisia, la Fiat Ferroviaria Savigliano e la Cogefar Impresit. Prada rivela che quest'ultima pagava tangenti anche quando si chiamava Cogefar e apparteneva alla società Acqua Marcia di Vincenzo Romagnoli, cioè prima dell'acquisizione, avvenuta nel 1989, da parte della Fiat Impresit che ne realizzò, nel gennaio 1990, la fusione con la Impresit, altra sua controllata, creando l'attuale Cogefar Impresit (53). Prada ricorda, in particolare, che l'azienda torinese aveva pagato tangenti per ottenere l'appalto della terza linea del metrò milanese (1,8 miliardi), per il passante ferroviario (1,2 miliardi) e per la costruzione di un parcheggio (54). Egli sottolinea, inoltre, che "la Cogefar ha voluto mantenere distinto l'aspetto delle contribuzioni al partito da quelle di ringraziamenti in sede di assegnazione degli appalti ... in percentuale al valore. Ha inteso forfetariamente ma periodicamente offrire del denaro alle strutture dei partiti e, per quanto mi consta, direttamente alla struttura milanese della Dc nella mia persona" (55). In particolare, "...come legale rappresentante della Cogefar Impresit, Papi ha versato del denaro a me per esigenze del mio partito per così testimoniare il sostegno del proprio gruppo imprenditoriale al partito. Il gruppo, in realtà, ha effettuato contribuzioni volontarie, anche se sottobanco, e in modo non contabilizzato..." (56).

Le dichiarazioni di Prada sui versamenti periodici ai partiti acquisiscono un particolare valore perché vengono confermate lo stesso 6 maggio da Radaelli, consigliere socialista dell'Atm, e, pochi giorni dopo, dall'esponente del Pds Luigi Carnevale. Queste dichiarazioni, cominciando ad incrinare la linea di difesa della Fiat, che presenta come episodi di concussione i contribuiti periodici, volontari e non contabilizzati ai partiti più influenti, permettono a Di Pietro di convocare d'urgenza Enzo Papi per un interrogatorio chiarificatore. Quando si presenta, il 7 maggio, Papi trova ad attenderlo un mandato di cattura per corruzione e finanziamento illecito ai partiti, viene trasferito a San Vittore e vi rimane cinquantacinque giorni senza mai collaborare con gli inquirenti. Le pressioni in questo senso da parte della Fiat sono molto forti e molto "costose". Si dice, infatti, che il silenzio abbia reso al manager "ogni giorno un patrimonio da favola" (57). Enzo Papi avrebbe da raccontare molte cose, forse troppe: nato a Rosignano Marittimo, figlio di un muratore e di una cuoca, soprannominato "Cow Boy" per la faccia contadina e i modi spicci, laureato in Economia e Commercio, a trent'anni entra alla Fiat Allis, negli Stati Uniti, dopo un periodo alla Teksid, passa alla Fiat Impresit come direttore dello sviluppo e dell'organizzazione e, al momento della fusione con la Cogefar, diventa amministratore delegato della Cogefar Impresit (58). Probabilmente potrebbe chiarire numerosi episodi che vedono protagonista l'azienda di costruzioni del gruppo Fiat, tra cui la complicata questione del conto Sacisa, ma asseconda la strategia dei vertici del gruppo torinese di nascondere tali vicende ai magistrati.

Il 30 giugno Papi lascia il carcere senza avere confessato nulla, circostanza anomala nella vicenda Mani Pulite. Le ragioni di questa anomalia sembrano da ricercarsi in un colloquio avvenuto la sera precedente la scarcerazione tra Di Pietro e don Melesi, vice cappellano del carcere, il quale comunica al magistrato che il suo confidente avrebbe intenzione di collaborare, ma che "ciò gli è impedito dalle sollecitazioni del suo difensore avvocato Chiusano, il quale continua a ribadirgli di attendere ancora". Il religioso inoltre rivela che Papi è disperato al punto che "se non fosse per la Bibbia che gli ho consegnato e che lui legge, se non fosse per la mia presenza e per il pensiero di sua moglie e dei figli, si sarebbe già tolto la vita" (59). Per non rischiare che un suicidio venga strumentalizzato, essendo Mani Pulite appena agli inizi, Di Pietro autorizza gli arresti domiciliari sperando di guadagnarsi la fiducia dell'indagato e di indurlo a parlare. Ed, infatti, Papi ammetterà di aver consegnato a Prada "intorno al miliardo e ottocento milioni per questioni relative alla costruzione del passante ferroviario ... pagati estero su estero, prelevati da una società del Camerun ... transitando per la Svizzera attraverso Panama" (60). Pochi giorni dopo riferirà ai magistrati i meccanismi attraverso cui venivano pagate le tangenti alla Cogefar, anche se non ammetterà d'averne parlato con il suo superiore Mattioli.

Sebbene gli inquirenti non siano ancora riusciti a coinvolgere nell'inchiesta i piani alti di corso Marconi, offrono i primi riscontri sia le dichiarazioni di Prada, sia confessioni di Cozza, amministratore della Fiat Ferroviaria Savigliano, e di Caprotti, concessionario dell'Iveco a Milano, che vengono arrestati il 23 luglio. Cozza ammette di aver pagato due miliardi e settecento milioni, in Svizzera, al Psi in relazione agli appalti per la metropolitana milanese; Caprotti confessa di aver consegnato tangenti per aggiudicarsi le forniture di autobus al comune di Milano. Memori della vicenda Papi, i due manager scelgono, peraltro, una difesa "indipendente" che, diversamente dalla linea difensiva adottata dall'avvocato Chiusano, tuteli i loro interessi fino in fondo senza curarsi delle conseguenze per l'azienda e per il suo staff dirigenziale.

A sette mesi dall'avvio di Tangentopoli, la Fiat è stata colpita solo marginalmente e Romiti, intervenendo ad un dibattito organizzato dallo Studio Ambrosetti, insiste nel sostenere la tesi della concussione:

"Come cittadini e come imprenditori non ci si può non vergognare, di fronte alla società, per quanto è successo. E io sono il primo a farlo. Io sono stato scosso personalmente da questi avvenimenti...".

Riconoscendo, quindi, di aver pagato, Romiti scarica le responsabilità dell'inquinamento del sistema economico sulla classe politica che "...ha preteso da cittadini e imprese il pagamento di compensi per atti molto spesso dovuti" (61). Solo tre mesi prima, lo stesso Romiti aveva, peraltro, fermamente negato, davanti all'assemblea degli azionisti, qualsiasi pagamento di somme ai partiti: "...non ci vengono mai fatte richieste del genere perché si conosce già qual è la nostra risposta. È no!" (62).

Il 15 febbraio Maurizio Prada viene nuovamente interrogato dagli inquirenti, i quali hanno scoperto il filone degli appalti Atm di cui il cassiere della Dc non aveva parlato. Prada non solo ammette l'addebito, ma rivela anche un episodio apparentemente banale, ma denso di implicazioni, riferendo di essersi incontrato, nel maggio 1988, in una saletta appartata del "Club 44", con Antonio Mosconi e Francesco Paolo Mattioli per parlare degli appalti milanesi e delle relative tangenti, ed aggiungendo: "Mattioli e Mosconi sapevano perfettamente che le contribuzioni sarebbero state pagate dagli amministratori delegati delle società che dovevano operare a Milano" (63). Questa dichiarazione dimostra che i vertici del Gruppo erano a conoscenza delle tangenti pagate dai responsabili delle società partecipate e che Cozza, Caprotti e Papi non avevano agito per iniziativa personale, ma seguendo una precisa strategia aziendale. Viene, quindi, confermato ciò che gli inquirenti sospettavano fin dall'inizio: "...anche a Torino sapevano" (64).

Il 22 febbraio Mattioli e Mosconi vengono arrestati con l'accusa di concorso in corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Lo stesso giorno, la situazione prospettata da Prada viene confermata da Papi che, improvvisamente, ricorda di aver consegnato altri quattro miliardi e mezzo al cassiere della Dc e, soprattutto, di aver agito con il benestare di Mattioli e Mosconi. Papi sottolinea: "Io mi lamentai con i due dirigenti delle richieste di soldi che venivano dal sistema dei partiti. Mi dissero che avrei dovuto cercare di non pagare, ovvero in caso di necessità di pagare il meno possibile" (65). A specifica domanda degli inquirenti, egli ammette infine di essere stato autorizzato dai superiori a pagare tangenti in cambio di appalti.

Tra le compromettenti dichiarazioni di Prada e gli arresti di Mosconi e Mattioli, si colloca un episodio che verrà rivelato da Mosconi solo un anno dopo: Il 17 febbraio l'avvocato Gandini, capo dell'ufficio legale della Fiat, convoca Mosconi e Mattioli nello studio dell'avvocato Chiusano perché quest'ultimo è venuto a conoscenza delle dichiarazioni, per loro compromettenti, rese da Prada durante l'interrogatorio del 15 febbraio. L'avvocato Chiusano non rivela la fonte della notizia, ma due mesi dopo l'avvocato Lucibello, legale di Prada, scoprirà una microspia nel suo studio (66).

Nell'analizzare le vicende di Mosconi e Mattioli, è particolarmente interessante sottolineare la diversa scelta degli avvocati difensori. Mattioli, protetto dalla solida amicizia con Romiti, sceglie il patrocinio dell'avvocato Chiusano il cui obiettivo finale è la tutela dell'azienda, e durante il processo, cercherà di fermare le responsabilità al suo livello per non coinvolgere l'amico Cesare, a costo di propugnare versioni dei fatti poco verosimili. Mosconi, invece, preferisce affidarsi ad un difensore indipendente, l'avvocato Roberto Ponzio di Alba, perché è consapevole di non poter contare su alleati potenti in grado di opporsi ad una linea difensiva che miri a sacrificarlo per proteggere chi sta sopra di lui.

La diversa scelta difensiva dipende anche dalla profonda differenza intercorrente tra i due manager Fiat: Mosconi ha alle spalle un certo impegno politico come federalista europeo, Mattioli è meno idealista, più razionale e amante dei numeri; il primo non ha parentele potenti, il secondo è nipote del presidente della Banca Commerciale; diverse sono state anche le modalità di ingresso in azienda: Mattioli è soprannominato "Il Ragazzo" perché è arrivato in Fiat nel 1975, a soli trenta anni, chiamato dal suo amico e protettore Cesare Romiti a far parte, fin dall'inizio, dell'alta dirigenza del Gruppo (67), Mosconi invece, il cui soprannome "Il Pedalatore" ricorda la "gavetta" percorsa all'interno del Gruppo a partire dal modesto incarico presso la segreteria del condirettore generale nel 1968, alle spalle aveva solo la laurea in Economia e Commercio e un lavoro impiegatizio presso la banca San Paolo.

Già nel primo interrogatorio si manifestano le conseguenze della diversa scelta difensiva e del diverso background: mentre Mosconi dichiara con decisione che le tangenti alla Cogefar erano pagate da Papi che ne riferiva direttamente a Mattioli, quest'ultimo, davanti al Tribunale della libertà, chiamato a decidere sull'istanza di scarcerazione di entrambi, replica con una frase sibillina e ambigua: "A Papi dissi di regolarsi come meglio riteneva, secondo coscienza e nell'interesse della società" (68).

Si comprendono, così, le priorità della fabbrica torinese: agli amministratori delle partecipate era richiesto di incrementare gli utili il più possibile e, come sarà approfondito successivamente, venivano loro corrisposte extrabilancio remunerazioni in proporzione agli utili ottenuti. La Fiat non si interessava delle modalità con cui era conseguito il risultato, non puniva dirigenti che avevano pagato tangenti all'insaputa dei vertici aziendali ed in questo modo consentiva, quando non incentivava, condotte illecite.

Le ragioni per cui, il 25 marzo, il Tribunale della libertà rigetta l'istanza di scarcerazione presentata dai legali di Mattioli e Mosconi non lasciano dubbi: sono emersi "un parziale spaccato della corruttela esistente all'interno del più grande sistema industriale italiano" e, soprattutto, "la gravità della condotta tenuta dagli stessi rappresentanti di massimo livello della Fiat, gruppo industriale in grado di influenzare gli indirizzi politici del Paese" (69).

Il Tribunale della libertà non solo respinge la tesi che presenta la Fiat vittima delle pressioni dei partiti, ma si oppone anche alla visione di un vertice aziendale completamente ignaro dei maneggi dei manager minori:

"Tanto Cozza che Papi hanno gestito fondi illegali preesistenti e debbono averli mantenuti con il beneplacito dei loro superiori. È ragionevole supporlo anche considerando che le loro condotte comportavano la commissione di gravi reati con il pericolo di conseguenze particolarmente penalizzanti" (70).

Negli stessi giorni altri mandati di cattura raggiungono tre manager del Gruppo: Riccardo Ruggeri, Massimo Aimetti e Mauro Bertini. Riccardo Ruggeri, ex direttore commerciale dell'Iveco ed ora amministratore della New Holland di Londra, è accusato di concorso in corruzione per aver concesso a Caprotti, concessionario milanese dell'Iveco, uno sconto in nero del 4% sui veicoli acquistati, per permettergli di accumulare su un conto svizzero i fondi necessari per pagare le tangenti richieste per aggiudicarsi l'appalto dell'Atm. Massimo Aimetti, direttore finanziario Iveco, ricostruirà l'intero percorso dei soldi Fiat dalla Overseas Union Bank di Nassau, controllata dalla International holding Fiat (IhF), e quindi dalla stessa famiglia Agnelli, agli uffici dei sindaci di Milano Carlo Tognoli, prima, e Paolo Pillitteri, poi. Mauro Bertini, responsabile del settore Turbogas di Fiat Avio, è accusato di aver pagato tangenti a Valerio Bitetto, consigliere d'amministrazione socialista dell'Enel.

Quest'ultima vicenda, risalente, al 1989 merita di essere ricordata: l'Enel aveva assegnato una fornitura di turbine del valore di circa 800 miliardi per il 50 % alla Fiat Avio e per il 50% al Nuovo Pignone del gruppo Eni; dopo la preassegnazione delle commesse, l'Ansaldo propose all'Enel turbine più potenti e meno inquinanti e Bertini, per evitare di perdere la fornitura, si dichiarò disposto a versare denaro nelle casse dei partiti purché i ministeri dell'Industria e dell'Ambiente mantenessero le scelte tecnologiche già operate. In modo del tutto incidentale, Bitetto rivela che il suo accordo con Bertini contravveniva alla disposizione del suo partito di non chiedere, a livello locale, tangenti alla Fiat, in quanto tale compito veniva assolto direttamente dal Psi, da vertice a vertice. Quest'ultima rivelazione rappresenta un'ulteriore conferma della conoscenza del sistema tangentizio da parte dei vertici della casa automobilistica torinese.

I retroscena di questa vicenda vengono rivelati a Di Pietro da Roberto Araldi, docente di economia alla Cattolica di Milano e consulente del gruppo torinese. Questi racconta di esser stato contattato da Bertini il quale, dovendo effettuare per conto della Fiat versamenti di denaro riservati al sistema dei partiti, ma, non volendo esporsi in prima persona, voleva avvalersi della sua collaborazione: Araldi avrebbe dovuto predisporre un conto in cui far sostare temporaneamente i due miliardi e mezzo provenienti dalla Banca Unione di Credito, di proprietà della Fiat, prima di procedere all'accredito sui conti di Bartolomeo De Toma, emissario del Partito Socialista, e di Gianfranco Fagioli, incaricato dalla Democrazia Cristiana.

Quando Di Pietro comunica a Mattioli di essere a conoscenza di queste imbarazzanti rivelazioni, il manager comprende che ormai non si può più negare tutto e inizia ad ammettere qualcosa, riconoscendo di aver consigliato a Papi di pagare, ma soltanto il minimo indispensabile, e di essere a conoscenza da anni dei fondi neri della Fiat Ferroviaria e dell'Iveco.

Qualche giorno dopo si costituisce Ruggeri, che ammette le sue responsabilità nella vicenda Caprotti. Ruggeri coinvolge anche Giorgio Garuzzo, direttore generale di Fiat Spa, che, nella piramide della dirigenza Fiat, come Mattioli, è inferiore soltanto a Romiti.

La tensione all'interno della casa automobilistica torinese è crescente e l'avvocato Chiusano si prepara a fronteggiare la nuova emergenza, elaborando una strategia che prevede di sacrificare qualche manager di secondo piano per salvare la grande dirigenza. Mosconi ricorda che, il 6 aprile, l'avvocato Chiusano avverte il suo difensore che la Fiat sta preparando dichiarazioni da rendere ai magistrati su alcuni fatti delittuosi commessi dai dirigenti della Fiat Impresit Chicco, Montevecchi e Leodari: "Se volevo", racconta il manager, "potevo guadagnarmi la libertà riferendo fatti di cui, secondo loro, dovevo essere a conoscenza. Risposi che non avrei usato i nomi dei miei collaboratori per poter ottenere la libertà: oltretutto non conoscevo i fatti specifici che loro avevano commesso" (71).

Il 3 aprile 1993, i magistrati ordinano l'arresto di Garruzzo, dal momento che dalle dichiarazioni di Ruggeri era emersa chiaramente la sua personale responsabilità nell'aver consigliato di pagare in nero parte delle provvigioni ai concessionari, in modo da metter loro a disposizione una congrua somma esentasse per poter pagare le tangenti ai politici, come era avvenuto nel caso di Caprotti. Garuzzo fa sapere dalla Germania che si costituirà solo dopo Pasqua: vuole lasciare ai vertici Fiat il tempo di valutare se sia meglio proseguire con la linea difensiva, proposta da Romiti e dall'avvocato Chiusano, di negare tutto il negabile, o se convenga cambiare atteggiamento e, come lui fin dall'inizio aveva proposto, collaborare lealmente con gli inquirenti.

Il 13 aprile sembrano cogliersi i primi segnali di un cambiamento di rotta da parte del vertice della casa automobilistica torinese. In tale data, infatti, l'Avvocato convoca i trentasette massimi dirigenti nel "Comitato di coordinamento" del gruppo. Durante la riunione, a cui partecipano, tra gli altri, Umberto Agnelli, Cesare Romiti e l'avvocato Ezio Gandini, si stila l'inventario delle mazzette Fiat, si prepara un memoriale per il pool e l'avvocato Grande Stevens redige un "codice di comportamento per i rapporti con la pubblica amministrazione" a cui i manager del Gruppo dovranno attenersi in futuro. In quest'occasione Romiti invita i più importanti manager del gruppo a contattare, qualora avessero qualcosa da riferire alla magistratura, l'avvocato Ezio Gandini, capo dell'ufficio legale della Fiat, per concordare le modalità della strategia di collaborazione con gli organi inquirenti.

L'invito di Romiti suscita alcune riflessioni ed interrogativi in merito alla necessità di un "codice etico", quando il codice civile e quello penale costituiscono da tempo codici di comportamento validi per tutti i cittadini italiani (72), ed in merito alle ragioni per cui i manager avrebbero dovuto consultarsi, prima di collaborare, con l'avvocato Gandini.

Il giorno 17, l'avvocato Agnelli, davanti ad una folta platea di imprenditori riunitasi a "La Fenice" di Venezia, pronuncia le prime, seppur limitate, ammissioni di colpa:

"[...] Anche alla Fiat si sono verificati alcuni episodi di commistione con il sistema politico non corretti", [...] "è errato e fuorviante pensare che le indagini della magistratura siano parte di un complotto o di oscure manovre politiche", [ma] "[...] bisogna distinguere, all'interno dell'azienda, il cuore sano, rappresentato dal settore dell'auto, dalle zone periferiche infettate per un giro di commesse che rappresenta appena il 5 per cento del fatturato dell'intero gruppo" (73).

In queste giornate dense di avvenimenti importanti si colloca anche la confessione di Antonio Mosconi. Il manager, per dimostrare quali erano i veri rapporti di forza all'interno dell'azienda, consegna ai magistrati milanesi due lettere da lui stesso scritte il 24 novembre 1990 e il 24 ottobre 1991. Nella prima, Mosconi si lamentava direttamente con Mattioli del fatto che i manager della Cogefar preferissero a rivolgersi direttamente ai dirigenti della capogruppo anziché a lui; nella seconda, intendeva avvertire Romiti e Mattioli che la situazione alla Cogefar era "grave dal punto di vista strategico, morale e finanziario" (74).

Consegnando ai magistrati queste lettere, Mosconi voleva chiarire che Mattioli e Romiti erano perfettamente consapevoli del pagamento di tangenti da parte della Cogefar e dell'accantonamento di fondi neri, aggiungendo nell'interrogatorio, che sarebbe stata proprio la maggior familiarità con queste attività a spingere i vertici aziendali a favorire la carriera di Papi e ad emarginare progressivamente lui.

Nel mese di aprile 1993, caratterizzato da febbrile attività sia per gli accusatori che per gli accusati, si assiste ad altri due significativi avvenimenti: il vertice in Procura e la misteriosa "gita a Vaduz".

Il 17 aprile, gli esponenti del pool Mani Pulite (75) e i difensori dei manager del gruppo Fiat (76) si incontrano nella Procura di Milano. Nonostante l'assoluto riserbo mantenuto circa il contenuto della discussione, la promessa di collaborazione offerta dai legali del gruppo torinese deve esser stata particolarmente significativa perché gli inquirenti bloccano in extremis alcuni arresti, tra cui probabilmente anche quello che avrebbe colpito Cesare Romiti. Pochi giorni dopo, quest'ultimo si presenta spontaneamente, in qualità di testimone, rivelando una serie di episodi sintomatici della forte pressione esercitata da influenti politici, quali Bettino Craxi, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti, nei confronti del mondo imprenditoriale, ammettendo che le aziende facenti capo alla controllante Fiat Impresit, ad eccezione dellaCogefar Impresit, si avvalevano del conto corrente intestato Sacisa per reperire le somme da versare ai politici e riversando le responsabilità degli illeciti sugli amministratori delle controllate, anche se, "il vertice conosceva l'andazzo" (77).

Una certa ambiguità circonda la collaborazione della Fiat, in quanto se il gruppo torinese rivela alcuni episodi illeciti per mantenere un buon rapporto con la magistratura, contemporaneamente cerca di nasconderne altri parimente gravi.

La "gita a Vaduz" costituisce un emblematico esempio di questa strategia (78). Il 19 aprile, alcuni dei più importanti manager (79) del gruppo Fiat Impresit si riuniscono a Vaduz, dove, qualche mese prima, Ugo Montevecchi, nuovo amministratore delegato di Fiat Impresit al posto di Mosconi, aveva fatto trasferire da Ferri tutta la documentazione attinente al conto Sacisa (80), fino ad allora custodita nella sede della Entreprises et Travaux de Construction di Lugano (81). Mosconi precisa:

"Si tratta degli appunti conservati da ciascun manager invischiato nelle tangenti, a proposito dei versamenti fatti: una sorta di inventario informale per tenere il conto delle mazzette pagate nel corso degli anni, la cui documentazione ufficiale veniva automaticamente distrutta" (82).

Consapevoli che lasciare quel dossier in Svizzera avrebbe significato rischiare che il pool ci mettesse le mani sopra,

"a Vaduz dovevano scegliere e hanno scelto [...] quali dovevano essere le cose da dire all'autorità giudiziaria e chi doveva attribuirsi i fatti commessi. In quella riunione hanno deciso di distruggere o comunque occultare tutto il resto del conto Sacisa, in modo da dare all'autorità giudiziaria alcune specifiche informazioni per farla contenta, e chiudere così il conto con la procura di Milano". [...] "Per come sono andate le cose, ritengo che tutto ciò sia stato coordinato e disposto da Romiti" (83).

Proprio Romiti, il 24 aprile, torna a Milano per consegnare il memoriale da lui stesso promesso ai magistrati, pochi giorni prima, durante la sua deposizione spontanea. Nelle venti pagine prodotte, il manager Fiat enfatizza le dimensioni del Gruppo e dei fatturati per minimizzare l'importanza di quelle decine di miliardi di mazzette che, fatte le debite proporzioni, sono "...meno dell'elemosina di un uomo qualunque ad un poveraccio" (84). Nel primo allegato, questa giustificazione viene approfondita attraverso la comparazione del fatturato del Gruppo con quello originato dai rapporti con gli enti statali dove si sono verificati i pagamenti delle tangenti: la percentuale, del 3,4 %, risulta addirittura inferiore a quella (il famoso 5%) indicata dall'Avvocato a Venezia. Si noti, peraltro, che, sebbene tale percentuale sembri rappresentare una cifra esigua, rapportata ad un giro d'affari pari a 2.013 miliardi, essa determina, ipotizzando una media del 5 per cento in tangenti, versamenti per circa 100 miliardi l'anno!

Il secondo elemento del memoriale-difesa di Romiti è rappresentato dal tentativo di ricondurre tutte le responsabilità della corruzione del sistema alla classe politica riproponendo, anche in questo caso, le argomentazioni proposte dall'Avvocato alla platea di Venezia.

Infine, l'ultimo tema difensivo proposto è improntato, diversamente dalle prime due parti del memoriale volte a difendere l'azienda, alla difesa di se stesso. Romiti cerca di presentarsi come un dirigente la cui unica colpa è quella di non aver vigilato sull'operato dei suoi sottoposti e di non essersi attivato tempestivamente per conoscere "...i fatti oggetto delle accuse e le relative ripercussioni sui bilanci delle società interessate". Secondo la ricostruzione del memoriale, Romiti avrebbe appreso l'esistenza di certi fatti riguardanti la Fiat Impresit, tra cui quella del conto Sacisa presso la Union Bank and Trust di Nassau nelle Bahamas, soltanto dopo il Comitato di coordinamento. Naturalmente, Romiti "glissa" sul fatto di essere stato vicepresidente di Fiat Impresit e consigliere d'amministrazione per circa dieci anni: ricordarlo significherebbe non poter più prendere le distanze dal conto Sacisa e dai suoi strascichi giudiziari.

Accortosi, infine, dell'esistenza dei fondi neri, Romiti riferisce di aver preferito non interrogare i dirigenti coinvolti per non interferire con l'operato della magistratura e rivela i nomi di cinque manager (85) che riferiranno, in dettaglio, i pagamenti di tangenti di cui si sono resi protagonisti.

Tre sono gli interrogativi fondamentali che il discorso di Romiti solleva.

Per quali ragioni, essendo le grandi imprese proprietarie di giornali e televisioni, non sono stati utilizzati questi strumenti per denunciare i ricatti dei partiti?

"La sola risposta efficace", replica Romiti, "sarebbe stata quella della rivolta generale [...]. Di non averla operata non si può oggi far carico ai singoli operatori economici quando la situazione sembrava loro immodificabile... e con il rischio che, a una denunzia nelle sedi competenti, potessero seguire rappresaglie gravi".

Perché l'azienda non ha punito, o per lo meno allontanato, i manager che hanno confessato di aver pagato tangenti ai partiti, quando ne è venuta a conoscenza?

"Alla luce dei fatti oggi noti, ritengo", osserva Romiti, "che i singoli responsabili delle società del gruppo in rapporto con la pubblica amministrazione non hanno avuto la possibilità di resistere alle pressioni, in quanto avevano la consapevolezza delle gravi conseguenze che si sarebbero altrimenti verificate per la loro azienda".

Infine, in un sistema così pervaso dal fenomeno concussivo, Romiti ha mai ricevuto pressioni dai partiti?

"In quelle occasioni, rare ma molto importanti, nelle quali ho trattato affari di interesse del gruppo con soggetti pubblici, nessuna richiesta illecita", ribatte Romiti, "mi è mai stata formulata dai miei pur qualificati interlocutori".

La tesi del numero due della Fiat appare, peraltro, poco verosimile: come poteva quella concussione ambientale che toglieva ai manager qualsiasi margine di manovra, magicamente sparire quando, a trattare affari, scendeva in campo Romiti? (86)

Intanto i manager del Gruppo cominciano a collaborare.

Il 27 aprile, si presenta in Procura Enzo Papi il quale, nel tentativo di coprire Romiti più del necessario, aggrava alquanto la posizione di Mosconi. Preoccupato di essere divenuto il capro espiatorio della situazione, quest'ultimo reagisce attaccando il suo accusatore e i suoi probabili ispiratori ai vertici dell'azienda. Nella versione di Papi, Mosconi è colui che l'ha "iniziato" alla pratica delle tangenti e che gli ha fornito la lista delle persone da soddisfare: "nel 1988, quando divenni amministratore delegato della Cogefar, Mosconi mi fornì una lista di tangenti da pagare e mi disse che d'ora in poi dovevo pensarci io. Fu Mosconi ad indicarmi il conto da cui attingere le mazzette" (87). Secondo Papi, il pagamento avveniva "estero su estero" tramite la procuratrice di Lugano, Franca Gabutti. Se in contanti, il denaro veniva prelevato direttamente a Lugano da Papi o perveniva a Milano su disposizione del direttore finanziario della Fiat Impresit, Aldo Morniroli.

Mosconi contraddice vivacemente le dichiarazioni di Papi: "In pratica la mia pretesa iniziazione del Papi è consistita solo nell'avergli fatto presente intorno al 1987-1988 dell'esistenza dei fondi della Sacisa e della necessità di aderire agli accordi a suo tempo già presi con la Intermetro. Queste indicazioni gliele abbiamo date sia io che Mattioli, o meglio, io ne ho parlato con Mattioli e, previo suo consenso, ho dato disposizioni in questo senso a Papi" (88).

Confermano questa dichiarazione quelle rilasciate appena pochi giorni prima da Garuzzo che aveva dipinto Mattioli come il coordinatore dei pagamenti estero su estero ed incrinano le posizioni degli "intoccabili" del Gruppo: prima Mattioli, poi Romiti.

Di quest'ultimo Mosconi parla in relazione alla vicenda del conto Sacisa. Riferisce infatti che, al momento di diventare amministratore delegato della Fiat Impresit, Romiti gli segnalò che il gruppo Fiat disponeva a Lugano di un "tesoretto", ovvero di somme extra bilancio (89) da cui potevano prelevare tutti gli amministratori delle società di Fiat Impresit e comunque, in caso di necessità, il dottor Romiti. Quest'ultimo gli riferì anche che Sacisa era stato costituito con fondi provenienti dalle realizzazioni di grandi opere all'estero da parte di società partecipate e che il "tesoretto" non era mai stato utilizzato per pagare "intermediazioni strane" in Italia, ma che, invece, egli stesso se ne era servito per fronteggiare gli impegni assunti con i partiti in occasione della costruzione della metropolitana di Roma (consorzio Intermetro).

Parlando della vicenda Intermetro, Mosconi finisce per coinvolgere un altro fedelissimo di Romiti, Umberto Belliazzi, direttore della sede romana della Fiat, ricordando di essere stato da lui rimproverato perché "Impresit non pagava e il mondo politico si lamentava", cosa che "faceva fare una brutta figura a Romiti".

"Non ebbi bisogno di parlarne con Romiti", continua Mosconi, "in quanto fu egli stesso che inizialmente mi mandò da Pennacchioni proprio per farmi spiegare le modalità della gestione Intermetro e perché era stato il suo uomo di fiducia Belliazzi a lamentarsi con me" (90).

Intanto, Crescenzio Bernardini, emissario del segretario amministrativo del Psi Vincenzo Balzamo, ricorda di esser stato incaricato dai vertici del partito di fare pressioni sulla dirigenza Fiat di Roma affinché onorasse gli "impegni presi" e si dice sicuro che Romiti non solo fosse al corrente, ma avesse addirittura autorizzato i pagamenti, ricordando: "Balzamo mi precisò di aver parlato al riguardo con il dottor Romiti, il quale era d'accordo e Belliazzi (91) affermò che vi era la disponibilità del gruppo Fiat a far fronte all'impegno assunto solo dopo essersi consultato con il suo superiore, cioè con Romiti" (92). Sono queste le rivelazioni che permetteranno ai magistrati di Milano di iscrivere il nome di Romiti nel registro degli indagati con le accuse di corruzione aggravata per atto contrario ai doveri d'ufficio, continuata in concorso, e violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti.

Altre tangenti emergono, in quegli stessi giorni, dalle dichiarazioni di Montevecchi, amministratore delegato di Fiat Impresit. Nel 1990 la Fiat Impresit concorreva con la Ispredil di Roma e la Sts della Lega delle Cooperative all'assegnazione di una commessa da cinquecento miliardi di lire per la costruzione di nuovi reparti, attrezzati per la lotta all'A.I.D.S., negli ospedali del Veneto, dell'Emilia, della Toscana, dell'Umbria e del Lazio. La decisione finale sull'assegnazione spettava al Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo (Pli) ed al Ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino (Dc). Montevecchi ricorda di essersi visto chiedere, dopo aver ottenuto la commessa, ottocento milioni dal vicesegretario del Pli Attilio Bastianini, ma di averne versati "solo" cinquecento su un conto corrente della banca Sbs di Ginevra. La parte più interessante di questo episodio riguarda, però, la remunerazione di Paolo Cirino Pomicino. Montevecchi riferisce di aver preso contatti, su segnalazione del ministro, con l'ingegner Greco, suo consulente, che gli avrebbe segnalato "per i ringraziamenti" l'onorevole Salvo Lima (93). Quest'ultimo, tuttavia, si era rifiutato di parlare direttamente con Montevecchi, inviando, invece, a Roma un suo emissario a riscuotere una mazzetta da quattrocento milioni al manager Fiat nell'androne dell'ingresso dei suoi uffici di Roma. Pur "impressionato" dall'insolita procedura, Montevecchi non si recò a denunciare il fatto alla polizia, ma contrattò sulla somma, accordandosi sui duecento milioni (94).

Le dichiarazioni di Montevecchi permettono di scoprire modelli di pagamento alternativi, tipici del mondo dell'illecito, che permettono al reale destinatario di rimanere completamente estraneo alla rischiosa operazione di ritiro del denaro, utilizzando intermediari di fiducia o facendo ricorso a beni diversi dal denaro (95) (96).

Intanto, anche Umberto Belliazzi, direttore della Fiat di Roma e uomo di fiducia di Cesare Romiti, viene arrestato e conferma le dichiarazioni di Mosconi, ammettendo che Romiti era informato delle richieste di denaro provenienti dal ministro democristiano Clelio Darida in relazione all'affare Intermetro. L'importanza di questo particolare deriva dal fatto che, come si vedrà, la prova storica della colpevolezza di Romiti nel processo di Torino, verterà proprio sulle dichiarazioni della "triade", cioè sulle conferme reciproche che si forniranno Mosconi, Belliazzi e Bernardini (97).

La vicenda Intermetro (98) è particolarmente importante perché, dai riscontri incrociati dei testimoni emerge chiaramente il coinvolgimento diretto di Romiti nella dazione di tangenti ai politici (99). Per questo motivo, costituirà un duro colpo per le indagini il trasferimento a Roma dell'inchiesta, a causa del conflitto di competenza generato dall'arresto, da parte della Procura romana, di Ugo Montevecchi per le stesse vicende di cui aveva già riferito ai magistrati di Milano. La questione legale che permetterà il trasferimento dell'inchiesta è rappresentato dall'arresto, a Roma, del ministro democristiano Clelio Darida accusato di aver richiesto denaro al consorzio Intermetro. Il conflitto di competenza si risolverà davanti alla Corte di Cassazione con il trasferimento del procedimento a Roma.

I magistrati del pool si erano fortemente opposti alla richiesta dei colleghi romani perché alcuni di loro, che erano stati, negli anni precedenti, spettatori impotenti dei trasferimenti forzati di inchieste scottanti, come quelle su Piazza Fontana e sulla Loggia P2, da Milano a Roma, temevano che, come era avvenuto in quei casi, l'inchiesta si arenasse nel "porto delle nebbie" (100).

All'inizio del 1994, Mosconi viene convocato a Roma per riferire quello che sa in merito alla vicenda Intermetro. Il giorno prima, l'avvocato Gandini, capo dell'ufficio legale della Fiat, lo avverte di riflettere bene sulle dichiarazioni che ha intenzione di rendere agli inquirenti ricordandogli, come riferisce il manager:

" Dipende da te il rinvio a giudizio di Romiti, non devi dire che Belliazzi quando si riferiva a tangenti per l'Intermetro parlava a nome di Romiti" (101).

Se è chiaro, come nel caso dell'invito ai manager a consultarsi con l'avvocato Gandini prima di collaborare, l'intento della Fiat di affidare al suo ufficio legale il compito di coordinare le deposizioni per impedire "incaute" dichiarazioni di qualche dipendente, Mosconi non seguirà le indicazioni di Gandini e il nome di Romiti verrà iscritto nel registro degli indagati di Roma con l'accusa di finanziamento illecito ai partiti, corruzione e falso in bilancio. La testimonianza di Mosconi è, infatti, densa di implicazioni e di nuovi temi d'indagine. Inoltre, il 31 gennaio 1994, Mosconi si presenta al sostituto procuratore Misiani con due circolari interne Fiat firmate entrambe da Romiti: con la prima, del 1983, si comunica che l'ingegner Belliazzi risponde direttamente all'amministratore delegato della Fiat Spa, cioè a Romiti stesso, "...per iniziative specifiche di volta in volta a lui affidate" (102); con la seconda, del 1992, si rende noto che Belliazzi, nonostante sia già andato in pensione, continua a fornire assistenza alla società per le attività di relazione con le istituzioni.

Mosconi rende noto che le attività all'estero della Fiat fanno capo alla International holding Fiat (IhF) di Lugano, società detenuta interamente dalla Fiat Spa. La stessa Buc è posseduta per intero dalla Ihf. Siccome i pagamenti della Fiat Impresit avvenivano con trasferimenti di denaro ordinati dalla signora Gabutti dalla Buc al conto Sacisa, Mosconi ipotizza che lo stesso "tesoretto", rappresentato dai fondi neri Sacisa, sia nella diretta disponibilità del gruppo Fiat, precisando che il fondo non solo veniva utilizzato per pagamenti all'estero di provvigioni "non ufficiali", ma anche retribuire i dirigenti delle subholding la cui autonomia, in questo modo, veniva fortemente limitata dai vertici del Gruppo. Quest'ultimo spunto, non raccolto dai magistrati romani, verrà approfondito dalla Procura di Torino che, scoprirà un'organizzata rete di contatti che permetteva ai manager di frodare il fisco ricevendo una parte dello stipendio e premi extra, in nero, su conti esteri.

La Guardia di Finanza confermerà che il conto Sacisa è di proprietà della Fiat Spa in quanto, in almeno due occasioni, gli interessi maturati dal conto sono stati intascati dalla IhF.

Le dichiarazioni di Mosconi determinano, nel marzo 1994, il rinvio a giudizio di Romiti e Mattioli. I due manager, peraltro, vengono prosciolti, quattro mesi dopo, dal giudice per le indagini preliminari Adele Rando con un provvedimento le cui motivazioni suscitano non poche perplessità: vengono ignorate le circolari, firmate da Romiti, prodotte da Mosconi e le sue spiegazioni in merito alla mancanza di autonomia decisionale dei manager delle subholding, ma soprattutto si ritiene insufficiente a fondare l'ipotesi di reato la conoscenza da parte di Romiti e Mattioli del "tesoretto" Sacisa, in quanto non inerente ai loro compiti.

L'argomentazione del giudice si regge su basi alquanto fragili: perché i due manager avrebbero dovuto conoscere il conto, se non perché di loro competenza e, quindi, riconducibile ad un'ipotesi di reato? In ogni caso, conoscendo l'illecito, i due manager non avrebbero almeno violato l'obbligo di interrompere il fatto criminoso che avevano l'obbligo giuridico di impedire in quanto amministratori della società da cui il fondo nero era controllato? (103). Pino Nicotri osserva: "Può anche darsi che Romiti sarebbe poi stato davvero assolto in sede processuale, ritenendo i giudici magari insufficienti gli elementi a suo carico. Ciò che tuttavia suona strano è che a questa conclusione si voglia arrivare prima del processo. Senza il processo, per Romiti e Mattioli" (104).

Se la tradizionale immunità della fabbrica torinese sembra destinata a non essere scalfita, i procedimenti continuano a Milano e Torino. Anche nella capitale, se il rigetto dell'appello promosso contro la sentenza del Gip e la successiva conferma in Cassazione sembravano aver definitivamente chiarito la posizione di Romiti e Mattioli in relazione alla vicenda Intermetro, le dichiarazioni rilasciate, appena 20 giorni dopo, nell'aula del processo Intermetro dall'imputato ottantenne, Crescenzio Bernardini, ex collettore di tangenti per il Psi e la Dc, rimettono tutto in discussione. Egli ricorda:

"Il mio amico Vincenzo Balzamo, tesoriere del Psi, avvertì Romiti che aveva dato a me l'incarico di far da tramite per i soldi della Fiat. E Romiti gli disse che avrebbe avvertito Belliazzi. Belliazzi mi confermò poi che Romiti gli aveva dato disposizioni di chiamarmi e dirmi che la Fiat intendeva mantenere gli accordi fatti a suo tempo" (105).

Il responsabile dei pagamenti era Mosconi il quale, sostiene Bernardini, "disse che aveva avuto il benestare sia di Mattioli che di Romiti" (106). In seguito, Bernardini avrebbe proseguito le trattative con Papi e proprio lui gli avrebbe parlato del conto Sacisa richiedendogli di effettuare i pagamenti estero su estero (107).

Nello stesso giorno delle dichiarazioni di Bernardini, un pacco di documenti e testimonianze, tra cui quelle di Vittorio Ghidella e Clemente Signoroni, già alti dirigenti Fiat, arriva dalla Procura di Torino, titolare dell'inchiesta sui falsi in bilancio.

Il 26 gennaio 1996, sulla base della testimonianza di Bernardini e dei nuovi documenti acquisiti, la Procura della Repubblica di Roma chiede la riapertura delle indagini per l'affare Intermetro. L'8 maggio 1996, un mese e mezzo dopo che il capo dei Gip capitolini Renato Squillante è stato incarcerato con l'accusa di corruzione, il Gip di Roma Adele Rando revoca, per la parte relativa alle tangenti versate ai politici, la sentenza che aveva prosciolto Romiti il 25 luglio 1994. Le indagini si riaprono ed ottengono buoni risultati. Infatti, il 16 gennaio 1998 il Gip notifica ai tre imputati, Romiti, Mattioli e Belliazzi, la decisione di rinviarli a giudizio. Mattioli, dal 1993 reo confesso, esce presto di scena, scegliendo di patteggiare la pena. Romiti, invece, va al processo che, diversamente da quello di Torino, non sarà a porte chiuse.

Il pool di Milano, privato dell'inchiesta Intermetro, continua ad indagare sugli altri fatti che vedono coinvolta la fabbrica torinese. All'inizio del 1994 si collocano due episodi importanti.

Il 15 gennaio, durante il processo Cusani, il p.m. Antonio Di Pietro chiede incidentalmente a Giallombardo, cassiere di Craxi, se ha mai sentito parlare di un versamento di quattro miliardi sulla banca Bil del Lussemburgo con riferimento "Gabbiano", un gabbiano che, aggiunge, ..."forse va a benzina". Dopo aver, in un primo momento, negato, Giallombardo, rivela di essere stato incaricato nel 1992, poco prima delle elezioni, da Balzamo di verificare se fosse stata accreditata sul conto Hambest presso la Bil del Lussemburgo la somma di cinque miliardi. Poiché il versamento era stato garantito personalmente da Romiti, a Balzamo sembrò strano che la somma non fosse ancora arrivata. Quest'ultimo, parecchio tempo dopo, lo informò che il denaro, quattro miliardi e non più cinque, era partito dalla Buc di Lugano con il misterioso mittente "riferimento Gabbiano" ed era giunta a destinazione sul conto Norange della Bil di Losanna (108): Romiti era quindi direttamente responsabile dell'illecito finanziamento al Psi.

Il 21 gennaio, la Guardia di Finanza al valico di frontiera di Ponte Chiasso scopre un altro tentativo di occultamento di prove da parte dell'azienda torinese, dopo quello attuato durante la "gita a Vaduz". L'amministratore della Fiat Impresit Ugo Montevecchi viene, infatti, sorpreso con un baule di documenti sul conto Sacisa, con gli elenchi dei prelievi dall'89 al '93. Altre carte si riferiscono ad un altro conto, direttamente intestato a Montevecchi, e riportano alcuni appunti cifrati: "BC 200 milioni per cong. Psi", "Bz, un miliardo", "Vers. Accademia 3006", "Vers. Carassi", "Linus".

Dopo aver finto, in un primo tempo, di essere diretto a Milano per consegnare la documentazione a Di Pietro, Montevecchi confessa: le carte si riferiscono a versamenti ai partiti non ancora rivelati. Le sigle BC e Bz stanno per Bettino Craxi e Balzamo e le altre si riferiscono al pagamento di una tangente da 200 milioni al Pds veneto suddivisa nei conti Carassi, Linus e Accademia (109). Da una scoperta casuale e fortunata si apre un nuovo filone d'inchiesta e Mosconi viene raggiunto da un nuovo mandato di cattura. L'accusa è di aver consegnato 200 milioni all'eurodeputato Cesare De Piccoli per finanziare la campagna elettorale della corrente veneta del Pds. Mosconi, indicato da Montevecchi come il mandante della tangente, si rifiuta di costituire ancora una volta il capro espiatorio dell'azienda. Dichiara: "Voglio evitare che altre persone del gruppo Fiat utilizzino il mio nome per cose che hanno fatto loro" (110) e "vuota il sacco". Ricorda che la Fiat Engineering voleva utilizzare, per costruire il nuovo stadio di Venezia, il progetto bocciato per il Delle Alpi di Torino e, per questo motivo, le serviva l'appoggio dei partiti. Ammette di aver accompagnato Cesare Annibaldi, capo delle relazioni esterne della Fiat, nell'ufficio di De Piccoli, ma nega di aver autorizzato il versamento puntualizzando che erano Romiti e il suo entourage a poter disporre di fatto del conto Sacisa. L'accusa ai vertici Fiat è pesante, poiché rivela che la collaborazione con gli inquirenti era una finzione ed è, infatti, in questa occasione che Mosconi, esasperato, rivela i già citati episodi della "gita a Vaduz", della riunione nello studio Chiusano per analizzare le accuse di Prada e delle raccomandazioni dell'avvocato Gandini.

Nel mese di marzo i primi processi giungono a conclusione ed arrivano le prime condanne. Al processo per gli appalti truccati all'ospedale di Pavia Papi, Mosconi e Grando sono condannati dai tredici agli undici mesi di carcere per corruzione. A febbraio, Mattioli, Mosconi e Papi erano stati rinviati a giudizio per le mazzette pagate dalla Cogefar Impresit per gli appalti della metropolitana milanese (1,8 miliardi a Dc, Psi, Pds). Mattioli sceglierà il rito abbreviato e il 16 aprile 1996 verrà condannato per corruzione a due anni a mezzo di reclusione. La motivazione della sentenza è interessante perché mette in stretta correlazione la corruzione con i fondi neri:

"la creazione di provviste extracontabili si spiega con la necessità di reperire prontamente risorse finanziarie per pagamenti illeciti, relativi (anche) ad accordi di natura corruttiva; ben difficilmente, difatti, una società crea delle disponibilità extracontabili per l'evenienza di future concussioni" (111).

Il giudice ritiene che il fatto "che Papi usasse metodi illeciti per l'acquisizione del maggior numero di appalti era un fatto quantomeno subodorato in ambienti Fiat [...] perché Mosconi aveva messo al corrente prima Mattioli, poi Romiti di questa situazione" (112).

A fronte degli esiti puramente processuali dell'inchiesta di Milano, è molto interessante approfondire le ripercussioni della diversa condotta tenuta dai manager durante il procedimento sulla loro carriera in Fiat.

Mattioli, che aveva seguito scrupolosamente le indicazioni dell'avvocato Chiusano, sebbene condannato a due anni e mezzo di reclusione, non viene licenziato ed, anzi, figura perfino nella gerenza del quotidiano "La Stampa". Mosconi, che, rifiutando il ruolo di capro espiatorio, aveva fatto tremare il vertice del Gruppo, il 28 febbraio 1994 dovrà lasciare la carica di amministratore delegato della Toro Assicurazioni.

Già nel 1993, Cesare Romiti aveva chiesto a Mosconi di dimettersi. Riecheggiano, ora, le parole pronunciate da Cesare Romiti alla decima convention del Gruppo svoltasi al Lingotto il 5 dicembre 1992:

"...preferiamo perdere un collaboratore capace che non capisce il gioco di squadra, che gioca contro la squadra, piuttosto che mantenerlo".

E rimangono aperti molti interrogativi sulla vera natura di quel "gioco di squadra".

1.6 L'inchiesta di Torino

1.6.1 I fatti dalla voce dei protagonisti

Il 24 febbraio 1993 il deputato leghista, e mini azionista Fiat, Mario Borghezio presenta un esposto, avente ad oggetto la fabbrica automobilistica piemontese, alla Camera dei Deputati che lo trasmise, il 2 marzo, alla procura di Torino. In tale esposto, Borghezio riferisce che, nonostante i reati di corruzione ed illecito finanziamento ai partiti politici contestati a Milano ai manager Fiat, Mattioli e Mosconi, nel corso delle assemblee ordinarie di Fiat S.p.A. dell'ultimo triennio (1990, 1991 e 1992), alle specifiche domande formulate dagli azionisti in relazione al pagamento di somme a titolo di tangenti o di contributi ai partiti, hanno sempre fornito risposta negativa. Borghezio denuncia, pertanto, i responsabili di quelle menzognere informazioni agli azionisti (113).

L'inchiesta per falso in bilancio a carico della Fiat S.p.A. viene aperta automaticamente per verificare, ex art. 2621, se i vertici della Fiat abbiano fraudolentemente, nei bilanci o nelle altre comunicazioni sociali, esposto fatti falsi oppure occultato fatti veri in relazione alle condizioni economiche della società.

I pubblici ministeri di Torino richiedono ai colleghi milanesi i fascicoli relativi alla Cogefar Impresit, alla Fiat Ferroviaria Savigliano e all'Iveco. Questi filoni di inchiesta infatti hanno già permesso ai magistrati di Milano accertare finanziamenti illeciti alla Dc di Maurizio Prada, al Psi e al Pds da parte di queste imprese del gruppo Fiat, ma soprattutto di subodorare l'esistenza di fondi neri utilizzati per finanziare il sistema dei partiti attraverso pagamenti estero su estero. L'esistenza di fondi neri, cioè di disponibilità non contabilizzate, insieme all'iscrizione di somme in voci errate del bilancio costituiscono, infatti, proprio l'elemento materiale del reato di false comunicazioni sociali contestato a Romiti e Mattioli nel processo di Torino.

Il pool di Milano si rifiuta di trasferire gli atti preferendo mantenere anche l'inchiesta sui falsi in bilancio. Il braccio di ferro dura parecchi mesi fino a quando, il 6 dicembre 1994, Di Pietro lascerà la Procura e il suo sostituto Ennio Ramondini "non sapendo dove mettere le mani, comincerà a spedire il tutto, pezzo per pezzo in ordine alfabetico, ai colleghi torinesi" (114).

A Milano, nel frattempo, si sono aperti altri filoni di inchiesta che possono interessare i magistrati torinesi. Nel maggio '93 Montevecchi rende nota a Di Pietro una tangente da un miliardo, pagata dalla Fiat Engineering all'Aem per i lavori del teleriscaldamento (115). L'inchiesta passa a Torino per competenza nelle mani del pubblico ministero Vittorio Corsi che decide di indagare sulla destinazione finale della porzione di tangente pagata al Psi. Il p.m. scopre che una parte, centosessanta milioni dei duecentoquaranta, sarebbe finita su un conto svizzero dell'esponente del Psi torinese Giuseppe La Ganga. Lo stesso La Ganga sarebbe stato il destinatario di un'altra tangente che vede coinvolto il gruppo torinese: i duecento milioni pagati dal consorzio C.I.D.I.U., di cui fa parte la Cogefar, per aggiudicarsi l'appalto da venti miliardi per la costruzione del depuratore di Collegno, Grugliasco e Rivoli (116).

I problemi per l'azienda torinese non sono, però, finiti. A fine marzo, infatti, la Guardia di Finanza completa una verifica generale fiscale nei confronti dalla Fiat Ferroviaria da cui emergono un forte rapporto di dipendenza dalla capogruppo ed irregolarità nella gestione contabile dell'azienda tali da ipotizzare per l'amministratore delegato e gli altri amministratori una responsabilità per il reato di false comunicazioni sociali (art. 2621).

Il successivo 6 maggio 1993 la Procura di Milano trasmette a quella di Torino il procedimento a carico di Giancarlo Cozza (117), amministratore della Fiat Ferroviaria Savigliano, il cui difensore, l'avvocato Carlo Taormina, aveva ammesso:

"Le procedure di pagamento estero su estero hanno un parziale fondamento, anche perché società grandi come la Fiat ferroviaria hanno gestioni extra bilancio per finalità diverse" (118).

Dopo l'arrivo a Torino della documentazione relativa a Giancarlo Cozza ed alla Fiat Ferroviaria, il 25 maggio, Cesare Romiti consegna al procuratore capo Francesco Scardulla, affiancato da Marcello Maddalena e Giangiacomo Sandrelli, una memoria in cui conferma l'atteggiamento di collaborazione già manifestato nella memoria milanese. In tale documento, Romiti aggiunge che l'avvocato Gandini, durante la raccolta delle informazioni dai manager del Gruppo, ha scoperto fatti ulteriori rispetto a quelli già conosciuti dall'autorità giudiziaria, ed elenca i casi, specifici dell'area piemontese, di cui egli è venuto a conoscenza:

  • la costruzione del depuratore di Collegno, Grugliasco e Rivoli, a seguito dell'appalto affidato al Consorzio Intercomunale di Igiene Urbana (C.I.D.I.U.);
  • la costruzione del depuratore di Ciriè;
  • alcune opere relative alla discarica di Cavaglià;
  • l'ampliamento della linea ferroviaria Chivasso - Castelrosso;
  • la costruzione del depuratore Po Sangone;
  • l'appalto concesso dall'Azienda Elettrica Municipale di Torino per il teleriscaldamento di Torino Sud (119).

Due di tali episodi, quelli riferiti al teleriscaldamento ed al C.I.D.I.U., sono già a conoscenza dei magistrati i quali, inoltre, come a Milano, dimostreranno presto alcune "dimenticanze" del supermanager Fiat.

Dopo aver consegnato il memoriale, Romiti, interrogato come testimone dal pubblico ministero, afferma di non aver mai ricevuto richieste "né di pagamento di tangenti, né di finanziamenti a singoli partiti o uomini politici" (120), intendendo attribuire, in tal modo, le responsabilità alle singole società controllate dalla Fiat S.p.A. ed affermando di esserne venuto a conoscenza solo nel momento in cui i singoli responsabili le rivelarono all'avvocato Gandini. Romiti sottolinea che il conto Sacisa, di cui gli inquirenti gli chiedono con insistenza, era stato aperto da Fiat Impresit molti anni addietro, probabilmente prima della sua entrata in Fiat, cercando, in questo modo, di scongiurare ogni addebito. Ricorda di esser venuto a conoscenza di questo conto grazie alle notizie ricevute dall'avvocato Gandini, quindi, anche in questo caso, dopo il Comitato di Coordinamento. Riferisce, quindi, informazioni, peraltro già inserite nella memoria milanese, sulle disponibilità extracontabili del Gruppo: le aziende facenti capo alla controllante Fiat Impresit (ad eccezione della Cogefar Impresit) si erano avvalse, per effettuare esborsi di denaro, di disponibilità estere contenute in un conto corrente intestato alla Sacisa aperto presso la Overseas Union Bank and Trust di Nassau (Bahamas), mentre la Cogefar Impresit utilizzava, come si vedrà, disponibilità ereditate dalla precedente gestione della società. Romiti garantisce, infine, la sua piena disponibilità a comunicare agli inquirenti tutti i casi di illecito finanziamento ai partiti, appresi eventualmente da Gandini, escludendo, peraltro, a priori, che essi possano provenire da Fiat S.p.A.

Proprio in relazione agli addebiti relativi all'illecito finanziamento ai partiti, ed in particolare al Psi, può essere estremamente utile analizzare e mettere in correlazione le dichiarazioni rese agli inquirenti dai due esponenti del Psi torinese Giuseppe Garesio e Giusi La Ganga.

Il 7 luglio, viene interrogato il parlamentare socialista Giuseppe Garesio. Pur precisando di non essersi quasi mai occupato della raccolta di fondi e dei rapporti economici, egli ricorda di aver incontrato Romiti tra la fine dell'88 e gli inizi del '89, quando la Fiat cercava un interlocutore all'interno del partito socialista torinese diverso da La Ganga, e di aver genericamente parlato della necessità, avvertita da Romiti, di realizzare un nuovo sistema di relazioni tra imprese e forze politiche basato, non più sul sistematico utilizzo di corruzioni e favori, ma su nuove forme di collaborazione simili a quelle già adottate all'estero:

"Non si parlò in questo quadro esplicitamente di finanziamenti da parte della Fiat [...] però era un discorso implicito e certo io all'uscita dal colloquio avevo la sicurezza, sia pure come impressione, di poter contare sul sostegno finanziario della Fiat" (121).

Garesio ricorda, appena qualche settimana dopo l'incontro con Romiti, le prime richieste del dottor Pomodoro, amministratore delegato della Fisia (122): "Senza parlare di soldi, di tangenti, di finanziamenti, di contributi, il Pomodoro, però, ogni volta mi diceva che lui aveva l'ordine perentorio di portare del fatturato, a qualunque costo".

Garesio riferisce di aver avuto contatti con Pomodoro per numerosi appalti e, in particolare, ricorda la richiesta dell'amministratore delegato della Fisia Sistemi Ambientali di essere presentato a Nereo Croso, assessore socialista all'ecologia, per poter ottenere l'autorizzazione per una discarica "di seconda categoria" (123) a Cavaglià. Dopo aver pagato 400 milioni a Nereo Croso ed essersi aggiudicata l'appalto, la Fisia, temendo ancora possibili contestazioni da parte degli ecologisti della zona, voleva assicurarsi l'appoggio del Psi. Così "tra l'autunno e l'inverno del 1991 arrivarono circa 300 milioni che costituivano finanziamenti leciti, anche se irregolari". Garesio chiarisce: "Leciti perché non erano tangenti su appalti. Irregolari perché non dichiarati ufficialmente" (124).

È interessante segnalare un dialogo tra Beppe Garesio e il suo referente a livello nazionale, Vincenzo Balzamo. Garesio, infatti, sapendo che la Fiat forniva finanziamenti al partito già a livello nazionale, aveva ritenuto preferibile informare i suoi superiori a Roma del denaro ricevuto per evitare che si sospettasse che la somma venisse intascata personalmente da lui. E Balzamo, dopo esser stato informato, rispondeva: "Vedrai che alla fine ti faranno un'elemosina e diranno invece di averti dato di più e il resto se lo terranno i dirigenti Fiat", aggiungendo poi che "...c'era una partita nazionale e che si dovevano segnalare le contribuzioni locali quando erano di una certa entità" (125). Una "partita nazionale" che non poteva giocarsi che tra i vertici aziendali torinesi e la segreteria di partito di Roma. Anche Pomodoro aveva comunicato il pagamento ai superiori, ma Garesio rivela di non conoscere il nome esatto di colui al quale lo aveva riferito. Questa considerazione finale è importante perché dimostra che Garesio non aveva intenti persecutori nei confronti di Romiti, altrimenti lo avrebbe indicato come referente di Pomodoro o avrebbe calcato più la mano nella descrizione del suo colloquio con lui, e che quindi, quando lo coinvolge nelle responsabilità, probabilmente la sua versione dei fatti dovrà considerarsi attendibile.

Anche Giusi La Ganga, luogotenente di Craxi a Torino fin dagli anni ottanta, riferisce ai magistrati di aver avuto contatti con Romiti. Ritiene di non avere la prova esplicita che Romiti sapesse dei finanziamenti Fiat in sede nazionale, ma attribuisce ciò all'accortezza ed alla prudenza del manager:

"[...] Romiti non mi disse esplicitamente che la Fiat finanziava il partito in sede nazionale e non mi disse neppure che avrebbe continuato a farlo in futuro, certo è che dopo il colloquio tra me e il Romiti cominciarono ad arrivare segnali di disponibilità e poi i finanziamenti del gruppo Fiat in sede locale, mentre prima non si vedeva neppure una lira. [...] Io dissi esplicitamente a Romiti che preferivo che i finanziamenti venissero effettuati in sede nazionale e non in sede locale; al che lui annuì e non disse: come si permette?" (126).

La Ganga, infine, completa il quadro della situazione respingendo con forza la teoria di una Fiat vittima della concussione ambientale. Attribuisce, al contrario, alla Fiat una posizione di "incombenza ambientale": la Fiat a Torino era talmente potente da poter condizionare le decisioni in qualsiasi ambito sfruttando quella sorta di timore reverenziale che riusciva ad incutere (127).

Anche La Ganga riferisce di esser stato contattato da un manager Fiat, Montevecchi, dopo aver parlato con Romiti, ma anche in questo caso, come per Garesio, il rappresentante del Psi non cerca di collegare i due eventi successivi con un nesso di causalità, dimostrandosi, in questo modo, privo di intenti persecutori nei confronti del supermanager Fiat.

Le testimonianze di Garesio e La Ganga, prive di toni polemici e talmente ricche di punti in comune da poter esser considerate l'una la conferma dell'altra, risultano talmente persuasive da indurre il giudice per le indagini preliminari Sebastiano Sordello a modificare il capo di imputazione: i manager Fiat, fino a quel momento vittime della presunta concussione degli esponenti del Psi, si trasformano in imputati di violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti in quanto, scrive il g.i.p., "[...] non appare provato in modo adeguato e sufficiente che la società Fisia (Pomodoro) abbia subito da parte del Garesio una pressione ricollegabile alla concessione o meno dell'autorizzazione regionale necessaria per l'attivazione della discarica in Cavaglià (Vercelli) a cui aspirava", ma anzi la consegna della somma all'esponente del Psi appare finalizzata ad ottenere "un atteggiamento politico favorevole nei confronti delle aspirazioni di espansione della Fiat nel settore ambientale tecnologico" (128). Una scelta spontanea, quindi, quella della Fisia di finanziare il partito socialista, dettata, secondo il giudice, da un'attenta ponderazione dei costi e dei benefici. Il processo si concluderà, nel novembre '95, con il patteggiamento di Pomodoro, Montevecchi e Chicco condannati per finanziamenti illeciti a Beppe Garesio e Giusy La Ganga (129).

Un'altra vicenda segnalata dal memoriale consegnato agli inquirenti da Cesare Romiti, è quella relativa alla gara d'appalto per il depuratore Po-Sangone, dettagliatamente descritta dal manager Fiat Ulrico Bianco nel suo lungo interrogatorio del 29 maggio 1993.

Dopo la costruzione negli anni Settanta dei primi due lotti del depuratore Po-Sangone ad opera della milanese Techint, nel 1985 venne indetta la gara d'appalto per il terzo modulo che avrebbe comportato una spesa di 56 miliardi. I lavori vennero affidati ad un'altra azienda di Milano, l'Ecologia, ma le aziende escluse presentarono ricorso e, in particolare, venne accolto quello presentato dalla Cogefar Impresit che divenne titolare della commissione. A questo punto, Ulrico Bianco riferisce di esser stato contattato dal dirigente comunista Antonio De Francisco per il pagamento alle cooperative rosse di una somma a titolo di risarcimento. L'Ecologia, precedente assegnataria della commessa, si era infatti impegnata a coinvolgere nei lavori anche le suddette cooperative che pretendevano, quindi, ora un indennizzo per il guadagno mancato. La richiesta fu di mezzo miliardo, ma alla fine la Cogefar Impresit versò 250 milioni. Enzo Papi ha confermato le dichiarazioni di Ulrico Bianco ed ha precisato che i soldi, 260 milioni al posto dei 250 previsti, dato il ritardo nei pagamenti, sono stati versati a rate dal 1989 all'autunno del 1990 su tre conti esteri: uno a Vaduz, uno in Svizzera e uno, demoninato "Idea" e di proprietà esclusiva di esponenti del Pci (130), presso la Soginvest Bank di Lugano.

Il 10 giugno il p.m. Corsi proseguendo le indagini sulle tangenti pagate dalla Fiat Engineering per la costruzione dell'impianto di teleriscaldamento di Torino Sud, si imbatte in un nuovo filone di inchiesta: si tratta di 800 milioni pagati tra il 1984 e il 1987 a Psi e Dc da Fiat Engineering, Ansaldo e Grandi Motori di Trieste per la costruzione della centrale di cogenerazione dell'Azienda Energetica Municipale torinese, il primo passo per la realizzazione del successivo progetto di teleriscaldamento. Questo ramo d'indagine incuriosisce gli inquirenti per due motivi: in primo luogo, esso non figura nell'elenco fornito da Cesare Romiti, in secondo luogo, presenta un singolare doppio binario nei pagamenti, in quanto due terzi della somma vengono versati congiuntamente da Ansaldo e Grandi Motori, mentre i rimanenti 272 milioni vengono pagati separatamente dalla Fiat Engineering. Gli inquirenti sospettano che, contrariamente a quanto sostenuto dai manager Fiat, non si sia trattato di una concussione ai loro danni, ma che siano stati proprio loro a sollecitare il pagamento anche da parte delle altre due aziende.

Un'altra vicenda non segnalata da Romiti nel memoriale consegnato agli inquirenti è quella che vede protagonista la Fiat Impresit, nella persona del suo amministratore Vittorio Del Monte, il quale avrebbe versato centotrenta milioni al Psi e al Psdi per la copertura dei binari cittadini della tratta ferroviaria secondaria Torino-Ceres (131).

Nell'agosto '93, per ottenere una visione globale della situazione processuale della Fiat, il Pubblico Ministero di Torino richiede a tutte le Procure del territorio nazionale di comunicare gli eventuali procedimenti in corso nei confronti di società del gruppo Fiat e, in caso positivo, di trasmettere copia di quegli atti: la Procura di Mantova comunica i risultati degli accertamenti condotti nei confronti della società Fiat Hitachi; la Procura di Pavia invia gli atti che riguardano il filone della Cogefar Impresit e quello della Sorin Biomedica per le tangenti pagate per ottenere l'appalto delle forniture all'ospedale S. Matteo di Pavia; la procura di Genova trasmette copia degli atti riguardanti la Fisia del gruppo Impresit.

Il fenomeno appare, pertanto, molto più esteso di quello che rappresentato nelle memorie consegnate da Romiti. Agli inquirenti progressivamente si svela un vero e proprio sistema creato "non tanto per la corresponsione di somme a pubblici ufficiali che ne facevano richiesta, quanto per la preordinata disponibilità di fondi riservati e di aree di ricchezza occulte ai quali attingere, in caso di bisogno, ogni volta che v'era da contrattare con la Pubblica Amministrazione" (132).

Il 1993 si conclude in bellezza per i magistrati di Torino. Il 25 novembre, infatti, Bettino Craxi, confermando le dichiarazioni di La Ganga, rivela ai pubblici ministeri Ferrando, Maddalena e Sandrelli che il Psi riceveva contributi economici, per ragioni di politica generale, dai maggiori gruppi industriali del Paese e consegna ai magistrati alcune memorie di fondamentale importanza. La memoria datata 20 ottobre 1993 offre un quadro chiaro della stabile rete di relazioni tra il Psi e la fabbrica torinese e delle trame occulte tra il mondo dell'imprenditoria e quello della politica. Vi si legge che:

"il potere economico, tanto privato che pubblico, era perfettamente consapevole delle caratteristiche e delle esigenze di finanziamento del potere politico [e] del sistema di influenza del potere economico sulle decisioni pubbliche [...]. La partecipazione di questi gruppi al sistema dei finanziamenti dei partiti e delle attività politiche era perfettamente consapevole, volontaria, interessata per ragioni generali o particolari e sovente organizzata e pianificata" (133).

Dopo aver inferto un colpo durissimo alla teoria della concussione, Craxi passa ad attaccare la collaborazione degli industriali alle indagini degli inquirenti:

"I memoriali presentati alla magistratura da potenti esponenti del mondo economico, da lungo tempo alla testa di gruppi che detenevano insieme un grande potere industriale e finanziario ed un potere determinante sull'informazione [...], avrebbero un senso e un valore se fossero veritieri, completi e documentati. E per essere tali dovrebbero contenere la lista dei contributi che essi versavano ai partiti, ai gruppi politici, ai singoli parlamentari, contributi periodici e in particolare contributi in occasione di campagne elettorali. I maggiori gruppi economici dovrebbero quindi dire la verità circa le pratiche che venivano seguite da tempo immemorabile ed affrontare la realtà della situazione che si è creata invece di nascondersi dietro un dito, come una parte di loro continua a fare. Per quanto riguarda i privati mi riferisco evidentemente innanzitutto a grandi gruppi di importanza nazionale ed internazionale [...] dalla Fiat alla Olivetti, dalla Montedison alla Fininvest" (134).

Craxi aggiunge:

"Quando il dottor Romiti incontrava Balzamo non credo che lo facesse per colloquiare con l'ex ministro dei trasporti" (135).

L'accusa è diretta, senza possibilità di fraintendimenti, ma sarà La Ganga, nell'interrogatorio del 19 dicembre, a chiarire ancora meglio il funzionamento del sistema, rivelando che Balzamo aveva compilato una lista in cui i maggiori imprenditori italiani erano divisi in "buoni" e "cattivi", a seconda della generosità con il partito. La Fiat figurava tra i "buoni" perché garantiva al Psi un sostegno continuo a livello nazionale. La Ganga ricorda anche che i finanziamenti provenienti dalla Fiat erano talmente rilevanti da indurre Craxi a fornire specifiche direttive al riguardo.

La Fiat sosteneva in partito socialista con due forme di finanziamento: con tangenti pagate in relazione a singoli lavori dalle società interessate, oppure con somme elargite periodicamente che prescindevano dai lavori e rappresentavano il vero e proprio finanziamento al partito. La direttiva di Craxi era quella di ostacolare e scoraggiare le prime, meno importanti per il loro carattere occasionale ed imprevedibile, e di adoperarsi per potenziare le seconde (136).

Considerando il flusso di denaro che passava dalle casse della fabbrica torinese a quelle del partito socialista e i numerosi incontri di Romiti con esponenti del Psi quali Garesio, La Ganga, Balzamo e Craxi, che definiva i suoi rapporti con l'Avvocato e con Romiti addirittura "familiari", appare velleitario il tentativo di quest'ultimo di perseverare nell'affermare la sua assoluta estraneità a queste erogazioni di denaro (137).

I risultati delle indagini in relazione alle fonti di reperimento delle somme da utilizzare per la gestione degli affari illeciti dimostrano che, essendo la gestione di queste disponibilità fortemente accentrata, sarebbe stato abbastanza difficile per le società partecipate utilizzare queste somme all'insaputa della capogruppo, come invece aveva suggerito Romiti nel suo interrogatorio. Un'importante fonte di ricchezza era costituita dai fondi nella disponibilità della Sacisa Sa, società nata a Panama nel 1974 come Impresit International Sa, trasformatasi in Saci Sa (Societad Americana Constructora Industrial Sa) nel 1976 e formalmente liquidata nel 1983 per rinascere, pochi giorni dopo, come Sacisa Sa. Sacisa aveva il compito di gestire i fondi neri della sua controllante Fiat Impresit, che ne deteneva il 100% della partecipazione azionaria, attraverso tre conti esteri: nel primo, presso la Banca del Gottardo, veniva custodito il tesoro della società che già nel 1983 ammontava a 24 milioni di dollari e che, due anni dopo, verrà investito in titoli di Stato in Venezuela; il secondo, presso la Overseas Union Bank and Trust (Oub) di Nassau nelle Bahamas, veniva utilizzato per custodire gli interessi e i rendimenti derivanti dai titoli venezuelani che si aggiravano sui 3-4 miliardi all'anno; il terzo, presso la Banca Unione Credito (Buc) di Lugano, era un conto di puro transito dove il denaro stazionava solo il tempo necessario per raccogliere la cifra richiesta dagli amministratori della Fiat Impresit e delle sue controllate (Fiat Engineering, Fisia, ecc.). Tale operazione era condotta da Franca Gabutti, procuratrice del conto e dipendente di una società di Fiat Impresit con sede a Lugano, che si occupava di prelevare le somme dalla Oub, di depositarle per qualche giorno presso la Buc e di dirottarle infine sui conti esteri dei vari destinatari.

Considerando che la Ihf controllava la Buc e la Oub e la Fiat Impresit deteneva la totalità delle azioni Sacisa, che la Ihf e la Fiat Impresit erano controllate dalla Fiat S.p.A. e che Romiti sedeva ai vertici di Fiat Impresit, Ihf e Fiat Spa, appare abbastanza difficile sostenere che il supermanager fosse rimasto completamente all'oscuro del conto Sacisa fino al momento delle informazioni ricevute dall'avvocato Gandini.

I tre conti verranno chiusi nel maggio '93 e le somme rimanenti verranno fatte emergere nel bilancio di Fiat Impresit, ma all'appello mancheranno 6 miliardi di dollari. La Gabutti sosterrà di aver firmato, per ordine del dirigente di Fiat Impresit Ugo Montevecchi, un bonifico di tale importo senza indicazione del nome del beneficiario. Come nel caso sopraccitato della prassi, segnalata da Balzamo, di ottenere contribuzioni inferiori rispetto a quanto pattuito, viene ventilata, questa volta dagli inquirenti, la possibilità che si tratti di uno storno di ricchezze per uso personale da parte dei vertici del Gruppo (138).

Come si è visto, la Cogefar Impresit, pur figurando tra le controllate della Fiat Impresit, non utilizzava le disponibilità dei conti Sacisa, ma disponeva di due fondi extrabilancio. Il primo, ereditato dalla precedente gestione Acqua Marcia, era di proprietà dalla società Saint Peter con sede nelle Isole del Canale e centro operativo a Londra. Il conto disponeva di circa 3-4 miliardi accumulati grazie alla prolungata attività di sovra fatturazione della partecipata Cogefar Camerun (139). Esso restò attivo fino al '91 quando gli subentrò il secondo, gestito dalla società Fidina, con sede nel Liechtenstein, attraverso una serie di società panamensi intestatarie di conti correnti presso la banca del Liechtenstein. Il patrimonio iniziale derivava dalla vendita in nero di alcuni immobili di proprietà della Cogefar Guatemala e si era notevolmente accresciuto, tra il '90 e il '92, grazie a operazioni di sovra fatturazione compiute dalle finanziarie partecipate panamensi (140).

Sacisa, Saint Peter e Fidina costituiscono i fondi extrabilancio nella disponibilità delle società del Gruppo che fa capo alla Fiat Impresit, ma non le uniche fonti di ricchezza extracontabile: la Fiat Ferroviaria, ad esempio, disponevano di somme non registrate a bilancio depositate su un conto, denominato Reno, della Banca Dreyfuss Fils di Basilea, utilizzato, come accertato dagli inquirenti, in almeno otto casi, tra il 1983 e il 1991, per portare a termine operazioni illecite (141), e la cui ricchezza residua fu poi fatta emergere nel bilancio di Fiat Spa nel 1992 (142). Altre disponibilità extracontabili derivavano dall'iscrizione a bilancio nella voce "rischi" di somme che, in realtà, rappresentavano debiti verso altre società, artificio utilizzato dalla Iveco, nella vicenda Caprotti (143) e in quella Calcestruzzi (144), e dalla Fiat Avio, in relazione al pagamento della tangente per la fornitura di turbine all'Enel (145).

Queste irregolarità nella redazione del bilancio, preordinate a costituire fonti da cui attingere per effettuare dazioni illecite, sono particolarmente gravi perché, dato il forte controllo esercitato da Fiat S.p.A. sulle partecipate al momento della redazione del bilancio, alimentano la convinzione che la capogruppo non ne fosse all'oscuro e che forse, come nel caso Caprotti, fossero addirittura i vertici del Gruppo a dirigere l'operazione. Èdifficile credere, data la stretta amicizia che legava Romiti e Mattioli, che quest'ultimo non avesse per lo meno avvertito l'amico delle operazioni illecite che aveva constatato personalmente.

Prove testimoniali e non semplici deduzioni logiche supportano, invece, la tesi che Romiti fosse a conoscenza degli accantonamenti ottenuti attraverso lo storno di risorse da Fiat Auto, ossia dal settore che l'Avvocato considerava il "cuore sano" del Gruppo (146). Clemente Signoroni, ex direttore finanziario di Fiat Auto, rivela, infatti, di aver dovuto firmare ricevute che documentavano uscite da Fiat Auto per 2-300 milioni al mese senza riceverne alcun ritorno in termini monetari e senza avere la minima idea del loro utilizzo e, soprattutto, che questa strana prassi avveniva per ordine di Romiti in persona. Nella sua deposizione, inoltre, Signoroni accenna ad un programma computerizzato utilizzato in Fiat Auto, denominato "320/322", che permetteva ai dirigenti di quell'azienda di avere un quadro finanziario delle partecipate completo e dettagliato, valuta per valuta, paese per paese e mese per mese.

Il 13 marzo 1995 gli inquirenti cominciano ad acquisire, grazie alle dichiarazioni di Luigi Arnaudo, le prime conferme della prassi, già segnalata da Signoroni, di effettuare prelievi mensili da Fiat Auto. Arnaudo, succeduto a Signoroni nella carica di direttore amministrativo di Fiat Auto e responsabile dal 1984 al 1989 dei settori Amministrazione, Finanza, Pianificazione e Controllo, rivela che la richiesta della somma proveniva dalla signora Carbonatto, ufficialmente ex coordinatrice delle segreterie della presidenza e direzione generale, di fatto responsabile dei fondi riservati dell'Auto (147). Il suo compito consisteva nell'inoltrare la domanda alla cassa di Fiat S.p.A. e, quindi, firmare il prelievo a nome di Fiat Auto. Il denaro, però, rimaneva nelle mani della cassiera, signora Nicola, a disposizione della Carbonatto e, a fine anno, queste spese sarebbero state oggetto di una delibera del Consiglio di Amministrazione che le avrebbe rubricate come "assistenza verso terzi". Arnaudo aggiunge che quelle somme, secondo lui, sarebbero andate all'amministratore delegato di Fiat Auto, cioè a Ghidella prima e a Romiti dopo, ma di non sapere l'effettivo utilizzo di quel denaro. Il pesante coinvolgimento dell'amministratore delegato di Fiat Auto viene confermato da Signoroni che ribadisce:

"Era ovvio che il denaro non rimanesse a me, avendo al riguardo un sistema di controlli per cui dalla cassa di Fiat S.p.A. non può uscire una lira senza che l'amministratore di Fiat S.p.A. ne venga a conoscenza" (148)

Signoroni, inoltre, ricorda di aver ricevuto, verso la fine del 1992, l'ordine di Romiti di portare le copie a ricalco delle distinte di versamento alla Carbonatto e di interrompere la prassi mensile.

La signora Nicola conferma totalmente, davanti al sostituto procuratore Avenati Bassi, le dichiarazioni rese da Arnaudo e Signoroni, tranne la data di conclusione dei prelievi, che avrebbe, invece, avuto termine nel maggio 1993, quando la cassa venne chiusa e sostituita da uno sportello interno della Banca San Paolo di Torino.

Gli inquirenti, decisi a chiarire completamente il mistero dei prelievi mensili da Fiat Auto, si recano, il 1 aprile 1995, a Campione d'Italia per interrogare l'ex amministratore delegato di Fiat Auto, e "padre" della Fiat Uno, Vittorio Ghidella.

La scelta si rivela felice in quanto quest'ultimo, abbandonato il Gruppo nel 1988 in seguito a contrasti con Romiti, svela una vicenda, ancora sconosciuta agli inquirenti, che dimostra quanto Romiti fosse a conoscenza anche delle attività non inserite nel bilancio, rivelando il meccanismo mediante il quale venivano calcolati i "premi" ai dirigenti: la base di calcolo era, ovviamente, costituita dagli utili di bilancio, ma il conteggio non rispecchiava analiticamente quegli utili in quanto doveva tener conto anche di quelli non ufficiali che venivano computati dall'amministratore delegato di Fiat S.p.A., per quel che riguarda il benefit dell'amministratore di Fiat Auto, e da questi per i suoi collaboratori.

Il conteggio meccanico era, invece, affidato al sistema di calcolo Mbo (Management by objective) utilizzato nelle aziende Fiat, come nei grandi colossi americani, per il calcolo dei premi da distribuire ai collaboratori.

Ghidella, pertanto, si recava dal dottor Romiti per dedurre l'ammontare degli utili "paralleli" per l'anno in esame e, dopo qualche giorno, gli veniva comunicato il recapito estero presso cui ritirare il proprio assegno."Questo assegno", precisa Ghidella, "ammontava per me sulle lire 50 milioni, come cifre finali. Anzi preciso: partì da circa 30 milioni all'anno e arrivò sino a lire 100 milioni (149).

Ghidella ricorda, poi, di aver ricevuto, al termine dell'incarico, una liquidazione di 500-600 milioni circa con pagamento in nero estero su estero, riferendo, inoltre, dei prelievi mensili da Fiat Auto, di cui era venuto a conoscenza tramite Arnaudo, e precisando che le richieste non provenivano solo dalla signora Carbonatto, ma anche da Annibaldi, Auteri e Mattioli stesso. L'ipotesi di Ghidella è che le somme venissero presumibilmente utilizzate per remunerare sindacalisti e giornalisti. Per quanto riguarda questi ultimi, la remunerazione era costituita prevalentemente da vetture "in prova", cioè da automobili nuove assegnate dalla Fiat a qualcuno affinché ne valuti le prestazioni. In condizioni normali, esse devono essere restituite in breve tempo, in questo caso, invece, le vetture erano trattenute per lungo arco di tempo ed infine venivano cedute ai beneficiari ad un prezzo molto basso. Ghidella ricorda di aver ricevuto qualche volta richieste di questo tipo da Belliazzi per beneficare qualche Sottosegretario o funzionario di qualche ministero.

La deposizione di Ghidella non si ferma agli aspetti contingenti della gestione, ma cerca di rappresentare agli inquirenti la reale struttura organizzativa del Gruppo torinese:

"Essa è singolarmente accentrata in pochissime persone. Mi riferisco allo staff che fa capo al dottor Romiti: Francesco Paolo Mattioli, Enrico Auteri, Cesare Annibaldi, Carlo Gatto, Luigi Arnaudo e Giuseppe Masoero" (150).

Questo staff di persone era gerarchicamente slacciato dai rapporti del gruppo, e aveva autorità al di la delle singole cariche formali delle varie società, "nel senso che si decidevano in riunioni di quel settore cose e argomenti che dovevano essere attuati dai responsabili delle singole società. Formalmente le decisioni appartenevano a questi ultimi, nella sostanza esse erano assunte da quello staff" (151).

Questo sistema, che permetteva di accentrare fortemente le decisioni, veniva utilizzato solo per quelle scelte che potevano coinvolgere la politica esterna dell'intero Gruppo, cioè quelle che riguardavano il settore finanziario, la gestione del personale, le pubbliche relazioni, i rapporti con gli organismi sindacali, politici e amministrativi. Ghidella esclude, pertanto, che Romiti potesse ignorare le spese in nero e le loro fonti di finanziamento.

A proposito delle riserve che venivano drenate a favore della capogruppo e da questa autonomamente gestite, Ghidella segnala due possibili canali per l'accantonamento: quello finanziario e quello delle c.d. trading. Il canale finanziario consiste nel guadagno conseguito dalla capogruppo Fiat S.p.A., applicando alla liquidità ricevuta da Fiat Auto un tasso di interesse minore di quello ottenuto, sulle stesse somme, da lei, al momento dell'investimento. La liquidità fornita da Fiat Auto è generata dall'intervallo temporale che si frappone tra il pagamento dei fornitori e la riscossione delle cifre dai clienti. La somma fornita da Fiat Auto è abbastanza cospicua e si può quantificare in alcune migliaia di miliardi all'anno. Quindi una differenza anche piccola fra i tassi di interesse, denominata nel fascicolo "delta", può comportare, moltiplicata per queste somme ingenti, una grande riserva valutaria.

Il secondo canale di accantonamento, minore di quello precedente, è costituito dall'utilizzo delle trading, cioè delle società commerciali con sede all'estero. Queste società non versavano alla Fiat Auto l'intero guadagno ottenuto dalla vendita al cliente, ma ne trattenevano una parte all'estero con il pretesto di cautelarsi nei confronti di un presunto rischio di insolvenza.

Le trading costituivano anche un comodo strumento per frodare la c.d. legge Ossola, che mirava a stimolare le esportazioni fornendo all'acquirente extracomunitario un sostanzioso vantaggio. Le società di trading erano, anche se solo formalmente, extracomunitarie, pertanto, in qualità di acquirenti extracomunitari di prodotti italiani, fruivano delle cospicue sovvenzioni che, invece, sarebbero spettate ai loro clienti extracomunitari, i veri acquirenti stranieri dei prodotti Fiat italiani. Inoltre, in Brasile esisteva una legge analoga e quindi la Fiat S.p.A. era in grado di ottenere il beneficio finanziario anche con le importazioni. In altre parole, la Fiat S.p.A. vendeva ai paesi extracomunitari gli stock di auto e gli altri prodotti delle sue società, facendo passare la vendita attraverso una sua società di trading, opportunamente domiciliata anch'essa in paesi extra-Cee, in modo da poterle far incassare i benefici della Legge Ossola ed otteneva le sovvenzioni accordate dalla legislazione brasiliana direttamente, in quanto acquirente straniero della sua società di trading che figurava come locale.

Tutta la fatturazione di queste manovre commerciali era effettuata a Torino in corso Agnelli, nonostante riguardasse società straniere e, curiosamente, le società di trading, pur essendo state costituite per commerciare vetture prodotte dalla Fiat Auto, non figuravano nel bilancio consolidato di quell'azienda. Questa consistente quantità di proventi non ufficiali confluiva, secondo Ghidella, in un conto denominato "Pivot" amministrato da Arnaudo e Mattioli, la cui consistenza veniva verificata anche dagli altri manager Fiat per controllare l'effettiva congruità dei compensi aggiuntivi che essi, come si è visto, percepivano all'estero.

L'ultima fonte di illeciti guadagni ai danni dello Stato, illustrata da Ghidella, da parte del Gruppo torinese, è costituita dai fondi per la ricerca tecnologica. Lo Stato, infatti, forniva un contributo per finanziare la ricerca che veniva conteggiato in base alle spese e alle ore lavorative effettivamente impiegate: la Fiat le aumentava entrambe in modo da ottenere un rimborso che copriva abbondantemente i costi della ricerca e assicurava anche buoni guadagni.

Nella deposizione di Ghidella emerge anche l'esistenza di un fondo "legale", iscritto nel bilancio di Fiat Auto e perfettamente compatibile con la legislazione fiscale. Il fondo era stato costituito per consentire regalie o simili e veniva per lo più utilizzato per finanziare i progetti delle varie forze politiche. Ghidella rivela che il regista delle spese a vantaggio della classe politica era Romiti il quale, quando si trovava nella sede romana, organizzava incontri, anche in sede non istituzionale, con esponenti politici o con alti funzionari e, più di una volta, lo ha invitato a non interessarsi delle richieste di denaro provenienti dalla classe politica perché di sua esclusiva pertinenza.

A seguito delle imbarazzanti rivelazioni di Ghidella, Signoroni e Arnaudo, Cesare Romiti torna, il 15 giugno, davanti ai magistrati torinesi, assistito dai suoi legali Vittorio Chiusano, Ennio Festa e Carlo Minni. Come sempre, la deposizione inizia sciorinando le cifre dell'immenso impero Fiat: 1100 società, 300 mila dipendenti, 700 direttori, 4000 dirigenti, 2230 consiglieri d'amministrazione, 950 sindaci, 75 nazioni, fatturato consolidato di 60 mila miliardi, 350 mila miliardi di movimenti finanziari all'anno e contatti con 450 banche, di cui 100 in Italia. Queste cifre hanno la funzione di minimizzare, attraverso il confronto, l'importanza degli illeciti, accreditando la tesi, già espressa nel memoriale di Milano, dell'equivalenza delle somme versate "all'elemosina data ad un poveraccio" (152).

Romiti passa, quindi, a fornire chiarimenti sulla soggezione, indicata da Ghidella, dei manager periferici nei confronti dello staff centrale, presentandola come una garanzia per i dirigenti che, dipendenti dalla Fiat S.p.A., anziché delle singole aziende gestite, possono fruire di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato anziché di un mandato di amministratore, che dura solo tre anni. Interrogato sulla seconda questione spinosa sollevata da Ghidella, cioè la gestione del fondo Sacisa, Romiti ne attribuisce l'esclusiva pertinenza alla Fiat Impresit ed, all'obiezione dei giudici che lui stesso era stato vicepresidente di tale società, replica di aver accettato l'incarico solo perché Guido Carli aveva chiesto personalmente la sua collaborazione. Come altre volte, la strategia difensiva è mirata a coinvolgere, nelle responsabilità eventualmente riconosciutegli, personaggi di un calibro tale da indurre ad una certa cautela i pubblici ministeri torinesi. Durante l'interrogatorio, il manager Fiat tenta, inoltre, di screditare i suoi accusatori insinuando il dubbio che le loro rivelazioni non siano altro che un comodo strumento di vendetta: Signoroni era risentito nei suoi confronti perché non lo aveva difeso quando era stato accusato di far traffici di abiti usati e auto e di svendere la sede della Gft dove lavorava, mentre Ghidella era stato accusato da lui di essere socio e amministratore di imprese che rifornivano la Fiat e questo addebito aveva comportato il suo allontanamento dal Gruppo torinese.

Romiti prosegue trattando la questione della spese non giustificate, cioè di quei 2-300 milioni al mese che uscivano dalle casse di Fiat S.p.A., premettendo di avere "da un lato [...] l'esigenza di dire tutta la verità, dall'altro, [...] di difendere l'azienda, il suo prestigio e la sua immagine". Egli, quindi, rileverà agli inquirenti la natura di alcune spese non giustificate, ma non di tutte perché "...vi sono alcune categorie di spese che, se rivelate, metterebbero a repentaglio la vita dell'azienda" (153), aggiungendo che le spese di cui non può rivelare la natura non riguardano, comunque, corruttele a politici o a pubblici ufficiali.

Le uscite extra bilancio erano utilizzate, secondo Romiti, per retribuire la rete di informatori, compresi gli uomini dei servizi segreti dislocati nei vari stabilimenti, che avevano, o avevano avuto, il compito di difendere la sicurezza interna dell'azienda dai sabotaggi e dagli attacchi delle Brigate rosse e della Camorra e che ora non si potevano allontanare dal Gruppo perché, come diceva Romiti, non erano proprio dei "gentiluomini".

Una seconda ragione di spesa era collegata alle delegazioni commerciali: ai manager delle filiali straniere veniva, infatti, assicurata non solo la possibilità di far rientrare nelle spese di rappresentanza, regolarmente iscritte a bilancio, ad esempio vestiti e viaggi, ma anche somme di denaro contante che non potevano trovare posto nella contabilità ordinaria dell'azienda. Inoltre, occorreva una certa disponibilità di denaro per indurre concessionari esteri a commerciare prodotti Fiat o per ottenere informazioni riservate sulla concorrenza.

Romiti minimizza anche l'importanza del "delta di interesse" (154), anche se riconosce che vi erano, per questo motivo, discussioni tra gli amministratori delle partecipate e quelli della capogruppo, a prova dell'autonomia della "periferia" rispetto al centro del Gruppo. Romiti afferma, inoltre, di non aver mai sentito parlare del conto "Pivot" e nega che i premi ai dirigenti tenessero conto degli utili non contabilizzati e che fossero pagati in tutto o in parte in nero, estero su estero.

L'ultima provocazione dei magistrati riguarda i vitalizi riconosciuti ad alcuni manager (Francesco Paolo Mattioli, Giorgio Garuzzo, Paolo Cantarella e Giancarlo Boschetti) nel marzo 1992 ritenuti dagli inquirenti, dato l'esplodere contemporaneo di Tangentopoli, comodi strumenti per comprarne il silenzio. Anche questa volta Romiti ha pronta una spiegazione: il vitalizio costituisce solo una misura per proteggere i manager dai contraccolpi economici che sarebbero potuti derivare da una loro rimozione una volta cambiati i vertici aziendali nel 1994. L'argomentazione, tuttavia, pare non reggere perché questo genere di avvicendamenti è del tutto normale in una società come la Fiat ed è quindi ingiustificata una procedura particolare.

Un episodio piuttosto grave si verifica alla fine del 1995: Gianni Agnelli e l'avvocato Chiusano si recano di nascosto dal procuratore generale Silvio Pieri per chiedergli di adoperarsi, come aveva già fatto in precedenza, per spostare il processo, magari nel "porto delle nebbie" di Roma. Questa volta, però, il procuratore generale non acconsente perché teme di compromettere la sua promozione a membro del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, in vista di un eventuale futuro ingresso in Cassazione (155).

La Procura, allarmata dal tentativo dell'Avvocato di modificare la sede del processo, si affretta a richiedere il rinvio a giudizio di Romiti, Mattioli e Signoroni: Romiti e Mattioli vengono accusati in concorso di finanziamento illecito ai partiti (l. 2 luglio 1974 n.195) continuato, e di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.); a Romiti, inoltre, vengono contestati, in concorso con Signoroni, i reati di cui agli artt. 8 l. 4/29 (violazione leggi finanziarie) e 4 lettera e) l. 516/82 (evasione di imposte sui redditi e sul valore aggiunto), in seguito agli elementi acquisiti durante l'interrogatorio di Vittorio Ghidella (156). Al contrario, il pubblico ministero non ritiene di aver reperito sufficienti addebiti per rinviare a giudizio i top manager Fiat Paolo Cantarella, Luigi Arnaudo, Vittorio Ghidella, Clemente Signoroni e Cesare Romiti per corruzione (artt. 319, 321 c.p.). Richiede, inoltre, l'archiviazione per tutti i dirigenti Fiat, ad eccezione di Piccoli, Cozza e Romiti, per il reato di violazione di leggi finanziarie ed evasione (art. 8 legge 4/29 e 4 lettera e) legge 516/82) che era stato loro contestato per aver fatto uso di certificati rilasciati dalle società del gruppo indicanti compensi lavorativi minori di quelli effettivamente conseguiti per ottenere somme in nero all'estero per l'attività svolta (157).

Dopo le richieste di rinvio a giudizio vengono nuovamente sentiti Vittorio Ghidella e Giorgio Garuzzo. Il primo è ansioso di chiarire la sua posizione in relazione alla sua partecipazione azionaria in una società fornitrice del gruppo Fiat, indicata da Romiti come causa del suo allontanamento dall'azienda: del tutto ingiustificate appaiono le dichiarazioni infamanti rilasciate agli inquirenti e le indagini svolte, a suo tempo, da Romiti per controllare che la Roltra non avesse ottenuto un trattamento di favore da parte del suo precedente azionista. Ghidella conferma, inoltre, la prassi di riscuotere il denaro estero su estero ed aggiunge che, quando versava l'assegno proveniente dalla banca Credit Suisse sul suo conto presso la Banca Hofmann, non riceveva alcuna ricevuta di versamento, per non lasciare traccia del movimento di denaro.

Giorgio Garuzzo, appena estromesso dai vertici della Fiat S.p.A., di cui è stato il direttore generale negli ultimi cinque anni, è desideroso di comunicare agli inquirenti le informazioni di cui è in possesso. Innanzitutto, egli rivela che i flussi monetari dei vari settori vengono controllati dalla direzione finanziaria centrale "giorno per giorno", e non mese per mese come sostenuto da Clemente Signoroni. Garuzzo conferma, inoltre, che è impossibile che in un settore si formino fondi neri all'insaputa della finanza centrale e che le cariche effettive di ciascun dirigente non sono quelle che emergono dall'organigramma aziendale, ma "...sono cose che si fiutano in Fiat" (158). Egli rivela anche che la Carbonatto riceveva, in corso Marconi, denaro dalle partecipate e che, a sua volta, lo riconsegnava loro quando necessitavano di liquidità per pagamenti in contanti, ma siccome le richieste erano inferiori alle dazioni, la differenza rimaneva alla capogruppo che la destinava a spese di cui, tuttavia, sostiene di non essere informato.

Prima del rinvio a giudizio di Romiti, Mattioli e Signoroni avvengono due ulteriori fatti importanti. Il 28 maggio le difese di Romiti e Mattioli reiterano la richiesta, già avanzata segretamente e in via informale dall'Avvocato, di trasferire a Roma il procedimento torinese in quanto connesso con i reati di competenza dell'autorità giudiziaria di Roma ed, in particolare, con il reato di corruzione, da valutarsi come reato più grave tra quelli connessi. L'occasione per la richiesta è costituita dalla revoca della sentenza di non luogo a procedere con cui si era concluso il processo Intermetro nella parte che vedeva coinvolta la fabbrica automobilistica torinese ed, in particolare, Cesare Romiti, Francesco Paolo Mattioli e Umberto Belliazzi. Il giudice respinge la richiesta ritenendo impossibile una connessione tra il processo di Torino, che si trovava già nella fase processuale vera e propria, ed il procedimento di Roma che, revocata la sentenza di non luogo a procedere, era regredito nella precedente fase delle indagini preliminari.

Raggiunta la consapevolezza che si giungerà al processo, l'avvocato Chiusano decide di chiedere il rito abbreviato che presenta il vantaggio della segretezza, della brevità e dello sconto di pena.

Il secondo elemento importante è l'acquisizione, da parte degli inquirenti, delle dichiarazioni Bettino Craxi contenute in due fax spediti, rispettivamente, al direttore del quotidiano La Stampa ed alla Procura della Repubblica di Torino. Nel primo fax, Craxi ribadiscei finanziamenti illegali della Fiat al sistema politico, puntualizzando:

"Parlo della Fiat e non di società del gruppo Fiat. Parlo di finanziamenti illegali di una non trascurabile consistenza e dei quali esiste prova certa e che possono essere fatti risalire direttamente alle decisioni ed al personale interessamento dei vertici del gruppo torinese".

Nel secondo fax, Craxi racconta di aver autorizzato Balzamo a richiedere contributi alla Fiat prima delle elezioni politiche del 1992 ed aggiunge:

"È del tutto evidente e certo che Balzamo si rivolse per la richiesta di contributi all'ing. Romiti e non ai suoi sottoposti e comunque una decisione di quella natura non poteva che essere presa dai massimi dirigenti della Fiat" (159). Craxi, quindi, amplia la portata della sua accusa sostenendo che

"...è assolutamente notorio, ed è del tutto logico, che non potesse trattarsi solo del Psi e che la Fiat contribuisse al finanziamento di tutto il sistema partitico" (160). I

In particolare, il documento conferma il contributo, già segnalato da Giallombardo, da cinque miliardi, ridottisi poi a quattro, versati dalla Fiat al Psi, su di un conto estero.

A 1660 giorni dall'arresto di Enzo Papi, il 28 novembre 1996, il giudice dell'udienza preliminare decide di rinviare a giudizio Cesare Romiti e Francesco Paolo Mattioli (161).

La strategia di sacrificare i manager minori per salvare il vertice aziendale è fallita ed è stato inutile anche il sacrificio di "San" Francesco Paolo Mattioli, il quale aveva accettato di addossarsi tutte le responsabilità per la gestione dei fondi neri, compresa quella di averne tenuto all'oscuro il suo superiore Cesare Romiti. Ridicole appaiono, alla luce degli sviluppi successivi, le dichiarazioni, da lui rese ai magistrati di Torino, di aver appreso dei fondi neri soltanto nel 1989, con la precisazione:

"Non ne parlai con Romiti se non dopo la mia carcerazione, e per questo tipo di ragionamento: data la mia qualifica, mi consideravo il terminale delle problematiche che venivano da fuori e non mi sono mai sentito obbligato a riferire al dottor Romiti. Ho sbagliato, ma se avessi dovuto regolarizzare le posizioni, avrei messo in imbarazzo i consigli d'amministrazione" (162).

1.6.2 Le questioni giuridiche dibattute

Come si è visto, il 26 novembre 1996, il giudice per le indagini preliminari Francesco Enrico Saluzzo ha rinviato a giudizio Romiti e Mattioli accusati di aver reso false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.) e di aver finanziato illecitamente il sistema dei partiti (art. 7 l. 2.7.1974 n.195), in particolare il Psi.

La questione preliminare che egli ha dovuto chiarire è la seguente: il bilancio consolidato rientra nella fattispecie di cui all'art. 2621 c.c.?

Infatti, se il bilancio consolidato non fosse riconducibile all'articolo 2621 c.c., le dichiarazioni mendaci eventualmente dimostrate nei fatti non sarebbero punibili perché la condotta non sarebbe prevista in una norma penale preesistente; viceversa, se il bilancio consolidato si configurasse per finalità e risultati riconducibile alla norma in esame, dimostrati gli elementi di fatto, si avrebbe l'affermazione della responsabilità e la conseguente applicazione della sanzione.

Il problema deriva dal fatto che il concetto di bilancio consolidato risale al 1974 quando, con la legge n. 216, si diede alla Consob il potere di ordinare alle società e agli enti pubblici con titoli quotati in borsa la redazione di bilanci consolidati di gruppo per settori omogenei. Tale nozione era, pertanto, sconosciuta al legislatore del '42.

L'accusa ha cercato di dimostrare che il bilancio consolidato poteva rientrare nella previsione dell'art. 2621 c.c. perché esso è, fondamentalmente, un veicolo di informazioni in ordine a vari aspetti di un'entità globale costituita dall'insieme delle società partecipate, che vengono considerate come divisioni o filiali di un'unica grande società (163).

Se, inizialmente, quelle informazioni erano utilizzate solo dai manager del gruppo per conoscere i risultati conseguiti e per studiare nuove strategie di sviluppo, in seguito vennero sfruttate anche dai finanziatori istituzionali, in particolare dal sistema creditizio, dalla Borsa e dai suoi investitori. È infatti chiaro che un soggetto che ha intenzione di concedere un prestito ad una società o di comprarne delle azioni valuterà anche lo stato di salute del gruppo al quale è collegata. Ugualmente titolari dell'interesse all'informazione che deriva dal bilancio consolidato sono i soci di minoranza, i creditori deboli, nonché in generale qualunque terzo interessato ad ottenere notizie sul gruppo unitariamente considerato (164).

Sul tema dei destinatari dell'informazione, peraltro, le parti del processo hanno sostenuto tesi molto diverse: l'accusa privata e quella pubblica erano propense ad allargare il panorama dei destinatari per sottolineare l'importanza della funzione informativa, mentre la difesa sosteneva che le comunicazioni del bilancio consolidato erano rivolte ad un numero limitato di soggetti. Lo scontro di accusa e difesa su questo tema non è casuale: accogliere la tesi dell'accusa significa sostenere che i destinatari del bilancio consolidato coincidano con i destinatari delle comunicazioni sociali ex art. 2621 c.c. e, quindi, suffragare la tesi che il bilancio consolidato sia riconducibile all'art. 2621 c.c. stesso; al contrario, limitare fin quasi a negare la funzione informativa del bilancio consolidato permette di differenziarlo dalle fattispecie dell'art. 2621 c.c. e, quindi, di sottrarre le condotte degli imputati alla condanna.

La difesa ha anche cercato di negare la funzione informativa, sottolineando la discrezionalità dei redattori nel determinare l'area di consolidamento e l'impossibilità per loro di valutare l'autenticità dei dati provenienti dalle partecipate: alla prima osservazione, il giudice ha obiettato che questa contestazione sarebbe legittima se l'accusa avesse cercato di ricondurre il bilancio consolidato al bilancio civilistico, ma non può essere utilizzata per contestarne la natura di comunicazione sociale. Per quanto attiene la seconda osservazione, il giudice ha ritenuto che, in questo caso, gli amministratori della capogruppo fossero perfettamente a conoscenza degli illeciti compiuti a livello delle società partecipate.

La difesa ha ulteriormente cercato di contrastare la tesi che il bilancio consolidato costituisse una comunicazione sociale sottolineando che prima del 1991, cioè dell'entrata in vigore del decreto legislativo 127/91 che prescrive il deposito in maniera cogente, la Fiat non consegnava il bilancio consolidato ai soci riuniti in assemblea e quindi non lo utilizzava come veicolo di informazioni. Il pubblico ministero ribatteva, però, che le direttive emanate dalla Consob in attuazione della legge 216 del 1974 già prevedevano l'obbligo di mettere il consolidato a disposizione dei soci al fine di permetterne una migliore informativa: il mancato rispetto da parte della Fiat della normativa Consob, peraltro prescritto nei manuali contabili del Gruppo, non può, secondo il pubblico ministero modificare la funzione dell'istituto in quanto "il mancato deposito ai soci non è certo idoneo a elidere o eliminare la funzione di informazione e di comunicazione del bilancio consolidato [...]. Sarebbe ben strano che un istituto modificasse le proprie proprietà in relazione alle condotte dei soggetti che ne fanno uso" (165).

Dopo aver stabilito che il bilancio consolidato, fornendo informazioni, costituisce una comunicazione sociale, per assimilarlo completamente alla disciplina dell'art. 2621 c.c., era necessario dimostrare che si trattasse di una comunicazione sulle condizioni economiche della società. Per questo motivo il pubblico ministero richiamava la sentenza della Corte di Cassazione 9.7.1992 ric. Boyer, nella quale si legge:

"Siffatto bilancio non si concreta in un mero prospetto contabile, in un mosaico di elementi offerti dalle società controllate e recepiti acriticamente, ma serve a rappresentare la situazione patrimoniale e reddituale dell'intero gruppo societario" (166).

La difesa si è opposta al richiamo di questa pronuncia, sottolineando la differenza della situazione fattuale prospettata rispetto a quella in oggetto: in quel caso, i vertici dell'IRI si erano accordati e, addirittura, avevano impartito ordini alle partecipate per la gestione delle riserve occulte.

Il giudice ha, tuttavia, respinto l'opposizione della difesa ritenendo che, anche nel caso in esame, si potesse configurare un'ipotesi di concorso dei vertici della capogruppo negli illeciti compiuti dagli amministratori delle partecipate, in quanto

"il concorso non è solo in capo a chi ordina o dà istruzioni, ma anche in capo a chi, conoscendo un certo fenomeno, lo supporta, incoraggia i sottoposti a proseguire sulla via del comportamento vietato, recepisce i dati falsi non solo in termini di conoscenza silenziosa, ma di positiva trasposizione di essi nel bilancio consolidato, nei documenti pertinenti a quello, nelle risposte agli azionisti" (167).

Ricordando le mendaci risposte di Romiti alle domande dei soci in sede di assemblea ed il consiglio di Mattioli a Garuzzo di pagare il meno possibile, pare incontrovertibile che anche in questo caso vi sia stato concorso dei vertici della capogruppo e che, quindi, la sentenza Boyer possa essere legittimamente richiamata.

Le ultime obiezioni poste dalla difesa alla possibilità di ricondurre il bilancio consolidato all'art. 2621 c.c. sono di natura essenzialmente formale: l'estensione dell'art. 2621 c.c. al bilancio consolidato contrasterebbe con il divieto di interpretazione analogica della legge penale. La difesa, infatti, sostiene che, non essendo ancora conosciuto al momento dell'emanazione dell'art. 2621 c.c., tale bilancio non poteva costituire oggetto della previsione originaria. Il giudice respinge questa critica con due argomentazioni: in primo luogo, osservando come la legislazione in materia di illeciti societari abbia operato in maniera "alluvionale", con l'introduzione di una moltitudine di nuove figure di reato volte a tutelare le nuove situazioni di volta in volta prospettate dalla normativa civile in rapida evoluzione, il giudice deduce, dalla mancata previsione di una disciplina specifica, la scelta del legislatore di considerare la fattispecie del bilancio consolidato ricompresa nella previsione dell'art. 2621c.c., perché, diversamente, ne avrebbe creata una ad hoc. In secondo luogo, il giudice ricorda che la giurisprudenza e la dottrina sono prevalentemente orientate ad ammettere l'interpretazione estensiva della legge penale e a bandire solo quella analogica. A questo proposito, ricorda che la Corte di Cassazione ha individuato due parametri che permettono di escludere la presenza di interpretazione analogica e di individuare, invece, l'interpretazione estensiva: la mancanza di ragioni di politica legislativa per affermare che si fosse deliberatamente voluto evitare di disciplinare la fattispecie e la palese identità di ratio legis. Poiché l'art. 2621 c.c. non ha disciplinato il bilancio consolidato unicamente perché esso non era conosciuto al momento della sua redazione d ha inserito nella disposizione la dizione "altre comunicazioni sociali", che la dottrina e la giurisprudenza considerano perfettamente idonea a ricomprendere anche comunicazioni nate successivamente alla redazione del codice, non vi sono ostacoli ad affermare che l'art. 2621 c.c. è assolutamente capiente rispetto a questa nuova forma di comunicazione sociale come lo è stato rispetto alle altre (168).

Dopo aver chiarito che il bilancio consolidato può rientrare nella previsione dell'art. 2621 c.c., l'accusa ha dovuto dimostrare, e la difesa confutare, che, nel caso esaminato, ricorressero tutti gli elementi costitutivi del reato.

Per quanto riguarda l'elemento soggettivo si doveva stabilire se gli imputati avessero agito "fraudolentemente" cioè se avessero avuto l'intenzione di ingannare gli altri (consilium fraudis) per ottenerne un vantaggio anche di natura non patrimoniale (animus lucri faciendi). La dottrina passata richiedeva anche la specifica intenzione di recare pregiudizio ad altri (animus nocendi) (169), ma l'orientamento più recente, condiviso anche dal giudice di questo processo, ritiene che per questo delitto "sia sufficiente la volontà di trarre in inganno i soci sulla effettiva situazione patrimoniale della società al fine di conseguire, per sé o per altri, un profitto ingiusto con correlativa messa in pericolo dell'interesse tutelato" (170). In questo caso, quindi, l'occultamento dei fondi neri nella disponibilità di Fiat Impresit e Fiat Ferroviaria e degli indebitamenti instauratasi tra società della stessa sub-holding, come nel caso di Iveco e Finiveco, che non avrebbe integrato gli estremi del reato se gli amministratori avessero agito con la certezza di non recare danno alla società, sarà viceversa punibile ex art. 2621 c.c. perché gli imputati si sono resi conto del danno derivabile dalla falsificazione e ne hanno accettato il rischio.

Difesa e accusa hanno, inoltre, dibattuto a lungo sul tema del danno, ritenuto, dalla prima, minimo, confrontando le somme con le dimensioni economiche del gruppo, mentre, dalla seconda, ingente, perché un notevole numero di soggetti (lavoratori, terzi concorrenti, pubblica amministrazione) avrebbe potuto subire dei danni. Il giudice ha ritenuto che vi sia un dato di efficacia risolutiva che è stato taciuto sia da parte dell'accusa che da parte della difesa, cioè che il danno consiste essenzialmente nel fatto che le false comunicazioni sociali siano state utilizzate per occultare condotte di reato (riserve extracontabili utilizzate per finanziare il sistema politico). Il danno per i destinatari del bilancio consolidato consiste, quindi, nell'aver ignorato che il Gruppo, in persona dei suoi amministratori, ha commesso dei reati per poter raggiungere risultati che altrimenti non sarebbero stati ottenuti e sarebbero stati conseguiti dalla concorrenza. La Corte di Cassazione ha precisato che la condotta punita dall'art. 2621 c.c. può consistere anche nel precostituire le condizioni per permettere la commissione successiva di altre operazioni di gestione non consentite (171): il pubblico ministero, rifacendosi a questa interpretazione, ha sostenuto che la condotta degli imputati si presentasse come "copertura di fatti già commessi e come assicurazione di riserve per fatti a venire per garantirsi uno spazio di manovra occulto dove nessuno potesse avanzare censure o domande" (172), concludendo, in relazione alla posizione di Romiti, che "la conoscenza del falso e la volontà dell'inganno trovano la loro dimostrazione nell'accertata consapevolezza del mendacio e nella contezza di presentarlo ai terzi" (173) senza che sia necessario, per rendere rilevante il fatto, che l'amministratore delegato si renda conto di provocare, anche in via solo eventuale, un danno ai terzi.

Questo reato, infatti, appartiene alla categoria dei reati di pericolo, essendo sufficiente per integrare l'elemento soggettivo che l'autore si renda conto e accetti la possibilità che la sua alterazione dei dati produca un qualche danno in capo ai destinatari. Il fatto che il destinatario dell'informazione non ritenga di esser stato danneggiato perché ha ritenuto lo scostamento dal vero trascurabile o, in un caso limite, perché ha apprezzato l'operazione illecita, ritenendola utile per migliorare l'andamento societario, non rileva perché la legge prescrive agli amministratori un obbligo di verità assoluto per impedire loro di difendersi sostenendo di aver ritenuto di scarso interesse per i destinatari lo scostamento dal vero comunicato. Per queste ragioni, il giudice ha ritenuto, quindi, che la condotta degli imputati abbia integrato, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, il delitto contestato.

Un altro punto di forte contrasto tra accusa e difesa è costituito dalla nozione di "rilevanza" delle informazioni omesse. Secondo i difensori, gli amministratori hanno l'obbligo di comunicare solo le informazioni che hanno un peso significativo sui dati di bilancio, mentre possono omettere quelle più modeste e millesimali. La difesa, quindi, prospetta due ordini di limiti al dovere di informazione: il primo, condiviso anche dal giudice, attiene al riferimento di fatti pregiudizievoli per l'interesse della società, sempre che ovviamente l'interesse coincida con situazioni meritevoli di tutela e non con illeciti penali. Il secondo limite è di tipo quantitativo. La difesa sostiene infatti che il falso offensivo, e quindi rilevante ex art. 2621 c.c., è solo quello in grado di trarre in inganno e di porre in pericolo il diritto all'informazione che viene tutelato dalla norma. Occorre, quindi, valutare, in concreto, in quale ipotesi lo scostamento dell'informazione dalla realtà diventi rilevante utilizzando, secondo la difesa, il criterio percentualistico affiancato dal riferimento alle condizioni economiche dell'intero gruppo. La difesa riprende quindi l'argomentazione già utilizzata da Romiti e da Agnelli per minimizzare l'importanza degli illeciti che progressivamente venivano scoperti dagli inquirenti: l'Avvocato, infatti, come si è visto, utilizzava il criterio percentualistico per dimostrare che solo pochissime aziende, il famoso 5% (174), gestivano illecitamente i loro affari e Romiti, paragonando le dazioni ai partiti al patrimonio del Gruppo concludeva che erano "...meno dell'elemosina di un uomo qualunque ad un poveraccio" (175).

I difensori di parte civile si opponevano con forza ai due criteri quantitativi proposti dai difensori degli imputati perché, sostenevano, avrebbero concesso un'ingiustificata maggiore impunità alle imprese più grandi.

Il giudice dirimeva la questione stabilendo che vi erano due limitazioni all'obbligo degli amministratori di informare i soci, caratterizzate non dalla marginalità percentuale e quantitativa, ma dalla non pertinenza in relazione all'interesse tutelato. Gli amministratori erano infatti tenuti a fornire solo le notizie utili ai soci ai fini della decisione e, ad ulteriore limitazione, solo il cui occultamento avrebbe potuto indurre in errore i destinatari e portarli ad una decisione diversa da quella che altrimenti sarebbe stata adottata. Nessun obbligo di comunicazione sussiste quindi per quelle notizie che non sono rilevanti ai fini del decidere. Con riferimento specifico ai bilanci che, in questo caso, costituiscono l'oggetto della decisione, il giudice ha ritenuto che l'obbligo di comunicazione riguardi indistintamente tutte le poste dell'attivo e del passivo. Di conseguenza, conterrà false informazioni quel bilancio, quella relazione, quel prospetto in cui si facciano figurare attività o passività che non esistono o, al contrario, non si enuncino passività esistenti o non indichino all'attivo dei beni che invece fanno parte del patrimonio sociale, come nel caso delle disponibilità del conto Sacisa.

Risolto positivamente anche il problema della rilevanza dei dati contabili omessi, rimane da analizzare un'ultima obiezione posta dai difensori di Romiti. A quest'ultimo, sostenevano, non poteva essere imposto alcun obbligo di segnalare vicende non ancora emerse relative, ad esempio, all'esistenza di fondi neri, perché, in questo modo, lo si sarebbe costretto a rivelare proprie responsabilità in altri illeciti compiuti proprio utilizzando strumentalmente queste riserve occulte e si sarebbe quindi negata la garanzia "nemo tenetur se detegere". Il pubblico ministero ha ristretto l'ambito di utilizzabilità di questo principio all'ambito del processo, sostenendo che applicarlo, ad esempio, in sede di assemblea degli azionisti permetterebbe all'amministratore di disporre di un vero e proprio diritto di mentire che gli deriverebbe dall'aver commesso precedentemente dei reati di cui non può essere obbligato ad accusarsi. Potrebbe poi continuare a mentire ai soci che gli contestano di aver fornito bilanci falsi perché non potrebbe venir costretto ad accusarsi del reato di false comunicazioni sociali, come in questo caso, e questo principio gli garantirebbe all'infinito di poter difendere se stesso dall'accusa originaria e da tutte quelle successive.

Il giudice ritiene che si possa accogliere la soluzione proposta dalla recente sentenza del Tribunale di Milano che sostiene in ordine al "nemo tenetur se detegere" che

"il principio [...] non opera [...] quando gli imputati non intendono nascondere un provento illecito, ma un semplice versamento di denaro lecito che sarà solo successivamente utilizzato a fini illeciti. L'omessa indicazione dell'entrata non è quindi in funzione di non rivelare un reato, ma diventa lo strumento per evitare che un'ulteriore attività illecita venga scoperta. In poche parole, il diritto di difesa non comprende anche il diritto di arrecare offese ulteriori" (176).

In questo caso, infatti, la falsa comunicazione non mirava tanto ad occultare la fonte delle riserve extracontabili, riconducibile alla normale attività delle società del gruppo, ma il loro successivo impiego, cioè il loro utilizzo per remunerare, in nero, i dirigenti e per sovvenzionare illecitamente partiti e uomini politici. Il giudice rileva anche come questa tesi difensiva possa alla fine risolversi in un argomento contro il difeso, cioè contro Romiti, perché rivendicando il diritto a tacere, egli finisce per ammettere implicitamente di aver saputo dei fondi neri e dei loro illeciti utilizzi.

L'ultima questione teorica che ha visto contrapposte accusa e difesa è incentrata sulla rilevanza penale del cosiddetto "falso qualitativo": si è, cioè, posto il problema se si possano punire ex art. 2621c.c.gli scostamenti dal vero che non consistono in vere e proprie omissioni contabili, ma in iscrizioni a bilancio come "rischi" di somme che in realtà rappresentano dei debiti. La questione è abbastanza importante perché, se venisse risolta positivamente, permetterebbe di condannare gli imputati anche per i fatti relativi a Fiat Allis, Fiat Avio e Iveco (177). Il problema consiste nello stabilire se sia lecito, e quindi improduttivo di effetti penali, iscrivere una somma alla voce "rischi", piuttosto che alla voce "costi" o "debiti". La definizione del "fondo rischi" contenuta nel manuale di redazione del bilancio consolidato non giustifica minimamente le iscrizioni che vi vennero effettuate ed, infatti, la stessa difesa ha ammesso che si è trattata di una operazione di comodo studiata proprio per impedire che si individuasse la natura di debito e ci si interrogasse, di conseguenza, sul rapporto sottostante (178).

La difficoltà posta dalla questione in esame risiede anche nella mancanza di approfondimenti dottrinali e precedenti giurisprudenziali. La difesa ha affermato che, ai fini dell'applicazione dell'art. 2621 c.c., rileva solo la variazione quantitativa, per poter ricondurre anche questa problematica alla questione della rilevanza e, quindi, riproporre i criteri di valutazione percentualistici. Ha, inoltre, sostenuto che non è tanto importante che i singoli dati siano inseriti correttamente, ma che il risultato finale non venga alterato. Per supportare questa affermazione il difensore di Mattioli ha prodotto complicati calcoli atti a dimostrare che lo spostamento delle somme da "debiti" a "rischi" non ha modificato il totale, sia con riferimento al passivo dello stato patrimoniale, sia con riferimento ai costi del conto economico. L'accusa ha contestato le affermazioni della difesa, innanzitutto, ricordando che, in caso di risultato negativo, o addirittura di fallimento della società, l'iscrizione di rischi al posto di debiti avrebbe sicuro rilievo e sarebbe punita ai sensi della legge penale perché costituirebbe uno strumento per dissimulare la presenza di un debito e l'esistenza di un creditore, mettendo, in questo modo, in pericolo la par condicio tra i creditori.

Il pubblico ministero ha dedotto, quindi, che, se la condotta è rilevante in caso di andamento negativo della società, lo dovrà parimenti essere anche in caso di risultato positivo, dato che quest'ultimo non rappresenta una causa di giustificazione. Inoltre, l'art. 2621 c.c. tutela la funzione informativa del bilancio consolidato non solo con riferimento al risultato complessivo d'esercizio, ma soprattutto individuando le singole componenti del prospetto e le modifiche apportate dalla legge 127 del 1991 alla disciplina del bilancio contenuta nel codice civile (artt. 2427, 2428, 2429 c.c.) manifestano una maggiore attenzione ai dettagli e ai dati qualitativi capaci di rendere completo il quadro delle condizioni economiche della società. A sostegno della sua tesi, il pubblico ministero ha richiamato una recente pronuncia della Corte di Cassazione che ha affermato che "il bilancio risulta infedele non soltanto quando vi sia divaricazione tra dato reale e consultivo, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso o dai suoi allegati non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite con riguardo alle singole poste di cui è richiesta l'iscrizione, perché ciò che interessa è conoscere in maniera sufficientemente dettagliata anche la composizione del patrimonio della società e dei singoli elementi che hanno determinato un certo risultato con riferimento a ciascuna delle poste da cui il bilancio è formato" (179). Un ulteriore un precedente giurisprudenziale della Cassazione, inoltre, ha sancito la rilevanza del falso qualitativo, considerando rilevante ai sensi dell'art. 2621 c.c. lo scambio indebito delle voci "crediti" e "magazzino" perché, pur costituendo entrambi voci dell'attivo patrimoniale, essi vengono stimati con criteri valutativi diversi (180).

Allo stesso modo anche i debiti e i rischi costituiscono entrambi voci del passivo patrimoniale, ma non sono assimilabili. Il rischio infatti è una mera eventualità che la società può dover affrontare, ma che non è detto che si verifichi. La perdita quindi non è certa, ma solo possibile. Il debito, al contrario, rappresenta una diminuzione di ricchezza che si è già verificata ed è quindi certo sia nell'an sia nel quantum. È logico quindi sostenere che l'utilizzo di fondi della Fin. Iveco, al posto di quelli dell'Iveco, per costituire una riserva da cui attingere risorse per pagare in nero il concessionario Caprotti, abbia fatto sorgere un debito nei confronti di quella società essendo l'esborso di denaro certo sia quanto alla sua esistenza sia quanto al suo ammontare. E lo stesso discorso potrebbe esser ripetuto per gli altri casi di falso qualitativo emersi dai bilanci del gruppo Fiat.

In risposta, la difesa ha cercato di attribuire alla struttura stessa del bilancio consolidato le carenze di informazione che si erano manifestate. Il giudice, però, non ha accettato questa tesi sottolineando che, se il bilancio consolidato costituisce sicuramente un quadro d'insieme, esso contiene anche analisi e voci dettagliate, come stabilisce la normativa specifica. I toni della critica sono piuttosto duri: "l'equivoco di fondo del pensiero della difesa è la identificazione della vastità del quadro che il bilancio consolidato illustra con la genericità delle indicazioni, la indistinguibilità delle provenienze, delle pertinenze, frutto di un certo qualunquismo intellettuale, per cui ciò che è vasto finisce per essere e deve essere necessariamente illeggibile e, alla fine, inutile" (181).

In conseguenza dei fatti che sono stati precedentemente trattati e delle interpretazioni che il giudice ha ritenuto opportuno accreditare gli imputati, Cesare Romiti e Francesco Paolo Mattioli sono stati ritenuti colpevoli dei reati di illecito finanziamento ai partiti (art. 7 legge n. 195 del 1974) e di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.) e sono stati condannati rispettivamente a un anno e sei mesi e un anno e quattro mesi di reclusione e ad 8.200.000 lire di multa.

Gli imputati, oltre a riproporre la richiesta di trasferimento del processo a Roma, hanno contestato alcune delle conclusioni di diritto a cui è giunto il giudice di primo grado. In particolare, i soli difensori di Mattioli, si sono opposti all'inserimento del bilancio consolidato tra le comunicazioni sociali previste dall'art. 2621 c.c. Le nuove argomentazioni sul punto, tuttavia, non sono state ritenute sufficienti dal giudice d'appello.

Può essere utile, a questo punto, ricapitolare i cinque addebiti contestati agli imputati appellanti in base all'art. 2621 c.c.: Romiti è accusato di aver dichiarato falsamente, in qualità di amministratore delegato di Fiat S.p.A., durante le assemblee in cui illustrava il bilancio consolidato, "fatti e circostanze attinenti le condizioni economiche e la situazione patrimoniale e redditiva della società e occultato fatti concernenti le condizioni economiche stesse" e di aver "falsamente asserito che le società del gruppo non avevano mai erogato somme a fini corruttivi e di finanziamento al sistema politico" (182). A Romiti e a Mattioli, in concorso tra loro, è contestato di avere omesso di segnalare, nelle relazioni accompagnatorie e nel prospetto di bilancio consolidato di Fiat S.p.A., che alcune società estere del Gruppo disponevano di dotazioni di ricchezza (Sacisa, Conto Reno e Saint Peter) non registrate nel bilancio che, nell'ipotesi dell'accusa, gli imputati avevano ispirato o avallato o comunque conosciuto. Il terzo addebito riguarda il "falso qualitativo", cioè l'iscrizione a bilancio come "rischi" di somme che in realtà rappresentano dei debiti verso società partecipate (183) o banche (184). Le ultime accuse attengono all'occultamento di altre aree di ricchezza utilizzate per attività corruttive e di illecito sostegno ai partiti politici (185), o per fornire somme, in via fiscalmente riservata, a titolo di compenso e di premio ai dirigenti del gruppo.

In primo luogo, il giudice chiarisce la questione del concorso di Mattioli nelle dichiarazioni orali rese in assemblea. Tale questione, infatti, era rimasta sottintesa nella sentenza di primo grado che aveva finito per considerarlo responsabile, in concorso, di tutti gli addebiti rientranti nel reato di false comunicazioni sociali di cui veniva accusato Romiti. Nel giudizio di appello, Mattioli viene assolto da questa accusa per non aver commesso il fatto perché "a prescindere dall'insussistenza di qualsivoglia prova di suggerimento o istigazione per tali dichiarazioni nei confronti dell'amministratore delegato, sarebbe inconcepibile una condotta di concorso del Mattioli nelle dichiarazioni orali che il soggetto qualificato si accingeva a fare" (186).

Anche Romiti viene assolto dall'accusa di aver tratto in inganno i soci sulle condizioni economiche della società con le risposte rese in assemblea alle domande degli azionisti. Il giudice infatti concorda con le obiezioni sollevate dalla difesa. Questa infatti ricorda che, dagli atti, Romiti risulta aver negato, davanti ai soci riuniti in assemblea, solo gli episodi di illecito finanziamento ai partiti e, in subordine, rileva che se anche Romiti avesse reso dichiarazioni false in merito alle condizioni economiche della società, questo addebito non risulterebbe punibile in quanto rientrerebbe già nel delitto di false comunicazioni sociali, per cui gli imputati sono condannati in relazione al bilancio consolidato, e, non essendo comunque idoneo a reiterare l'offesa, non potrebbe avere autonoma rilevanza penale.

L'ultima istanza della difesa che il giudice di secondo grado ritiene di accogliere è quella che nega la rilevanza del falso qualitativo. Gli appellanti sostengono, infatti, che il giudice di primo grado abbia argomentato in modo contraddittorio, cercando di dimostrare l'esistenza del falso qualitativo attraverso argomentazioni puramente quantitative: il giudice aveva, infatti, dedotto dai dati di bilancio il probabile scostamento dalla reale situazione contabile provocato dall'iscrizione delle somme nell'errata voce contabile e riteneva in questo modo di aver superato l'assunto difensivo che riteneva irrilevante l'iscrizione a bilancio di rischi al posto di debiti. La difesa però

sosteneva che quando Fiat Allis, Fiat Iveco e Fiat Avio assunsero l'impegno di pagare extrasconti o provvigioni per poter acquisire commesse, giustamente registrarono i costi nel conto economico, seguendo le indicazioni del Manuale contabile di Gruppo, mentre la contropartita nello stato patrimoniale non poté essere collocata che nella voce "passività varie e fondi rischi per oneri futuri" perché erano incerti sia l'ammontare che il momento dell'effettivo esborso. Solo al momento del pagamento la somma sarebbe stata prelevata dal fondo rischi e sarebbe stata segnalata come "debito" nel bilancio come infatti, sottolinea la difesa, è avvenuto nel 1992. Il giudice dell'appello ritiene che il reato di false comunicazioni sociali si verifichi solo in presenza di una alterazione del quadro delle condizioni economiche della società, da intendersi queste ultime come effettiva consistenza economico-patrimoniale della società al momento della redazione del bilancio. In questo caso, il giudice ritiene che l'iniziale iscrizione delle somme nel fondo rischi non abbia provocato alterazioni del patrimonio sociale e conclude quindi che gli imputanti devono essere assolti dall'accusa di false comunicazioni sociali, con riferimento alla porzione inerente al falso qualitativo.

Per quanto riguarda i profili della rilevanza quantitativa e della fraudolenza, viene confermata l'interpretazione del giudice di primo grado e, anche in questo caso, non viene ritenuta utilizzabile la scriminante del "nemo tenetur se detegere" perché, viene ribadito, questo principio, utilizzabile solo in ambito processuale, non può costituire giustificazione per poter arrecare offese ulteriori (187).

Per quanto riguarda l'accusa di illeciti finanziamenti al partito socialista, il giudice non ritiene che gli scarti cronologici presenti nelle deposizioni dei testimoni siano sufficienti per renderne inattendibili i contenuti e conferma la condanna di Romiti per questo addebito. Mattioli, invece, viene assolto per mancanza di riscontro probatorio.

Il giudice, accogliendo parzialmente le istanze della difesa, assolve, dunque, gli imputati dalle accuse di irregolare iscrizione di voci di bilancio (c.d. falso qualitativo) e di false dichiarazioni in sede di assemblea e, il solo Mattioli, dall'accusa di illecito finanziamento al Psi e dal conseguente falso in comunicazioni sociali. Lo stesso giudice, peraltro, conferma le condanne per violazione dell'art. 2621 c.c. in relazione al bilancio consolidato di Fiat S.p.A. Romiti viene così condannato a un anno di reclusione e a 6.400.000 lire di multa, mentre a Mattioli viene aumentata di un mese di reclusione la pena che gli era stata inflitta dalla Corte di Appello di Milano il 10 ottobre 1997 perché i fatti vengono considerati legati dal vincolo della continuazione.

1.6.3 Un finale a sorpresa, ma non troppo

La quinta sezione penale della suprema Corte di Cassazione, dopo tre ore di camera di consiglio, il 19 ottobre 2000, ha messo finalmente la parola fine al processo per falso in bilancio e illecito finanziamento ai partiti che ha coinvolto i vertici della fabbrica torinese.

Fino all'ultimo, in aula, il confronto fra gli avvocati difensori Vittorio Chiusano e Franco Coppi e il procuratore generale Mario Fraticelli è stato serrato. Tre, fondamentalmente, sono stati gli argomenti dibattuti: innanzitutto, i difensori di Romiti sostenevano che egli non fosse al corrente delle riserve extracontabili (188); secondariamente, i giudici ribadivano l'irrisorietà della somma di trentasei miliardi, rapportata ad un fatturato complessivo di Gruppo di sessantamila: "Ammonta solo allo 0,008 per cento del fatturato di quegli anni"; infine, durante l'ultima arringa, l'avvocato Coppi ha sottolineato la mancanza della "prova della provenienza dalla galassia societaria del gruppo Fiat [...] del finanziamento illecito di quattro miliardi dato al Psi nel '92" (189). L'intento è chiaro: separare le imputazioni di false comunicazioni sociali e di illecito finanziamento ai partiti, che sarebbero già prescritte, dall'unico reato non ancora prescritto, cioè quello relativo ai versamenti al Psi, per sostenere che il supermanager Fiat non è più punibile per "intervenuta prescrizione". Ma l'operazione non riesce e l'ex amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti, viene condannato ad undici mesi e dieci giorni di carcere. Alla pena di dodici mesi di reclusione stabilita dalla corte d'appello sono stati infatti sottratti venti giorni in quanto la frode fiscale non è più prevista dalla legge come reato. Per lo stesso motivo la Cassazione ha diminuito la multa inflittagli di duecentomila lire (190).

A Francesco Paolo Mattioli, invece, la Suprema Corte ha annullato, senza rinvio, la pena a un mese di reclusione che gli era stata comminata dalla Corte d'Appello di Torino nel maggio del 1999, per "intervenuta prescrizione" (191).

Anche la pronuncia su Cesare Romiti era a rischio di prescrizione la quale, secondo i calcoli degli stessi magistrati, sarebbe dovuta scattare a gennaio del 2001: per questo i giudici romani avevano fatto chiaramente intendere fin dall'inizio che non avrebbero assecondato la strategia dei rinvii tentata dalla difesa (192). Anche un altro motivo spingeva ad accelerare la pronuncia: il 28 ottobre, infatti, l'assemblea degli azionisti di Mediobanca doveva nominare il nuovo presidente, l'amministratore delegato e i cinque consiglieri in scadenza (193) e erano in molti a credere che sarebbe stato proprio Romiti, l'uomo grazie al quale per vent'anni Mediobanca aveva mantenuto un rapporto privilegiato con la Fiat, l'erede di Enrico Cuccia. L'avvocato Chiusano così ipotizzava le conseguenze, per il suo assistito, di una conferma della pronuncia della Corte d'Appello di Torino:

"Se Cesare Romiti dovesse essere condannato dalla Cassazione non potrebbe ricoprire incarichi societari nelle banche e nelle assicurazioni, per effetto del codice di autoregolamentazione di questi settori, quindi niente ipotesi di incarichi in Mediobanca" (194).

Chiusano, tuttavia, non specificava che il codice di autoregolamentazione del settore bancario-assicurativo (decreto 516 del 30 dicembre 1998) stabilisce che manca del "requisito di onorabilità" (e dunque non può ricoprire incarichi di vertice) solo chi è stato condannato con sentenza definitiva "alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno per un delitto contro la pubblica amministrazione".

Romiti è stato condannato a meno di un anno di reclusione. L'ipotesi di un ruolo ai vertici di Mediobanca è stata, tuttavia, accantonata. I grandi azionisti dell'istituto hanno preferito confermare l'amministratore delegato Vincenzo Maranghi e - per un solo anno, su sua richiesta - il presidente Francesco Cingano (195).

Occorre aggiungere che la condizionale sospende sia la pena principale, undici mesi e dieci giorni di carcere, sia quella accessoria, il divieto di ricoprire per un anno incarichi societari. Pertanto, Romiti, personaggio di spicco del vertice Fiat, sebbene giudicato colpevole, in un processo nato e cresciuto a Torino, la città simbolo della grande casa automobilistica italiana, non ha subito gravi "conseguenze": il peso e lo stigma della condanna sono stati attenuati dalla concessione della sospensione condizionale della pena che gli ha permesso di continuare a ricoprire la carica di presidente del gruppo Rcs. Romiti, inoltre, non è andato in carcere perché ha fruito del beneficio della sospensione condizionale della pena, non avendo riportato precedentemente condanne per delitto ed essendo la pena inflitta non superiore ai due anni di reclusione, anzi ai due anni e sei mesi previsti per gli ultrasettantenni.

L'effetto della sospensione condizionale della pena consiste nella sospensione per cinque anni (art. 163 c.p.) dell'esecuzione della condanna inflitta. Se il colpevole non commette entro tale periodo un nuovo delitto della stessa indole, il reato è estinto e non verrà quindi eseguita la pena principale, né le eventuali pene accessorie (196). La sospensione condizionale della pena, inoltre, garantisce al condannato la non iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziario, beneficio particolarmente importante visto che il certificato del casellario rappresenta il solo modo normalmente previsto dall'ordinamento per documentare i precedenti penali (197).

Tabella riassuntiva dei fatti

ANNO 1992 MILANO ROMA TORINO
6 maggio Arrestato Prada, cassiere Dc.
6 maggio Arrestato Radaelli (Psi).
7 maggio Prada rivela che Iveco, Fiat Ferroviaria e Cogefar Impresit pagavano tangenti ai partiti, incrinando la linea difensiva della Fiat che si presentava come una vittima della concussione
7 maggio Inizia la carcerazione di Papi, amministratore delegato della Cogefar Impresit e primo manager Fiat a finire in carcere.
15 maggio Arrestato Carnevale del Pds che confermerà, insieme a Radaelli le dichiarazioni di Prada.
17 giugno Il vertice Fiat compatto nega qualunque addebito. All'assemblea della Cogefar Impresit Mattioli garantisce: "la Cogefar non ha pagato una lira".
30 giugno Papi lascia il carcere senza aver confessato nulla perché Di Pietro spera, con la scarcerazione di indurlo ad abbandonare la strategia della "bocca Chiusano".
1 luglio Papi, uscito dal carcere, ammette di aver pagato 1,8 miliardi a Prada per il passante ferroviario.
17 luglio Papi parla dei fondi neri alla Cogefar Impresit.
23 luglio Arrestati Cozza, amministratore della Fiat Ferroviaria, e Caprotti, concessionario Iveco che ammettono di aver pagato tangenti per aggiudicarsi appalti nell'area milanese.
29 settembre Romiti ammette, davanti al cardinal Martini, che la Fiat ha partecipato al sistema delle tangenti, ma propone la tesi della concussione.
ANNO 1993 MILANO ROMA TORINO
15 febbraio Prada rivela di aver incontrato Mosconi e Mattioli, nel maggio 1988, per parlare degli appalti milanesi e delle relative tangenti.
L'episodio è importante perché dimostra che i vertici del Gruppo erano a conoscenza delle tangenti pagate dalle società partecipate.
17 febbraio L'avv. Chiusano avverte Mattioli e Mosconi che Prada ha reso dichiarazioni, per loro, compromettenti, prima di esserne ufficialmente informato.
22 febbraio Arrestati Mattioli e Mosconi, nella scala gerarchica, occupano una posizione immediatamente inferiore a quella di Romiti.
Papi rivela che Mattioli e Mosconi lo avevano autorizzato a pagare, ma "il meno possibile".
24 febbraio Borghezio presenta un esposto alla Camera dei deputati accusando la Fiat di false comunicazioni sociali.
2 marzo La Camera trasmette l'esposto alla Procura di Torino.
22 marzo Partono tre mandati di cattura contro Ruggeri, Bertini e Aimetti, estendendo l'inchiesta alla dirigenza di Iveco e Fiat Avio.
25 marzo Tribunale della libertà rifiuta di scarcerare Mattioli e Mosconi con una dura motivazione.
29 marzo mattino: Araldi, commercialista consulente del gruppo Fiat, rivela di essere il mediatore della tangente, proveniente dalla Fiat Avio, per l'appalto delle turbine Enel. Di Pietro comunica le dichiarazioni di Araldi a Mattioli.
sera: Mattioli inizia ad ammettere qualche addebito perché comprende che gli inquirenti hanno acquisito nuovi importanti elementi.
6 aprile L'avv. Chiusano propone a Mosconi di segnalare addebiti a carico dei suoi collaboratori per ottenere la libertà.
7 aprile Mandato di cattura per Garuzzo, direttore generale di Fiat Spa, che sceglie però di rimanere all'estero.
13 aprile L'Avvocato convoca 37 massimi dirigenti nel "Comitato di coordinamento" del Gruppo. L'atteggiamento della Fiat diventa più collaborativo: si stila l'inventario delle mazzette Fiat, si scrive un memoriale per il pool e un codice di comportamento per i rapporti con la pubblica amministrazione a cui i manager del Gruppo dovranno attenersi in futuro.
14 aprile Parla Mosconi: Romiti e Mattioli gli preferirono Papi perché era più inserito nel circuito tangentizio.
15 aprile Scarcerati Mattioli e Mosconi.
17 aprile Si incontrano in Procura i magistrati del Pool e i difensori del Gruppo Fiat. L'incontro determinerà il blocco di un arresto, forse di Romiti stesso.
Gianni Agnelli, al teatro "La Fenice" di Venezia, ammette che si sono verificati degli illeciti all'interno del Gruppo, ma solo nelle società partecipate periferiche per un giro di commesse che rappresenta il 5% del fatturato dell'intero Gruppo.
19 aprile "Gita a Vaduz": alcuni manager Fiat si incontrano per scegliere quali documenti del conto Sacisa presentare agli inquirenti e quali distruggere. Chiaro segno di una collaborazione non totale del gruppo Fiat con gli inquirenti.
21 aprile Deposizione spontanea di Cesare Romiti.
24 aprile Romiti consegna una memoria di venti pagine in cui descrive l'ampiezza del Gruppo e la sua storia recente, sottolinea la degenerazione del sistema politico e segnala nuovi filoni di indagine.
27 aprile Papi difende Romiti e accusa Mosconi.
29 aprile Montevecchi parla delle tangenti per la costruzione di nuovi reparti attrezzati per la lotta all'Aids e dell'episodio dell'emissario di Salvo Lima.
4 maggio mattino: Mosconi parla del "tesoretto" e delle tangenti Intermetro.
pomeriggio: Romiti viene iscritto nel registro degli indagati.
Romiti viene ascoltato come testimone
6 maggio Procura di Milano trasferisce il procedimento a carico di Cozza.
25 maggio Romiti consegna una memoria agli inquirenti in cui conferma l'atteggiamento collaborativo dimostrato a Milano e rivela sei filoni di inchiesta, ma continua ad affermare che le tangenti sono un'iniziativa autonoma delle società partecipate. Ricorda inoltre di esser venuto a conoscenza del conto Sacisa solo dopo il comitato di coordinamento del 13/4/92, informato dall'avv. Gandini.
29 maggio Belliazzi ammette di aver parlato a Romiti delle tangenti Intermetro. Ulrico Bianco rivela i retroscena dell'assegnazione della costruzione del terzo lotto del depuratore Po-Sangone alla Cogefar Impresit.
7 giugno Sollevato il conflitto di competenza.
10 giugno Viene aperto il filone di inchiesta relativo alla tangente di 800 milioni pagata da Fiat Engineering, Ansaldo e Grandi motori di Trieste per la costruzione della centrale di cogenerazione dell'Aem di Torino.
14 giugno Arrestato Montevecchi.
26 giugno La Ganga afferma che Romiti sapeva dei finanziamenti a livello nazionale, anche se non ne avevano parlato esplicitamente e ricorda che la Fiat a Torino non poteva essere vittima della concussione perché ricopriva una posizione di "incombenza ambientale".
7 luglio Garesio (Psi) racconta di aver incontrato Romiti e ricorda di aver avuto contatti con Pomodoro per la discarica di Cavaglià. Parla dei rapporti fra Fiat e Psi a livello locale e nazionale.
agosto Pm di Torino chiedono alle altre procure italiane di comunicare se vi fossero procedimenti pendenti nei confronti del gruppo Fiat.
1 agosto Inchiesta Intermetro è trasferita a Roma.
settembre Cuccia garantisce fondi per l'aumento di capitale, ma l'Avvocato e Romiti devono restare a capo dell'azienda.
14 ottobre Romiti, Mattioli, Mosconi, Papi, Belliazzi sono iscritti nel registro degli indagati.
25 novembre Craxi conferma che la Fiat finanziava stabilmente il sistema politico per sua libera scelta. Ricorda inoltre di intrattenere rapporti familiari con l'Avvocato e con Romiti.
19 dicembre Romiti riconosce che la Fiat ha finanziato il Psi, ma ricorda che si è trattato di autonome decisioni delle società partecipate. Esclude di aver parlato di finanziamenti con segretari politici dei vari partiti.
ANNO 1994 MILANO ROMA TORINO
15 gennaio Giallombardo, durante il processo Cusani, ammette che Fiat dava contributi al Psi.
21 gennaio Alla frontiera di Chiasso Montevecchi viene sorpreso con un baule di documenti su Sacisa: nuovamente si tenta di occultare le prove del conto Sacisa. Emergono anche ricevute di pagamento che si riferiscono a tangenti non ancora scoperte, tra cui il versamento di 200 milioni al Pds veneto.
24 gennaio Romiti è interrogato.
30 gennaio L'avv. Gandini raccomanda a Mosconi di fermare il livello delle responsabilità a Belliazzi.
31 gennaio Mosconi è interrogato su Intermetro: Romiti dirige le attività del Gruppo a Roma tramite Belliazzi e le partecipate godono di un'autonomia solo formale dalla Fiat Spa.
11 febbraio Mosconi, accusato di aver versato 200 milioni al Pds veneto, rivela i retroscena della "collaborazione" Fiat.
19 febbraio Mattioli, Mosconi e Papi sono rinviati a giudizio per le tangenti pagate dalla Cogefar per la metropolitana milanese.
22 febbraio Giallombardo parla dei 4 miliardi versati dalla Fiat al Psi.
1 marzo Bocciata la tesi della concussione. Il Gip modifica l'imputazione: Papi, Del Monte e Pomodoro da vittime diventano imputati di illecito finanziamento ai partiti.
7 marzo Papi, Mosconi e Grandi patteggiano dai 13 agli undici mesi di carcere per gli appalti truccati all'ospedale di Pavia.
31 marzo Cesare Romiti è rinviato a giudizio per l'affare Intermetro.
25 luglio Il Gip Adele Rando proscioglie sia Romiti che Mattioli.
5 agosto Viene depositata la sentenza con le motivazioni.
ANNO 1995 MILANO ROMA TORINO
7 marzo Perquisizioni in corso Marconi, a Mirafiori e nella sede dell'Ifil.
Viene interrogato Signoroni che rivela lo storno di risorse da Fiat Auto e il programma computerizzato che permetteva di avere un quadro finanziario completo delle controllate.
1 aprile Interrogatorio di Ghidella. Parla dei "premi ai dirigenti", dei prelievi mensili da Fiat Auto, dei veri rapporti di forza all'interno dell'azienda. Segnala i canali attraverso cui la capogruppo accumulava le riserve occulte.
7 aprile Corte d'Appello conferma la sentenza di primo grado.
15 giugno Romiti viene nuovamente interrogato per replicare alle accuse dei suoi collaboratori.
novembre Papi, Del Monte, Mosconi e Pomodoro, accusati di illecito finanziamento ai partiti, patteggiano.
15 novembre La Sesta sezione penale della Cassazione conferma il proscioglimento.
1 dicembre Gianni Agnelli chiede al procuratore generale presso la Corte d'Appello di Torino, Silvio Pieri di avocare il procedimento, ma questi rifiuta.
5 dicembre Le dichiarazioni di Bernardini, ex collettore di tangenti per il Psi e la Dc, riaprono il processo.
7 dicembre La procura, allarmata dal tentativo dell'Avvocato, stringe i tempi e richiede il rinvio a giudizio di Romiti, Mattioli e Signoroni.
11 dicembre Romiti diventa presidente della Fiat.
ANNO 1996 MILANO ROMA TORINO
18 gennaio Ghidella chiarisce la questione del suo allontanamento dal Gruppo.
22 gennaio Garuzzo riferisce che la finanza centrale è a conoscenza della formazione dei fondi neri e che il vero ruolo dei manager non emerge dall'organigramma aziendale.
26 gennaio Procura chiede la riapertura delle indagini per l'affare Intermetro
16 aprile Mattioli chiede il rito abbreviato e viene condannato a 2 anni e mezzo di carcere.
8 maggio Revocato il proscioglimento di Romiti.
28 maggio La difesa di Romiti e Mattioli richiede di trasferire il procedimento a Roma, ma la richiesta veniva respinta.
23 settembre Craxi spedisce un fax al direttore del quotidiano "la Stampa" in cui rivela che il vertice Fiat finanziava il sistema politico.
28 ottobre L'avv. Chiusano richiede il rito abbreviato.
18 novembre Craxi spediva un secondo fax direttamente alla Procura di Torino in cui segnalava che Balzamo aveva rapporti diretti con Romiti.
28 novembre Il Gup rinviava a giudizio Romiti e Mattioli, mentre Signoroni patteggiava la pena.
ANNO 1997 MILANO ROMA TORINO
9 aprile Il giudice Saluzzo giudica Romiti e Mattioli colpevoli di false comunicazioni sociali e illecito finanziamento ai partiti e li condanna rispettivamente ad un anno e sei mesi di reclusione e £ 8.200.000 di multa e ad un anno e quattro mesi di reclusione e £ 8.200.000 di multa.
ANNO 1998 MILANO ROMA TORINO
16 gennaio La riapertura delle indagini porta buoni risultati. Il Gip rinvia a giudizio Romiti, Mattioli e Belliazzi.
ANNO 1999 MILANO ROMA TORINO
28 maggio La terza sezione penale della Corte d'Appello di Torino conferma la condanna per false comunicazioni sociali e, del solo Romiti, per illecito finanziamento ai partiti. A Mattioli verrà aumentata di un mese di reclusione la pena inflittagli dalla Corte d'Appello di Milano, mentre Romiti sarà condannato ad un anno di reclusioe e £ 6.400.000 di multa.
ANNO 2000 MILANO ROMA TORINO
19 ottobre La quinta sezione penale della suprema Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna ad un mese di reclusione comminata in appello a Mattioli e ha condannato Romiti ad undici mesi e dieci giorni di carcere e £ 6.200.000 di multa.

Note

1. Cfr. A. Galante Garrone, L'Italia corrotta 1895-1996, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 53.

2. Cfr. L. Marini, La corruzione politica, in "Annali" n. 12, La criminalità, Einaudi Editore, Torino, 1997, pp. 323 ss.

3. E. Magrì, I ladri di Roma, Milano, 1993, p.292.

4. È questo il caso dello scandalo bancario.

5. Cfr. L. Marini, op. cit., p. 339.

6. Ivi, pp. 340-341.

7. Cfr. L. Marini, op. cit., pp. 344-346.

8. Si pensi, ad esempio, al processo Zampini a Torino ed al processo Teardo a Savona.

9. Si pensi alle vicende legate al falso in bilancio del Banco Ambrosiano ed alle c.d. "carceri d'oro".

10. Cfr. L. Marini, op. cit., p. 359.

11. Cfr. L. Marini, op. cit., p. 364.

12. Cfr. art. 1 L. Cost. 29 ottobre 1993 n. 3.

13. Cfr. L. 8 agosto 1995 n. 332.

14. Cfr. L. Marini, op. cit., p. 366.

15. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, Il processo, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 19.

16. Cfr. L. Marini, op. cit., p. 368.

17. Cfr. D. Della Porta, Lo scambio occulto, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 43 ss.

18. Cfr. A. Vannucci, Il mercato della corruzione, Società Aperta Edizioni Srl, Milano, 1997, p. 51 ss.

19. Cfr. D. Nelken, Il significato di Tangentopoli, in "Annali", n. 14, Legge, diritto e giustizia, Einaudi Editore, Torino, 1998, p. 615-616.

20. Cfr. A. Vannucci, op. cit., p. 73.

21. G. Colombo, Il vizio della memoria, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 135.

22. Cfr. D. Nelken, op. cit., p. 619.

23. Cfr. P. Griseri, M. Travaglio, M. Novelli, op. cit., p. 201.

24. Cfr. E. Nascimbeni, A Pamparana, Le mani pulite, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1992, p.136.

25. Ivi, p. 116.

26. B. Vespa, Telecamera con vista, Nuova Eri, Roma, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1993, p. 20; E. Nascimbeni, A. Pamparana, op. cit., p. 57.

27. Cfr. B. Vespa, op. cit., p. 19-20.

28. Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani.

29. Cfr. D. Nelken, op. cit., p. 619-620.

30. B. Vespa, op. cit., p. 36.

31. Cfr. D. Nelken, op. cit., p. 615-616.

32. Cfr. D. Nelken, op. cit., p. 621.

33. Cfr. E. Nascimbeni, A. Pamparana, op. cit., p. 13.

34. Ivi, p.61.

35. G. Colombo, op. cit., p. 135.

36. Ivi, p. 136.

37. A. Vannucci, op. cit., p. 79-80.

38. Cfr. E. Nascimbeni, A. Pamparana, op. cit., p. 128-129.

39. Ivi, p. 130.

40. Cfr. E. Nascimbeni, A. Pamparana, op. cit., p. 76-81.

41. Cfr. G. M. Flick, Oltre Tangentopoli?, Il Sole 24 Ore Pirola S.p.a., Milano, 1995, p. 19.

42. B. Vespa, op. cit., p. 37.

43. Cfr. G. M. Flick, op. cit., p. 21.

44. Cfr. D. Nelken, op. cit., p. 602.

45. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 31.

46. come riferirà ai magistrati l'ex direttore finanziario di Fiat Auto Clemente Signoroni.

47. prima di quella data infatti le osservazioni venivano fatte oralmente, ma non avevano ottenuto risultati di rilievo.

48. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 28.

49. Cfr. P. Griseri, M. Nicotri, M. Travaglio, op. cit., p. 36.

50. Ibidem.

51. Cfr. Relazione di Arnaudo della riunione tenutasi nella sede dell'Ifi il 3 febbraio 1992, in P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 42.

52. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 45-46.

53. Cfr. sent. Corte d'Appello di Torino, Terza Sez. Pen., n. 2313/99 del 28 maggio 1999, p. 34.

54. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 53.

55. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 54.

56. P. Nicotri, op. cit., p. 33.

57. E. Nascimbeni, A. Pamparana, op. cit., p. 67.

58. Ibidem.

59. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 55.

60. Ivi, p. 57.

61. P. Nicotri, op. cit., p. 37.

62. G. Pansa, Questi anni alla Fiat, Rizzoli, Milano, 1988.

63. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 58.

64. P. Nicotri, op. cit., p. 41.

65. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 59.

66. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 60.

67. Sempre grazie a Romiti, Mattioli aveva ricoperto, anche prima dell'ingresso in Fiat, ruoli prestigiosi quali quello di direttore finanziario dell'Alitalia e dell'Italstat.

68. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 60.

69. P. Nicotri, op. cit., p. 52.

70. P. Nicotri, op. cit., p. 53.

71. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 66.

72. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 89.

73. P. Nicotri, op. cit., pp. 71-72.

74. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 67.

75. Costituito dal procuratore Francesco Saverio Borrelli, dai sostituti Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, e dal procuratore aggiunto Gerardo D'Ambrosio.

76. Gli avvocati Vittorio Chiusano, Cesare Pedrazzi e Giandomenico Pisapia.

77. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 81.

78. La vicenda viene raccontata, un anno dopo, da Mosconi al pubblico ministero Antonio Di Pietro.

79. Erano presenti Papi, Pomodoro, Chicco, Giuseppe Gatto e Ferri.

80. Il fondo nero a cui attingevano tutte le società del gruppo Impresit, a parte la Cogefar.

81. Si tratta di una impresa controllata dalla Fiat Impresit.

82. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 69-70.

83. Ibidem.

84. P. Nicotri, op. cit., p. 85.

85. Papi, Del Monte, Montevecchi, Basta e Palieri.

86. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 73-74.

87. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 92-93.

88. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 97.

89. La Sacisa, infatti, formalmente non risultava a bilancio della Fiat Impresit né di altre società del Gruppo.

90. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 77.

91. Responsabile della Fiat di Roma.

92. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 77.

93. Deputato Dc e capo della corrente andreottiana in Sicilia.

94. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 93-95.

95. Lo stesso Montevecchi riferisce il caso della donazione di un alloggio da due miliardi ai Parioli al senatore Dc Giorgio Moschetti.

96. Cfr. V. M. Caferra, op. cit., P. 20-21 e 30-31.

97. Cfr. sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 248 ss.

98. Consorzio composto da quattro imprese pubbliche, quattro private e un istituto di credito, nato nel 1969 per costruire la metropolitana a Roma ed impegnato, dalla fine degli anni ottanta, ad ultimarne la costruzione con l'aggiunta di una terza linea.

99. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 76; P. Nicotri, op. cit., p. 98.

100. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 79.

101. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 81.

102. P. Nicotri, op. cit., p. 144.

103. P. Nicotri, op. cit. p. 148-149.

104. P. Nicotri, op. cit., p. 149.

105. G. Nicotri, Prosciolto tre volte, anzi rinviato a giudizio, L'Espresso.

106. G. Nicotri, Prosciolto tre volte, anzi rinviato a giudizio, L'Espresso.

107. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 150-153.

108. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 84.

109. Ivi, p. 82.

110. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 83.

111. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 85.

112. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 85-86.

113. Cfr. Tribunale ordinario di Torino sez. dei giudici delle indagini preliminari, sent. n.704 del 9/04/1997, p. 15.

114. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 102.

115. La somma era stata divisa tra i quattro consiglieri dell'azienda elettrica municipale Giubergia (Pli), Lamberto (Psi), Carli (Pri) e Metallo (Dc).

116. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 105.

117. Responsabile, come si è visto in precedenza, del versamento in Svizzera di 2,7 miliardi al Psi per gli appalti della metropolitana milanese. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 18 e 29.

118. P. Nicotri, op. cit., p. 35.

119. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 30.

120. Ivi, p. 31.

121. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 347.

122. Società di Fiat Impresit attiva nell'ecobusiness.

123. Abilitata, cioè, a raccogliere rifiuti speciali assimilabili agli urbani, come materiali edili e legnami.

124. Cfr. P. Nicotri, op. cit., pp. 157-167.

125. Cfr. P. Nicotri, op. cit., pp. 172-173.

126. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 351.

127. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 103.

128. Cfr. P. Griseri. M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 104.

129. Ibidem.

130. Cfr. P. Nicotri, op. cit., pp. 158-161.

131. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 110.

132. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 37.

133. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 363.

134. Sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 364.

135. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 120.

136. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 353.

137. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 121.

138. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 91 ss.; Sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 32 ss.

139. Tale società emetteva fatture false o gonfiate con finte causali di consulenze che servivano per giustificare le uscite della capogruppo le quali risultavano a bilancio come remunerazione della consulenza, mentre venivano, in realtà, accantonate in nero sul conto Saint Peter

140. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 95-96; Sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 34-35.

141. Tra cui il sopraccitato versamento di due miliardi e settecento milioni da parte di Cozza al Psi per gli appalti della metropolitana milanese.

142. Cfr. sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 35.

143. Nella "vicenda Caprotti", il capo del coordinamento delle divisioni aveva deciso di ridurre gli sconti che la Iveco accordava ai concessionari. Caprotti, concessionario Iveco per la Lombardia si era fermamente opposto minacciando anche di ritirarsi dalla concessione perché sosteneva che la somma non gli avrebbe permesso di pagare tangenti. Per risolvere questo problema Mattioli propose a Garuzzo, direttore generale del Gruppo, di corrispondere a Caprotti una parte dello sconto in nero in modo da consentirgli di avere una disponibilità di denaro extrabilancio da utilizzare per scopi illeciti. Per pagare in nero Caprotti era necessario disporre di somme non contabilizzate che furono reperite attraverso l'indebitamento verso Fin. Iveco. Nel bilancio Iveco la somma non venne però iscritta come debito verso la Fin. Iveco, ma come accantonamento nel fondo rischi per fronteggiare eventuali perdite future. In questo modo una passività effettiva, come può essere considerato un debito, figurava come una perdita eventuale che quindi in futuro si sarebbe potuta realizzare oppure no in relazione alle circostanze.

144. La seconda vicenda che vede coinvolta l'Iveco attiene alla fornitura di automezzi al Gruppo Ferruzzi e, in particolare, alla società Calcestruzzi di Ravenna. Questo episodio non è compreso nel capo di imputazione, ma viene ricordato nelle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado per la sua significatività in relazione alle modalità di realizzazione dei fatti. La società Calcestruzzi richiedeva una maggiorazione dello sconto sulle forniture di veicoli e l'Iveco non voleva superare ufficialmente le soglie di sconto. Si decise di versare in nero, estero su estero, una parte della cifra. Le somme furono fornite dalla Iveco Magirus di Ulm, società estera del gruppo Iveco, produttrice degli automezzi e furono annotate nel bilancio come "passività/accantonamenti". Anche la Fiat Allis, controllata al 100% da Fiat S.p.A., e trasformatasi nel 1987 in Fiat Geotech, entrò in rapporti commerciali con il gruppo Calcestruzzi per la vendita di macchine per il movimento terra. Per la fornitura di quei macchinari la Calcestruzzi richiese che per ogni mezzo venduto fosse corrisposta all'estero, in nero, la somma di lire 18 milioni che andò progressivamente aumentando fino ad arrivare, nel 1990, a lire 23 milioni. Per fornire la provvista, che ammontava a circa un miliardo all'anno, venne contattata la società estera Fiat Allis Latino Americana, partecipata al 100% dalla Fiat Geotech. Gli esborsi avvenivano nell'interesse di Fiat Allis-Geotech senza mai indicare la ragione dell'operazione e, nonostante l'evidente e certa natura di debito, venivano iscritti a bilancio nel fondo rischi (Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 194-196; sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 36-37).

145. La vicenda relativa a Fiat Avio è quella, già esaminata, delle tangenti pagate per l'installazione di turbine a gas per l'Enel. Il denaro era stato reperito presso la Fiat Avio Inc., una società estera costituita negli Stati Uniti alla fine del 1990 in cui Fiat Avio, però, non aveva alcuna partecipazione. La società statunitense aveva contratto un debito, pari alla somma da versare per la fornitura all'Enel, presso la Overseas Union Bank del Lussemburgo. Tale debito era stato poi stato assunto dalla Fiat Avio che lo aveva iscritto, nel bilancio 1991, alla voce fondo rischi. (Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 199-201; sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 38-39).

146. Cfr. p. 121.

147. Cfr. P. Griseri, M. Novelli, M. Travaglio, op. cit., p. 144.

148. P. Nicotri, op. cit., p. 183.

149. P. Nicotri, op. cit., p. 189.

150. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 191.

151. P. Nicotri, op. cit., p. 192.

152. Cfr. p. 124.

153. P. Nicotri, op. cit., p. 204.

154. Cioè della differenza fra i tassi di interesse praticati da Fiat Auto alle partecipate e quelli che invece otteneva investendo sul mercato (cfr. p. 161).

155. Cfr. P. Nicotri, op. cit., p. 222.

156. Cfr. sent. cit., p. 56.

157. Cfr. sent. cit., p. 57.

158. P. Nicotri, op. cit., p. 229.

159. Cfr. sent.n. 704 del 9/4/1997, p. 365-366.

160. P. Nicotri, op. cit., p. 235.

161. Clemente Signoroni, invece, ottiene di poter patteggiare la pena per l'unico reato per cui è rimasto imputato, cioè frode fiscale e, per non dilazionare ulteriormente la definizione della sua posizione, viene disposta la separazione del processo a suo carico e l'assegnazione ad altro giudice (Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 82).

162. M. Tortorella, San Franceso Paolo Mattioli, Panorama, n. 48 del 29/11/1996.

163. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 104.

164. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 106.

165. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 121.

166. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 115.

167. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 116.

168. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 125-135.

169. Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale (leggi complementari), vol. I, Giuffrè Editore, Milano 1997, p. 144-155.

170. Cfr. Cass.13/12/1983, ric. Rossi, in giur. ital., II, p. 334.

171. Cfr. Cass. Pen. 3/4/1979, ric. Ferrigno, in Cass. Pen. Mass. Annot., 1981, p. 457.

172. Cfr sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 145-146.

173. Ivi, p. 147.

174. Cfr. p. 121.

175. Cfr. p. 124.

176. Cfr. Cass. 22/2/1992 ric. Zampini, in Rep. dec. pen., 1992.

177. Cfr. p. 140.

178. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 228.

179. Cfr. Cass. Sez. I civ. n. 8084 del 3/9/1996.

180. Cfr. Cass. 18/11/1980 in Giust. Pen. 1981, p. 398.

181. Cfr. sent. n. 704 del 9/4/1997, p. 237.

182. Cfr. sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 210.

183. Fin. Iveco, Fiat Allis Latino Americana.

184. Overseas Union Bank.

185. Come nel caso contestato di versamenti per quattro miliardi di lire al Psi, nella primavera del 1992.

186. Cfr. sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 213.

187. Cfr. sent. n. 2313/99 del 28/5/1999, p. 239.

188. F. Grignetti, Romiti, confermata la condanna, in La Stampa, del 20/10/2000, p. 14.

189. F. Haver, Romiti, la Cassazione conferma la condanna per i bilanci Fiat, in Il Corriere della sera, del 20/10/2000, p. 16.

190. I. Napoli, Romiti, la condanna passa in giudicato. Sfuma Mediobanca, in Il Mattino, del 20/10/2000, p. 8.

191. C. Lodi, Condanna confermata per Cesare Romiti, in Libero, del 20/10/2000, p. 9.

192. B. Perini, I bilanci falsi condannano Cesare Romiti, in il manifesto, del 20/10/2000, p. 9.

193. G. Ferrara, La Cassazione dice no a Romiti ma Saraghi è più forte del previsto, in Il Foglio, del 20/10/2000, p. 1.

194. L. Tamburini, Tangenti Fiat, condannato Romiti, in Il Giorno, del 20/10/2000, p. 6.

195. Cfr. F. Manacorda, Via alla Nuova Mediobanca, in La Stampa, del 28/10/2000, p. 18.

196. Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè Editore, Milano, 1994, p. 720 ss.

197. Cfr. D. Siracusano, Diritto processuale penale, Vol. II, Giuffrè Editore, Milano, 1996, p. 617-623.