ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo primo
Ricostruzione dei fatti

Ilaria Masini, 1997

1. Inizio e svolgimento della 'rivolta'

1.1. Il tentativo di evasione. Alle 10:30 del 25 agosto 1987 una telefonata alla centrale operativa del comando della Compagnia dei Carabinieri di Porto Ferraio segnala una 'rivolta' all'interno del carcere di Porto Azzurro. In realtà, tutta la vicenda inizia come un tentativo di evasione da parte di sei detenuti: Mario Ubaldo Rossi, Mario Marrocu, Gaetano Manca e Mario Cappai hanno sopraffatto, nei pressi del campo sportivo, due agenti di custodia, Sebastiano De Muro e Antonio Fedele. Marrocu e Cappai rimangono sul posto mentre Rossi e Manca si dirigono verso la Galleria per raggiungere Mario Tuti e Mario Tolu, che si trovano nel corridoio in attesa dell'udienza con il direttore del carcere, il dottor Cosimo Giordano. Tutto era pronto per una evasione lampo utilizzando un'auto blindata. La vettura viene richiesta al direttore, ma il maresciallo Stanislao Munno si offre volontario per andare a prendere l'auto. Tuti gli ordina di tornare entro cinque minuti, altrimenti avrebbe ucciso il brigadiere Matta. Egli tuttavia, invece di fare ritorno con l'auto, fa scattare l'allarme.

I detenuti si rendono ben presto conto che la macchina non arriva e così, dopo aver lasciato andare un agente colpito da collasso, l'appuntato Luigi Erme, decidono di spostare la loro manovra dalla zona del piano terra 'Porta Ergastolo' al quarto piano, dove si trova l'infermeria. Le chiavi vengono sottratte agli agenti di custodia e al terzo piano l'appuntato Luciano Buono, preso in ostaggio, è costretto ad aprire il cancello. L'infermeria diventa il nuovo luogo d'azione.

1.2. Il leader Mario Tuti. A capo della rivolta sembra esserci Mario Tuti, il pluriomicida, il terrorista nero. Curiosa la storia di Tuti, una doppia vita scoperta quasi per caso la sera del 24 gennaio 1975. Tuti, fino a quel giorno, veniva descritto come "una brava persona", tanto da essere raccomandato 'caldamente' per un posto alla Cassa di Risparmio addirittura dall'arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit. Tuti, impiegato grigio di giorno, bombardiere nero di notte. Fino a quel gennaio 1975 era un tranquillo geometra di Empoli, con un comodo posto in comune e con la passione delle armi e delle arti marziali; un fascista con un forte senso del sociale, ma che si accontentava delle chiacchiere. Questa immagine probabilmente è la stessa che avevano il brigadiere di pubblica sicurezza, Leonardo Falco, e gli appuntati Giovanni Ceravolo e Arturo Rocca che, su ordine della questura di Firenze, erano andati a casa di Tuti per controllare la sua collezione di armi. Tuti quel giorno avverte il pericolo, pensa a un suo coinvolgimento negli attentati dinamitardi e, mentre mostra ai poliziotti la sua 'Santabarbara', imbraccia un fucile uccidendo il brigadiere Falco e l'appuntato Ceravolo. Poi scappa dirigendosi verso la Francia, dove rimane in libertà fino al 27 luglio 1975. Nel mese di maggio la magistratura italiana lo condanna all'ergastolo per il duplice omicidio e il 26 agosto il tribunale di Aix en Provence concede l'estradizione. Così il 13 dicembre Mario Tuti è in Italia e la storia di questo personaggio inquietante comincia a trapelare. Ci sono voluti più di dieci anni per cominciare a sbrogliare l'intrigata matassa della strategia della tensione, per provare che Tuti era uno dei protagonisti della destra eversiva, una persona pronta alla strage. Il 26 aprile 1976 la Corte d'Assise di Arezzo condanna Tuti a venti anni di reclusione per reati connessi alla sua appartenenza al Fronte nazionale rivoluzionario. Il 30 novembre la Corte di Cassazione conferma la condanna all'ergastolo per gli omicidi di Empoli. Saltano fuori anche gli attentati commessi nel 1974 e nel gennaio 1975 sulla linea ferroviaria Firenze-Roma, e la catena si allunga con la strage dell'Italicus del 4 agosto 1974 che causò 12 morti e 48 feriti. Il processo Italicus comincia il 3 novembre 1981, ma il 20 luglio 1983, fra la delusione della gente che credeva che, dopo tanti anni, fosse ormai arrivata l'ora della giustizia, Mario Tuti viene assolto in primo grado per insufficienza di prove. Tuttavia al processo d'appello, con sentenza 18 dicembre 1986, i giudici lo condannano all'ergastolo (1). Nel frattempo il terrorista nero non era rimasto inattivo: il 13 aprile 1981, insieme a Pierluigi Concutelli aveva strangolato, nel carcere di Novara, Ermanno Buzzi, condannato per la strage di Brescia. Sembra che Buzzi stesse per fare 'importanti rivelazioni' alla magistratura sul conto del Tuti, anche se quest'ultimo dette una motivazione alquanto diversa. Il neofascista empolese non si è mai pentito, non ha mai chiesto perdono e dal carcere continua ad inviare messaggi ai neri in libertà, sempre pronti a vendicarlo e ad uccidere in suo nome. Si considera un 'prigioniero politico', serba rancore nei confronti della 'democrazia senza popolo' e un profondo odio verso 'un regime sempre più dispotico e partitocratico', (così era scritto sul suo diario sequestrato nel 1975). Loretta Ruggieri, sua moglie, lo ha lasciato portando con sé i due figli e riuscendo anche, dopo una breve battaglia legale, a cambiare cognome e cominciare una nuova vita cercando di dimenticare che quel marito e padre modello era un uomo sempre pronto ad uccidere (2).

1.3. Il gangster Ubaldo Mario Rossi. Ruolo di notevole rilievo nel gruppetto dei sei detenuti in rivolta è svolto da Ubaldo Mario Rossi, 33 anni, gangster genovese condannato per il rapimento della piccola Sara Domini, bambina di dieci anni figlia del titolare della 'Geloso', e per quello di Giovanni Schiaffino, figlio ventenne di un dirigente d'azienda. Mario Rossi era il più temuto componente di una banda che a Genova, oltre ai rapimenti, compiva rapine nelle banche e negli uffici postali. Il suo certificato penale riporta anche un omicidio: quello di Moreno Quezel, pregiudicato argentino ucciso a Milano nel 1986 per un regolamento di conti. Quando è iniziata la rivolta Rossi doveva scontare un ergastolo sostanziale e la data della scarcerazione era fissata, secondo gli archivi del Ministero di Grazia e Giustizia, per il 2094. In Lombardia, secondo polizia e carabinieri, aveva allacciato contatti con personaggi del calibro di Renato Vallanzasca e Francis Turatello, ma Rossi, nonostante la sua fama, negli ultimi tempi non aveva più fatto parlare di sé e di recente aveva assicurato: "Sono tranquillo e dove sono sto bene".

1.4. Gli altri rivoltosi. Insieme a Tuti e Rossi ci sono quattro sardi: Mario Marrocu nato a Pirri il 29 novembre 1959, il trentenne Mario Cappai, Gaetano Manca nato a Cagliari nel luglio del 1951 e Mario Tolu del 1934. I primi tre hanno una storia giudiziaria comune. Infatti il Cappai, condannato a 18 anni di reclusione per un omicidio a scopo di rapina, incontrò nel carcere dell'Asinara Ignazio Basciu, un giovane tossicodipendente, suo principale accusatore nel processo per l'omicidio. Incontrò in quel carcere anche Mario Marrocu e Gaetano Manca, i quali scontavano alcuni anni per furto e rapina. I due accettarono di vendicare il Cappai e assassinarono Basciu il 22 aprile 1982, massacrandolo con armi rudimentali, come un cucchiaio limato nell'impugnatura e un paio di vecchi forbici. Furono condannati all'ergastolo. Fra l'altro Mario Marrocu ha due fratelli arrestati per la detenzione di una pistola alla stazione di Firenze il 10 agosto, due settimane prima dell'inizio della rivolta a Porto Azzurro. In quei giorni Romeo e Giampaolo Marrocu erano stati anche in visita al fratello in carcere. Su di loro saranno rivolti principalmente i sospetti e le indagini riguardanti le modalità di ingresso delle armi nel carcere di Porto Azzurro, armi utilizzate durante l'originario tentativo di evasione e, in un secondo tempo, per immobilizzare e minacciare gli ostaggi. Infine Mario Tolu, il quarto sardo: 53 anni, originario di Nurachi, un paese in provincia di Oristano. Negli anni Cinquanta alcuni lo chiamavano 'su macellaiu', altri 'Tarzan', per la sua brutalità e la sua forza. Ventenne fu arrestato per un tentativo di scippo ai danni di due attrici della compagnia di Walter Chiari. Ben presto divenne un boss potente e temuto e il 27 novembre 1957 la cronaca de 'L'Unione Sarda' intitolava 'Catturato a Tuvixeddu il re della malavita'. Il re era Mario Tolu. Per primo egli aveva capito che, con l'entrata in vigore della Legge Merlin, l'organizzazione della prostituzione poteva diventare una miniera d'oro.

Fu condannato per plagio a 19 anni di reclusione, pena poi diminuita in appello a 14 anni. Gli era rimasto da scontare solo un anno, ma nel 1971 Tolu non seppe resistere alla tentazione di fuggire dalla colonia penale di Mamone. Nel 1972 fu sorpreso mentre svaligiava un appartamento e finì di nuovo in cella, ma scappò nuovamente dal carcere di Pianosa. A Porto Azzurro deve scontare l'ergastolo per aver ucciso, il 21 gennaio 1976, Sebastiano Di Luciano, un suo compagno di fuga colpevole di un grave sgarro nei confronti della mala.

1.5. Chi sono gli ostaggi. All'interno dell'infermeria, tenuti in ostaggio dai rivoltosi, allo scopo di conseguire, come prezzo della liberazione, i mezzi di trasporto per evadere, ci sono cinque civili, diciassette guardie carcerarie e undici detenuti. Gli ostaggi civili sono il direttore del penitenziario Cosimo Giordano, il medico Sergio Carlotti, l'infermiere Lino Colandrea di Porto Azzurro, lo psicologo Carlo Antonelli di Roma e l'assistente sociale Rossella Giazzi di Molin del Piano. Le guardie carcerarie sono il brigadiere Antonio Matta e gli agenti Sebastiano De Muro, Valentino Spensatello, Adriano Argiolas, Enrico Vargiù, tutti e cinque sardi; Luciano Baffoni, Andrea Milani, Luciano Buono, Albano Garramone, Giampaolo Galletti, Pierpaolo Mariani, di Porto Azzurro; Carmine Compagnone e Antonio Fedele originari della Campania; Carlo De Miceli siciliano; Ugo Roberto Cardia e Salvatore Cipriano. E infine i detenuti Vincenzo Facchineri, Tullio De Carlo, Giampaolo Bruno, Felice Basso, Francesco Millozzi, Antonio Parente, Clauzio Rubini, Giorgio Canova, Giacomo Nicolosi, Roberto Masetti e Luigi Tramontano. Le prime voci, approssimative e confuse, avevano indicato gli ultimi due detenuti fra i rivoltosi e non fra gli ostaggi. Luigi Tramontano, che nel 1983 ha ucciso a Napoli un cassiere del "La Rinascente", e Roberto Masetti (3) di Campi Bisenzio, conosciuto come 'il fiorentino', il quale sconta l'ergastolo e si trovava in carcere da quattordici anni per l'uccisione dell'appuntato Carmine Della Sala durante una rapina in una banca di Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, l'11 gennaio 1973. Masetti era già fuggito una prima volta dal carcere di Bologna e la seconda, insieme al Tuti nel 1976 dal carcere di Volterra. Anche questi precedenti hanno probabilmente indotto a ritenerlo un rivoltoso, piuttosto che un ostaggio. Si è rassegnato alla vita del carcere, è considerato un detenuto modello di Porto Azzurro e sta aspettando una licenza premio. Quando l'azione dei sei è iniziata, il Masetti si stava recando a parlare con la moglie, Doriana Romolini; il martedì infatti è giornata di colloqui e lui si è trovato coinvolto per caso nel bel mezzo del tentativo di evasione degli altri detenuti ed è stato preso come ostaggio.

1.6. Le richieste dei rivoltosi. Alle ore 13 del 25 agosto, il primo giorno della rivolta, arriva a Porto Azzurro il sostituto procuratore della Repubblica, il dottor Arturo Cindolo, il quale instaura subito un contatto telefonico con i rivoltosi. Parla per ore con Tuti e Giordano (4) raccogliendo le richieste dei ribelli: prima un'auto blindata, poi una motovedetta e, infine, l'ultimatum: per le ore 17 i detenuti rivoltosi pretendono un elicottero ad otto posti che permetta a loro sei di scappare portandosi dietro due ostaggi, compreso il direttore del carcere. Il magistrato risponde che l'auto blindata è guasta e che l'elicottero richiesto non può atterrare nel campo sportivo del penitenziario (5). Il Tuti indica come alternativa uno spiazzo ai piedi della collina, ma l'elicottero viene ugualmente negato sostenendo che non c'è nessun pilota disposto a guidarlo. L'ultimatum viene rimandato alle 18:45, ma anche questa scadenza passa senza che siano prese delle decisioni, mentre Tuti continua a sottolineare che la rivolta è semplicemente un tentativo di evasione senza nessuno sfondo politico. Quello che sta agendo non è il terrorista nero pronto ad uccidere per un ideale, ma un uomo stanco di stare chiuso in una cella, un uomo disposto a tutto pur di riconquistare la libertà, anche fosse soltanto per due ore.

1.7. La linea della fermezza. Lo Stato fin dai primi momenti sceglie la via della legalità e della trattativa, che faccia fiaccare la resistenza dei rivoltosi sul piano dei nervi. È una specie di partita a scacchi, chi sbaglia paga caro. È una tragica partita fatta di riunioni, ipotesi, mosse d'assaggio, di piani a tavolino, di calma e di aggressività. Perde chi fa il primo errore, chi molla dal punto di vista psicologico, chi indietreggia di un passo o avanza di uno di troppo. In prima fila ci sono i magistrati Arturo Cindolo e Antonietta Fiorillo che portano avanti la trattativa dall'interno del carcere, utilizzando il telefono che si trova all'interno dell'ufficio del direttore Giordano; in regia i politici, da Goria a Vassalli, da Amato a Fanfani. Il 'gabinetto di crisi' costituito a Palazzo Chigi conferma la piena fiducia e solidarietà ai magistrati incaricati della trattativa e viene sottolineato il fatto che l'obiettivo fondamentale rimane la soluzione pacifica, la tutela della vita degli ostaggi e degli stessi rivoltosi, nel rispetto del diritto e delle istituzioni. Viene così esclusa ogni azione di forza, anche se in realtà un blitz dei NOCS sembrava in programma durante la notte di martedì. Fortunatamente quella nottata trascorre senza novità.

1.8. Il partito dell'elicottero. "Dateci il velivolo e noi rilasceremo gli ostaggi". Tuti è fermo, deciso (6). Lo Stato anche. Estremamente flessibile e pronto ad ogni concessione è invece il sindaco del paese, Maurizio Papi, che ha addirittura promosso un movimento d'opinione a favore della concessione dell'elicottero. L'iniziativa è stata naturalmente accolta con entusiasmo dai familiari degli ostaggi e anche da molti turisti che, se all'inizio si erano eccitati per la rivolta, adesso vogliono riconquistare la loro tranquilla vacanza elbana; ma affinché questa vasta mobilitazione possa produrre dei risultati concreti e smuovere il mondo politico non è sufficiente il dolore dei singoli e l'angoscia dei villeggianti che lentamente lasciano l'isola: è necessario dar vita a un movimento popolare organizzato, con un simbolo (sarà scelto un modello di elicottero lungo circa un metro, azzurro con due galleggianti gialli) ed una sede ufficiale. Nella serata di giovedì il 'Partito dell'elicottero' fa la sua prima manifestazione pubblica con un corteo che attraversa la cittadina di Porto Azzurro. Poco dopo viene eretta, davanti al municipio, a pochi metri dal punto di attracco del traghetto, una tenda militare in cui viene formato il comitato permanente e vengono aperti i registri per la raccolta delle firme con cui si chiede la concessione dell'elicottero per salvaguardare la vita degli ostaggi. Il leader indiscusso del 'Partito dell'elicottero' è il giovane sindaco Maurizio Papi che cerca di interpretare i desideri dei suoi cittadini e che ha come unico scopo quello di salvaguardare la vita dei prigionieri, molti dei quali sono nati o vissuti a Porto Azzurro. Anche per questo il movimento a favore dell'elicottero agisce con così tanta energia e può contare su un forte impatto locale. E infatti il registro sistemato sul tavolo davanti alla sede del Comune riempie subito molte delle sue pagine: in ventiquattro ore, mille persone, fra cui anche alcuni turisti stranieri, sottoscrivono l'appello del sindaco. Probabilmente e in modo paradossale, se il 'Partito' riscuote questo successo, è anche merito di Mario Tuti, grande manager di se stesso. Tuti infatti è un ottimo sponsor del movimento che si batte per il 'suo' elicottero. Dosando e controllando il canale telefonico, aprendo e chiudendo la cornetta attraverso la quale passano i sentimenti umani, egli amministra sapientemente le lacrime, le speranze, l'angoscia e il terrore degli ostaggi che in questo modo contribuiscono a caricare la molla psicologica del consenso e influenzano inevitabilmente gli uomini dello Stato. Accade così che nella rivolta di Porto Azzurro, la cosiddetta 'Sindrome di Stoccolma', cioè il patto di solidarietà che si stringe fra sequestratori e sequestrati, abbia un effetto dirompente e collettivo, spargendosi ben oltre le mura del carcere in cui si consuma il dramma. E il primo grande successo del movimento, come afferma Maurizio Papi, è quello di aver evitato il blitz già pronto a scattare la seconda notte della rivolta. Creare più confusione possibile era l'unico mezzo per impedire allo Stato di fare l'assalto programmato, prospettando l'alternativa opposta che in caso di fallimento del blitz avrebbe rinfacciato allo Stato la frettolosità della decisione e avrebbe potuto rimpiangere la strada non scelta, quella della concessione. Nel momento in cui una buona parte dell'opinione pubblica si schiera dal lato opposto della scelta statale, se tutto non fila liscio e il minimo contrattempo sparge sangue, diventa facile criticare l'azione di uno Stato troppo avventato. Ed è evidente che gli uomini politici non erano assolutamente convinti della buona riuscita del blitz, vista la difficoltà della posizione e degli ostacoli che i gruppi speciali avrebbero trovato sulla loro strada. La morte di alcune persone era da mettere in preventivo, tanto è vero che la sala operatoria di Portoferraio era già stata allertata. Rischiava troppo lo Stato a livello di immagine.

1.9. La condizione degli ostaggi e la tortura della crocifissione. Le notizie riguardanti gli ostaggi, arrivano dagli ostaggi stessi che, a discrezione dei loro carcerieri, hanno il permesso di telefonare ai familiari o ai colleghi. La prima voce dall'infermeria è quella di Sergio Carlotti, il medico del penitenziario: "Pronto, parlo dall'inferno!", la sua voce sembra spezzata dall'ansia e dalla commozione. La telefonata arriva a Francesco Ceraudo, il Presidente nazionale dei medici penitenziari alle 8:15 di mercoledì mattina. Carlotti chiede disperatamente che nessuno intervenga, che non venga tentato un blitz perché altrimenti tutto salterebbe in aria. Infatti, i sei detenuti rivoltosi hanno costruito diverse bombe rudimentali utilizzando le bombole di ossigeno e l'esano, il gas al quale basta avvicinare un fiammifero perché prenda fuoco e provochi una deflagrazione. La miccia è già pronta e può succedere una strage da un momento all'altro. Dal dottor Carlotti si apprendono anche le prime notizie sullo stato degli ostaggi e su come i prigionieri vengano trattati dai rivoltosi: gli ostaggi sono terrorizzati, ma stanno bene; fanno sapere che, nei limiti della situazione, non vengono maltrattati. I detenuti ribelli hanno distrutto stipetti e armadi, si sono impossessati dei bisturi, delle forbici e hanno usato i cerotti e le bende per immobilizzare le guardie; gli agenti di custodia infatti vengono legati a turni con le mani dietro e la faccia a terra, due sono appesi alle sbarre delle finestre come crocifissi e altri quattro, immobilizzati per i polsi e inzuppati di alcool, sono stesi sul pavimento. E poi le minacce. I sequestratori ripetono: "Non vi illudete, non ci arrenderemo. Non abbiamo niente da perdere". Al telefono, fra i singhiozzi, parla anche Lino Colandrea, l'infermiere del penitenziario: "Non voglio morire, sto qui ad un passo dalla morte per guadagnare quattro soldi maledetti, 6.500 lire l'ora. Ricordate a quelli di Roma che dei poveri innocenti rischiano di morire" (7). Preghiere, pianti e la consapevolezza che dentro quell'infermeria del terrore è un 'macello'. Però quello che colpisce di più in tutta la vicenda è forse la tortura della crocifissione, soprattutto perché è visibile anche all'esterno, mentre nessuno può vedere ciò che succede all'interno della Fortezza. Con le braccia legate sopra la testa e le gambe incrociate, gli ostaggi vengono legati alle sbarre delle finestre dell'infermeria. I turni sono di due ore e al momento in cui scade il termine, uno dei rivoltosi, rapidissimo, slega e fa scendere l'ostaggio e ne fa salire un altro. La storia continua così per tutto il giorno di tutti i giorni, con il sole che complica le cose e aumenta la sofferenza. Roba da brividi. Lo scopo dei detenuti ribelli è quello di usare i 'crocifissi' come deterrente all'attacco armato, per far rinunciare definitivamente ad un eventuale blitz in programma. Infatti se quella dell'assalto era un'ipotesi altamente rischiosa di per sé, considerate le condizioni tecniche dell'impresa, il tentativo diventa praticamente impossibile con gli ostaggi disposti come tende alle finestre. È impossibile, a questo punto, penetrare nell'infermeria.

1.10. Il dramma dei familiari. Uniti nello stesso dolore e legati dalla medesima sofferenza le famiglie degli ostaggi e dei rivoltosi. Gli appelli si susseguono e si moltiplicano di ora in ora. Il primo è della signora Ester, madre di Mario Tuti, venuta a conoscenza della sommossa attraverso un giornale radio mentre stava pranzando. Vedova dal 1983 vive da sola, non ha retto all'emozione e si è sentita male. La donna è molto legata al figlio e spera che si ravveda:"Mario, arrenditi. Non fare pazzie. Ti supplico fallo per me. Ricordati dei bambini e cerca di fare quello che ti dice la tua coscienza. Lascia gli ostaggi, consegnati alle guardie. Cerca di fare le cose per bene, come ti abbiamo insegnato noi". Di solito la signora Tuti parla col figlio ogni otto giorni ed era andata a trovarlo quindici giorni prima dell'inizio della rivolta; niente di strano era trapelato in quel colloquio, Mario era tranquillo e pareva aver ritrovato serenità e fiducia, anche grazie al lavoro che da poco svolgeva all'interno del carcere, dentro l'ufficio conti correnti. Soltanto qualche ora dopo, un altro appello disperato, quello di Giovanni Antonelli, padre di Carlo Enrico, uno degli ostaggi di Mario Tuti. Le parole del dirigente generale del ministero dei Beni Culturali, ora in pensione, sono quelle del cuore, quelle di chi ha un figlio prigioniero: "Dateglielo questo benedetto elicottero, non crediamo che sia un cedimento da parte dello Stato fornire il richiesto elicottero e salvare tutti gli ostaggi. Ben altri cedimenti ha fatto lo Stato con i libici, i libanesi e tutta quella gente legata alla politica e al terrorismo. Qui la politica non c'entra niente, questa è una storia di evasi e poveri ostaggi. Piena fiducia comunque ai magistrati, tutti uomini in gamba che stanno lavorando molto". Cerca di parlare con il figlio anche Mafalda Porcu, madre di Mario Marrocu, uno dei detenuti rivoltosi. La donna è una venditrice ambulante e abita a Monserrato, una frazione di Cagliari. È proprio da lì che Mafalda cerca di mettersi in contatto con il carcere per parlare con suo figlio e convincerlo a desistere. Tuttavia non è riuscita nell'intento e afferma che qualcuno gli ha impedito di rispondere al telefono (8); Mafalda difende naturalmente Mario: "So che lui è innocente. Prima di finire in carcere mi aiutava nel lavoro, col furgone vendevamo giocattoli e prodotti artigianali a Cagliari, a Sassari e a Nuoro". La donna ha dieci figli e altri due di loro potrebbero essere legati a questo episodio: infatti il 10 agosto sono finiti in carcere perché sorpresi a Firenze in possesso di una pistola calibro 32 e 6 cartucce. Durante il primo interrogatorio il maggiore, Giampaolo, sembra che abbia detto di aver comprato la pistola a Napoli, da un certo Roberto che abita a Forcella, di averla pagata duecentomila lire e che sarebbe dovuta servire a intimidire alcuni spacciatori che gli avevano venduto camomilla invece che eroina. I due fratelli, Giampaolo di ventitré anni e Romeo di diciannove, sono ora rinchiusi nel carcere di Sollicciano e aspettano di essere giudicati per detenzione di arma da fuoco. Mafalda dice che i due ragazzi non volevano farla arrivare a Mario nel penitenziario. Anche la moglie del direttore del carcere, Maria Rosaria Tarantino, ha avuto notizie dal marito; ha potuto parlare con lui per telefono e ha avuto la conferma che gli ostaggi stanno bene, ma è necessario fare presto e concedere loro l'elicottero richiesto per poter fuggire. Un altro appello alla resa viene lanciato da Maria Antonietta Cappai, sorella di uno dei rivoltosi, ma anche questa volta senza nessuna risposta o reazione. Fra i parenti, sia degli ostaggi che dei ribelli, c'è solo la speranza che tutto finisca bene e al più presto.

1.11. Tre prove di buona volontà. Dopo aver liberato in concomitanza con l'inizio della rivolta l'appuntato Luigi Erme, colpito da collasso, i sei rivoltosi liberano altri ostaggi. Il primo è l'appuntato Buono, rilasciato martedì sera, il quale appena uscito racconta come sia stato preso in ostaggio. Oltre a questo racconta che il corridoio del quarto piano è stato trasformato in un campo minato, dal momento che i rivoltosi hanno costruito ordigni rudimentali e li hanno sistemati in quei locali. Luciano Buono racconta che hanno legato gli ostaggi, li hanno inzuppati di alcool e minacciano di incendiare tutto, ma aggiunge che Tuti si è comportato da gentiluomo. Forse il concetto risulta inspiegabile per coloro che hanno avuto la fortuna di non conoscere quei momenti. Successivamente altri tre ostaggi vengono liberati. Sono detenuti ricoverati nell'infermeria al momento della rivolta e giovedì sera verso le 19:30 vengono lasciati andare. I magistrati contemporaneamente chiedono la liberazione dell'assistente sociale Rossella Giazzi, l'unica donna ostaggio e duramente provata sia fisicamente che psicologicamente dalla prigionia. Ma i ribelli rifiutano di liberarla poiché sono consapevoli dell'importanza contrattuale della donna; per loro è una pedina fondamentale, assolutamente da non perdere. Infine, ma soltanto nella giornata di domenica, viene liberato e rimesso nella sua cella il detenuto Rubini, scrivano dell'infermeria. Ha avuto un attacco di cuore, ma è riuscito a superare il collasso.

1.12. Comportamento esemplare degli altri detenuti. Consegnati in cella ventiquattro ore su ventiquattro, anche i detenuti sono vittime della rivolta. In pratica, il resto del carcere sta a guardare quanto accade nell'infermeria, dove sono asserragliati i sei ergastolani con gli ostaggi. Sono consapevoli e terrorizzati dal fatto che tutto potrebbe tornare indietro di anni e si potrebbe riavvicinare lo spettro di Porto Longone e dei 'sepolti vivi'. Li chiamavano così, una ventina di anni fa, i detenuti del penitenziario più duro e più famoso d'Italia. Un'antica fama di prigione per dannati. In pochi giorni potrebbe svanire il sogno del carcere modello e del rinnovamento. I reclusi di Porto Azzurro sono circa quattrocento e molti di loro sono nomi illustri della malavita. "La grande promessa", la rivista stampata dal 1951 ogni mese all'interno del carcere, ha visto le firme di Lorenzo Bozano, Pietro Cavallero, Virgilio Floris, Gianfranco Bertoli. Un carcere sicuramente all'avanguardia quello di Porto Azzurro soprattutto grazie alle idee e al coraggio di un uomo come Cosimo Giordano, il direttore del carcere, ora nelle mani del rivoltosi. Nel giugno 1986 è stato ospitato il convegno 'Carcere e mass media' con i detenuti appartenenti alla redazione del mensile che ebbero l'occasione di chiedere a diversi giornalisti come informare correttamente le persone sulla vita del carcere. Vennero poi organizzati i concerti di Francesco Guccini e di Lucio Dalla, con migliaia di elbani confusi con i detenuti. Tutti insieme a sentire il concerto. Un carcere modello che ha costruito la sua immagine e la sua storia su scomode fondamenta e che invece è riuscito a divenire un esempio per tutti. Per presentare Dalla, fu letto da Cavallero un documento preparato dai detenuti: "Per rendere possibile questo spettacolo sono stati abbattuti muri, si sono aperti portoni al mondo esterno". La rivolta rischia adesso di chiudere di nuovo quei portoni e i detenuti di Porto Azzurro sono terrorizzati dal fatto che possano andare perduti tutta la fatica e l'impegno di anni in pochi giorni per colpa di poche persone. E così fin dalle prime battute della rivolta, il resto dei detenuti si dissocia ufficialmente dall'azione di Mario Tuti e degli altri rivoltosi; a questo proposito riporto un breve brano pubblicato sull'edizione straordinaria de "La Grande Promessa"; la firma è di Fabrizio De Michelis: "Abbiamo capito che il nostro rifiuto alla violenza andava ribadito con fermezza, sperando che i sei detenuti sentissero ancor di più l'isolamento morale in cui essi stessi si erano arroccati". Per la prima volta nella storia delle carceri, altri reclusi rifiutano in tutti i modi di essere coinvolti in un'insensata ribellione, insensata per loro che hanno avuto la possibilità e la capacità di trovare un po' di umanità anche dietro le sbarre.

1.13. La trattativa continua: l'idea dei benefici previsti dalla Legge Gozzini. Dal primo giorno della rivolta i magistrati tengono continuamente contatti con i ribelli. Sono questi ultimi a gestire le conversazioni, a decidere il se, il come e il quando di ogni colloquio. I magistrati utilizzano il telefono dell'ufficio del direttore e mai si allontanano dal carcere. La parola d'ordine è trattare ad oltranza, nessun elicottero, nessuna concessione viene fatta, lo Stato vuole dimostrare la sua forza per impedire che in futuro si ripetano episodi di questo genere. Cedere oggi su qualche fronte vorrebbe dire mostrare ai detenuti una strada comoda per aggirare la giustizia e la legalità. Non ci sono le condizioni giuridiche per cedere al ricatto dei sequestratori. Solo al sesto giorno la storia dei disgraziati ostaggi giunge al suo epilogo, o perlomeno conosce una tappa molto importante verso la sua conclusione. Il momento più delicato, un momento in cui i nervi devono rimanere saldi ed è importante non affrettare i tempi. La svolta della vicenda sta nella proposta fatta dai magistrati ai rivoltosi: se libereranno gli ostaggi potranno essere riesaminate alcune situazioni che li riguardano. La via d'uscita trovata è ottima e probabilmente anche l'unica possibile per salvare, insieme agli ostaggi, la dignità di tutti quanti; l'idea è che magistratura e governo potrebbero concedere alcuni benefici, previsti dalla "Legge Gozzini", se i rivoltosi rispetteranno alcune condizioni, prima fra tutte l'immediata liberazione degli ostaggi. In ogni caso sarà comunque la magistratura ad essere competente circa l'eventuale adozione di taluni dei provvedimenti. I legali parlano di 'affidamenti' e non di vere e proprie garanzie (9), ma in sostanza sono tre le concessioni che dovrebbero essere fatte a Tuti e compagni: 1) un trattamento penitenziario non punitivo; 2) la possibilità di applicazione dell'art. 21 della legge penitenziaria e degli altri benefici (permessi premio, libertà condizionale, semilibertà); 3) disponibilità al riesame di situazioni processuali particolari. Immediatamente Tuti e gli altri cinque detenuti gradiscono la proposta (10) e si apre il primo vero spiraglio verso la conclusione della vicenda.

1.14. I quattro garanti. I loro nomi, Raimondo Ricci, Germano Sangermano, Adriano Cerquetti e Bernardo Aste, sono stati indicati da Tuti, Rossi e dagli altri quattro detenuti in rivolta, ormai da sette giorni. L'avvocato Ricci, di origine imperiese, è stato impegnato da giovane nella Resistenza ed è stato considerato a lungo il 'ministro della Giustizia' del PCI. Come avvocato Ricci ha collezionato molti successi. A Roma difese, insieme all'attuale ministro guardasigilli Giuliano Vassalli, gli operai genovesi imputati per la rivolta del 1960. Fu presente, difendendo un imputato minore, anche al processo al '22 ottobre', la banda di Mario Rossi. L'ultimo successo lo ha ottenuto con il suo intervento dopo l'arresto di sei ex partigiani per gli omicidi di Bargagli: fu lui a ricordare l'esistenza di un indulto del 1953 e li fece scarcerare. La sua carriera di avvocato ha soltanto preceduto l'impegno politico nelle file comuniste. Abbandonata l'attività forense, fu eletto deputato nel 1975 e ha fatto parte della commissione inquirente. È stato nuovamente eletto alla Camera nel 1979 e nel 1983 è tornato a sedere in Parlamento come senatore. Non si è potuto presentare alle successive elezioni politiche per seri motivi di salute. L'avvocato Germano Sangermano di Firenze è stato il difensore di Tuti in tutti i processi contro il geometra nero. Ha difeso anche Giampaolo e Romeo Marrocu, i fratelli di Mario, uno degli ergastolani in rivolta. Il legale non ha mai nascosto le sue simpatie politiche per la destra e fu accusato di aver ospitato dei latitanti nel suo piccolo panfilo. Arrestato, fu prosciolto con formula piena. Molto stimato negli ambienti giudiziari è l'avvocato Adriano Cerquetti che dal 1981 è stato il difensore di numerosi imputati appartenenti alla destra eversiva, tra i quali 'Giusva' Fioravanti e Francesca Mambro. Il penalista, sta trascorrendo le sue vacanze in Calabria e verrà prelevato da un piccolo aereo e trasportato a Porto Azzurro per partecipare alle trattative con i sei detenuti in rivolta. Infine un noto penalista sardo, Bernardo Aste, protagonista dei più importanti processi nei palazzi di giustizia isolani. È stato il difensore di Graziano Mesina, 'primula rossa del Supramonte' e ha già assistito anche uno dei ribelli, Mario Cappai, nel processo per l'omicidio di Ignazio Basciu, avvenuto il 22 aprile del 1982 nel carcere dell'Asinara.

1.15. L'uomo voluto dalle famiglie: Ernesto Olivero. Chiamato ufficialmente da Amato e Vassalli, su indicazione dei familiari delle vittime, da Torino arriva a Porto Azzurro anche Ernesto Olivero (11), fondatore del Sermig (Servizio missionario giovanile) e dell'Arsenale della Pace. Soprannominato 'l'angelo laico', si occupa da anni della assistenza ai carcerati e, attento ai problemi dei detenuti, potrebbe essere l'arma vincente della trattativa. Olivero entra nel carcere di Porto Azzurro alle 12:30 di domenica, ma esce qualche minuto dopo pieno di speranza, ma con poche novità: "Spero che finisca tutto entro alcune ore, ma fino a questo momento non ci sono altre notizie rilevanti rispetto a ieri".

1.16. La gaffe del sindaco. Alle 17:30 di lunedì 31 agosto Maurizio Papi diffonde la notizia che gli ostaggi sono stati liberati e la France Press effettuava perfino un lancio d'agenzia. Dopo neanche un'ora la smentita: le ventotto persone sono ancora nelle mani dei rivoltosi. Il sindaco viene così messo di nuovo sotto accusa; qualcuno parla di tensione accumulata nei giorni scorsi, altri delle solite manie di protagonismo. In serata, il portavoce del Ministro di Grazia e Giustizia è stato costretto ad emettere un comunicato ufficiale in cui viene duramente diffidato chiunque metta in giro voci incontrollate. È evidente che proprio adesso, nel momento più delicato della vicenda, è assolutamente necessario mantenere la calma, tenendo presente che l'interesse principale è la salvezza degli ostaggi. Ma è altrettanto evidente che non si può accusare il sindaco Papi di trascurare questo aspetto del problema, proprio lui che fin dal primo giorno ha sacrificato anche la sua immagine pur di salvaguardare la vita degli ostaggi. La comprensibile paura del ministro è che una notizia del genere possa provocare, senza plausibile ragione, il fallimento del tentativo di liberare gli ostaggi. Non si può rischiare di mandare all'aria un lavoro minuzioso e paziente di giorni e giorni.

1.17. La resa. I quattro avvocati scelti come garanti hanno trattato tutto il pomeriggio del 31 agosto, il settimo giorno del sequestro. Ma non è bastato, i rivoltosi chiedono che garantisca per loro anche un rappresentante di Amnesty International, e così la liberazione è rimandata alle 8:30 della mattina successiva (12). Il giorno successivo i sei ergastolani fanno sapere che non hanno ancora deciso cosa fare, se arrendersi o resistere ancora. Entrano di nuovo gli avvocati, salgono le scale del padiglione e si fermano davanti al cancello del pianerottolo fra il terzo e il quarto piano. Dall'infermeria scendono Rossi e Tolu che chiedono garanzie. Intanto si dice che Tuti sia rimasto al quarto piano a guardare "L'avventura", il film di Michelangelo Antonioni e sembra che abbia detto: "Se finisce che mi sparate una pallottola in testa, a me non importa niente". Ma mentre il neofascista se ne resta calmo nell'infermeria, la tensione al cancello di divisione è altissima. I legali cercano di smorzare i toni, mentre i banditi chiedono di vedere anche Arturo Cindolo. Il procuratore, che aveva stabilito il primo contatto telefonico con loro, arriva dopo pochi minuti. Con tono duro li invita ad arrendersi e a non avanzare ulteriori richieste. Così accade, e alle ore 10:30, praticamente alla stessa ora in cui otto giorni prima era iniziata la rivolta, i sei ergastolani consegnano le armi: due pistole, quattro coltelli e diverse lattine di coca cola riempite di esplosivo. Gli agenti fanno irruzione nei locali, i sei vengono bloccati e gli ostaggi cominciano a scendere dalle scale. Per prima esce Rossella Giazzi, l'unica donna rimasta per una settimana nelle mani di Tuti, Rossi e degli altri quattro ergastolani; ha vissuto tutti questi giorni in preda al terrore, ma è sempre stata trattata con grande correttezza dai rivoltosi. Dopo di lei varca la soglia del cancello il direttore del carcere, Cosimo Giordano, l'uomo che i ribelli non hanno mai osato legare e al quale non hanno mai impartito ordini. Subito dopo è la volta di Carlo Enrico Antonelli il quale ha rilascia immediatamente informazioni sui giorni di prigionia. Poi tutti gli altri, liberi e sommersi dagli abbracci. È finita, è finita davvero.

2. Dopo la resa

2.1. La soddisfazione dello Stato. È stata la vittoria della ragionevolezza, della pazienza e dell'equilibrio. Uno scacco, un piacevole scacco, sia per gli amanti dei blitz che per i sostenitori del 'Partito dell'elicottero'. Lo Stato, dopo giorni di duro lavoro, raccoglie i suoi frutti e raggiunge il massimo risultato con il minimo delle promesse. Neanche un'ora dopo la liberazione degli ostaggi, Giuliano Vassalli, il ministro di Grazia e Giustizia, rilascia le prime dichiarazioni: "Non abbiamo fatto nessuna concessione, abbiamo solo promesso a quei detenuti che essi usufruiranno dei benefici della nuova legge penitenziaria e che saranno trattati come tutti gli altri detenuti". I rivoltosi avranno quindi il processo per direttissima, saranno prese in considerazioni le attenuanti previste dalla legge ed avranno i benefici previsti dalla "Legge Gozzini", naturalmente sempre che i magistrati lo ritengano opportuno, dal momento che spetta proprio alla magistratura accordare qualsiasi forma di beneficio. Sorridono anche il presidente della Repubblica Cossiga e il presidente del Consiglio Goria, e tutto il mondo politico tira un sospiro di sollievo fra complimenti reciproci e ringraziamenti generali. La paura è passata, sanno di aver rischiato moltissimo, le dimissioni di molti erano scontate, sia in caso di concessione dell'elicottero sia nel caso opposto di intervento armato. E invece ha vinto lo stile italiano della mediazione ad oltranza e della determinazione. Colui che ha difeso fino alla fine la linea della trattativa, l'uomo della vittoria dello Stato sembra essere Nicolò Amato, direttore generale degli istituti di prevenzione e pena. Appena arrivato a Porto Azzurro ha preso in mano le redini della situazione e, senza mai sovrapporsi all'opera dei magistrati è stato il grande mediatore fra il potere politico centrale e la realtà contingente dell'isola. Conclusasi la vicenda il dottor Amato viene indicato dalla stampa non solo come l'uomo della trattativa, ma anche come colui che ha ideato l'applicazione al caso della "Legge Gozzini". Le interviste realizzate e le registrazioni telefoniche indicano invece come ideatore dei benefici applicabili il direttore del carcere Cosimo Giordano. (13)

2.2. I magistrati che hanno condotto la trattativa. Per sette lunghi giorni, attaccati ad un telefono cercando di convincere i ribelli a desistere e liberare gli ostaggi. Un lavoro estenuante per i magistrati, i veri protagonisti della vicenda. In particolare Arturo Cindolo, sostituto procuratore di Livorno, arrivato per primo a Porto Azzurro e il primo a stabilire un contatto con i rivoltosi. Ha dormito una notte in tutto, divisa per sette giorni, e una sola volta è uscito dal carcere, per mangiare qualcosa ad un ristorante. Vigile, infaticabile, l'uomo della trattativa vincente. Accanto a lui, pronto a intessere rapporti con i detenuti, il dottor Giacomo Randon, sostituto presso la procura generale della Corte d'Appello. È stato il portavoce del pool con i giornalisti e ha tenuto i rapporti col ministero di Grazia e Giustizia. Infine i magistrati di sorveglianza, Alessandro Margara e Antonietta Fiorillo. Quasi sempre all'interno del carcere, instancabili, ricordando ai loro colleghi quanto fosse importante la "Legge Gozzini" e come non possa assolutamente andare perduto tutto quel che di buono ha portato la riforma.

2.3. L'ora delle polemiche. Come in ogni altra vicenda che colpisce l'opinione pubblica e che coinvolge direttamente la persona dello Stato o una sua struttura, la vicenda di Porto Azzurro ha portato con se' uno strascico di polemiche, difficili da evitare quanto da risolvere. Le chiacchiere si moltiplicano, le denunce si susseguono e ora che tutto è finito è necessario trovare il colpevole, la causa della rivolta. Basta uno qualsiasi, uno che sia disposto o costretto a essere vittima, il capro espiatorio di un episodio che forse non ha colpevoli, ma che deve trovarli. Si cercano motivazioni e spiegazioni di ogni atto compiuto negli otto giorni fuori e dentro il carcere.

2.3.1. Perché Tuti si trovava a Porto Azzurro? La prima questione, aperta già quando la rivolta era ancora in corso, è con quale criterio il pericoloso Mario Tuti sia stato destinato al carcere di Porto Azzurro. Trasferire Tuti in quel carcere modello è stata una scelta incomprensibile per molti. Era luglio quando è stato deciso di spostare il neofascista dal super carcere di Cuneo al penitenziario elbano che, oltre ad essere molto meno afflittivo, è riservato a detenuti ricuperabili e sicuri. Insomma, Tuti non era adatto a Porto Azzurro, era meglio mandarlo all'Asinara, a Fossombrone o a Bad'e Carros. Lo sostengono i familiari degli ostaggi che ritengono assurdo mandare Tuti in un carcere semilibero come quello, un carcere all'avanguardia che ospita conferenze, tavole rotonde e addirittura i concerti di Dalla e di Guccini. Della stessa idea è anche il sindaco Maurizio Papi e lo afferma in modo forte, come nel suo stile: "Qualcuno qui ha fatto una gran fesseria mandando Tuti in questo penitenziario e i risultati li abbiamo visti. E ora dal momento che qualche cretino ha fatto una cretineria, bisogna espiare noi". La risposta è affidata a Nicolò Amato, direttore generale degli Istituti di prevenzione e di pena, ormai nell'occhio del ciclone: "Sul conto di Tuti dal 1981 sono state fatte relazioni comportamentali positive ed è stato così che da Roma hanno disposto il trasferimento. Fra l'altro Tuti si dedicava allo studio e si comportava in modo normale e corretto e abbiamo ritenuto doveroso, in omaggio ai principi della Costituzione e allo spirito della riforma carceraria, assegnarlo per un periodo di prova, in osservazione a Porto Azzurro. Questo carcere ha ospitato spesso ergastolani molto pericolosi e voglio sottolineare che è un istituto sicuro dal quale è difficile fuggire per il fatto stesso che è un'isola". Anche il magistrato di sorveglianza, Antonietta Fiorillo, conferma le parole di Amato ed è convinta che Porto Azzurro sia un carcere molto sicuro e lo dimostra il fatto che erano anni che non accadeva nulla, semmai l'errore è stato fatto nella valutazione di Tuti con il quale lei stessa aveva parlato poco tempo prima che fosse attuato il tentativo di evasione. Tuti aveva chiesto un colloquio con la dottoressa Fiorillo perché aveva bisogno di un lavoro per mantenersi gli studi universitari in Scienze Agrarie e Forestali. Il magistrato sostiene che il Tuti che vide e ascoltò in quell'incontro non era assolutamente migliorato o cambiato, parlava ancora come un sanguinario ed un esaltato, non corrispondeva affatto alla descrizione contenuta nella relazione positiva proveniente dal carcere di Cuneo. Il sospetto è che, per liberarsi di un detenuto scomodo come Tuti, avessero forzato e accentuato alquanto i progressi del neofascista. Inoltre Antonietta Fiorillo aggiunge: "Tuti non ha mai goduto di alcun privilegio o di particolari libertà di movimento dal giorno in cui ha varcato il portone di Forte San Giacomo. Era rinchiuso nella sezione più protetta del carcere, non poteva venire a contatto con l'esterno e anche il lavoro che svolgeva all'ufficio conti correnti si trovava nella stessa ala del penitenziario in cui il terrorista nero era rinchiuso". Infine è necessario tenere presente che al ministero erano arrivate indicazioni precise su un'intesa che si andava creando, nel carcere di Cuneo, fra Tuti e alcuni pericolosi detenuti: ergastolani, pluriomicidi e comunque leader di gruppi interni al carcere. Tra questi Andraus, Vallanzasca, Chiti, Medda, Di Lenardo, Pancelli. Terrorismo, Brigate Rosse e grossa criminalità potevano creare un fronte esplosivo. Da qui la decisione di dividerli. Mentre Vallanzasca approfittava del viaggio verso Bad'e Carros per fuggire clamorosamente dal traghetto 'Flaminia', Tuti veniva trasferito a Porto Azzurro, decisione adesso sotto accusa (14).

2.3.2. Primo atto: trasferito il direttore del carcere. "Il comportamento di Cosimo Giordano è stato esemplare" ha detto Vassalli, ma non dirigerà più il carcere di Porto Azzurro. Il ministro afferma che è una normale misura dopo quanto è successo, non è una punizione. Il direttore del carcere di Porto Azzurro viene trasferito a Torino dove svolgerà il burocratico compito di 'impiegato dell'ispettorato distrettuale' del locale penitenziario. Probabilmente, anche se nessuno lo ammette, è stato considerato un direttore troppo di manica larga, troppo moderno rispetto alla mentalità con la quale la maggior parte delle persone affronta ancora la materia carcere. Chi si distingue per le idee, le intuizioni e il coraggio evidentemente rischia molto di più di chi vive all'ombra della banalità e della routine del quotidiano. Chi si mette in mostra è molto stimato e contemporaneamente molto temuto, è considerato scomodo e pericoloso. La sensazione, solo una sensazione, è che il presupposto di questo trasferimento stia proprio nel coraggio di quel direttore che viene allontanato dopo aver risolto felicemente la vicenda, oltre che essere stato uno dei prigionieri durante l'interminabile settimana di rivolta. E proprio mentre era sequestrato, il dottor Giordano ha proposto di applicare i benefici previsti dalla nuova legge penitenziaria. Tuttavia sembra che ad alcuni non stesse bene il fatto che la soluzione fosse giunta dall'interno dell'infermeria e quindi Cosimo Giordano non poteva risultare l'eroe di Porto Azzurro, l'uomo della vittoria. Così vincitore assoluto è risultato Nicolò Amato mentre il direttore è stato trasferito, cacciato e perseguito penalmente. In molti conoscono la verità e gli sono stati vicini, hanno cercato di difenderlo e di aiutarlo; perfino Tuti durante il processo, in udienza, si è schierato dalla parte del direttore cercando di spiegare come realmente andarono le cose. (15)

2.3.3. Un sindaco contro lo Stato. L'altra vittima della rivolta di Porto Azzurro è il sindaco del paese. Mercoledì 2 settembre al dottor Maurizio Papi arriva un telegramma, poche righe di parole durissime. Il mittente è il prefetto di Livorno, Nicola Bosa, che ha deciso di sospendere per un mese il sindaco dalle sue funzioni di commissario di governo, potrà invece continuare a svolgere l'attività amministrativa e politica. Per il resto lo sostituirà il commissario prefettizio, Gaetano Esposito. Un segnale deciso di disapprovazione nei confronti del suo comportamento durante i giorni della rivolta, un comportamento che alimentava ulteriormente il fermento nel paese e diminuiva la forza contrattuale dei magistrati. La motivazione del telegramma è questa: "Non aver assolto in maniera regolare e completa i suoi compiti istituzionali in occasione della rivolta". La sospensione del sindaco era già stata richiesta dal vicepresidente della Camera, Alfredo Biondi e puntualmente è arrivata. Paga per il "Partito dell'elicottero", ma soprattutto per 'una settimana da leone', al centro dell'attenzione. Prima ha raccolto tremila firme per la concessione dell'elicottero e ha organizzato un corteo, si è offerto come ostaggio, ha annunciato la liberazione degli ostaggi quando ancora era in corso la prigionia e infine si è dichiarato "contro lo Stato". E questo lo Stato non vuole perdonarglielo. Lui non si sente certamente colpevole perché ha interpretato la volontà della sua popolazione. Probabilmente ha fatto solo tutto ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro nella sua posizione, ha fatto il suo dovere, ma lo accusano di aver esagerato un po'. Comunque sembra che al prefetto 'di ferro' Bosa abbia dato fastidio una dichiarazione (16) in particolare: "Se lo Stato mette a repentaglio la vita degli innocenti allora io non ho dubbi, sono contro lo Stato". La frase maggiormente incriminata sembra questa, ma la sospensione del sindaco Papi ha suscitato reazioni contrastanti. L'intervento prefettizio solleva infatti questioni interessanti dal punto di vista politico e costituzionale. Nella nostra Costituzione viene infatti affermata la promozione delle autonomie locali volendo attribuire agli enti locali e ai suoi organi un reale potere autonomo che non sia meramente burocratico o di delega. Un sindaco che "non fa il suo dovere" risponderà delle proprie mancanze ai cittadini del comune, ma non può essere sospeso con atto prefettizio sulla base dell'art. 149, comma ottavo del testo unico della legge comunale che stabilisce che i sindaci possano essere rimossi o sospesi per gravi motivi di ordine pubblico e solo dopo un richiamo all'osservanza dei loro obblighi. (17) Giusto o meno, il sindaco viene sospeso dal prefetto Bosa, ma per Maurizio Papi non è finita certo qui. Dopo il telegramma fulminante di sospensione, per il sindaco arriva anche il 'conto' della magistratura. Una comunicazione giudiziaria per il reato di diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico e di violazione del segreto istruttorio. Il magistrato però sta lavorando anche su un'altra ipotesi di reato, cioè la manifestazione non autorizzata, in relazione al corteo fatto dai familiari degli ostaggi durante il terzo giorno della rivolta, corteo che forzò i posti di blocco dei carabinieri sulla strada che conduce al carcere. È evidente che questo avviso di garanzia è soltanto il primo di una lunga serie. Non si guadagna il titolo di vittima per caso. Dal 1987 al 1996, anno in cui si conclude l'ultima vittima per caso. Dal 1987 al 1996, anno in cui si conclude l'ultima battaglia legale del dottor Maurizio Papi, sono stati recapitati a casa dell'ex sindaco elbano 34 avvisi da parte della magistratura. Lui si definisce un perseguitato, una vittima della giustizia. Dopo che era stato rieletto sindaco alle elezioni, è stato costretto a dimettersi poiché tempestato dai processi.

2.3.4. Chi ha fornito le armi ai sei detenuti in rivolta? Il primo episodio sul quale la magistratura può basare la ricostruzione dei fatti risale al 10 agosto e riguarda i due fratelli di Mario Marrocu, Giampaolo di ventitré anni e Romeo di diciannove. Quel giorno i due ragazzi furono trovati in possesso di una pistola e sei cartucce alla stazione Santa Maria Novella di Firenze. Durante il primo interrogatorio Giampaolo si era assunto in pieno la responsabilità del possesso della pistola, cercando di scagionare il fratello minore. Disse di aver comprato l'arma a Cagliari e la pistola sarebbe dovuta servire per intimidire alcuni spacciatori di droga, i quali gli avevano venduto camomilla invece che eroina. In seguito a questo episodio, i due fratelli sono rinchiusi nel carcere di Sollicciano e aspettano di essere giudicati per detenzione di arma. Ma alla magistratura appare evidente che le armi utilizzate dai rivoltosi, siano state introdotte nel penitenziario da qualcuno che vi aveva libero accesso, anche perché Tuti stesso durante un interrogatorio avrebbe fatto riferimento a un soggetto interno al penitenziario. La mossa successiva è allora quella di indagare sugli agenti di custodia per trovare il 'basista' interno, poiché i giudici sono convinti che le due pistole siano entrate dal cancello principale. Mentre il procuratore aggiunto Pier Luigi Vigna e il sostituto procuratore Ubaldo Nannucci vagliano la posizione di numerosi agenti di custodia, Giampaolo continua a cambiare la sua versione dei fatti. Il problema è anche quello di stabilire quando le armi siano state introdotte all'interno del carcere. Infatti, durante una sparatoria a Cremona, alla quale parteciparono i fratelli Marrocu, le armi in loro possesso erano due; quando furono fermati alla stazione di Firenze, erano invece in possesso di una pistola soltanto. La prima ipotesi verteva quindi sul fatto che la prima pistola fosse stata portata nel carcere di Porto Azzurro fra il 7, giorno della sparatoria di Cremona, e il 10, giorno in cui vennero bloccati a Firenze. Però sembra da escludere che le armi siano rimaste nella Casa di Reclusione così a lungo, non era prudente; inoltre un'accurata ispezione effettuata nel carcere il 21 agosto, rileva con sufficiente sicurezza che le pistole non erano ancora entrate. Le armi quindi (due pistole, quattro coltelli e del materiale esplosivo), sarebbero state introdotte in carcere poco tempo prima del tentativo di evasione. Alla fine, sulla base di qualche indizio, viene arrestato Cesare Pellino, cinquantenne di Napoli, appuntato degli agenti di custodia che aveva l'incarico di fare la spesa nei negozi del paese di Porto Azzurro, per conto dei detenuti. Le accuse a carico di Pellino sono molto gravi: concorso in sequestro di persona, tentata procurata evasione, porto e detenzione di armi. Durante il primo interrogatorio, svolto da Vigna e Nannucci, il Pellino respinge ogni accusa e fornisce esaurienti spiegazioni riguardo ad una discreta somma di denaro trovata sul suo libretto di risparmio. Dopo che i due magistrati fiorentini hanno compiuto gli atti urgenti, l'inchiesta passa alla procura di Livorno, competente per merito e per territorio. Sta al dottor Cindolo quindi accertare tutti i risvolti della intricata vicenda e trovare i responsabili dell'episodio più incerto e oscuro dell'intero avvenimento. Il coinvolgimento di Cesare Pellino viene confermato, e l'agente 'talpa' arriva al processo con le seguenti imputazioni: concorso in tentata procurata evasione, sequestro di persona a scopo d'estorsione, porto e detenzione di armi. Ma a rispondere di questi reati non sarà solo, perché oltre al coinvolgimento dei fratelli Marrocu, viene portato in Tribunale anche Marco Guidi, detenuto a Porto Azzurro e chiamato in causa proprio da Cesare Pellino. Quest'ultimo infatti sostiene che le armi sarebbero entrate in carcere il 9 agosto e consegnate ai ribelli con la complicità di Marco Guidi. Le date tornerebbero visto che i fratelli Marrocu sono stati bloccati alla stazione di Firenze il giorno 10 agosto con una sola pistola e non due come il 7 agosto durante la sparatoria di Cremona.

2.4. Ombre e dubbi circa la promessa di concessioni sulla base della Legge Gozzini. Una resa senza condizioni, così l'ha definita lo Stato. In effetti, attraverso una logorante persuasione alla resa ha vinto la ragione. Tuttavia, qualche dubbio pare legittimo. L'ammissione ai benefici della "Legge Gozzini" presuppone la buona condotta carceraria. Quale giudice allora firmerebbe un provvedimento in cui si affermi che Mario Tuti ha tenuto una buona condotta, dopo quello che è accaduto a Porto Azzurro? E se invece prendiamo in considerazione il caso opposto, cioè che vengano realmente concessi i benefici ai rivoltosi, quale giustizia nei confronti delle altre migliaia di detenuti che rispettano le leggi e seguono le regole comportamentali in vista dell'applicazione dell'art. 21? Quale strada viene indicata, quella della buona condotta o quella dell'atto di forza? Quanti assassini, quanti ergastolani penseranno che la strada più breve e sicura da percorrere per ottenere vantaggi e libertà è quella di organizzare una bella rivolta piuttosto che impegnarsi a cambiare? Interrogativi raccapriccianti. Almeno fino a quando non passiamo allo studio del particolare. Ai sei detenuti, infatti, è stata promessa l'applicazione di quella norma sulla base di un 'affidamento', di una 'assicurazione', non di un patto vero e proprio, in quanto il decidere se concedere i benefici spetta, per legge, al giudice di sorveglianza (18). Il governo non può certamente obbligare il magistrato a fare concessioni. Inoltre, dopo otto giorni di rivolta, sia per lo Stato che per i rivoltosi, era necessario uscire a testa alta (lo stesso Tuti parlava di "dignità e onore" col suo difensore Avv. Sangermano) e forse l'unico modo era l'applicazione di quella legge. Probabilmente alcuni dei detenuti ribelli, quando hanno accettato di arrendersi, potevano immaginare che quei benefici non sarebbero mai stati accordati. Tutto previsto, tutto concordato soltanto per uscire dalla vicenda a testa alta, per non dire abbiamo fallito.

2.5. Edizione straordinaria de "La Grande Promessa". "La Grande Promessa", il periodico mensile della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, esce con un numero straordinario dedicato quasi per intero alla rivolta. Firme importanti come quelle di Lorenzo Bozano e Pietro Cavallero (19). Tutti sottolineano lo stupore, l'incredulità e la paura di quei giorni. "Una paura dai confini indefiniti: vaga, strisciante, attonita, stordita", scrive Bozano. Cavallero riporta invece una lunga intervista fatta a Roberto Masetti, ergastolano ostaggio durante i giorni della rivolta. "I primi giorni furono tremendi - racconta Masetti - giorni di paura e di tensione continua. Soprattutto per il timore che intervenissero con un blitz i corpi speciali; il che, data la particolare collocazione dell'infermeria, probabilmente avrebbe provocato una strage. I primi giorni sono stati difficili, poi gradualmente la tensione un poco allentò. Mi colpì soprattutto il comportamento del direttore dottor Giordano che fu veramente instancabile, tenendo su il morale di tutti, dialogando con sequestratori ed ostaggi, escogitando ogni possibile tipo di soluzione pacifica e ragionevole. Se tutto si è concluso bene, lo si deve molto anche a lui che ha offerto sempre alternative di speranza agli autori del fatto, oltre che a coloro che all'esterno hanno saputo capire quali fossero le possibili alternative ad una soluzione di forza". Anche negli altri articoli de "La Grande Promessa" il pensiero che ricorre più frequentemente è l'incredulità che una vicenda del genere possa essere accaduta proprio a Porto Azzurro. Ma soprattutto quello che colpisce è la speranza che ogni detenuto ha di non vedere svanire il sogno di un carcere modello e di non vedere regredire l'applicazione della "Legge Gozzini". La speranza e la volontà che tutto torni ad essere come prima.

Note

1. Tuti sarà nuovamente assolto in Cassazione. Fra le richieste di Tuti, durante le trattative di Porto Azzurro, c'è anche quella di revisione della sua situazione nel processo Italicus.

2. Tuti è stato processato anche per l'omicidio Mennucci, ma è stato assolto per non aver commesso il fatto dalla Corte di Assise d'Appello di Firenze il 9 aprile 1991 dopo essere stato assolto in primo grado per insufficienza di prove.

3. Vedi registrazione telefonata fra Giordano e Munno e l'intervista a cura di Pietro Cavallero su "La Grande Promessa", ivi accenni a pag. 49.

4. Vedi registrazione del primo colloquio telefonico fra Cindolo e Giordano. L'argomento è proprio la disponibilità dell'elicottero richiesto.

5. L'elicottero è il 'SH 3D', c.d. 'Sea King'. Può volare per 5 ore a 200Km/h.

6. Vedi l'esemplare conversazione fra Tuti e il dr. Ciccotti.

7. La drammaticità di tutta la telefonata, riportata sul quotidiano "La Repubblica" durante i giorni del sequestro, viene ampiamente ridimensionata e smorzata dallo stesso dottor Carlotti, intervistato all'ospedale di Porto Ferraio il 7 aprile 1997.

8. Fu il direttore Giordano a sconsigliare il colloquio.

9. Il fatto che le promesse non siano vere e proprie garanzie, ma soltanto affidamenti, si comprende molto bene anche dal dialogo fra Mario Tuti e il suo avvocato, Germano Sangermano. Vedi registrazione telefonica del loro colloquio.

10. Tuti appunta le richieste anche su un quaderno.

11. Ad Ernesto Olivero, Pietro Cavallero, al momento della morte, ha lasciato un testamento spirituale, ringraziandolo e lasciando alla fondazione Sermig i proventi del libro da lui scritto.

12. Vedi a questo proposito la conversazione fra Giordano e Cindolo.

13. Vedi interviste e conversazione fra Giordano e Amato.

14. Mario Tuti attualmente si trova nel carcere di Voghera.

15. I particolari riguardanti il dr. Giordano risultano dall'intervista in cap. III.

16. Apparsa su "La Repubblica" il 30 agosto a firma di Paolo Guzzanti.

17. In tal senso l'avvocato A. Aiazzi.

18. I benefici proposti e i limiti nell'applicazione, risultano molto chiaramente dalla conversazione telefonica fra il dr. Amato e Mario Rossi.

19. Pietro Cavallero è deceduto all'età di 68 anni a Torino il 28 gennaio 1997.