ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo terzo
Dieci anni dopo finalmente la verità attraverso le interviste

Ilaria Masini, 1997

1. Cosimo Giordano. Portici, 10 febbraio 1997. Attualmente direttore della scuola degli agenti di custodia a Portici, il dottor Giordano fu costretto a lasciare il carcere di Porto Azzurro e venne trasferito a Torino il 19 novembre 1987. Un provvedimento inspiegabile se si tiene presente che il direttore non fu solo uno dei sequestrati, ma anche colui che trovò la soluzione e il sistema per uscire in modo impeccabile dalla vicenda di Porto Azzurro. Cosimo Giordano ha infatti trattato fin dalle prime ore di prigionia con i rivoltosi ed è stato l'intermediario fra i ribelli e l'esterno. Il vero ago della bilancia, il mediatore lucido che conosce inevitabilmente meglio di ogni altro la situazione all'interno dell'infermeria, ed escogita la soluzione migliore, forse l'unica. È per questo che risulta ancora più incomprensibile la decisione di sollevare Giordano dal suo incarico. Il trasferimento "per incompetenza per mancanza di controllo" arriva a metà novembre, dopo che il direttore aveva ripreso a svolgere le sue funzioni già a partire dal 10 settembre, pochissimi giorni dopo la fine della rivolta.

Dottor Giordano, come spiega quel provvedimento?

Sembra assurdo, ma io non potevo risultare il vincitore della vicenda, non potevo essere l'eroe. Alcuni non hanno accettato il fatto che la soluzione della rivolta fosse arrivata dall'interno del carcere, da uno che era sotto sequestro. Ma non fui solo trasferito, ho avuto anche tre rinvii a giudizio per peculato d'ufficio, distrazione e omissione di controllo, tre procedimenti penali da cui sono stato assolto con la formula 'i fatti non sussistono'. In più era stato avviato anche il procedimento disciplinare che stabilì un mese di sospensione dalle funzioni, ma il procedimento decadde per incompatibilità con quello penale. Infine, la beffa nella beffa, la Corte dei Conti dopo avermi assolto in primo grado, mi condannò a sezioni unite a 40 milioni di multa spese escluse.

Tutti i meriti del caso se li è presi Nicolò Amato e ha sempre avuto il coraggio di affermare, anche in mia presenza, che l'idea di fare delle concessioni sulla base della Legge Gozzini fu sua e ha campato sulla vicenda di Porto Azzurro almeno otto anni. In tutti i discorsi, ufficiali e privati, la rivolta di Porto Azzurro è il suo fiore all'occhiello. La sua carica è cessata nel 1993 e ora è avvocato a Roma (1).

Perché non ha mai reagito alle dichiarazioni di Amato e al suo provvedimento?

Appena uscito mi fu vietato di rilasciare interviste e di parlare con la stampa; così non ho mai potuto spiegare come stavano realmente le cose. Inoltre io non potevo mettermi contro Nicolò Amato, il superiore dal quale dipendeva il mio futuro immediato; del resto mi avevano detto che il provvedimento di sospensione era temporaneo e io certamente non mi aspettavo di essere trasferito definitivamente. Ho passato dei momenti molto difficili anche se adesso sono riuscito a risollevarmi, ho avute delle emorragie nervose a causa delle quali ho perso completamente l'occhio destro e parzialmente quello sinistro; ho rischiato insomma di diventare cieco. Mi hanno distrutto.

Come le venne l'idea di applicare i benefici previsti dalla Legge Gozzini?

È stata la forza della disperazione, l'idea dettata dalla necessità. Da fuori, nonostante fossero mobilitate tantissime persone fra Gabinetti di crisi e riunioni, non arrivava nemmeno un'idea, non trovavano soluzioni, e concedere l'elicottero era assolutamente impensabile. Non ricordo di preciso il momento, ma un pomeriggio ero sdraiato sulla solita branda e mi balenò davanti quella che poteva essere la nostra salvezza. Discussi dell'idea con il dottor Carlotti che mi sconsigliò assolutamente di fare una proposta del genere ai saquestratori, ma io tentai. Parlai per molte ore e alla fine mi dissero che volevano fare una riunione da soli, senza la mia presenza che poteva influenzarli in qualche modo. "Accettiamo!" mi dissero quando terminarono di discutere fra loro, ma aggiunsero una condizione: "La proposta deve arrivare dall'esterno, non vogliamo che si pensi ad un nostro cedimento".

E lei a chi comunicò l'idea?

I sei detenuti mi avevano vietato di parlarne esplicitamente con qualcuno, proprio perché la soluzione doveva venire dall'esterno, e a turno controllavano continuamente il telefono dal quale dovevo chiamare. Telefonai così a mia moglie facendole dei discorsi confusi e pronunciando delle frasi apparentemente senza senso, ma era come un rebus e dentro c'era l'idea della concessione dei benefici in base alla Legge Gozzini. Mia moglie capì che lì dentro c'era un messaggio, fece ascoltare la cassetta a degli esperti ma non ci capirono nulla e dissero che era la tensione a farmi sragionare. Allora chiesi di parlare con la dottoressa Fiorillo e con uno stratagemma staccai per pochi istanti il controllo telefonico; così le comunicai brevemente l'idea. Fiorillo capì immediatamente ed elaborò insieme a Margara e a Cindolo tutta la proposta da presentare ai detenuti ribelli.

I detenuti sapevano che quelle concessioni non sarebbero mai state fatte?

Non lo so. Noi lo sapevamo perfettamente, ma probabilmente Tuti ci credeva perché parlava dei suoi progetti e programmi futuri con molto impeto.

Quale è stato il momento in cui ha avuto più paura?

Vero panico, quando mi presero nel mio ufficio mentre stavano tentando l'evasione. Non riuscivo né a muovermi né a parlare, ero come paralizzato. Però mi passò tutto quando varcai la porta della stanza. Mi chiesero di andare a prendere l'auto blindata, ma il maresciallo Munno si offrì al mio posto e, nonostante che ci fosse il brigadiere Matta con una pistola infilata in bocca e Tuti pronto a premere il grilletto, Munno non tornò. Dovetti togliere con la forza quella pistola puntata contro il brigadiere. In quel momento la paura se ne era già andata. Fra l'altro quel giorno non dovevo essere nemmeno lì perché dovevo già essere in viaggio per andare in missione a Pianosa, però il 25 è anche giorno di stipendio e quindi ritardai di poco la partenza.

Chi era il capo dei rivoltosi?

Era sicuramente Rossi, solo la stampa aveva adottato il nome famoso di Tuti come ago della bilancia, ma chi decideva era Rossi. Quest'ultimo aveva anche organizzato il tentativo di evasione e Tuti si era solo aggregato al suo piano. Entrambe sono persone intelligenti, ma Rossi è molto più razionale, non ha l'impulsività dell'empolese. Tuti da principio voleva ammazzare il brigadiere, poi ha sparato un colpo di pistola per intimorire Sica e un proiettile anche vicino alla mia testa mentre ero al telefono con sua madre Ester.

Cosa pensò quando Mario Tuti fu trasferito a Porto Azzurro?

Telefonai subito al Ministero per chiedere spiegazioni e mi dissero che ormai Tuti era 'vecchio' e non era più pericoloso. E poi forse è stata anche una sfida che ho voluto fare a me stesso; quando le cose vanno eccezionalmente bene come stavano andando in quel periodo a Porto Azzurro, ti senti invincibile e non hai paura di niente. Io dissi a me stesso che avevo avuto problemi ben più grossi e Tuti non mi faceva paura.

Come è stato trattato durante la prigionia?

Molto bene. Ero l'unico ad avere piena libertà di movimento, mi rinchiudevano solo la notte. Non mi hanno mai legato e ho avuto anche piccoli gesti di umanità. Una notte infatti Tolu venne a coprirmi mentre dormivo. Ogni comportamento in condizioni come quelle è importantissimo. I sardi erano dei sanguinari, ma Tolu è una brava persona; ricordo che era tutto tatuato e non aveva nemmeno un pezzetto di pelle libero.

Le soddisfazioni insomma sono arrivate dai rivoltosi..

Ho avuto sicuramente più soddisfazioni da loro che dall'esterno; Tuti ad esempio, quando ha saputo del mio trasferimento, mi ha difeso in udienza perché sapeva che quel provvedimento era ingiusto. Addirittura quando è finita la rivolta e ci hanno fatto uscire, Rossi e Tuti sono venuti a complimentarsi perché mi comportai "come il buon comandante di una nave uscendo per ultimo". Vollero consegnare le armi solo a me prima di essere portati via dagli agenti e mi dissero che sarebbe arrivata una bella promozione. Figuriamoci, mi hanno cacciato!

Quando la prigionia finì, come l'accolsero all'esterno?

Ricordo che appena uscii Amato addirittura venne ad abbracciarmi in lacrime; piangeva dalla gioia e mi fece i complimenti....e dopo ha combinato quel che ha combinato.

Invece mi fece molto piacere il dottor Margara che venne a trovarmi; non volle nemmeno entrare e mi disse una sola parola importantissima: "Bravo!". Anche la dottoressa Fiorillo e il dottor Cindolo mi sono stati molto vicini.

E soprattutto una targa (tuttora sul tavolo del suo ufficio) di ringraziamento da parte di tutti i sequestrati: "Al Dr. Cosimo Giordano. Grazie al costante impegno e alle sue spiccate capacità professionali si è conclusa felicemente la triste vicenda del sequestro. Ci sentiamo in dovere di ringraziarla unitamente ai ns. familiari" e tutti i nomi elencati sotto.

Durante la rivolta il comportamento di tutti all'interno del carcere fu esemplare.

Si, è vero. Gli altri detenuti sono stati eccezionali e si sono chiusi spontaneamente dentro le loro celle. Anche i sequestrati si sono comportati tutti benissimo e ci sono stati degli episodi di grande altruismo: Gaetano Manca, ad esempio, soffriva di cuore e quando aveva degli attacchi, il dottor Carlotti interveniva prontamente per aiutarlo. E poi anche alcuni agenti come l'appuntato Luciano Buono sono stati quelli che vengono definiti 'eroi moderni'. Mi ricordo altri particolari molto toccanti, ad esempio l'agente Baffoni che mentre era in prigionia, scrisse una lettera testamento alla moglie. E infine è da sottolineare il fatto che tutti quanti, rivoltosi compresi, furono particolarmente gentili e attenti alle esigenze e ai timori di Rossella Giazzi.

Concretamente, dall'esterno quali aiuti arrivarono?

Cindolo e gli altri magistrati furono degli ottimi mediatori, ma per il resto nessuno collaborò in modo concreto con qualche idea o qualche comportamento, anzi semmai da fuori arrivavano solo ulteriori problemi da risolvere. Anche quando i sei chiesero di parlare con i loro legali, dissero che non potevano farlo di persona, ma solo al telefono perché c'era il rischio che prendessero in ostaggio anche loro. Io dissi che i ribelli li volevano assolutamente di persona e così risolvemmo anche questo problema noi all'interno dell'infermeria, facendo saldare con la fiamma ossidrica il cancello attraverso il quale avrebbero dovuto parlarsi i detenuti e i loro avvocati.

Inoltre quando tutto era già finito e risolto dall'esterno arrivarono altri problemi: alle 12 era prevista l'uscita degli ostaggi, ma alle 10:30 arrivò un telegramma chiuso indirizzato a Mario Tuti. Era di un prete e c'era scritto di non fidarsi di Amnesty International come garante, ma il vero garante di tutta la vicenda doveva essere proprio lui. Assurdo far entrare a rivolta finita un telegramma chiuso! Da lì Tuti bloccò la liberazione prevista e dovetti parlare un'altra ora per convincerlo che Amnesty International ha sicuramente molto più rilievo di un semplice parroco.

Dall'esterno arrivavano solo guai.

Tornerebbe a Porto Azzurro?

Anche solo per un giorno, ma ci tornerei. In quel carcere siamo riusciti a fare cose straordinarie come i concerti e le tavole rotonde, e anche subito prima che ci fosse il tentativo di evasione avevamo in programma un grande avvenimento: a settembre infatti ci sarebbe dovuta essere una riunione di boxe con Benvenuti. Comunque adesso ho sostenuto e superato l'esame di primo dirigente e non potrei fare il direttore a Porto Azzurro. Mi rimane un ricordo meraviglioso perché in quel penitenziario abbiamo fatto cose eccezionali, anche se mi sono dato d'affare come direttore anche a Lecco, Sondrio e Locri; poi l'esame di primo dirigente, il trasferimento a Eboli e ora qui a Portici, ma a Porto Azzurro non ho più avuto il coraggio di mettere piede, nemmeno come turista, nonostante che i miei familiari me lo rimproverino.

Ripensando a quei giorni non le viene in mente qualche particolare che poteva far pensare a un tentativo di evasione?

Il 23 agosto a Porto Azzurro era stata organizzata come ogni anno la Festa dell'amicizia con la partecipazione dei capi di tutte le varie armi, c'era Spadolini con molti altri ospiti del ministero, una festa per ringraziare la Difesa per quanto fa durante i vari incendi che scoppiano d'estate all'Isola d'Elba. Durante questo raduno il sacerdote del carcere sostiene di avermi detto che alcuni detenuti stavano per tentare un evasione, io sinceramente non me lo ricordo assolutamente.

La mia impressione comunque è che qualcuno sapesse.

Chi?

La mattina stessa dell'evasione il maresciallo Munno ordinò di fare un'ispezione proprio nelle celle dei sei tentati evasori, strana combinazione! Tutto fu fatto senza avvertirmi, tutto a mia insaputa. Questo dubbio mi è sempre rimasto.

2. Il sindaco di allora: Maurizio Papi. Abita ancora a Porto Azzurro e ha uno studio di medico - chirurgo, poco distante dalla piazza centrale del paese. È lì che facciamo la nostra chiacchierata.

L'amarezza è la stessa di allora; si scorge nei suoi occhi, nelle sue parole: "Dovevano trovare qualcuno che pagasse e hanno preso noi". Si riferisce a se stesso naturalmente, ma anche al dottor Cosimo Giordano, ostaggio, mediatore e poi imputato della rivolta. Si apre così l'intervista che prende presto i toni di uno sfogo. Subito dopo la conclusione della rivolta, Papi venne sospeso per un mese con decreto fulminante del prefetto di Livorno Bosa. Papi, appreso il provvedimento, scrisse una lettera di risposta al dott. Nicola Bosa: "Ho accettato il provvedimento di sospensione molto serenamente; è passata l'emergenza, tutto si è concluso felicemente e desidero solo che si smorzino le polemiche assolutamente inutili. Oggi, come prima di quel maledetto martedì 25 agosto, torno a ricoprire il ruolo di umile sindaco di campagna". Questo il testo della lettera, queste le speranze, rimaste tali, del sindaco. La sospensione suscitò reazioni contrastanti fra i politici, da Rodotà che la definì come "assolutamente inaccettabile", Broglio come "fatto gravissimo" e Pannella "inaccettabile abuso", a Biondi e De Lorenzo che hanno espresso soddisfazione per l'iniziativa del prefetto di sospendere il sindaco Papi per un mese dalle funzioni di ufficiale di governo.

Ma oltre alla sospensione per Maurizio Papi arrivò anche una comunicazione giudiziaria da parte della Procura della Repubblica di Livorno per il reato di "diffusione di notizie false e tendenziose", poiché il sindaco aveva annunziato la liberazione degli ostaggi quando il fatto non era ancora realmente avvenuto.

In realtà la frase che, già quando la rivolta era ancora in corso, fece più scalpore fu un'altra: "Se lo Stato pensa ad un intervento militare, allora io sono contro lo Stato", una frase forte che fece discutere e indispettì diversi uomini del governo.

Papi ricorda ogni momento, frase ed episodio di quei giorni. L'ora, la data e le parole precise che scandivano quei momenti di tensione. Anche l'emozione è rimasta, così come la difficoltà nell'accettare atti incomprensibili perché sentiti come ingiusti. Papi, da quando è terminata la rivolta, dice di essere stato perseguitato da avvisi di garanzia per reati assolutamente ridicoli; ben 34 avvisi per altrettanti processi, l'ultimo dei quali soltanto lo scorso giugno. In realtà, dopo la sospensione, il sindaco fu reintegrato e si presentò anche alle elezioni del 1990, vincendo senza difficoltà. Tuttavia, nel settembre del 1993 fu dichiarato decaduto e non si è potuto presentare alle successive elezioni del 1995, in cui fu eletto Gianfranco Pinotti, sindaco attualmente in carica.

Se Papi è senz'altro amareggiato dall'intera vicenda di quel fine estate del 1987, certamente è tutt'altro che pentito: "Rifarei le stesse identiche cose perché in quel momento era l'unica alternativa al blitz già preparato dal governo. I rivoltosi erano asserragliati nell'infermeria con gli ostaggi, e programmare un attacco dei corpi speciali in condizioni di quel genere voleva dire mettere in conto morti e feriti. Io non potevo accettarlo. Lo Stato aveva già chiamato le unità speciali e addirittura erano già disposti e pronti sui tetti; era stata allertata anche la sala operatoria di Portoferraio, erano stati chiamati tre medici, fra cui io, per portare i primi soccorsi ai feriti. Inoltre ricordo che subito dopo il cancello di ferro all'interno del carcere c'erano i lavori in corso e lo Stato aveva ordinato di disporre delle assi sopra gli scavi per permettere l'accesso, altrimenti impossibile, delle ambulanze. Mercoledì era tutto pronto per il blitz. L'ordine era chiaro: assalto delle squadre speciali nonostante condizioni tecniche estremamente difficili. Ed è stato proprio vedendo uno dei loro elicotteri, che faceva la ricognizione sopra l'infermeria del carcere, che mi è venuta l'idea dell'elicottero. Utilizzare un elicottero per far scappare i sei rivoltosi, invece che per portare avanti l'azione di forza".

Nacque così il 'Partito dell'elicottero' che mobilitò tutto il paese. Un movimento di opinione pubblica, un simbolo che in quel momento doveva cercare di bloccare il blitz già predisposto. "Bisognava smuovere più gente possibile, dal paese alla stampa, era necessario creare più confusione possibile per impedire allo Stato di fare un attacco che avrebbe causato sicuramente morte. Bisognava far sentire che c'era un'alternativa al blitz, anche estrema come la fuga dei rivoltosi". A quel punto non c'era più solo il blitz come via d'uscita, ma c'erano 2.500 persone mobilitate per chiedere un elicottero che permettesse l'evasione a Tuti e compagnia: "La trattativa ad oltranza, benché la realtà storica sia stata travisata l'abbiamo suggerita noi allo Stato, perché a quel punto era l'unica strada che poteva percorrere". E così lo Stato ha portato avanti la trattativa per sette giorni, fino alla conclusione vittoriosa: "A dire la verità non credevo nel buon esito della trattativa, ma bisogna anche ammettere che una trattativa può essere fatta in molti modi e noi non sappiamo completamente tutto ciò che hanno promesso ai rivoltosi. Non sappiamo di preciso cosa gli abbiano promesso veramente".

Maurizio Papi, quale medico del carcere, conosceva tutti e sei i rivoltosi: "I sardi erano dei sanguinari pronti a tutto, così come Rossi. L'unico che mi dava un po' di fiducia era Tuti il quale, nonostante la sua carriera criminale, era lucido e raziocinante, l'unico con cui poter portare avanti una trattativa. I rivoltosi comunque sapevano che la trattativa era l'unica via possibile anche per loro, non avevano più chance".

In prima fila a trattare con i sei rivoltosi c'erano il dottor Cindolo, Costanzo e la dottoressa Fiorillo, i quali mantenevano i contatti telefonici con i sei detenuti ribelli: "Io ho parlato soltanto una volta con l'infermeria, precisamente con Tuti e Giordano, dal momento che era previsto uno scambio di prigionia, per 12 ore fra me e il direttore del carcere. Senza entusiasmo, ma accettai chiedendo mezz'ora di tempo per avvertire i familiari. Quando tornai al carcere il Tuti aveva già cambiato idea e lo scambio non si fece. Era il Tuti che decideva tutto, era il loro capo, il più intelligente, l'unico raziocinante, freddo. Non mi faceva paura, avevo più paura di quello che potevano fare i sardi o Rossi.

Dopo quel giorno non ho più avuto modo di entrare in contatto con l'infermeria e addirittura ad un certo punto mi fu anche impedito l'ingresso al carcere. Ci rimasi malissimo perché quello era il mio luogo di lavoro, un po' come casa mia e invece mi esclusero dicendo che ero persona non gradita".

Secondo Papi quello della rivolta è stato un episodio isolato e pochi giorni dopo la resa, tutto è tornato come prima: "È stato solo Mario Tuti che voleva rispolverare il mito politico e voleva farsi un po' di pubblicità. Il paese era in stato d'assedio, c'era una gran confusione di giornalisti, turisti, magistrati e curiosi".

A Maurizio Papi questo tentativo di evasione è costato caro: 34 avvisi di garanzia, decadenza dal ruolo di sindaco e, nella primavera del 1988, la perdita del posto di medico nella Casa di Reclusione. Ma al di là di tutto questo e anche oltre l'amarezza, resta la maggiore delle soddisfazioni: "Che tutti siano usciti vivi e che appena rilasciati mi dimostrarono un grande affetto; infatti gli agenti vennero subito a salutarmi e a trovarmi a casa. Anche questa vicenda ha avuto il suo lato piacevole".

3. Antonietta Fiorillo. Un magistrato in prima linea. Arrivata a Porto Azzurro mercoledì 26 agosto, la dottoressa Fiorillo è stata una degli artefici della trattativa: "Trovai già sul posto il collega procuratore di Livorno, Arturo Cindolo, il quale era arrivato a Porto Azzurro il giorno precedente. Aveva portato avanti la cosa nel modo migliore; è stato straordinario perché erano momenti difficili da affrontare e anche commettere l'errore più piccolo e banale poteva voler dire la strage. Il dottor Cindolo è una persona eccezionale, di grande equilibrio e proprio grazie a questo è riuscito a vincere l'ansia interventista dello Stato". La dottoressa Fiorillo conferma che i piani d'attacco erano già stati studiati, ma per le difficoltà tecniche dell'intervento era inevitabile la morte di alcune persone asserragliate nell'infermeria: "Mercoledì lo Stato aveva deciso di intervenire e invece per fortuna fu portata avanti la linea della trattativa. Quando arrivai mi unii subito al collega Cindolo per stabilire contatti telefonici con i rivoltosi. Erano loro che decidevano tutto: le modalità e l'orario delle conversazioni. Noi dovevamo solo tenerci sempre pronti, aspettare pazientemente che si decidessero a chiamare e a parlarci. Il telefono che utilizzavamo era quello dell'ufficio del direttore, è da lì che trattavamo con i rivoltosi. Si alternavano Mario Tuti e Ubaldo Rossi, ma noi preferivamo avere contatti con il genovese perché fra tutti era quello più razionale e più intelligente. Tuti non ragiona, è un vero amorale, non ha regole morali. Durante la rivolta ha anche sparato due colpi di pistola, uno al giudice Domenico Sica e l'altro per poco non centra il direttore Giordano".

Il magistrato di sorveglianza Fiorillo parlò con Tuti non appena egli venne trasferito dal carcere di Cuneo a quello di Porto Azzurro: "Chiese un colloquio con me perché aveva bisogno di lavorare in carcere par mantenersi gli studi universitari; io mi resi conto immediatamente di che tipo di persona fosse rimasto. Anche nel mio ufficio si disse pronto a togliere di mezzo persone che potevano rappresentare degli ostacoli e che davano noia; è evidente che un uomo che fa una dichiarazione del genere non è assolutamente sulla via del recupero, come avevano relazionato dal carcere di Cuneo". Non è da escludere il fatto che Cuneo volesse sbarazzarsi di un personaggio scomodo come Mario Tuti, e una relazione positiva poteva essere l'occasione buona per ottenere il suo trasferimento. Tuti non era assolutamente recuperato e secondo la dottoressa Fiorillo si poteva capire che era ancora pronto a creare disordine, disposto a tentare una evasione e magari un sequestro. I gesti estremi non fanno paura a uno come lui.

"Tuttavia, quel che è sicuro, è che il Tuti non è stato l'organizzatore del tentativo di fuga poiché era a Porto Azzurro da troppo poco tempo, e anche se conosceva già quella struttura, non aveva avuto il tempo di organizzare un piano di evasione. Piuttosto si è aggregato a un gruppo di detenuti che aveva studiato la situazione con maggiore cura. Probabilmente il piano era di Ubaldo Mario Rossi, la vera mente del gruppo". Ricordiamo che i sei ribelli hanno sempre detto di non avere un capo, ma che agivano tutti in accordo e in unione fra loro, solo i mass media e l'opinione pubblica avevano 'scelto' Mario Tuti come capo della rivolta.

A questo proposito sembra avallare la dichiarazione del magistrato di sorveglianza anche una frase pronunciata da Rossi subito dopo la lettura della sentenza di primo grado: "Tuti non è il capo di nessuno. Se mai avessi bisogno di un capo me lo sceglierei da solo".

Affrontiamo in modo approfondito il problema del trasferimento di Tuti a Porto Azzurro, decisione che ha suscitato non poche polemiche dopo il tentativo di fuga dal carcere elbano. Antonietta Fiorillo ci fornisce una spiegazione: "Le notizie riguardanti Tuti che arrivavano da Cuneo erano positive quindi la decisione di spostare il terrorista all'isola d'Elba era assolutamente plausibile. Piuttosto qualche dubbio mi rimane su un altro trasferimento, quello dei sardi, gente sanguinaria che poco tempo prima aveva ucciso un altro detenuto presso il carcere dell'Asinara. Ecco qual è il trasferimento azzardato, non quello di Tuti. Comunque, al di là di questo, Porto Azzurro non è affatto un carcere 'allegro' come sostengono alcuni, anzi è un carcere che vive nel pieno rispetto delle regole, un rispetto di cui sono io stessa testimone, dal momento che ho lavorato lì per otto anni e ho potuto constatare di persona il funzionamento di quel carcere modello, non allegro. Un carcere speciale, di un'altra categoria, il più avanzato anche grazie a un direttore che era orientato al recupero del detenuto.

Cosimo Giordano prese in mano un carcere che già funzionava bene e lui ha mantenuto la situazione; Giordano è un uomo di grande capacità ed interesse, che conosce il diritto, e fu il primo ad applicare alla perfezione la "Legge Gozzini".

I detenuti avevano grande rispetto di quest'uomo, rivoltosi compresi, e se il direttore non fosse stato Giordano probabilmente la rivolta si sarebbe conclusa in ben altro modo. Con lui il carcere era vivo grazie alle sue intuizioni e iniziative: le tavole rotonde, i congressi, il concerto di Guccini e soprattutto quello di Dalla, al quale hanno assistito quasi duemila persone, fa gente comune e detenuti, insieme ad ascoltare il concerto, senza celle, senza divisori. Se quel carcere fosse stato 'allegro' e al di fuori del rispetto delle regole, un evento del genere non sarebbe stato possibile. Non c'è stato il minimo contrattempo, non è accaduto alcun tipo di disordine".

A volte succede che lo Stato perde gli uomini migliori mentre è alla ricerca di un capro espiatorio. Così - secondo Antonietta Fiorillo - è successo con Giordano: "Dopo la rivolta del 1987, il direttore è stato cacciato con grande rammarico di tutti, dalla Magistratura ai detenuti. Ma era necessario trovare qualcuno che pagasse. Una decisione difficile da accettare tanto più che, oltre ad essere stato uno degli ostaggi, Giordano aveva dato anche l'idea della trattativa da basare sugli affidamenti e delle concessione sulla base della "Legge Gozzini". Se la vicenda di Porto Azzurro si è conclusa felicemente dobbiamo ringraziare proprio colui che è stato punito".

Le polemiche che ci furono al momento della concessione dei benefici ex art. 21 della nuova legge penitenziaria, a quasi dieci anni di distanza, sono molto più facili da spiegare e soprattutto possono essere valutati. Quei benefici non sono mai stati concessi, benefici che dovevano presupporre la buona condotta: "Era assurdo premiare dei detenuti che prima avevano tentato l'evasione e poi avevano catturato degli ostaggi tenendoli prigionieri per una settimana. Ma lo sapevamo benissimo che non ci sarebbero state concessioni, e lo sapevano bene anche i detenuti ribelli".

Cacciato il direttore, cacciato il sindaco. E poi? "Per fortuna io e il Presidente Margara siamo riusciti a bloccare un provvedimento ancora più assurdo degli altri due: avevano deciso di mandare via da Porto Azzurro venti detenuti. Un trasferimento che ci sembrava assolutamente incomprensibile visto che tutti gli altri detenuti si erano immediatamente dissociati dall'azione di quei sei e nessuno aveva mai condiviso quel gesto assurdo. Il comportamento di tutti gli altri detenuti fu esemplare, anche considerando che sono stati ammassati in 200 celle soltanto e con poco cibo per diversi giorni. Il trasferimento di una ventina di loro era assurdo e per fortuna fu evitato grazie ad una lettere mia e del dottor Margara. Così la vendetta del ministero si scagliò solo contro il direttore del carcere, trasferito a Torino, e contro il sindaco Papi, sollevato da ogni incarico.

"Al posto di Giordano è stato chiamato Domenico Nucci, il quarto vicedirettore di Sollicciano, uno ligio alle regole e soprattutto molto giovane, e adesso quello di Porto Azzurro è un carcere assolutamente normale, sia come tipologia di detenuti che come amministrazione, mentre prima era di una categoria superiore a livello organizzativo e di gestione. Poche persone hanno la stessa energia e capacità di Cosimo Giordano, le stesse intuizioni e il coraggio di metterle in pratica".

4. Il Presidente Alessandro Margara. Figura centrale nella vicenda di Porto Azzurro è stato il Presidente della Magistratura di sorveglianza, Alessandro Margara. Profondo conoscitore del sistema carcerario e delle sue regole, circa il trasferimento di Mario Tuti nella Casa di Reclusione elbana, Margara afferma: "Fu un grosso errore mandare Tuti in un carcere così; è vero che c'erano degli ex differenziati, ma con Tuti è un'altra cosa e quello era un carcere troppo aperto per uno come lui. Non si poteva sapere quanto fosse realmente fuori dalla criminalità, e infatti l'episodio di Porto Azzurro ha dimostrato che era ancora in piena attività. Tuti è un impulsivo, uno perennemente eccitato e assolutamente irrazionale, non c'è mai da fidarsi di lui. Un folle che se come scopo aveva quello di stare al centro dell'attenzione, ci è riuscito benissimo. Un esibizionista, mentre altri, insieme a lui durante il sequestro, erano molto più concreti. Ad esempio Rossi era uno che aveva la testa e Tolu era il classico vecchio galeotto, una persona assolutamente grigia fino a quel giorno, e infatti risultò anche strano che avesse partecipato ad una missione del genere.

Si è trattato di un episodio molto grave, ma che fortunatamente si è concluso nel migliore dei modi; in ben altra maniera andarono le cose ad Alessandria nel 1974 (2) e a San Gimignano nel 1975, dove il sequestro durò solo un giorno ma ci fu la morte di un detenuto; a Porto Azzurro invece non c'è stato nemmeno un graffio.

Anche al penitenziario elbano era previsto un blitz nei primi giorni, ma alla fine vinse la linea della trattativa e tutto si è concluso per il meglio, grazie all'ottima gestione della vicenda, grazie alla forza e alla capacità di alcune figure centrali dello Stato e della magistratura. Molto presente il ministro Vassalli, brillante Nicolò Amato; e poi la dottoressa Fiorillo, il ministro Gozzini e soprattutto Arturo Cindolo, ora Presidente della sezione penale della Corte d'Appello di Firenze. Però l'idea della possibilità di applicare i benefici previsti dalla "Legge Gozzini" venne al direttore Giordano il quale era sotto sequestro. La proposta è venuta da Giordano, ma poi fu cavalcata molto abilmente da Amato e con molto più distacco anche da Cindolo. Quest'ultimo fu rimpiazzato in un secondo momento da Costanzo che arrivò sull'isola. I contatti comunque li teneva per la maggior parte Amato, il quale aveva titolo per farlo, e in questo fu molto bravo, semmai ha sbagliato successivamente quando si è accanito contro il direttore Giordano, anche senza motivo perché, oltre ad essere stato veramente fondamentale nella risoluzione del caso, le cose si erano risolte al meglio e non c'era forse nemmeno bisogno di trovare un capro espiatorio. Cosimo Giordano è stata la vera vittima della 'rivolta' di Porto Azzurro, è stato bistrattato; una cosa indegna e assolutamente incomprensibile perché Giordano in quei giorni fu praticamente l'agente dello Stato lì dentro. Ci doveva essere un responsabile e hanno preso lui".

Oltre al trasferimento azzardato di Mario Tuti e al trattamento riservato al dottor Cosimo Giordano, l'episodio di Porto Azzurro ha sollevato un'altra importante questione di ordine più strettamente legislativo e giurisdizionale: l'applicazione di benefici previsti dalla "Legge Gozzini" a detenuti non assoggettabili ai vantaggi previsti dal nuovo ordinamento, vista la non sussistenza del presupposto della buona condotta. La risposta del dottor Margara è più che chiara: "L'amministrazione in quella occasione non si impegnava per i benefici, ma parlava unicamente di possibilità. Diceva a quei detenuti ribelli che essi avrebbero avuto le medesime possibilità degli altri detenuti. Lo stesso trattamento nonostante il sequestro che era in corso. Soprattutto avrebbero potuto avere, così come gli altri detenuti, la possibilità di un lavoro, ad esempio su un'isola, e questo a Tuti interessava molto.

Però l'amministrazione stava attenta a non dire che c'era una promessa vera e propria, c'era semplicemente la possibilità. E il ministro stava attento anche a non dire che alla trattativa partecipava Margara poiché la Magistratura è quella che avrebbe dovuto decidere in un secondo tempo; anche se l'articolo 21 è di competenza dell'amministrazione e c'è solo il controllo del magistrato".

E proprio perché durante la trattativa non sono mai state date garanzie e non sono mai state fatte reali promesse, ma solo 'affidamenti', ai sei autori del sequestro non è mai stata fatta nessuna concessione (3): "È stato solo un modo per salvare la faccia a entrambe le parti, è stata una finezza italiana. Il discorso reggeva e tutti i protagonisti della vicenda potevano uscirne bene e a testa alta. Una trattativa portata avanti, più che con i discorsi fatti, con le cose non dette, ma capite".

5. Cesare Pellino. Cinquant'anni, napoletano, lavorava a Porto Azzurro dal novembre del 1955, quasi trentadue anni di servizio nella Casa di Reclusione elbana.

A chiamare in causa il Pellino fu Giampaolo Marrocu. Secondo le dichiarazioni del ragazzo infatti sarebbe stato l'agente a introdurre le armi all'interno del penitenziario facendole entrare con l'auto dalla porta principale di Forte San Giacomo. Le armi insomma, fornite a Cesare Pellino dai due fratelli Marrocu, sarebbero state nascoste in un sacchetto contenente del pesce, pesce che Pellino, addetto al sopravvitto, aveva acquistato, come al solito, per conto di alcuni detenuti.

I giornali non si sono risparmiati, grandi titoli e grandi etichette: "Ha dato le armi ai detenuti", "Preso l'agente talpa" (4).

Andiamo a conoscere dunque il 'reo' Pellino, assolto in primo grado per insufficienza di prove e in secondo grado per non aver commesso il fatto. Il nostro appuntamento è al "Bar Corinto", ore 14 in punto. Presentazioni e introduzione: "Guardi signorina, io con la rivolta non c'entro nulla, si figuri che ero anche in ferie il giorno in cui è iniziata!". È anche il dopo rivolta che a noi interessa e con quello Pellino, per sua sfortuna, c'entra eccome!

"Allora le dico che al 99,9% le armi dentro il carcere le ho portate io". Naturalmente a sua insaputa. Ma andiamo per ordine.

"Alle ore 11 del 4 settembre ero al Forte, mi chiamarono, mi dissero che ero accusato di aver portato ai sei rivoltosi le armi usate per la tentata evasione e mi accompagnarono al Commissariato di Portoferraio. Da lì mi trasportarono poi a Marina di Campo dove mi aspettava un elicottero diretto a Firenze. Cercavano un capro espiatorio per mettere a tacere l'opinione pubblica e avevano scelto me".

Mentre Cesare veniva trasferito, in casa Pellino entravano gli agenti e sequestravano ogni cosa, lasciando 500.000 in tutto per la moglie, la figlia e la suocera di ottantadue anni.

"Non avevo l'avvocato ovviamente e me ne assegnarono uno d'ufficio. Era una ragazza che non aprì nemmeno bocca.

Fu Pier Luigi Vigna ad interrogarmi. Iniziò affermando che sapevano con certezza che ero stato io a portare le pistole e i coltelli dentro il carcere e che dovevo solo spiegare il come e il perché. Io non sapevo nemmeno chi fosse questo Vigna e quando mi sentii fare un'affermazione del genere andai su tutte le furie; ciò è andato sicuramente a mio svantaggio. Fu fatto il verbale e io lo firmai verso mezzanotte, mi consigliarono di aspettare prima di firmare per vedere se mi veniva in mente qualche particolare che avrebbe potuto scagionarmi. Non mi ricordai nessun fatto strano o rilevante e così controfirmai quel verbale".

I ricordi arrivarono qualche giorno dopo: "Una mattina ero sulla branda della mia cella, stavo fumando ed ebbi un lampo, una specie di visione perché vidi mia mamma sorridente passare davanti alle sbarre. Capisco che sembra impossibile, ma andò proprio così. In quel momento mi si accese una lampadina e mi venne in mente un particolare importantissimo: la mattina del martedì prima che avvenisse il tentativo di evasione, alle 6:30, quando arrivai al carcere, c'era già al cancello un detenuto ad aspettarmi; era Marco Guidi. Ricordai di essermi sorpreso nel vederlo già lì ad aspettare il pesce che portavo e ricordo che glielo feci anche notare. Appena mi venne in mente questo episodio chiamai la guardia e chiesi di parlare col magistrato. Mi dissero che non era possibile, dovevo fare una memoria. Così feci".

Quindi Cesare Pellino, dopo aver pensato a lungo come possano essere entrate le armi dentro la Casa di Reclusione, si è convinto del fatto che i fratelli Marrocu abbiano aperto la sua macchina quando era parcheggiata sotto casa e vi abbiano messo le armi nascondendole sotto il pesce. Lui stesso poi, presa l'auto, avrebbe guidato fino a dentro Porta San Giacomo, ovviamente senza nessun controllo essendo un agente di custodia. Avrebbe quindi condotto le armi dentro il penitenziario, inconsapevolmente.

"Il pubblico ministero in prima udienza chiese per me sedici anni di reclusione, ma un'ora prima che venisse letta la sentenza mi venne a dire che la sera sarei andato a casa mia. Ma ancora più incredibile fu il processo d'appello perché presi uno degli avvocati più bravi del momento, il Prof. Cristiani, quello che seguì anche il maxi processo di quel periodo, e non me lo fecero nemmeno parlare; spesi sette milioni praticamente per far stare zitto il mio avvocato perché la Corte di Firenze disse che era già convinta della mia assoluzione con formula piena e che bastavano gli atti e le prove del processo di primo grado per decidere in quel senso; anzi rimasero alquanto sorpresi che non lo avesse fatto già il Tribunale di Livorno".

A Cesare Pellino l'episodio di Porto Azzurro è costato venti milioni di spese legali e soprattutto 89 giorni di reclusione: "A volte ci penso ancora, la notte mi sveglio come se avessi un incubo. Anche mia moglie è rimasta molto scioccata, non si è più ripresa, si è ammalata di cuore.

Tre mesi di dolore e di umiliazioni. Umiliazioni che venivano dai miei stessi colleghi, dagli agenti con cui avevo anche lavorato. È stato pazzesco, incredibile a raccontare; mi ricordo in particolare un episodio: dovevo passare una visita medica per il mio problema di extrasistole e prima che entrassi in infermeria mi fecero spogliare tutto nudo per perquisire la mia roba e cominciarono a controllare partendo dal maglione e finirono con i calzini; poi quando uscii dalla visita, alla quale devono assistere per forza anche delle guardie, mi fecero spogliare e mi perquisirono di nuovo allo stesso modo, ovviamente senza alcun motivo.

Avevo poi una guardia fissa davanti alla porta e mi portavano da mangiare la roba ancora con la brina del congelatore sopra, mentre Tuti e gli altri erano trattati come dei signori. Mi hanno umiliato, si sono voluti divertire con me.

Sono stato rinchiuso dal 6 settembre al 7 ottobre nel carcere di Roma e poi in quello di Livorno fino al 3 dicembre. Sono stati dei giorni terribili, ma il mio avvocato mi aveva consigliato di non richiedere gli arresti domiciliari perché diceva che era meglio non chiedere favori, tanto era per poco. Ma intanto lui andava a casa e lì ci rimanevo io. È facile a dirsi. Anche Tuti rimase sconcertato quando gli dissi che anch'io restavo in carcere con loro.

E poi oltre all'umiliazione del carcere, i titoli dei giornali, soprattutto de 'Il Tirreno', le mie figlie che andavano a scuola, facevano l'Università e non so cosa hanno dovuto sopportare. A questo si aggiunge che avevano sequestrato tutta la roba alla mia famiglia e mia moglie si è trovata spesso a dover andare a raccattare qualche soldo in qua e là per il paese. Meno male che ho tanti veri amici che ci hanno aiutato e sostenuto in quei momenti, anche perché lo sanno tutti come sono io e che non sarei mai stato capace di compiere un'azione del genere. E infatti la sera in cui sono tornato a casa c'erano al portone trecento o quattrocento persone ad aspettarmi. Ho avuto tante prove di affetto e di solidarietà".

6. La stampa.

6.1. Luciano Olivari. Il primo giornalista a giungere sul posto fu Luciano Olivari de "La Nazione".

Olivari è di Marciana Marittima e si occupava di cronaca, era l'inviato del giornale toscano all'isola d'Elba. In un paesino come Porto Azzurro fa notizia un vigile che fa una multa, e così non appena Olivari seppe che qualcosa di importante stava per accadere, si precipitò sul posto e fu il primo ad appostarsi sotto il carcere. Era in pratica il suo primo servizio importante e per questo ricorda ancora perfettamente quanto è accaduto: "Come sono venuto a sapere che c'era una rivolta in corso non posso dirlo, ma posso assicurarvi che fin dai primi momenti il clima era molto teso e, anche se ancora all'esterno non c'erano dei particolari segnali che indicavano uno stato di agitazione, c'era la sensazione che qualcosa stesse per accadere. Le motovedette già allontanavano le imbarcazioni dal golfo e a me si avvicinarono dei carabinieri con il mitra spianato per dirmi di stare alla larga.

La paura? In quei momenti chi ha lo spirito del giornalista non sente paura, la notizia lo trascina perché sa che c'è qualcosa di grosso e che deve sapere tutto e subito. Sentii l'istinto dell'inviato, che ti porta ad agire ancora prima che a pensare al pericolo. Nelle ore successive arrivarono tanti altri colleghi di tutte le testate e altri del mio giornale, in particolare Stefano Cecchi. Per non allontanarci dal posto, per essere sulla notizia che poteva giungere da un momento all'altro, io e Cecchi siamo stati tutta la prima notte della rivolta dentro una Panda, con dei biscotti all'arancia e acqua minerale; fortunatamente era estate e non faceva freddo.

Almeno per i primi due giorni, dal carcere non arrivavano notizie, due giorni drammatici in cui non sapevamo niente, né quanti erano ad agire, né cosa avesse in testa Mario Tuti. Nessun movimento, nessuna intenzione trapelava dalla fortezza e le forze dell'ordine ci tenevano molto distanti da entrambi gli ingressi del carcere. Il nostro punto di ritrovo era il 'Rock bar' (5); da lì cercavamo di mettere insieme qualche notizia, ma la verità è che non avevamo praticamente niente in mano perché la magistratura non rilasciava dichiarazioni e la distanza dalla struttura carceraria non ci permetteva di essere completamente sulla notizia. Solo l'ultimo giorno ci fecero entrare nell'androne della Casa di Reclusione, ma per il resto solo qualche conferenza del sindaco Papi, alcune interviste ai parenti degli ostaggi e di quelle dei rivoltosi, ma poco più; allora prendevamo spunto dalle piccole cose, da qualunque minimo movimento, dovevamo fare tutto da soli".

Pochi minuti per le ultime riflessioni: "Ho ancora davanti agli occhi il contrasto e la contrapposizione che viveva il paese di Porto Azzurro in quei giorni: la drammaticità all'interno del carcere, trasformata in spettacolarizzazione all'esterno con babbi in costume che portavano i bambini con braccioli e ciambella ad assistere a scene raccapriccianti come la crocifissione degli ostaggi".

6.2. Enzo Bucchioni. Giornalista de "La Nazione", Enzo Bucchioni era capo redazione a Sarzana quando il vice direttore Franchini lo chiamò alle 11.45 e gli disse che alle 12.30 sarebbe partito un aereo da Pisa diretto all'isola d'Elba. I traghetti non partivano a causa del mare mosso e l'aeroplano era l'unico modo per raggiungere il carcere di Porto Azzurro e seguire la rivolta. "Non feci nemmeno la valigia - racconta Bucchioni - dovetti partire immediatamente e alle 15 mi trovavo già sul posto. Ricordo tanto caldo e polvere, una grande agitazione, le risse e le litigate fra noi giornalisti, un numero indefinito di poliziotti che non ci faceva avvicinare al carcere. Di conseguenza anche le notizie erano frammentarie, si andava per sentito dire, non c'erano né comunicati né conferenze. Non sapevamo niente e regnava solo una gran confusione. Quando poi arrivò la notizia che fra i rivoltosi c'era Mario Tuti, la tensione aumentò ulteriormente insieme alla curiosità della gente. I primi giorni furono terribili e il primo in particolare; per fortuna mi dette un grosso aiuto il collega Olivari il quale, essendo del posto, aveva diverse conoscenze oltre ad essere esperto della zona.

La prima notte dormimmo in macchina perché gli alberghi non avevano nemmeno una camera libera, la seconda sera invece trovammo un albergo a Portoferraio, ma in pratica eravamo sempre sotto la Casa di Reclusione, lavoravamo venti ore al giorno, sempre a caccia di notizie e aspettando che accadesse qualcosa; del resto, non sapendo ancora esattamente come stavano andando le cose là dentro, quanti erano gli ostaggi, quanti i rivoltosi e il perché dell'episodio, dovevamo stare sempre pronti, sempre all'erta visto che qualcosa poteva accadere da un momento all'altro. Dormivamo due o tre ore per notte.

Nei primi giorni le notizie venivano date da Maurizio Papi, il sindaco del paese, che faceva da tramite fra l'interno del carcere e noi giornalisti a cui il carcere era assolutamente precluso. Avevamo improvvisato una sala stampa all'aperto, precisamente al 'Rock bar' vicino al porto e ai piedi del penitenziario, eravamo un centinaio di giornalisti e dovevamo scrivere ognuno 4-5 articoli al giorno, avevamo davvero un gran lavoro da svolgere con mezzi veramente ridotti e antiquati: una macchina da scrivere e una piccola redazione a Portoferraio da dove trasmettevamo i pezzi a Firenze.

Inoltre finché non vennero svolti i primi interrogatori, noi non sapevamo assolutamente che la reale intenzione di quei sei detenuti fosse quella di evadere e per questo motivo abbiamo sempre usato il termine di rivolta, anche impropriamente. Che si trattava di un tentativo di evasione venne fuori solo dalle dichiarazioni di Tuti e degli altri cinque, quando l'episodio si era già concluso".

Enzo Bucchioni ha seguito anche il processo relativo alla vicenda e la sua impressione a riguardo non è positiva: "Un processo fatto in fretta e in modo approssimativo, senza mai andare in fondo alla cosa. Ero presente anche il giorno in cui Giampaolo Marrocu ripercorse il tragitto dal mare al carcere passando dal bastione che circonda il penitenziario. In quel modo doveva mostrare come erano entrate le armi all'interno della Casa di Reclusione, riuscì a fare la scalata in presenza dei magistrati e di 6-7 giornalisti, ma nessuno ha mai creduto a questa versione. Personalmente sono stato sempre convinto della complicità dell'agente di custodia Pellino o comunque di qualcuno che stava dentro".

Qualche impressione anche riguardo agli imputati di quel processo: "I fratelli Marrocu erano dei perfetti cretini, senza testa e senza personalità; Rossi invece sembrava una persona molto intelligente, glaciale; e poi Mario Tuti con il suo sguardo che ti scava e soprattutto con la sua minaccia nei miei confronti. Infatti entrai in Tribunale il giorno della prima udienza e lui dalla cella mi disse: "Quando esco ti sistemo". So che si era offeso per un mio articolo di colore, lo avevo ridicolizzato parlando del suo abbigliamento e della sua pancia. Me ne andai in silenzio".

6.3. Alessandro Fiesoli. "Arrivai a Porto Azzurro la seconda sera della rivolta e trovai una situazione molto particolare. Un contrasto di mitra e bikini, fra cosa accadeva là dentro e il luogo di villeggiatura. Il turismo, normalmente associato a quiete e tranquillità, fu soffocato da quell'evento e il contrasto era singolare e bizzarro. C'era una confusione quasi indescrivibile: le sirene, una miriade di poliziotti, parenti che volevano sapere, curiosi....

Stavamo sempre appostati aspettando che accadesse qualcosa, a qualsiasi ora poteva nascere la notizia. Per i giornalisti fu uno degli ultimi episodi importanti affrontati con le vecchie tecnologie; quasi nessuno aveva il computer ed era molto più complicato lavorare. Basta pensare che la sala stampa era stata praticamente allestita sui tavoli all'aperto del 'Rock bar'.

Molto materiale comunque ci venne fornito dal sindaco Papi con il suo 'Partito dell'elicottero' e le sue dichiarazioni. Lo ricordo come un tipo molto energico che si era trovato di colpo al centro dell'interesse generale e non era preparato. Al contrario invece chi non parlò mai fu Rossella Giazzi, l'unica donna ostaggio, la quale fu addirittura portata via con un furgone di una ditta alimentare per confondere le idee, forse la portarono in una villetta su una collina sopra Porto Azzurro e così ha sempre evitato di parlare con la stampa".

7. L'assistente sociale dott.ssa Rossella Giazzi. Lavora a Firenze presso il Provveditorato Regionale per l'Amministrazione Penitenziaria e di entrare in un carcere per svolgere le funzioni di assistente sociale non ne vuol più sapere: "Il mio intento, fin dall'inizio, fu quello di fuggire al più presto da quell'episodio. Una fuga dai ricordi, una fuga dal lavoro. Volevo soltanto dimenticare tutto in fretta e non parlare di quella vicenda, anche se ormai purtroppo fa parte della mia vita. Non appena tornai a casa, feci una causa di servizio e chiesi il trasferimento. L'amministrazione mi riconobbe l'invalidità psicologica, ma il provvedimento è tuttora solo provvisorio e rischio di essere richiamata a svolgere l'incarico di assistente sociale e di dover decidere sul comportamento e l'attitudine dei detenuti, senza più avere ovviamente la serenità professionale per svolgere un compito delicato come questo. Il mio lavoro adesso è burocratico, non me la sentirei di tornare all'incarico originario e mi sono anche inasprita nei confronti dell'amministrazione dal momento che non è mai arrivato il trasferimento definitivo.

In quel periodo in pratica andavo all'interno della Casa di Reclusione di Porto Azzurro quattro volte al mese per svolgere un lavoro di osservazione e trattamento nei confronti di alcuni detenuti; il mio compito era quello di esaminare il detenuto e svolgere un'inchiesta più che altro socio-familiare, per valutare le potenzialità di accesso alle misure alternative. Quel giorno non dovevo nemmeno essere lì.

Quando mi sequestrarono ero esattamente fra il primo e il secondo cancello che immette al carcere, i sei detenuti stavano andando verso l'uscita per evadere. Poi invece ci fu un cambiamento di programma perché la fuga non riuscì e ci portarono tutti nell'infermeria al quarto piano.

Non ho certamente un ricordo romantico di quei giorni, ho avuto molta paura e in alcuni momenti sono stata presa anche dalla disperazione, anche se poi tutto quanto, compresa la mia fragilità emotiva, è stato montato e accentuato dagli organi d'informazione. È stato necessario anche chiarire alcune cose completamente travisate e inventate dai giornali e dalla televisione. Hanno enfatizzato e distorto molte cose, lo so bene perché anche lì dentro avevamo la televisione accesa ininterrottamente e arrivavano anche i giornali; credo che tutto questo clamore creato intorno alla vicenda abbia contribuito a portare maggiore pericolo per noi ostaggi. L'esasperazione dei mezzi di comunicazione è sempre dannosa".

E a livello di sensazioni che cosa è rimasto? "Le emozioni di quei momenti non sono vive del tutto, anche perché ho cercato di dimenticare, ma ricordo una grande paura nonostante che il comportamento nei miei confronti fosse particolarmente positivo. Avevano tutti un occhio di riguardo, ma in fondo di me c'era la consapevolezza di essere sempre fra la vita e la morte.

Da principio, la paura più grossa era rappresentata da ciò che potevano fare i nostri sequestratori, poi nei giorni successivi ha prevalso il terrore di un blitz dei NOCS. Sicuramente io speravo che l'elicottero non fosse concesso perché altrimenti mi avrebbero portato via con loro, del resto ero l'ostaggio più importante come unica donna che poteva sensibilizzare particolarmente l'opinione pubblica. Rappresentavo un simbolo, un ostaggio importante. Da questo punto di vista quindi mi strumentalizzavano perché facevo loro comodo, ma sotto un altro aspetto mi rivolgevano attenzioni particolari, non mi hanno mai legata e anzi usavano con me parole di conforto e cercavano di tranquillizzarmi. In questo, oltre che nel resto, furono molto bravi il direttore Giordano e il dottor Carlotti.

La sensazione era che a comandare fossero Tuti e Rossi, mentre tre sardi facevano solo opera di manovalanza. Insomma i soggetti più pericolosi contavano di meno. Tuti è al di là del bene e del male, intelligente e delirante contemporaneamente.

Il primo giorno di prigionia fu terribile e piansi molto, poi invece la tensione si è allentata, e siamo passati da un clima di guerra a uno di trattativa. Durante la contrattazione furono molto bravi tutti i magistrati e ci fu una grande opera di integrazione e di collaborazione fra l'interno e l'esterno dell'infermeria.

Al momento della liberazione, mio zio studiò un piano per farmi venire via senza rilasciare dichiarazioni e per evitare i fotografi: mi fece uscire nel furgone per alimenti della ditta di mantenimento, un furgone con i finestrini alti e così nessuno mi vide. Mi portarono in una casa colonica nell'entroterra elbano, verso Rio Marina, e poi nel tardo pomeriggio, quando la ressa di fotografi e giornalisti si era dissolta, ripartii per Firenze".

8. L'ostaggio Luciano Baffoni. Dieci anni sono pochi per dimenticare le violenze, le minacce, le crocifissioni e la paura di quei giorni, tanta paura. Luciano Baffoni fu uno degli agenti sequestrati dai sei rivoltosi, uno degli ostaggi che in quei giorni furono legati, imbevuti di alcool e appesi alle finestre. Eppure Baffoni è ancora a Porto Azzurro, prigioniero della sua scelta di vita e della sua passione per quel lavoro che ha già dimostrato quanto, da un momento all'altro, possa divenire pericoloso. È proprio nella Casa di Reclusione che il direttore Nucci mi presenta l'agente di custodia. Non parla volentieri, ma parla. Sembra quasi che le parole non vogliano uscire, è troppo difficile rivivere quei momenti soprattutto per uno che vive tuttora la vita del carcere. "È una esperienza che si vuole solo rimuovere per chi come me ha indosso la divisa. Il nostro è un lavoro particolare e se lo si fa per scelta è proprio per stare a contatto con altre persone. È un lavoro che ti gratifica, ti dà molta soddisfazione, insomma non è un lavoro in banca. Quello che conta in questo tipo di mestiere è l'aspetto umano che è sempre gratificante.

Penso a quella vicenda con molta amarezza perché viene inevitabilmente fuori un aspetto negativo: qualcosa non ha funzionato, c'è stato comunque un errore. Gli errori commessi non si riferiscono a cose particolari, ma ad esempio al comportamento tenuto anche da noi guardie. Le cose avevano preso una certa direzione, c'era un determinato modo di intendere e di trattare il detenuto; ci era stato insegnata e indicata una certa strada da seguire e spontaneamente e in modo naturale noi della polizia avevamo abbassato la guardia.... e poi ci mandano uno come Tuti. Questo è incoerente.

Per fortuna che quel sequestro è andato a finire bene, ma tutto grazie a come è stata gestita la cosa dal di dentro, le soluzioni sono arrivate da noi che eravamo sequestrati perché se dovevamo aspettare che qualcuno si muovesse dall'esterno.....La bravura di persone che sono riuscite a trovare una soluzione e la possibilità di far uscire in modo onorevole tutti i protagonisti della vicenda. Tre o quattro persone che hanno trovato la via della salvezza e comunque un insieme di cose che ha funzionato bene, una combinazione di fattori che ha assicurato la vittoria sui sequestratori. Anche tutti gli altri detenuti facevano il tifo per noi.

La paura più grande era quella di un blitz, un attacco dall'esterno che avrebbe sicuramente portato sangue e la morte di qualcuno nell'infermeria. Era una sensazione strana perché da una parte auspicavamo l'attacco affinché tutto finisse in un modo o nell'altro, ma dall'altra parte lo temevamo. I detenuti ribelli ci crocifiggevano alle sbarre delle finestre proprio per cercare di impedire il blitz, ma anche per far vedere all'esterno che non scherzavano. Era un segnale di forza e un sistema per sensibilizzare ancora di più l'opinione pubblica.

È stata un'esperienza traumatica, ma non ho mai pensato di lasciare questo lavoro".

9. L'ostaggio dr. Sergio Carlotti. Anche il medico della Casa di Reclusione fu preso in ostaggio in quella mattina del 25 agosto. L'azione dei sei ribelli era iniziata nella stanza del direttore Giordano, ma poi fallita la fuga, il nuovo luogo d'azione fu l'infermeria, dove stava lavorando proprio il dottor Carlotti.

Alto, con i baffi e i capelli brizzolati, il dottore è molto simile all'ex sindaco Papi: "È vero, anche Mario Tuti mi scambiò subito per il sindaco quando entrò nell'infermeria. Lui era molto contento poiché avere contemporaneamente sotto sequestro il direttore e il sindaco era un bel colpo dal suo punto di vista; invece dovetti dargli una delusione dicendogli che ero semplicemente il medico".

A parte questa curiosità, per certi aspetti divertente, in quella settimana di divertente ci fu ben poco: "Era un periodo molto calmo per il penitenziario, forse il periodo più tranquillo, non succedeva mai niente e anche per questo motivo quell'episodio fu come un fulmine a ciel sereno. Mi ricordo che la mattina del 25 agosto arrivò una telefonata in infermeria dicendo che c'era qualche problema. Io e l'infermiere Colandrea continuammo a svolgere il nostro lavoro, non potevamo sapere di che entità e di quale grandezza fosse il problema. Dopo un po' ci siamo affacciati alla finestra e abbiamo visto un agente che ci faceva un segnale poco incoraggiante con la mano e a quel punto abbiamo cominciato a preoccuparci un po'. Lino Cilandrea, che è una persona molto intelligente e pronta, fece una telefonata per avvertire le guardie carcerarie di non aprire per nessun motivo (nemmeno se il direttore fosse stato prigioniero) i cancelli che dividono le sezioni. Consigliò di dire che le chiavi non c'erano perché erano state buttate al piano di sotto; in quel modo i detenuti ribelli sarebbero rimasti isolati. Gli agenti invece, par la paura, aprirono immediatamente tutti i cancelli e molto presto arrivarono fino all'infermeria. A dire la verità, credo che le guardie in servizio dentro le carceri non siano nemmeno preparate a casi di emergenza come questi.

Il momento in cui mi sono sentito più a disagio è stato quando ho visto entrare dalla porta Gaetano Manca, un vero macellaio. Egli soffre di cuore e lo avevo curato diverse volte; in quel momento mi venne in mente quello che mi avevano detto su di lui altri detenuti: dottore, stai attento a Manca perché una volta ha tagliato la testa a un altro detenuto e gliel'ha infilata nel water.

Mi calmai quando vidi Mario Tuti, perché è vero che è un impulsivo e un irrazionale, però in un certo senso ragiona (6). Sicuramente è meglio dei sardi. A volte comunque faceva dei discorsi strani e non sapevo se scherzava oppure no: ad esempio il primo giorno che eravamo sequestrati venne da me a chiedere dove è necessario accoltellare all'addome un agente per farlo morire di una morte lenta. In quei momenti non sai veramente che dire.

Altre volte girava per i corridoi intonando canzoni fasciste, ma la rivolta di politico non ha mai avuto niente e infatti non ci ha nemmeno mai fatto un discorso di stampo fascista, diceva solo che era stato incastrato la sera in cui uccise i carabinieri e che era innocente per quanto riguardava la strage dell'Italicus.

Comunque Tuti non era nemmeno il capo, era Rossi quello che prendeva le decisioni importanti e che moderava Tuti. Il genovese era più pacato e ragionevole.

Il giorno più difficile fu il primo pomeriggio perché temevamo un attacco degli agenti speciali, soprattutto verso le cinque o sei del mattino, poi la tensione si allentò. Lino Colandrea fu molto bravo perché praticamente non dormiva quasi mai e faceva la guardia durante la notte per essere eventualmente preparati in caso di blitz. Teneva un giornale fra le dita e se si addormentava il giornale cadeva e così lui si svegliava. Sapevamo che l'attacco dall'esterno poteva essere vicino perché quel giorno caddero anche dei calcinacci dal tetto e quello voleva dire che qualcuno ci stava camminando sopra.

Io e Giordano ci eravamo divisi compiti per cercare di parlare e tenere calmi i detenuti ribelli: io parlavo con Tuti e lui con Rossi. Parlavamo di tutto e cercavamo di dissuaderli, senza però mai fare richieste esplicite. Noi speravamo nell'elicottero per porre fine al sequestro, anche se a me e al direttore non sarebbe andata molto bene. Infatti ci avrebbero portati via con loro: ci avevano già detto che saremmo usciti tutti quanti incappucciati in modo tale che i poliziotti pronti a sparare non avrebbero potuto sapere chi stavano per colpire. Il piano era fatto. L'unica incertezza era sul mio conto: Rossi mi voleva portare con loro perché gli davo più affidamento dello psicologo che effettivamente era un po' agitato, mentre Tuti non voleva farmi rischiare più di tanto perché un detenuto ammalato gli aveva parlato bene di me, gli stavo simpatico e voleva liberarmi.

Tuttavia lo stato non voleva concedere l'elicottero e noi lo sapevamo perché guardavamo la televisione. Una volta mentre eravamo davanti allo schermo fecero vedere le immagini dei NOCS sopra i tetti e l'imbarazzo fu elevatissimo. Inoltre da fuori non arrivava nessuna idea, nessuna possibilità; per fortuna che ci pensò Giordano e se siamo tutti vivi il merito è sicuramente suo.

Fuori comunque ci furono persone molto in gamba che sapevano come trattare con certa gente; i magistrati furono bravissimi.

L'idea della Legge Gozzini venne a Giordano: eravamo uno di fronte all'altro, sdraiarti sulle nostre brande, e lui mi disse la sua proposta. Io che non conoscevo bene nemmeno il contenuto di tale legge dissi che era una cosa improponibile e che non avrebbero mai accettato; l'idea invece piacque a Colandrea e Giordano decise di proporla ai nostri sequestratori. Loro accettarono e da quel momento la situazione cambiò completamente; eravamo tutti più distesi, ostaggi e sequestratori, eravamo finalmente consapevoli e fiduciosi che tutto finisse molto presto. Anche loro non ne potevano più.

Tuti ci credeva ai benefici e aveva già fatto tutti i suoi programmi.

La sera prima della liberazione sapevamo già che saremmo usciti, ma poi il tutto fu rimandato al giorno seguente, forse perché i sequestratori aspettavano l'arrivo di qualche altra autorità; comunque quella sera cenammo tutti insieme, tutti seduti intorno allo stesso tavolo.

È stata l'esperienza più importante della mia vita, in senso positivo naturalmente. Ha avuto molto peso e sento di essere cresciuto rispetto a prima del sequestro. Non ho avuto paura al momento e non penso mai in modo negativo a questa vicenda. Capisco però che gli agenti di custodia siano rimasti maggiormente impressionati poiché venivano trattati in tutt'altro modo rispetto a noi civili. Venivano legati, imbevuti di alcool e appesi alle finestre. Non c'era parità di trattamento e loro sono rimasti veramente scioccati. È comprensibile. Inoltre Tuti ce l'aveva parecchio con il maresciallo Munno perché non era tornato indietro con l'auto blindata, ma aveva dato l'allarme. Anche su Munno ci sono versioni diverse: qualcuno dice che non sia tornato perché non voleva tornare, altri sostengono che egli volesse rientrare nel carcere ma che gli fu impedito.

Ricordo volentieri quei momenti perché tutto si è concluso bene, l'unico dispiacere è stato l'allontanamento di Cosimo Giordano. Mi è dispiaciuto molto perché avevamo vissuto insieme questa esperienza e eravamo diventati amici. E poi Giordano è venuto a sapere del suo allontanamento attraverso il televideo; lo lesse su una pagina e nessuno glielo comunicò.

10. Il poliziotto Marco Bezzini. Venti anni e in servizio di leva a Firenze: in quei giorni a Porto Azzurro c'era un servizio d'ordine elevatissimo. Rinforzi di tutti i tipi, venuti da tutta la Toscana per supportare gli agenti dell'Isola d'Elba. Un numero indefinito di poliziotti, carabinieri e corpi speciali.

Dal reparto di Firenze partirono una mattina all'improvviso e senza sapere la destinazione, è questa la prima considerazione di Marco: "Ci portarono con l'elicottero fino a Porto Azzurro, senza dirci niente, né darci spiegazioni di alcun tipo, non ci dissero nemmeno dove ci stavano portando. Come se fosse una missione segreta. Quando ci ordinarono di prepararci, dissero di portare il minimo indispensabile e così facemmo, credendo di stare via un giorno soltanto. Invece i giorni furono tanti e non avevamo dietro veramente niente, nemmeno un asciugamano.

Quando arrivammo c'erano già i NOCS e i carabinieri; solo lì ci comunicarono cosa stava accadendo, di cosa si trattava e che eravamo di supporto ai corpi speciali, dovevamo far loro da spalla. Noi eravamo in venti e praticamente dovevamo solo controllare la situazione e stare attenti che non accadesse alcun fatto particolare, insomma facevamo la guardia.

Le condizioni erano precarie perché dormivamo in un stanzone improvvisato, arrangiato con brande sporche e per di più noi non avevamo assolutamente niente per pulirsi e lavarsi. Io non so come, ma avevo il rasoio, però ero talmente arrabbiato con quelli che ci avevano portato lì all'improvviso, che non mi feci la barba apposta. Ci eravamo innervositi parecchio.

Il clima, nonostante che ci fossero degli ostaggi legati alle finestre, era piuttosto calmo e tranquillo e non si vedeva o sentiva niente di particolare. I prigionieri appesi alle sbarre servivano per tenerci buoni e infatti furono un discreto deterrente.

I turni erano più o meno regolari, solo una volta ho fatto la notte per sorvegliare l'elicottero. Mi misero dentro al velivolo e non so se fuori c'era qualcun altro perché era completamente buio e non si vedeva niente. Non stavo molto tranquillo.

L'attacco dei NOCS doveva scattare nei primi giorni, era già tutto pronto e poi loro stessi non vedevano l'ora di intervenire, volevano fare il blitz in tutti i modi. È gente strana, sono tutti molto particolari e a noi sembravamo Dio in terra con tutta quell'armatura. Il passamontagna, le armi speciali e tutto il resto dell'attrezzatura.

Sono persone chiuse, che parlano poco anche per non farsi riconoscere e soprattutto hanno poca paura di morire, sono proti a tutto. Di solito non hanno famiglia e hanno pochi parenti, si allenano in una fortezza speciale in Italia e hanno un po' tutti i brevetti: paracadutista, sommozzatore, alpinista....oltre a sapere maneggiare qualsiasi tipo di arma. E quello che mi è rimasto più impresso è proprio la dimestichezza che avevano con le armi, addirittura ci giocavano: si tiravano i coltelli e le bombe a mano, così tanto per divertirsi. Sicurezza assolutamente nulla, ma una disinvoltura elevatissima. Sono persone strane.

Comunque i NOCS alla fine non hanno fatto l'assalto e noi facevamo la guardia all'ingresso senza mai grosse novità. L'unico momento in cui abbiamo avuto un po' di paura è stato quando ci hanno detto che i sequestratori potevano sparare dalle finestre, per il resto non ci furono momenti difficili da questo punto di vista; altre volte abbiamo rischiato molto di più, ad esempio quando ci mandarono a Palmi per affiancare il Commissariato locale nel controllo delle faide mafiose: in venti giorni ammazzarono quindici persone. Lì era rischioso".

Note

1. Nonostante numerose telefonate e un fax, non è stato possibile entrare in contatto con l'Avv. Amato, se non con alcune segretarie e dei collaboratori.

2. Tre detenuti, il 10 maggio 1974, organizzarono una rivolta nel carcere di Alessandria. I morti, durante l'assalto condotto dal generale Dalla Chiesa, furono sei: quattro ostaggi (il medico, un'assistente sociale, due agenti) e due rivoltosi. L'unico ribelle sopravvissuto al blitz fu Everardo Levrero.

3. A Tuti era stato concesso il "permesso con scorta", permesso a cui lo stesso Tuti rinunciava chiedendo la semilibertà. Il Tribunale di Sorveglianza a sua volta respingeva la richiesta di Tuti.

4. Da "La Repubblica" e "La Nazione", 8 settembre 1987.

5. Il 'Rock bar', situato ai piedi del promontorio dove si trova il carcere, era in una posizione piuttosto strategica. Anche gli altri giornalisti ricordano il bar come sala stampa improvvisata, ma anche il cameriere non ha dimenticato i giornalisti. A dieci anni di distanza lo ricorda quasi come un 'assedio'.

6. Prendendo spunto dalla dichiarazione di Carlotti nei confronti di Mario Tuti, sembra interessante riportare tutte le altre definizioni che gli intervistati hanno dato di Tuti: Intelligente e impulsivo (Giordano e Margara); è un vero amorale (Fiorillo); volva rispolverare il mito politico (Papi e cittadini); è una persona al di là del bene e del male (Giazzi); è ambiguo, ma rispettoso (Pellino); ti scava con lo sguardo (Bucchioni); è uno schizzato (Baffoni e Zottola).