ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
Condizioni di detenzione nelle carceri europee tra diritto dei detenuti e deroghe all'art. 3 della Convenzione

Alessia Gori, 2015

3.1 Il diritto dei detenuti

Il termine "diritti dei detenuti", si è costituito in tempi abbastanza recenti, andando ad affiancare quello che ormai viene chiamato il "Diritto penitenziario". Tale nozione si è affermata dopo la seconda Guerra Mondiale, inizialmente nei paesi scandinavi, ma si trova anche nelle Regole minime delle Nazioni Unite e del Consiglio d'Europa.

3.1.1 La lacuna dell'art 3 della Convenzione

La Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo non contiene alcun riferimento specifico alla condizione dei soggetti privati della libertà (1); a differenza di altri documenti internazionali, quali il Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite (2) del 1966 o la Convenzione Americana sui diritti Umani (3) del 1969, l'art. 3 della Convenzione non positivizza alcun principio di tutela in proposito.

La lacuna della Convenzione tuttavia, verrà colmata dall'attività giurisprudenziale della Corte e della Commissione, gli organi giurisdizionali del Consiglio d'Europa, i quali hanno operato fin dalla metà degli anni Sessanta per riempire questo vuoto normativo.

3.1.2 L'evoluzione giurisprudenziale in materia di tutela del detenuto

L'attività ermeneutica della Corte in materia di diritti dei detenuti ha trovato una base normativa principalmente, anche se non esclusivamente, nell'art. 3 della Convenzione. La norma è molto sintetica, quasi a voler indicare un principio generale che poi verrà concretizzato nelle varie declinazioni da normative nazionali o sovranazionali e dagli organi giurisdizionali del Consiglio d'Europa. "Inoltre ogni privazione della libertà mette la persona in questione in una posizione molto vulnerabile e la espone al rischio di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. I giudici sono dunque tenuti a ricordare sempre, per non svuotare la garanzia della libertà della sua sostanza, che ogni detenzione deve essere eccezionale, obiettivamente giustificata, e non durare più tempo che quello strettamente necessario" (4).

La Commissione nel 1968, ha gettato le prime basi per una estensione della portata dell'art. 3, essa nel parere sul caso Ilse Koch c. Austria (5), ha stabilito cha la detenzione non priva il detenuto della garanzia dei diritti e delle libertà protetti dalla Convenzione, principio in seguito richiamato anche dalla Corte nel caso Campbell e Fell c. Regno Unito (6). La Commissione però non si è limitata a una mera affermazione di principio ed è andata oltre, estendendo la portata dell'art. 3 enunciando la cosiddetta Teoria delle libertà implicite, in ragione della quale è possibile passare al vaglio della Convenzione anche materie non direttamente ricomprese in essa, qualora uno Stato eserciti un potere di per sé lecito che però nelle sue ripercussioni lede uno dei diritti tutelati. Per comprendere meglio il concetto in esame, richiamo le parole della stessa Commissione nel parere sul caso X c. Repubblica Federale Tedesca (7) del 1974:

Se la materia dell'estradizione, dell'espulsione e del diritto di asilo non rientrano tra quelle espressamente previste dalla Convenzione, gli Stati contraenti hanno non di meno accettato di restringere i poteri loro conferiti dal diritto internazionale generale ivi compreso quello di controllare l'ingresso e l'uscita degli stranieri, nella misura e nel limite degli obblighi che essi hanno assunto in virtù della Convenzione. Allora l'espulsione o l'estradizione di un individuo può, in alcuni casi eccezionali, essere contraria alla Convenzione e in particolare all'art. 3, quando ci sono serie ragioni di credere che quel lo sarà sottoposto nel lo Stato di destinazione a trattamenti proibiti da questo articolo.

Il percorso logico-argomentativo della Commissione si è consolidato quattro anni dopo, nel parere sul caso Kotalla c. paesi Bassi (8), quando ha applicato la teoria delle libertà implicite per ricomprendere nell'ambito della protezione della Convenzione anche la materia della tutela dei soggetti privati della libertà. Essa afferma infatti che "una pena regolarmente inflitta, può sollevare un problema rispetto all'art. 3 per il modo in cui è realizzata", di tal ché si veniva a formare un sostrato giurisprudenziale da cui la Corte ha potuto trarre le basi per affermare la portata del diritto fin qui analizzato.

3.1.3 Le Regole minime per il trattamento dei detenuti

Nel panorama internazionale ha ricoperto particolare rilievo per il diritto dei detenuti, la Risoluzione per la prevenzione del delitto ed il trattamento dei delinquenti, adottata dal congresso delle Nazioni Unite il 30 Agosto 1955. Essa riguardava, non tanto suggerimenti per migliorare sistemi di trattamento dei detenuti già di per sé considerabili come adeguati alle caratteristiche generali proprie dell'epoca attuale, ma, di regole minimali, al di sotto delle quali non era possibile andare (9). Nelle Osservazioni Preliminari contenute nel testo, si apprezza tutta la cautela che i redattori hanno osservato nello stabilire per la prima volta uno standard di rilevanza mondiale circa il trattamento dei detenuti delle carceri di tutti i Paesi aderenti all'Organizzazione delle Nazioni Unite. Veniva così infranto il tabù di una realtà carceraria ammantata da un alone di riservatezza e di estraneità rispetto alla società che vi si sviluppa intorno, e ciò a causa, spesso, dell'ubicazione dei penitenziari (ai margini della città) o del microcosmo che si sviluppa dietro le mura degli stessi.

Come ho appena detto, la Risoluzione procede cautamente, ma inesorabilmente ad una definizione di regole minime, e ciò "ispirandosi a concetti oggi generalmente accettati e alle parti essenziali dei migliori sistemi contemporanei, i principi generali e le regole minime di una buona organizzazione penitenziaria e di una buona pratica di trattamento dei detenuti" (10). La sforzo di stilare un decalogo generale applicabile a tutti i Paesi firmatari, ha richiesto inevitabilmente un'applicazione talvolta puntuale delle regole minime individuate dalla Risoluzione, come si legge all'art. 2, "E' evidente che non tutte le regole possono essere applicate in ogni luogo e in ogni tempo, data la grande varietà di condizioni giuridiche, sociali, economiche e geografiche esistenti nel mondo. Esse dovranno tuttavia servire a stimolare lo sforzo costante diretto a superare le differenze pratiche che si oppongono alla loro applicazione, tenendo presente che esse rappresentano, nel loro insieme, le condizioni minime ammesse dalle Nazioni Unite" (11).

Per il proseguo della trattazione del tema in analisi è interessante richiamare brevemente una selezione degli articoli della Risoluzione ONU riguardanti l'Area di detenzione (12), in modo da poterli richiamare nel proseguo del presente capitolo.

Nel descrivere le condizioni minime degli ambienti di detenzione, i redattori esprimono la necessità che questi debbano rispondere alle esigenze di igiene, tenuto conto del clima, particolarmente per ciò che riguarda la cubatura, la superficie minima, l'illuminazione, il riscaldamento e la ventilazione; in particolare si specifica che le finestre devono essere sufficientemente grandi perché il detenuto possa leggere e lavorare alla luce naturale; la chiusura di queste finestre deve permettere l'entrata dell'aria fresca, vi sia o no ventilazione artificiale. Per concludere, è richiesto agli Stati parte di garantire che gli impianti sanitari devono permettere al detenuto di soddisfare i propri bisogni naturali al momento voluto, in modo proprio e decente. Nel proseguo è mia intenzione richiamare le previsioni ora riportate in riferimento all'attività giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell'uomo riguardante l'art. 3 Cedu come norma regolatrice delle condizioni di detenzione a livello europeo.

Il tema delle condizioni di detenzione nelle carceri è strettamente connesso all'evoluzione costante del pensiero politico e sociale dei Paesi che accettano di riconoscere regole in materia, l'influenza della Raccomandazione Onu del 1955, trova una eco a livello europeo nelle Regole minime per il trattamento dei detenuti, adottate nel 1973 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, con la Risoluzione (73)5. Sebbene le Regole delle Nazioni Unite e quelle del Consiglio d'Europa risultino essere solo Raccomandazioni, va notata la straordinaria rilevanza dovuta al fatto che fino ad allora, non esistevano norme di diritto internazionale che riguardassero il trattamento dei detenuti. Un ulteriore definizione degli standard europei in tema di diritti dei detenuti si riscontra pochi anni dopo nella Raccomandazione (87)3, con cui il Comitato dei Ministri ha approvato un aggiornamento delle regole del 1973. Tale sviluppo si era reso necessario in considerazione del grande accrescimento della pratica penitenziaria in Europa e delle numerose Raccomandazioni sul tema, che occorreva coordinare all'interno di un unico corpus di norme in materia (13). Le regole penitenziarie europee hanno fortemente contribuito ad uno sviluppo dei diritti dei detenuti, attraverso la garanzia di norme volte ad assicurare un livello soddisfacente di umanità e dignità per i detenuti nei sistemi penitenziari, spesso messi a dura prova, tra l'altro, dal crescente tasso di sovraffollamento, o a causa di condizioni igieniche inadeguate. Il corpus normativo in analisi non costituisce un vincolo dal punto di vista del diritto internazionale, tuttavia è utilizzato dagli organi giurisprudenziali europei come linea guida nella statuizione di casi riguardanti la dignità e le condizioni della detenzione (14).

Il Consiglio d'Europa ha prestato attenzione alle condizioni di detenzione dei soggetti privati della libertà solo tardivamente rispetto all'entrata in vigore della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, o alla Risoluzione ONU del 1955; tuttavia l'operato dell'organismo europeo è stato, a partire dal 1973, costante e fortemente indirizzato ad un miglioramento delle condizioni di detenuti. In questo contesto si inserisce il progetto di stesura delle nuove Regole penitenziarie europee, avviatosi nei primi anni del Duemila; la nuova formulazione aveva lo scopo di implementare l'evoluzione del concetto di umanità del trattamento dei detenuti, tenendo in considerazione soprattutto l'operato della Corte europea dei diritti dell'uomo e delle valutazioni prodotte dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti, nella propria attività di monitoraggio e controllo. Un'ulteriore motivazione della necessità di aggiornare le Regole era stata portata alla luce anche dalla Conferenza ad hoc, tenutasi a Roma nel 2003, dei Direttori delle Amministrazioni penitenziarie e dei Servizi per le misure alternative degli Stati del Consiglio d'Europa. In quell'occasione è stato fatto presente che dal 1987 erano intervenuti numerosi cambiamenti nella società europea e che questi avevano prodotto dei mutamenti forti nel sistema penitenziario, specie nei Paesi dell'Est, attraversati dai tumulti relativi al passaggio da un Governo totalitario ad uno più democratico (e pertanto inclini ad una diversa concezione del concetto di pena e trattamento dei detenuti). La Conferenza ha evidenziato anche che, parallelamente ad una ragione di tipo sociale ve ne era una puramente oggettiva, ovvero l'ampliamento dei Paesi del Consiglio d'Europa, da ventitré che erano agli attuali quarantasette (15). Da queste premesse, l'11 gennaio 2006, il Consiglio dei Ministri con la Raccomandazione R(2006)2, ha adottato le nuove Regole penitenziarie europee. Lo scopo principale è quello di assicurare che il detenuto sia recluso in condizioni che non ledano la sua dignità e di fornire uno standard minimo di trattamento al di sotto del quale gli Sati non dovrebbero scendere.

Le Regole penitenziarie europee acquistano una influenza maggiore a livello nazionale ed europeo grazie anche al coordinamento con l'attività giurisprudenziale della Corte EDU e del CPT, i quali spesso richiamano la Raccomandazione nel proprio percorso argomentativo.

3.2 Condizioni di detenzione e obblighi dello Stato

L'obbligo positivo di protezione nei confronti dei soggetti privati della libertà, si declina in un ampio ventaglio di previsioni, quali ad esempio l'obbligo di garantire condizioni detentive adeguate, l'obbligo di utilizzare la forza solo quando le circostanze la giustifichino e comunque sempre in proporzione alla necessità del caso e nel rispetto della Convenzione ed infine l'obbligo di fornire assistenza medica necessaria.

3.2.1 L'obbligo di garantire condizioni detentive adeguate

La Corte si è posta il problema di andare a vedere in concreto lo stato di detenzione dei soggetti privati della libertà, dovendo discernere quella che è l'umiliazione del condannato, fisiologicamente insita nella sanzione penale (16), da una punizione che in concreto sminuisca la dignità del recluso e ne acuisca quella percezione di umiliazione (17). Sin dalla sue prime sentenze, il giudice di Strasburgo ha evidenziato questa dicotomia, affermando che non tutte le pene in generale possano rientrare nel divieto di cui all'art. 3, ma che serva una valutazione puntuale compiuta tenendo in considerazione gli elementi specifici del caso di specie:

in order for punishment to be 'degrading' and in breach of Article 3 (art. 3), the humiliation or debasement involved must attain a particular level of severity and must in any event be other than that usual element of humiliation inherent in any punishment. Indeed, Article 3, by expressly prohibiting 'inhuman' and 'degrading' punishment, implies that there is a distinction between such punishment and punishment more generally.

The assessment of this minimum level of severity depends on all the circumstances of the case (18).

Le condizioni di detenzione dei detenuti o delle persone sottoposte a custodia da parte della polizia, sono rimesse alla tutela dello Stato, il quale è obbligato a garantire uno standard minimo delle condizione delle carceri, in virtù dell'art. 3 della Convenzione EDU (19); questo livello minimo di protezione deve tener conto del rispetto della dignità dell'uomo e in particolare dei detenuti, i quali versano in una condizione particolarmente delicata e vulnerabile (20), così come la giurisprudenza europea ha più volte affermato rispetto all'interpretazione della Cedu.

La Corte si è occupata per la prima volta delle condizioni detentive dei soggetti privati della libertà nel caso Kudla c. Polonia (21) dell'ottobre 2000 Nel 1991 il ricorrente fu accusato di frode e falsificazione e per questo detenuto in custodia cautelare; durante la sua reclusione, ha tentato di suicidarsi per due volte, e ha anche intrapreso uno sciopero della fame, poiché soffriva di depressione cronica. Per più di settanta volte, ha chiesto il proprio rilascio o ha presentato ricorso contro le decisioni di tenerlo in carcere, il 29 ottobre 1996, in seguito del pagamento della cauzione da parte della famiglia il ricorrente è stato rilasciato. Il sig. Kudla nel giudizio di fronte alla Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato che, durante la reclusione non gli era stato fornito alcun trattamento psichiatrico adeguato, in violazione dell'art. 3 della Cedu. Nel giudizio la Corte non ha ritenuto dimostrato che il ricorrente fosse stato sottoposto a maltrattamenti tali da raggiungere un sufficiente livello di gravità da rientrare nel campo di applicazione dell'art. 3; i giudici hanno riconosciuto al contrario, che egli ha ricevuto regolari cure psichiatriche nell'arco del periodo detentivo. Essi hanno incidentalmente affermato che la natura stessa della condizione psicologica del candidato lo ha reso più vulnerabile rispetto agli altri detenuti e che la sua detenzione potrebbe aver aggravato in una certa misura i suoi sentimenti di disagio, angoscia e paura (22). La sentenza è interessante perché nel percorso argomentativo, la Corte ha colto l'occasione per stilare un elenco degli obblighi positivi che la Convenzione crea in capo agli Stati, in primo luogo vi è l'obbligo generale di garantire che la detenzione si svolga in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, ma non solo, esiste anche un obbligo di assicurare che l'esecuzione della pena non causi sofferenze e angosce superiori a quelle fisiologicamente intrinseche alla punizione detentiva (23).

In una sentenza successiva i giudici hanno approfondito questo primo approccio, dichiarando, nel caso Dougoz c. Grecia (24), che le condizioni di detenzione non devono arrivare a rappresentare un serio danno alla salute del detenuto (25). In particolare la corte ha affermato che nella valutazione della violazione dell'art. 3, bisogna tenere conto del criterio del cumulo delle accuse, sia quelle addotte dal ricorrente, sia quelle degli specifici effetti che le condotte lesive hanno cagionato alla vittima. Oggetto dell'analisi da parte dei giudici di Strasburgo, sono state principalmente, le condizioni igieniche, l'accesso a luce naturale o ventilazione, la possibilità di uscire fuori dalla cella per una attività ricreativa o lavorativa o, ancora, per svolgere esercizi fisici, l'assenza di privacy dentro la cella e in fine, ma non certamente meno importante le condizioni di spazio all'interno dell'unità di detenzione (26).

Una sentenza centrale sul tema delle condizioni di detenzione è quella riguardante il caso Kalashnicov c. Russia (27), essa infatti rappresenta una svolta nell'analisi della Corte su questo argomento. Per la prima volta sul tavolo dei giudici cominciano a comparire le specifiche condizioni in cui il soggetto recluso vive la propria condanna, cade il velo di fronte alla vita all'interno della cella, e la realtà che fino a quel momento rimaneva ovattata e sullo sfondo della decisione del giudice europeo, acquista un ruolo principale.

Nell'analisi dei fatti emerge che la condizione subita dal ricorrente non era il frutto di un atteggiamento ostile dell'amministrazione penitenziaria o delle guardie, nei suoi confronti, al contrario la Corte sottolinea in vari punti che non si rinviene una volontà di umiliare o ledere il detenuto, ma che vi è stata una partecipazione attiva delle guardie ad alleviare le sofferenze laddove possibile. Le condizioni di detenzione del Kalashnikov sono sintomatiche di una grave insufficienza degli standard penitenziari della Russia che tocca le condizioni di detenzione di molti altri detenuti, la Corte in quest'analisi ha rilevato che la causa del deficit strutturale è da imputare a ragioni economiche; si afferma che vi è una mancanza di risorse finanziarie per modificare le infrastrutture, anche se vengono apprezzati gli sforzi per migliorare le condizioni di detenzione (28).

Nella sentenza in analisi, il punto di svolta rispetto alle motivazioni nei casi precedenti, è rappresentato dal fatto che i giudici hanno superato il concetto di pena degradante come espresso nella sentenza Tyrer, individuando una violazione dell'art. 3 per detenzione degradante e umiliante in tutte quelle circostanze in cui appare oggettiva la violazione delle regole minime stabilite dalle Raccomandazioni ONU e del Consiglio d'Europa. La Corte conclude che la sofferenza psichica e fisica patita dal ricorrente a causa del sovraffollamento e delle scarse condizioni igieniche, unita al periodo particolarmente lungo di detenzione in simili condizioni, hanno provocato una violazione dell'art. 3, indipendentemente dalla presenza di intenzionalità o meno di ledere o umiliare il detenuto da parte dell'amministrazione penitenziaria.

Incidentalmente è interessante notare che in riferimento alle condizioni di prigionia, la Corte spesso si è trovata a esprimere un giudizio sulla violazione dell'art. 3 in casi in cui erano convenuti Paesi dell'Est Europa, utilizzando sistematicamente le argomentazioni della sentenza Kalashnikov.

Nella sentenza Alver c. Estonia (29) la Corte ha riconosciuto che costringere il detenuto a sottostare per lungo tempo a condizioni di detenzione incompatibili con l'art. 3, costituisce un'ulteriore fattore valido a corroborare il giudizio di colpevolezza dello Stato, affermando che anche la durata ha rilevanza nella determinazione della violazione della Convenzione EDU. La Corte inizialmente afferma che le condizioni di detenzione, come descritte dal ricorrente, sono tali da richiedere una valutazione, infatti afferma che "The Court finds that the lack of space in the cells, combined with the limited freedom of movement outside the cells and the length of the period during which the applicant was subjected to these conditions, weighs heavily as an aspect to be taken into account for the purpose of establishing whether the impugned detention conditions were 'degrading' from the point of view of Article 3. The Court observes that the above factor was compounded by the poor conditions in the detention facilities where the applicant was held". La Corte nella propria decisione tiene in considerazione l'analisi dei fatti nella loro interezza, essa rileva che oltre alle condizioni sopra descritte, al ricorrente, dopo due anni di detenzione, è stata diagnosticata anche la tubercolosi, fatto questo che di per sé non implica una vioazione dell'art. 3 della Convenzione, ma certamente deve essere tenuto in considerazione insieme ai report del CPT, come prova della reale condizione di detenzione in cui i detenuti estoni erano costretti a vivere. Per queste ragioni la Corte decide per una violazione dell'art. 3, adducendo la seguente motivazione e dunque proseguendo il filone giurisprudenziale avviato con la sentenza Kalashnikov, "In the light of the foregoing, the Court considers that the conditions of the applicant's detention as described above, in particular the overcrowding, inadequate lighting and ventilation, impoverished regime, poor hygiene conditions and state of repair of the cell facilities, combined with the applicant's state of health and the length of the period during which he was detained in such conditions, were sufficient to cause distress and hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention".

Un ulteriore esempio è dato dalla sentenza Poltoratskiy c. Ucraina (30) nella quale il ricorrente, condannato alla pena di morte, poi tramutata in ergastolo, lamentava una violazione dell'art. 3 Cedu a causa delle condizioni di detenzione in cui era costretto a vivere. Sotto un profilo ratione temporis, la Corte era competente ad esaminare le censure del ricorrente, nella misura in cui si riferivano al periodo successivo all'11 settembre 1997, data in cui la Convenzione è entrata in vigore nei confronti dell'Ucraina. Tuttavia, nel valutare l'effetto delle condizioni detentive sul ricorrente la Corte ha affermato di poter prendere in considerazione l'intero periodo durante il quale il sig. Poltoratskiy è stato detenuto, compreso il periodo precedente al 11 settembre 1997, nonché alle condizioni della detenzione a cui era sottoposto in quel periodo. Per quanto riguarda le condizioni di detenzione del ricorrente nel braccio della morte, la Corte ha tenuto conto delle conclusioni dei delegati della Commissione relative alle dimensioni, l'illuminazione e il riscaldamento della cella del ricorrente, ma anche a quelle relative alla pratica del carcere relativa alle passeggiate quotidiane all'aria aperta. La Corte ha avuto anche riguardo ai documenti presentati dalle parti, nonché alle relazioni presentate dal CPT per il periodo in questione. Per quanto riguarda in concreto le condizioni delle celle riservate ai detenuti condannati a morte, la Corte ha osservato con particolare preoccupazione il fatto che, fino a maggio 1998 prima, il ricorrente, è stato rinchiuso ventiquattro ore al giorno in una cella di dimensioni esigue, in cui alla finestra erano state messe le imposte con la conseguenza che non c'era accesso alla luce naturale. Inoltre, non era stato previsto alcun programma per l'esercizio all'aperto o per garantire un contatto tra il detenuto e la rete parentale all'esterno del carcere In linea con le osservazioni del CPT relative alla condizione dei prigionieri nel braccio della morte in Ucraina, la Corte ha ritenuto che la detenzione del richiedente in tali condizioni inaccettabili era tale da integrare un trattamento degradante in violazione dell'art. 3 della Convenzione. Nel caso di specie però la prigionia è stata aggravata dal fatto che, tra il 24 febbraio e 24 marzo 1998, la cella in cui era stato detenuto il ricorrente non disponeva di un rubinetto dell'acqua o di un lavabo, ma solo un piccolo tubo sulla parete vicino alla toilette, dove l'approvvigionamento di acqua veniva azionato da un pulsante posto nel corridoio; dalle informazione reperite dalla Corte è risultato anche che le pareti erano ricoperte di feci e che il secchio per lo scarico del WC era stato portato via. Oltre alle gravi condizioni igienico-sanitarie e alle assurde limitazioni del movimento, è necessario ricordare che il ricorrente, allora diciannovenne, era ulteriormente provato a causa della pena capitale che pendeva sulla propria testa e che di li a poco poteva essere eseguita salvo poi intervenire una moratoria nel marzo 1997. Richiamando il ragionamento esposto nella sentenza Kalashnikov, il giudice europeo ha ritenuto che nel caso di specie, non vi fosse alcuna volontà di umiliare o svilire il richiedente, pur tuttavia, l'assenza di tale finalità non può definitivamente escludere la constatazione di una violazione dell'art. 3, e per le ragioni sopra richiamate le Corte ha nuovamente riscontrato una violazione dell'art. 3 della Convenzione.

La Corte di Strasburgo, spesso, quando oggetto di giudizio è stata l'applicazione dell'art. 3 della Convenzione, ha arricchito il novero delle circostanze rientranti sotto la tutela della norma stessa.

Nella sentenza Yankov c. Bulgaria (31), del 2003, la Corte ribadisce il principio secondo cui un detenuto non dovrebbe essere soggetto ad angoscia e disagio in misura superiore all'intensità minima connessa con la detenzione in sé considerata; in particolare i giudici hanno rilevato che costituisce un trattamento degradante anche la rasatura dei capelli del detenuto, poiché simboleggia uno stigma del proprio stato detentivo, il quale oltre ad alterare l'aspetto della persona, lo qualificava immediatamente come detenuto o ex-detenuto, in caso di rilascio. La Corte ha affermato che

A particular characteristic of the treatment complained of, the forced shaving off of a prisoner's hair, is that it consists in a forced change of the person's appearance by the removal of his hair. The person undergoing that treatment is very likely to experience a feeling of inferiority as his physical appearance is changed against his will.

Furthermore, for at least a certain period of time a prisoner whose hair has been shaved off carries a mark of the treatment he has undergone. The mark is immediately visible to others, including prison staff, co-detainees and visitors or the public, if the prisoner is released or brought into a public place soon thereafter. The person concerned is very likely to feel hurt in his dignity by the fact that he carries a visible physical mark.

Un recente orientamento giurisprudenziale ha individuato una violazione dell'art. 3 in riferimento alle condizioni di detenzione anche rispetto all'uso delle manette durante la permanenza nel penitenziario (32). La sentenza è particolarmente interessante perché spesso il giudice europeo si è mostrato restio a simili ammissioni, anche quando l'uso delle manette era avvenuto in pubblico o durante i processi (33).

L'uso di manette o altri strumenti di contenzione normalmente non dà luogo a una questione ai sensi dell'art. 3 della Convenzione, quando la misura è stata irrogata regolarmente e non comporti l'uso della forza o di l'esposizione pubblica superiore a quello che è ragionevolmente ritenuto necessario (34). A questo proposito, è importante considerare, per esempio, il pericolo di fuga della persona o la possibilità che questi causi lesioni o danni. In considerazione della gravità della condanna del ricorrente, la sua fedina penale e i suoi comportamenti violenti l'uso delle manette poteva essere giustificato in occasioni particolari, come ad esempio il trasferimento al di fuori del carcere. Tuttavia, i rapporti del CPT, che confermano pienamente le affermazioni del ricorrente su questo punto, indicano che egli era stato ammanettato ogni volta che veniva portato fuori dalla cella, anche quando doveva compiere la sua passeggiata quotidiana. I giudici rilevano che per tredici anni, il ricorrente è stato regolarmente sottoposto a questo trattamento, pur non essendoci mai state circostanze tumultuose o di comportamento pericoloso da parte sua. Per questo i giudici in accordo con il parere di commissari del CPT, hanno affermato che "the systematic handcuffing of the applicant when taken out of his cell was a measure which lacked sufficient justification and can thus be regarded as degrading treatment. There has therefore been a violation of Article 3 of the Convention on that account".

Questo orientamento è stato confermato anche nella sentenza Kaverzin c. Ukraina (35), in cui la Corte ha riconosciuto che l'uso delle manette in circostanze che non lo richiedono può costituire un trattamento detentivo contrario all'art. 3. La Corte ha valutato attentamente sia la pericolosità del ricorrente, in ragione del reato particolarmente grave commesso, sia le circostanze in cui egli veniva ammanettato, ovvero durante le passeggiate e nel corso delle visite familiari, sia le condizioni personali del detenuto, egli infatti versa in una condizione di totale cecità, al punto che necessita di un ausilio costante. Tenuto conto di questi elementi il collegio ha affermato che "The Court further considers that the applicant's handcuffing, both in principle and in particular as regards the manner in which the restraint was used on him in Dnipropetrovsk Colony - with his hands behind his back, in spite of the applicant's limited autonomy due to complete blindness - caused him suffering and humiliation beyond that inevitably connected with a particular form of legitimate punishment". Di conseguenza, il Tribunale ritiene che l'uso di manette costituiva un trattamento inumano e degradante tale da rappresentare una violazione dell'art. 3 della Convenzione.

Anche nel caso Istratii c. Moldova (36), del 27 marzo 2007, la Corte ha considerato che l'aver ammanettato il ricorrente a un radiatore dell'ospedale, nell'attesa dell'operazione abbia comportato una violazione dell'art. 3. In un altro caso dello stesso anno, contro la Russia (37) la Corte si è spinta sino a affermare la violazione dell'art 3 quanto all'uso delle manette durante l'udienza pubblica, che non era giustificato da motivi di sicurezza.

Un ulteriore profilo curato dalla Corte riguarda le condizioni dei detenuti durante le traduzioni, da e per il tribunale. Nella sentenza Idalov c. Russia (38), il ricorrente ha lamentato di fronte al giudice di Strasburgo che le condizioni in cui è stato trasportato dal carcere al tribunale e viceversa, rappresentavano un trattamento disumano e degradante, in violazione dell'art. 3 Cedu. Il ricorrente ha affermato che i giorni in cui avvenivano le traduzioni egli normalmente doveva svegliarsi alle 5 del mattino e non c'era la possibilità di fare colazione (nei giorni delle udienze, al ricorrente non è stato fornito alcun cibo). Il furgone della prigione aveva tre compartimenti che misuravano 3,8m, 2,35m e 1,6m. Due degli scomparti erano adibiti al trasporto di dodici persone ciascuno e il terzo era riservato a soggetti che dovevano essere tradotti singolarmente Di fatto, negli scomparti comuni c'erano diciotto detenuti, e dunque non c'erano abbastanza posti per tutti, tanto che alcune persone hanno dovuto stare in piedi o sedersi sulle ginocchia di qualcun'altro. La ventilazione naturale del furgone attraverso i finestrini non era sufficiente ad aerare correttamente uno spazio così affollato, in più nei mesi estivi la temperatura interna era insopportabile, mentre d'inverno i furgoni non venivano riscaldati quando i motori erano spenti Il pavimento del furgone era molto sporco, era coperto di mozziconi di sigaretta, briciole di cibo, bottiglie di plastica e sacchetti di urina (era impossibile usare il bagno durante il viaggio) I furgoni non avevano finestre o illuminazione interna. Il furgone solitamente, raccoglieva detenuti di varie carceri e faceva numerose fermate a diversi palazzi di giustizia. Come risultato, il viaggio dal carcere al tribunale per il richiedente poteva durare da un'ora e mezzo a due ore, mentre il viaggio di ritorno fino a cinque ore. A questo proposito la Corte osserva che spesso ha riscontrato una violazione dell'art. 3 della Convenzione in casi contro la Russia a causa delle condizioni anguste di detenzione dei ricorrenti e per il trasporto da e verso, un palazzo di giustizia (39). Per questi motivi la Corte conclude affermando che "The above considerations, taken cumulatively, are sufficient to warrant the conclusion that the applicant was subjected to inhuman and degrading treatment in breach of Article 3 of the Convention whilst detained at and during his transfer to and from the courthouse. There has therefore also been a violation of that provision in this regard".

Un ulteriore profilo su cui la Corte si è soffermata è stato quello dell'isolamento; questo istituto, in linea di principio, non è incompatibile con la previsione di cui all'art. 3 della Convenzione, anche se la Commissione in numerose decisioni o pareri lo ha definito come uno strumento capace, potenzialmente, di distruggere la personalità del detenuto e pertanto costituisce una pena disumana che non trova giustificazione nelle esigenze di sicurezza (40). Richiamando entrambe le posizioni ora riportate, la Corte nella sentenza Lorsé e a. c. Olanda (41), in riferimento all'isolamento ha affermato che "In this context, the Court has previously held that complete sensory isolation, coupled with total social isolation, can destroy the personality and constitutes a form of inhuman treatment which cannot be justified by the requirements of security or any other reason. On the other hand, the removal from association with other prisoners for security, disciplinary or protective reasons does not in itself amount to inhuman treatment or degrading punishment". Nell'argomentazione del giudice di Strasburgo si afferma che per valutare se un provvedimento del genere può rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 3, si deve tener conto, nel caso di specie, delle condizioni particolari, il rigore della misura, la sua durata, l'obiettivo perseguito e dei suoi effetti sulla persona interessata.

La Corte nel valutare in concreto le condizioni di isolamento dei ricorrenti si rifà al rapporto del CPT, il quale contiene una descrizione dettagliata delle condizioni esistenti nell'ala adibita a questo particolare trattamento. I giudici nell'analisi del caso mettono a confronto il regime di isolamento olandese con quello italiano, su cui si erano pronunciati poco tempo prima (42), evidenziando che quest'ultimo era significativamente più restrittivo, sia per quanto riguarda i contatti con altri detenuti (vietati), sia in riferimento alle visite (ammesse solo quelle dei parenti e una volta al mese per un'ora. Nel carcere olandese al contrario il detenuto in isolamento aveva più possibilità di interazione sia con i compagni che con le guardie e le visite non erano limitate alla famiglia. Successivamente la Corte ha valutato le numerose misure di sicurezza applicate nei confronti del ricorrente, comprese le perquisizioni corporali settimanali cui egli era sottoposto, anche se dalla settimana prima non aveva avuto contatti con l'esterno e se nei sei anni di detenzione non aveva mai dato adito al sospetto di costituire un pericolo per il carcere o per se stesso. La Corte ha statuito che, nella situazione in oggetto, il sig Lorse era stato sottoposto a un numero elevato di misure di controllo e, in assenza di esigenze di sicurezza convincenti, la pratica delle perquisizioni settimanali che veniva applicata per un periodo molto lungo, ha certamente diminuito la sua dignità dando luogo a sentimenti di angoscia e di inferiorità in grado di umiliarlo e degradarlo. Di conseguenza, la Corte ha concluso che la combinazione di perquisizioni di routine con le altre misure di sicurezza rigorose previste dal regime di isolamento olandese equivalevano a trattamenti inumani o degradanti in violazione dell'art. 3 della Convenzione (43).

3.2.2 Il Divieto dell'uso sproporzionato della forza

Connesso con il concetto di tutela degli individui privati della libertà è l'obbligo di utilizzare la forza da parte della polizia in modo proporzionato alle esigenze del caso specifico.

L'art. 3 in generale non proibisce l'uso della forza durante le operazioni di polizia, ad esempio se queste sono volte a effettuare un arresto. Il principio è riscontrabile in molte sentenza della Corte di Strasburgo (44), ad esempio nel caso Muradova c. Azerbaijan (45), i giudici in riferimento ad un'accusa del ricorrente di aver subito maltrattamenti durante un'operazione di polizia, hanno affermato che "in the particular circumstances of the present case, special importance should be attached to the fact that the injury was sustained while the applicant was within the area in which the law-enforcement authorities were conducting an operation during which they resorted to the use of force for the purpose of quelling mass unrest. In this connection, the Court notes that Article 3 does not prohibit the use of force in certain well-defined circumstances. However, such force may be used only if indispensable and must not be excessive".

Dalla giurisprudenza della Corte si evince che il ricorso alla forza fisica che non sia strettamente necessaria per il comportamento della persona, diminuisce la dignità umana ed è, in linea di principio, una violazione del diritto di cui all'art. 3 della Convenzione (46). Dunque, per determinare se le condotte delle forze di polizia sono state tali da violare il minimo di gravità previsto dalla norma in analisi e dunque attestarsi tra i comportamenti vietati, la Corte ha utilizzato il principio di proporzionalità. Nella sentenza Ramirez Sanchez c. Francia (47) la Corte dopo aver richiamato i precedenti principi, di cui abbiamo parlato, aggiunge che le misure adottate devono essere necessarie per raggiungere lo scopo legittimo perseguito, in questo modo i giudici richiamano un principio di proporzionalità quale criterio per la valutazione di una eventuale violazione della dignità e integrità fisica del detenuto. In una sentenza coeva la Corte ricorda che i soggetti detenuti appartengono a una categoria particolarmente vulnerabile, e per questa ragione l'autorità sotto la quale sono posti ha l'obbligo di assicurarne la protezione e la salute psicofisica, così la sentenza Tarariyeva c. Russia, "In the context of prisoners, the Court has already emphasised in previous cases that persons in custody are in a vulnerable position and that the authorities are under a duty to protect them. It is incumbent on the State to account for any injuries suffered in custody, which obligation is particularly stringent where that individual dies".

In riferimento al tema dell'uso della forza, un particolare approfondimento deve essere fatto per quelle circostanze che riguardano persone maltrattate mentre si trovavano in condizioni di detenzione o comunque sotto l'autorità delle forze di polizia, in tali ipotesi la Corte ha riconosciuto che simili condotte da parte di agenti, possono dare luogo ad una forte presunzione dell'esistenza di trattamenti contrari all'art. 3. Nel capitolo precedente ho esposto il principio, originato dalla sentenza Tomasi, secondo cui, quando una persona è stata ferita durante la detenzione o comunque sotto il controllo della polizia, qualsiasi lesione darà luogo ad una forte presunzione che la persona è stata sottoposta a maltrattamenti; a maggior ragione se una persona, al momento dell'arresto era in buona salute ma presentava ferite al momento del rilascio. La Corte ha più volte ribadito che simili circostanze spetta allo Stato fornire una spiegazione plausibile di come sono state causate quelle lesioni, in caso contrario, è logico presumere che vi possa essere stata una violazione dell'art. 3 della Convenzione da parte degli agenti di polizia. Nella sentenza Zelilof c. Grecia (48), in cui risultava evidente dai referti medici che il ricorrente aveva subito lesioni, la Corte ha affermato che anche in riferimento all'uso della forza durante operazioni di polizia in cui vengano ferite delle persone è applicabile lo stesso principio. Queste le parole della Corte, "Against this background, given the serious nature of the applicant's injuries, the burden rests on the Government to demonstrate with convincing arguments that the use of force was not excessive". E' importante precisare che nella valutazione del caso la Corte terrà in considerazione l'interezza delle circostanze, osservando le difficoltà delle forze di polizia nel gestire i propri incarichi nelle società moderne, l'imprevedibilità della condotta umana e le scelte operative che devono essere fatte in termini di priorità e risorse, l'obbligo positivo di divieto di uso sproporzionato della forza, deve essere interpretato in un modo che non imponga un onere impossibile per le autorità, tale da rendere impossibile lo svolgimento delle loro funzioni di repressione e prevenzione del crimine.

La Corte in casi di questo genere, richiede alle autorità di provare che le operazioni di polizia e l'uso della forze che ne potrebbe conseguire si sono dimostrate necessarie nella specifica situazione, in particolare in ipotesi di ribellioni in carcere da parte dei detenuti o di dimostrazioni nelle vie della città. Richiamando il caso citato in apertura di questo paragrafo, il caso Muradova, la Corte ha stabilito che l'uso della forza da parte delle forze di polizia contro i manifestanti fosse stato eccessivo e pertanto tale da violare la previsione di cui all'art. 3 della Convenzione. La decisione in tale circostanze è stata determinata dal fatto che le autorità non avevano fornito alcuna argomentazione per giustificare l'uso della forza contro il ricorrente, tra l'altro, dal dibattimento era emerso che egli stava tentando di allontanarsi dalla manifestazione che stava sfociando in atti di violenza (49). Diversamente da quanto è accaduto nella precedente sentenza, nel caso Protopapa (50), la Corte non ha considerato soddisfatto il criterio dell'oltre ogni ragionevole dubbio nella circostanza che vedeva il ricorrente denunciare un maltrattamento contrario all'art. 3 della Convenzione. Secondo i giudici non erano state addotte prove sufficienti a dimostrare che le autorità avessero fatto ricorso alcun uso improprio della forza ai danni della salute del ricorrente, e che le lesioni alle costole non fossero state provocate durante la manifestazione stessa, nel momento in cui era diventata violenta e la polizia aveva legittimamente fatto uso della forza per questioni di sicurezza. In questo caso dunque i giudici bilanciano il principio con l'esigenza delle forze di polizia di svolgere il proprio lavoro, addossando l'onere della prova al ricorrente. Queste le parole della Corte, "Under these circumstances, it has not been established that the applicant's injury was deliberately caused by the Turkish or Turkish-Cypriot police. In any event, it cannot be ruled out that the applicant's condition is consistent with a minor physical confrontation between her and the police officers. There is nothing to show that the police used excessive force when, as they allege, they were confronted in the course of their duties with resistance to arrest by the demonstrators, including the applicant".

3.2.3 L'assistenza medica necessaria

In primis va notato che nessuna disposizione della Convenzione tutela espressamente il diritto alla salute, solo l'attività giurisprudenziale della Corte ha permesso di ricondurlo nell'alveo dei diritti garantiti. Nelle sentenze, il diritto alla salute è configurato come corollario del diritto alla vita, della tutela della dignità umana, del diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio; tuttavia la tutela che è stata accordata è solo di riflesso in cui la mancata tutela del diritto alla salute lede o mette in pericolo uno dei diritti tutelati dalla Convenzione, in altre parole, il bene giuridico in esame non gode di una tutela autonoma (51). La Corte ha affermato che la sofferenza dovuta ad una malattia, fisica o mentale, rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 3 della Convenzione, se rischia di essere acuita per delle situazioni riconducibili alla responsabilità dello stato, come ad esempio le condizioni di detenzione o l'espulsione. Nel capitolo precedente, ho incidentalmente toccato questo profilo nel paragrafo dedicato al divieto di estradizione, in particolare nell'analisi della sentenza D. c. Regno Unito, in cui la Corte aveva affermato il principio secondo cui l'espulsione di una persona malata verso un Paese dove non avrebbe potuto beneficiare di cure adeguate, poteva integrare un trattamento disumano e degradante contrario all'art. 3.

L'interpretazione evolutiva della Corte del diritto alla salute pone le proprie basi argomentative tanto sul principio secondo cui la detenzione non priva l'individuo dei propri diritti, sia sulla propria giurisprudenza precedente contenuta nel leading case Irlanda c. Regno Unito, secondo cui la valutazione del livello minimo di gravità dipende da tutte le circostanze del caso, come ad esempio lo stato di salute della vittima.

La Corte ai sensi dell'art. 3 della Convenzione riconosce un obbligo per gli Stati di tutelare adeguatamente, anche tramite l'assistenza medica la salute e il benessere dei detenuti (52). A tal proposito va notato che i giudici non hanno mai messo in discussione che le condizioni di salute di un imputato potessero non essere compatibili con l'irrogazione della sanzione, al contrario la giurisprudenza di Strasburgo si è più volte interrogata circa la compatibilità dell'esecuzione della pena con particolari patologie, dando di volta in volta giudizi differenti in ragione delle differenze dei casi concreti.

Ad esempio, nel caso di un detenuto affetto da disturbi associati con l'obesità ereditaria, la Commissione ha espresso il parere che non vi era stata alcuna violazione dell'art 3 della Convenzione, poiché al ricorrente erano state fornite le cure appropriate al suo stato di salute (53). Tuttavia nel caso Cartier, la Commissione ha dichiarato che la detenzione di per sé affligge inevitabilmente i detenuti affetti da patologie gravi, precisando che "in particularly serious cases situations may arise where the proper administration of criminal justice requires remedies to be taken in the form of humanitarian measures" and stated in conclusion that it would "appreciate any measures the Italian authorities could take vis-à-vis the applicant in order to alleviate the effects of his detention or to terminate it as soon as circumstances require" (pp. 57-58).

La Corte, ha arricchito il novero delle circostanze inerenti lo stato di salute, tutelabili ai sensi dell'art. 3, con la sentenza Papon (54) in cui ha stabilito che la detenzione di una persona malata e anziana per un lungo periodo può rientrare nel campo d'applicazione della norma in analisi, anche se l'istanza del ricorrente è stata ritenuta infondata dalla Corte ai sensi di tale articolo. Essa afferma che salute, età e grave disabilità fisica, sono fattori da prendere in considerazione ai sensi dell'art. 3 della Convenzione per valutare l'idoneità di una persona alla detenzione.

Una sentenza particolarmente interessante in tema di cure mediche in carcere è la sentenza Mouisel c. Francia (55), nella quale il giudice europeo si è pronunciato su un caso in cui era messa in dubbio la compatibilità della detenzione con il grave stato di salute del ricorrente, i quale aveva quattro arti inutilizzabili. La Corte nella propria decisione ha osservato che le condizioni del sig. Mouisel erano andate via via peggiorando con il perdurare dello stato di reclusione, inoltre i giudici hanno riscontrato una inattività dell'amministrazione penitenziaria a trovare una soluzione adeguata alle condizioni del detenuto. La Corte ha anche ribadito il diritto di tutti i detenuti a godere di condizioni di detenzione compatibili con la dignità umana, così da garantire che il modo e il metodo di esecuzione delle misure imposte non li sottopongono a disagio o difficoltà di un'intensità superiore all'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione (56). Per questi motivi la Corte ha dichiarato che la detenzione in simili condizioni di salute è tale da integrare una lesione della dignità del ricorrente, tanto da qualificarsi come trattamento disumano ai sensi dell'art. 3 della Convenzione. Ad una stessa conclusione sono giunti i giudici di Strasburgo nel caso Keenan c. Regno Unito (57), il quale aveva ad oggetto il suicidio avvenuto in carcere di un ragazzo, posto in isolamento in seguito ad una sanzione disciplinare. In tale contesto nell'opinione della Corte il fatto di infliggere una pesante sanzione disciplinare, quale l'isolamento, a pochi giorni dal fine pena, non poteva ritenersi compatibile con lo stato di salute mentale del giovane, per cui tale punizione e in generale l'esecuzione della pena, avevano costituito un trattamento disumano e degradante.

Il diritto a delle condizioni di detenzione rispettose della dignità umana impone un obbligo negativo di astensione dal porre in essere dei trattamenti contrari al senso di umanità e un obbligo positivo di tutelare la salute e il benessere dei detenuti attraverso la predisposizione di cure mediche adeguate (58). Nei casi riguardanti la condizione di salute del soggetto privato di libertà, spesso la frizione con l'art. 3 è derivata dalla mancanza di adeguate cure mediche, nel caso Hurtado c. Svizzera (59), la Corte ha affermato il diritto dei detenuti a beneficiare di adeguate cure mediche, ragionando in un'ottica di tutela sia dell'integrità fisica che psichica delle persone detenute.

La Corte ha meglio specificato il contenuto di quest'obbligo nella sentenza Xiros c. Grecia (60), del 2010, in cui, richiamando i propri precedenti, ha evidenziato tre distinte obbligazioni per gli Stati membri:

  • l'obbligo di verificare che lo stato di salute del detenuto sia compatibile con la detenzione (61);
  • l'obbligo di provvedere a somministrare le cure mediche necessarie (62);
  • l'obbligo di adattare, in caso di bisogno, le condizioni di detenzione alle esigenze specifiche legate allo stato di salute dell'interessato (63).

3.2.4 Il sovraffollamento delle carceri europee

Uno dei temi centrali, se non il tema principale della giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell'uomo è quello del sovraffollamento carcerario. Il tema in analisi è strettamente connesso al diritto a godere di condizioni detentive adeguate, trattato in precedenza in questo capitolo. Il sovraffollamento in particolare, costituisce una delle condizioni più note ai detenuti delle carceri europee, essi, infatti, hanno dovuto spesso confrontarsi con spazi personali esigui, scarsa mobilità nella cella e conseguenti problemi di precarie condizioni igieniche e rischio di diffusione di malattie contagiose. La piaga del sovraffollamento tocca due profili distinti dell'esecuzione della pena, da una parte, lo spazio vitale che simili circostanze consentono a ciascun detenuto è talmente poco da sollevare una questione di contrasto con l'art. 3 della Convenzione nella misura il cui vieta il trattamento o le pene disumane e degradanti; d'altra parte, tali condizioni di detenzione possono arrivare a mettere in dubbio la reale perseguibilità del fine rieducativo e riabilitativo, proprio dell'odierno sistema penale europeo (64).

Il leading case sul tema del sovraffollamento è pacificamente individuato dalla dottrina nella sentenza Kalashnikov c. Russia (65), già analizzata sinteticamente in precedenza. Il ricorrente nel caso presentato al giudice di Strasburgo lamentava una condizione di detenzione particolarmente gravosa, resa tale dal forte sovraffollamento della struttura detentiva in cui si trovava, nonché dalla durata del periodo in cui ha dovuto patire simili disagi, con conseguente deterioramento delle proprie condizioni di salute fisica e psichica. Nel caso di specie, il ricorrente si era rivolto alla Corte di Strasburgo invocando la tutela dell'art. 3 della Convenzione, per aver vissuto quattro anni e dieci mesi in una condizione detentiva al di sotto dei livelli richiesti nelle carceri degli Stati d'Europa. La realtà del carcere di Magadan, in Russia, era particolarmente grave, il ricorrente aveva vissuto in una cella di 17m² (20 secondo il Governo russo) progettata per sole otto persone a fronte delle 18/24 effettivamente stipate; oltre al problema del sovraffollamento, vi era anche un'impossibilità materiale di dormire dignitosamente, sia per la necessità di fare i turni per la branda, sia per il contesto caotico provocato da televisori e luci sempre accese. Anche le condizioni igieniche erano insufficienti, vi era totale assenza di privacy, dato che i servizi erano a vista e il tavolo da pranzo si trovava a meno di un metro dagli stessi. A causa delle precarie condizioni igienico-sanitarie, scarafaggi e formiche infestavano la cella con conseguente contagio di scabbia da parte del ricorrente. Sulla base dei dati presentati in giudizio risultava che ogni detenuto disponeva di uno spazio compresa tra 0.9 e 1.9 m, per questa ragione e per le precedenti evidenziate, a parere della Corte la cella era continuamente e gravemente sovraffollata, lo stato di cose in sé già sarebbe sufficiente a sollevare una questione ai sensi dell'art. 3 della Convenzione, se non fosse che il cumulo delle condizioni rende notevolmente più grave la violenza subita dal ricorrente. La Corte ha riconosciuto che se anche mancasse una volontà da parte delle autorità penitenziarie di umiliare il detenuto, gravi problemi strutturali impedivano uno svolgimento adeguato della detenzione; per questa ragione, l'assenza di tale finalità non poteva definitivamente escludere la constatazione di una violazione dell'art. 3 Cedu. Tale conclusione ha tenuto conto del fatto che durante la detenzione il ricorrente è stato esposto al rischio di contagio di gravi malattie veneree, quali l'HIV e la Tubercolosi, pericolo scampato per cause fortuite dato il grave problema di sovraffollamento che costringeva l'amministrazione penitenziaria a radunare insieme più detenuti senza alcuna attenzione alle condizioni igienico-sanitarie.

La Corte nel proprio percorso argomentativo, ha richiamato i principi definiti nella sentenza Kudla, affermando che "Nevertheless, under this provision the State must ensure that a person is detained in conditions which are compatible with respect for his human dignity, that the manner and method of the execution of the measure do not subject him to distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention and that, given the practical demands of imprisonment, his health and well-being are adequately secured" (66). Prendendo le mosse dalla propria pregressa giurisprudenza, la Corte ha dichiarato che in base agli elementi appurati in giudizio, la cella era continuamente e gravemente sovraffollata e inoltre durante la sua detenzione il ricorrente ha contratto varie malattie della pelle e infezioni fungine; questo stato di cose in sé ha posto un problema ai sensi dell'art. 3 della Convenzione, che doveva essere valutato. Dopo un'analisi attenta e dettagliata del caso, la Corte conclude affermando che le condizioni di detenzione del ricorrente, in particolare l'ambiente gravemente sovraffollato e insalubre e il conseguente effetto negativo sulla propria salute e benessere, in combinazione con la lunga durata del periodo durante il quale egli è stato arrestato in queste condizioni, costituisce un trattamento degradante; di conseguenza, vi è stata una violazione dell'art. 3 della Convenzione. Queste le parole della Corte, "It considers that the conditions of detention, which the applicant had to endure for approximately 4 years and 10 months, must have caused him considerable mental suffering, diminishing his human dignity and arousing in him such feelings as to cause humiliation and debasement".

La giurisprudenza dei primi anni del Duemila si è attestata su un orientamento secondo cui il sovraffollamento e il conseguente spazio vitale ridotto, dovevano essere presi in considerazione, ai fini di una eventuale dichiarazione di violazione dell'art. 3 Cedu, unitamente ad altri elementi, come abbiamo potuto osservare nella sentenza Kalashnikov. Questa argomentazione viene ripresa anche successivamente nel caso Labzov c. Russia (67), secondo cui, accertata per il detenuto la disponibilità nella cella di uno spazio di nemmeno 1 m, la Corte ha affermato che "the extreme lack of space weighs heavily as an aspect to be taken into account for the purpose of establishing whether the impugned detention conditions were 'degrading' from the point of view of article 3", affermando nuovamente che le condizioni di detenzione in stato di sovraffollamento non sono sufficienti da sole a determinare una violazione della Convenzione.

Più tardi, la Corte di Strasburgo, oltre al carente spazio vitale, ha iniziato a considerare, lesive della dignità del detenuto anche ulteriori fattori strutturali, talvolta connessi con il primo; essi ad esempio sono la mancanza di ventilazione e luce naturale, l'impossibilità di effettuare quotidiane passeggiate all'aperto o la totale assenza di privacy all'interno della cella. Prima di passare all'analisi delle sentenze, vorrei richiamare l'attenzione sul fatto che solo tardivamente la Corte ha iniziato a vagliare tali condizioni minime di detenzione come lesive della dignità dell'uomo, a dispetto della presenza nel panorama internazionale delle Regole minime penitenziarie, sia a livello dell'Organizzazione delle Nazioni Unite che dello stesso Consiglio d'Europa, le quali prevedono come auspicabili per una corretta detenzione la presenza dei tre aspetti sopra richiamati.

In primo luogo, è interessante notare che la Corte, anche nei casi in cui la cella del detenuto era più grande (circa 3-4m² a testa) rispetto agli spazi sanzionati nella giurisprudenza precedente, ha posto un problema di compatibilità con l'art. 3 della Cedu. Nella sentenza Babushkin c. Russia (68), la Corte ha riscontrato una violazione in quanto il fattore spazio è stato cumulato con la mancanza di una fonte di ventilazione e illuminazione adeguata secondo gli standard minimi previsti dalle Regole penitenziarie. I giudici fanno notare che il sovraffollamento comportava anche che l'unico lavandino e l'unica toilette della cella fossero stati utilizzati da almeno il doppio dei detenuti per cui erano stati destinati; di conseguenza, l'accesso ad essi era piuttosto limitato e il mantenimento dell'igiene nella cella era quasi impossibile.

Nella sentenza Vlassov c. Russia (69) è emerso dal dibattimento che la cella in cui era detenuto il ricorrente non aveva nessuna finestra, nel senso proprio della parola; al suo posto c'era una parte di una parete in cui, secondo il disegno originale, sarebbe dovuta esserci una finestra. Questa parete era stata murata con cubetti di vetro semi-trasparente, con il risultato di ridurre drasticamente sia l'aria fresca sia la quantità di luce che poteva penetrare nella cella. In aggiunta a questo, un accesso alla luce era ulteriormente negato dalla presenza di sbarre spesse fissate al di fuori della parete di vetro. Ne consegue che per quasi tre anni, il ricorrente ha dovuto spendere una parte considerevole del giorno praticamente costretto a letto in una cella con ventilazione scarsa e nessuna finestra. La Corte rileva anche che la possibilità per il detenuto di compiere esercizi fisici era limitata ad un'ora al giorno; inoltre, nei giorni di udienze, il richiedente perdeva la possibilità di uscire all'aperto. Per queste ragioni, i giudici hanno affermato che "Having regard to the cumulative effect of those factors, the Court finds that the fact that the applicant was obliged to live, sleep and use the toilet in poorly lit and ventilated cells with many other inmates for almost three years must have caused him distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention. It follows that the conditions of his detention amounted to inhuman and degrading treatment. There has therefore been a violation of Article3 of the Convention".

Anche nel caso Belevitskiy c. Russia (70), la Corte ha riscontrato una condizione di detenzione simile alla precedente, con un grave problema di sovraffollamento. Il ricorrente aveva dichiarato che il centro di custodia cautelare in cui era stato detenuto, era gravemente sovraffollato e per questo disponeva di meno di un m² di spazio per se stesso. A causa di tale problema strutturale, i detenuti avevano dovuto dormire a turno e utilizzare il solo lavandino e gabinetto disponibile in cella; inoltre ad aggravare la già precaria condizione dei detenuti vi era l'ulteriore disagio per cui il posizionamento della toilette privava la persona della propria privacy. Anche in questa circostanza, l'accesso alla luce naturale e all'aria fresca era stato bloccato da schermi metallici che coprivano le finestre e in mancanza di un'adeguata fruizione di aria fresca non era stata fornita alcuna ventilazione, tanto che in estate la temperatura interna della cella raggiungeva i 45 gradi Celsius. La Corte ha osservato che il centro di custodia cautelare in analisi, è stato gravemente sovraffollato (tre volte il numero di detenuti rispetto alla capienza) durante tutto il periodo di detenzione del ricorrente, e che questi ha dovuto sopportare le condizioni di detenzione stando stipato e confinato nella sua cella di giorno e di notte, per più di dieci mesi. A seguito dell'analisi dei fatti la Corte ha ritenuto che il cumulo del sovraffollamento con la mancanza di aria pulita e luce naturale, e l'aggravio della totale mancanza di privacy hanno comportato una violazione dell'art. 3 della Convenzione. Così ha argomentato la Corte "That the applicant was obliged to live, sleep and use the toilet in the same cell with so many other inmates was itself sufficient to cause distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention, and arouse in him the feelings of fear, anguish and inferiority capable of humiliating and debasing him" (71).

Recentemente la Corte ha riscontrato una violazione dell'art. 3 anche per l'impossibilità di garantire al detenuto una regolare passeggiata all'aperto. Nella sentenza Istvan Gabor Kovacs c. Ungheria (72), la Corte ha affermato che anche se lo spazio per persona a disposizione del detenuto soddisfaceva i requisiti del CPT (4m² a testa per celle condivise), la violazione della Convenzione era derivata dal fatto che il ricorrente aveva dovuto passare i due mesi di reclusione per la quasi totalità del tempo in cella, stante l'impossibilità di garantire regolari passeggiate all'aria aperta.

Alla fine del primo decennio degli anni Duemila, è possibile individuare il consolidamento del filone giurisprudenziale con cui la Corte, sempre nell'ambito dell'analisi dei casi inerenti il sovraffollamento, ha valorizzato la durata del periodo in cui il detenuto è soggetto a condizioni detentive irrispettose della dignità umana.

Nella valutazione delle condizioni di detenzione, oltre al cumulo delle circostanze denunciate dal ricorrente è rilevante anche il tempo in cui la persona è stata soggetta a maltrattamenti, secondo i giudici, anche un periodo breve può essere sufficiente a integrare una violazione dell'art. 3. Nel caso Koktysh c. Ucraina (73), la Corte ha riconosciuto che le condizioni generali di reclusione del ricorrente nel Centro di detenzione temporanea di Sebastopoli, in attesa dell'estradizione, costituissero trattamenti inumani e degradanti in violazione dell'art. 3 della Convenzione, anche se il periodo in questione era stato molto breve, si tratta infatti, di quattro e dieci giorni. Nei fatti il ricorrente è rimasto nel Centro dal 26.06.2007 al 01.07.2007 e dal 02 al 05.08.2007, in questi due lassi di tempo egli ha sostenuto che nella sua cella, che misurava 4 x 8m², sono state recluse circa venti persone, a dispetto dei soli due posti letto disponibili, non c'erano lenzuola, cuscini o coperte, ma solo un paio di materassi sporchi. Le condizioni igieniche della cella erano insufficienti e la stanza era senza ventilazione o illuminazione adeguata e infestata da vari insetti. Quasi tutti i detenuti erano fumatori e questo ha causato una sofferenza intensa per il ricorrente dal momento che soffriva di asma bronchiale, per la quale non ha ricevuto le cure adeguate. Il Centro non disponeva di una doccia e ai detenuti non era garantito nemmeno di poter fare una passeggiata. Il sig. Koktysh ha dichiarato che il cibo quotidiano consisteva in un pezzo di pane, un piatto di minestra e acqua.

La Corte si è espressa tenendo conto della scarsa argomentazione fornita da parte dello Stato convenuto e di una ampia documentazione del Commissario ucraino dei Diritti umani, il quale un anno dopo i fatti riportati ha visitato il Centro di detenzione temporanea di Sebastopoli, corroborando la tesi del ricorrente. Interessante è anche il riferimento che i giudici hanno fatto allo stato di sovraffollamento cronico in cui versava il Centro, basandosi sia sui rapporti del CPT, sia sulla propria giurisprudenza concernente lo stato delle carceri ucraine, degli ultimi nove anni. Il fattore tempo, da quanto emerge, rileva sia quando è breve (74), sia quando è condizione coesistente con altre (75), fungendo da aggravante, sia in fine, quando lo Stato convenuto è più volte comparso di fronte ai giudici in un breve lasso di tempo e per le stesse violazioni, come nel caso dell'Ucraina.

Un ulteriore sviluppo nella giurisprudenza riguardante il sovraffollamento è rappresentato dalle due sentenze-pilota Orchowski c. Polonia e Norbert Sikorski c. Polonia (76), nelle quali i giudici di Strasburgo hanno sviluppato il principio delle precedenti pronunce secondo cui è inammissibile che difficoltà di carattere finanziario o logistico possano in alcun modo rilevare ai fini dell'esclusione della responsabilità dello Stato, in particolare dell'obbligo di garantire condizioni di detenzione adeguate. La Corte nelle due sentenze ha affermato che il problema del sovraffollamento carcerario qualora origini da fattori strutturali, potrà comportare la condanna dello Stato contraente all'adozione di misure generali e individuali idonee a porvi rimedio quali ad esempio, l'introduzione di dispositivi elettronici di sorveglianza, l'avvio di politiche di edilizia carceraria o l'adozione di misure alternative alla detenzione (77). E' quello che è avvenuto nelle recenti pronunce, in cui la Corte è pervenuta al riscontro di una violazione sistemica dell'art. 3 Cedu sotto il profilo del sovraffollamento carcerario derivante da carenze strutturali.

In armonia con la giurisprudenza ora richiamata, nel 2009 la Corte perviene ad una importante svolta nell'ambito dell'analisi del problema del sovraffollamento nelle carceri italiane. La sentenza fulcro dell'importante sviluppo e la sentenza Sulejmanovic c. Italia (78), in cui la Corte europea ha affermato che la detenzione in uno spazio inferiore ai 3m² è sufficiente da sola ad integrare una violazione dell'art. 3 Cedu. Questo parametro assume valenza assorbente, proprio perché la "mancanza di spazio è così macroscopica da costituire di per sé un trattamento disumano e degradante" (79).

La vicenda riguardava un cittadino bosniaco Izet Sulejmanovic, condannato per furto, ricettazione e falso e arrestato a Roma dove si trovava per ottenere un permesso di soggiorno. La sentenza offre uno spaccato della realtà della casa circondariale di Rebibbia nella quale il ricorrente ha soggiornato; egli si è lamentato che la sua detenzione è avvenuta in una cella non conforme agli standard auspicati dal Comitato per la Prevenzione della Tortura o dalle Regole minime penitenziarie, aggiornate all'11.01.2006. Il ricorrente ha affermato di esser stato detenuto in una cella di 16m², in condivisione con altre cinque persone, da cui se ne poteva derivare che erano garantiti soli 2,70m² a testa escluso il locale separato del bagno. Successivamente al trasferimento in una nuova cella, dal 15 aprile al 30 ottobre dello stesso anno, la situazione era sostanzialmente la stessa anche se lo spazio a disposizione del ricorrente era di poco aumentato, 3,40m² a testa.

Nella ricostruzione della giornata, egli ha affermato che trascorreva più di diciotto ore e trenta minuti ogni giorno chiuso nella cella, con la possibilità quindi di potervi uscire solo per quattro ore e trenta minuti. All'epoca dei fatti il carcere di Rebibbia aveva una capienza di 1.271 detenuti, tuttavia ospitava tra 1.450 e 1.660 persone.

Interessante è il richiamo fatto dai giudici di Strasburgo alle normative vigenti sul tema, sia a livello nazionale che internazionale, in quest'ultimo caso, la Corte ha fatto riferimento all'art. 18 della Raccomandazione n. R(2006)2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa e in aggiunta a ciò a richiamato i principi generali derivanti dall'attività di monitoraggio del CPT (la Corte ricorda anche che il Comitato ha fissato in 7m² a persona la superficie minima auspicabile per una cella detentiva).

Nella decisione sul caso in esame la Corte afferma di non poter quantificare, in modo preciso e definitivo, lo spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai sensi della Convenzione. Esso può infatti dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all'aria aperta o le condizioni mentali e fisiche del detenuto. Tuttavia essa afferma con originalità rispetto alle precedenti sentenze che in alcuni casi, la mancanza di spazio personale per i detenuti risulta essere talmente grave da giustificare, da sola, la constatazione di violazione dell'art. 3, ciò avviene nei casi in cui i ricorrenti dispongano individualmente di meno di 3m². Così facendo la Corte individua un minimo sotto il quale è riscontrabile una violazione, ma si discosta di molto rispetto a quello stabilito dal CPT, anche se in linea di principio essa ha dichiarato che per la decisione avrebbe preso in considerazione tali standard. Per queste ragioni i giudici concludono affermando che "Elle estime qu'une telle situation n'a pu que provoquer des désagréments et des inconvénients quotidiens pour le requérant, obligé de vivre dans un espace très exigu, bien inférieur à la surface minimum estimée souhaitable par le CPT. Aux yeux de la Cour, le manque flagrant d'espace personnel dont le requérant a souffert est, en soi, constitutif d'un traitement inhumain ou dégradant. Il s'ensuit qu'il y a eu violation de l'article 3 de la Convention à raison des conditions dans lesquelles le requérant a été détenu jusqu'en avril 2003. Il en va autrement pour la période ultérieure" (80).

All'esito del giudizio, per la prima volta lo Stato italiano è stato giudicato colpevole per mancato rispetto dell'obbligo derivante dall'art. 3 della Convenzione, di garantire una detenzione compatibile con la dignità umana. La Corte in questa occasione ha evidenziato carenze strutturali e gravi problemi di sovraffollamento che pochi anni dopo verranno più gravemente cassati dalla stessa Corte.

Nell'ambito del giudizio ora descritto si inserisce l'opinione separata del giudice Zagrebelsky, il quale argomenta il proprio distacco dalla maggioranza dei colleghi affermando in primo luogo che in riferimento al sovraffollamento carcerario, lo spazio della cella pro capite non è mai stato da solo sufficiente a supportare la condanna dello Stato, nemmeno quando lo spazio a disposizione era inferiore a 1m², come nel caso Labzov c. Russia (81) in cui la Corte ha affermato che, per stabilire se le condizioni della privazione della libertà in discussione fossero degradanti, la flagrante mancanza di spazio era un fattore che incideva pesantemente, senza tuttavia affermare che esso era, da solo, sufficiente. Inoltre il sig. Sulejmanovic non lamentava altri disagi oltre l'eccessivo numero di persone nella cella, infatti è risultato che trascorresse fuori dalla cella ben più tempo di quello raccomandato dal CPT. Il giudice Zagrebelsky prosegue il proprio iter logico richiamando l'attenzione proprio sulle indicazioni date dall'organo di controllo, sottolineando che le dimensioni auspicabili delle celle da questi indicate, non costituiscono una regola minima bensì una indicazione di massima, tanto che il parametro spesso richiamato di 7m² si riferisce alle celle individuali di polizia, non alle celle destinate alla reclusione di più persone, per le quali lo stesso CPT esclude ogni automatismo. A conclusione della propria argomentazione il giudice si interroga sulla relatività del divieto di cui all'art. 3 della Convenzione, affermando che "La tendenza che questa sentenza sembra evidenziare, vale a dire che la Corte pone il suo esame nell'ambito di ciò che è auspicabile, dovrebbe portare ad una maggiore tutela contro i trattamenti vietati dall'articolo 3. Ora, anche se nutrita di generosità, questa tendenza favorisce in realtà una pericolosa deriva verso la relativizzazione del divieto, dato che, quanto più si abbassa la soglia minima di gravità, tanto più si è costretti a tenere conto dei motivi e delle circostanze (oppure ad annullare l'equa soddisfazione)".

All'indomani della emanazione della decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo Sulejmanovic c. Italia è sorta immediata la domanda in merito a quale sarebbe stato l'impatto sulla realtà carceraria a fronte del numero sempre più elevato di detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani e del relativo risarcimento qualora l'esito della sentenza fosse paragonabile a quello appena analizzato (82).

In particolare sulla scia della appena citata sentenza, il Magistrato di sorveglianza di Lecce, con ordinanza del 9.06.2011 (83), accolse il reclamo di un detenuto che denunciava una condizione di detenzione assimilabile a quella appena descritta, sia per quanto riguardava la lo spazio della cella, il numero dei letti a disposizione per detenuto e la mancanza di spazi per lo svolgimento delle attività sociali. In quell'occasione il giudice ritenne che la denuncia del ricorrente dovesse essere accolta perché la situazione patita contrastava sia con il diritto interno che con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, riconoscendo il diritto ad ottenere un indennizzo da parte dell'autorità penitenziaria. Era la prima volta che nel nostro ordinamento veniva comminata una sanzione di questo genere. In contrasto con questo orientamento, altri Magistrati di sorveglianza hanno declinato la propria competenza a comminare un simile indennizzo (84). In accordo con questa prassi, è intervenuta la sentenza della Corte di Cassazione, con la quale il giudice ha affermato che era esclusa la possibilità per il Magistrato di sorveglianza di decidere sul risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti del detenuto (85).

In un panorama giuridico così frastagliato, si inserisce un ulteriore sentenza che nasce con l'intento di armonizzare la giurisprudenza sul tema del sovraffollamento, in special modo in riferimento alla realtà italiana, ma che di fatto ha presentato non pochi problemi di difficile soluzione per il nostro ordinamento.

L'8 gennaio 2013, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato nuovamente l'Italia su un caso di sovraffollamento, richiamando il carattere strutturale di tale problema all'interno dell'ordinamento. Il giudice europeo ha evidenziato la presenza di numerose cause a ruolo vertenti tutte sul tema del sovraffollamento, come se la sentenza Sulejmanovic avesse aperto le porte dei tribunali italiani a tutti coloro che si trovavano in una condizione detentiva irrispettosa della dignità umana. Al fine di arginare un simile numero di ricorsi i giudici di Strasburgo sono intervenuti nel caso Torreggiani (86) con una sentenza-pilota con cui si chiedeva all'Italia di adottare, nel termine di un anno da quando la decisione sarebbe divenuta definitiva, rimedi interni preventivi e compensativi idonei a garantire adeguata soddisfazione nei casi di sovraffollamento carcerario (87); per effetto della sentenza-pilota i casi pendenti di fronte alla Corte europea dei diritti dell'uomo erano stati sospesi per gli stessi dodici mesi in cui si dava la possibilità allo Stato convenuto di compiere quelle riforme strutturali necessarie ad alleviare la pressione nelle carceri e garantire condizioni di detenzione conformi ai principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Il caso origina da un ricorso proposto da sette detenuti dei carceri di Busto Arsizio e Piacenza, i quali lamentavano di essere stati detenuti in una cella di 9m² in tre persone, avendo di fatto, solo 3m² di spazio disponibile a testa. Oltre al disagio legato alla carenza di spazio vitale, c'erano stati anche disagi legati alla carenza di acqua calda nelle docce, nonché un'illuminazione insufficiente e inadeguata. La Corte europea si era già pronunciata in passato sul concetto di spazio vitale (88), in quelle occasioni aveva affermato che non era compito facile quantificare tale spazio alla luce dei diritti sanciti dalla Convenzione, anche in ragione del fatto che sono molti i fattori da tenere in considerazione in una simile valutazione. Come abbiamo potuto osservare nel caso Sulejmanovic, tuttavia, ci sono condizioni di detenzione, in termini di spazio vitale, talmente gravi, da integrare autonomamente una violazione ai sensi dell'art. 3 Cedu. Se poi i detenuti sono costretti a stare per un periodo di tempo molto lungo in simili circostanze, a maggior ragione sarà ravvisabile una menomazione della dignità umana, sanzionabile ai sensi della norma in analisi (89). I giudici, nell'analizzare la concreta situazione detentiva dei ricorrenti ha affermato che "la Corte ha appena constatato che il sovraffollamento carcerario in Italia non riguarda esclusivamente i casi dei ricorrenti (paragrafo 54 supra). Essa rileva, in particolare, che il carattere strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario in Italia emerge chiaramente dai dati statistici indicati in precedenza nonché dai termini della dichiarazione dello stato di emergenza nazionale proclamata dal presidente del Consiglio dei ministri italiano nel 2010" (90).

Poste queste premesse la Corte, richiamando la propria precedente giurisprudenza, ha affermato che "la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato" (91). Questi dati nel loro complesso rivelano che la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone. Per queste ragioni, a conclusione dell'analisi del caso di specie, la Corte stabilisce che "Conformemente ai criteri stabiliti nella sua giurisprudenza, la Corte decide di applicare la procedura della sentenza pilota al caso di specie, tenuto conto del crescente numero di persone potenzialmente interessate in Italia e delle sentenze di violazione alle quali i ricorsi in questione potrebbero dare luogo. Essa sottolinea anche il bisogno urgente di offrire alle persone interessate una riparazione appropriata su scala nazionale" (92).

La Corte, sensibile alla particolare vulnerabilità delle persone che si trovano sotto il controllo esclusivo degli agenti dello Stato, quali le persone detenute, ribadisce che la procedura prevista dalla Convenzione non si presta sempre ad un'applicazione rigorosa del principio affirmanti incumbit probatio, ovvero che l'onere della prova spetta a colui che afferma in quanto, inevitabilmente, il Governo convenuto è talvolta l'unico ad avere accesso alle informazioni che possono confermare o confutare le affermazioni delle parti. Ne consegue che il semplice fatto che la versione del Governo contraddica quella fornita dal ricorrente non può, in mancanza di un qualsiasi documento o spiegazione pertinenti da parte dello stesso, indurre la Corte a rigettare le affermazioni dell'interessato come non provate. Poiché lo Stato italiano non ha provveduto a dare spiegazioni sufficienti, la Corte nel giudizio si è basata sulle dichiarazioni concordanti rese dai ricorrenti. Per queste ragioni la Corte afferma che "Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che i ricorrenti non abbiano beneficiato di uno spazio vitale conforme ai criteri da essa ritenuti accettabili con la sua giurisprudenza. Essa desidera rammentare ancora una volta in questo contesto che la norma in materia di spazio abitabile nelle celle collettive raccomandata dal CPT è di quattro metri quadrati" (93).

La Corte osserva poi che la grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi, costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione, sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l'illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un'ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento inumano e degradante.

La Corte ritiene che le condizioni detentive in questione, tenuto conto anche della durata della carcerazione dei ricorrenti, abbiano sottoposto gli interessati ad una prova d'intensità superiore all'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione. Pertanto, vi è stata violazione dell'art. 3 della Convenzione.

La Corte non indica, nella sentenza Torreggiani, le misure provvisorie da adottare in attesa della soluzione del problema strutturale del sovraffollamento; essa si limita ad affermare che lo stato dispone di un anno di tempo per conformarsi agli obblighi derivanti dalla sentenza e che in questo intervallo l'esame dei ricorsi sarà sospeso (94). A questo proposito bisogna tenere a mente che l'art. 3 della Convenzione ha carattere assoluto, pertanto non sarà possibile derogare ai principi da esso derivanti, per queste ragioni il giudice nazionale adito dal detenuto per ragioni inerenti le condizioni di detenzione aggravate dal sovraffollamento non potrà sospendere il giudizio in virtù della sentenza-pilota Torreggiani, ma dovrà rispondere. Secondo quanto affermato dalle sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale, tale giudice dovrà provvedere a un'interpretazione del dato normativo interno conforme ai principi costituzionali e convenzionali, ma se questo non fosse possibile, dovrà invece sollevare la questione di legittimità costituzionale (95).

Nell'anno di tempo a sua disposizione, il Governo italiano si è adoperato per adottare misure in grado di ridurre la pressione nelle carceri nazionali e così facendo, adempiere alle richieste avanzate dalla Corte europea nella sentenza pilota Torreggiani.

Per dare sommariamente conto dei provvedimenti adottati dall'Italia, faccio riferimento ad una recente sentenza del settembre scorso, il caso Stella e a. c. Italia (96). Il ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo era stato sospeso a seguito della sentenza pilota del gennaio 2013, per poi essere esaminata allo scadere dei termini concessi dal giudice di Strasburgo. Proprio per la similarità con il caso che ha originato la sentenza pilota, i giudici hanno tenuto di conto dell'analisi del diritto e della prassi interna allo Stato, già riportate nella sentenza Torreggiani.

Tutti i ricorrenti, infatti, hanno dichiarato di essere stati detenuti in celle sovraffollate e di avere avuto a disposizione uno spazio vitale di circa 3m². Inoltre, l'aerazione e l'illuminazione delle celle sarebbero state insufficienti, così come il riscaldamento.

I giudici, nella sentenza Stella hanno richiamato puntualmente tutti i provvedimenti adottati dal Governo allo scopo di migliorare la condizione delle carceri italiane e ridurre il sovraffollamento che le affliggeva; ad esempio si è fatto riferimento all'adozione di misure legislative in materia di politica penale ai fini di un'applicazione più ampia delle misure alternative alla detenzione e, di conseguenza, della riduzione del numero delle persone incarcerate, all'introduzione di misure organizzative all'interno delle carceri volte soprattutto ad accordare ai detenuti una maggiore libertà di circolazione, e alla creazione di ricorsi interni di tipo preventivo e risarcitorio (97).

La Corte nella sentenza in analisi ha riportato, tra gli elementi a favore dello Stato convenuto, la decisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa resa nell'ambito del controllo dell'esecuzione della sentenza Torreggiani, nella quale i delegati si dichiaravano rallegrati per l'impegno delle autorità a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e per i risultati significativi ottenuti in questo ambito grazie alle varie misure strutturali adottate al fini di conformarsi alle sentenze emesse in questo gruppo di cause, tra cui la diminuzione importante e continua della popolazione carceraria e l'aumento dello spazio vitale ad almeno 3m² per detenuto (98).

Tenuto conto di questi elementi, la Corte richiama i principali punti dell'argomentazione sostenuta nella sentenza pilota. I giudici ricordano che la causa originaria della misura adottata nel gennaio 2013 era da imputare ad un deficit strutturale e sistemico delle carceri italiane che si poneva in contrasto con i dettami della Convenzione. In tale sentenza, la Corte ha anche considerato che il ricorso preventivo indicato dal Governo, ossia il reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza ai sensi degli artt. 35e 69 della legge sull'ordinamento penitenziario all'epoca vigenti, non costituiva un ricorso effettivo nella pratica in quanto non poteva impedire che la violazione dedotta continuasse né assicurare alle persone detenute un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione. Inoltre, la Corte ha constatato l'assenza nel diritto interno di un ricorso risarcitorio che permetta di ottenere riparazione della violazione subita.

Tenuto conto di tali inadempienze e delle misure adottate per porvi rimedio, la Corte, nella sentenza Stella ha affermato che "a seguito della procedura della sentenza pilota condotta nella causa Torreggiani e altri, lo Stato italiano ha adottato un certo numero di misure legislative volte a risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario e, parallelamente, ha riformato la legge sull'ordinamento penitenziario creando un nuovo ricorso interno di natura preventiva che permette alle persone detenute di lamentare dinanzi a un'autorità giudiziaria le condizioni materiali di detenzione, nonché un ricorso risarcitorio che preveda una riparazione per le persone che hanno già subito una detenzione contraria alla Convenzione" (99).

Nel proseguo la Corte ha ulteriormente dato prova di aver apprezzato gli sforzi italiani, dichiarando che "essa rileva quindi con interesse che lo Stato convenuto, conformemente alle raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa e alle dichiarazioni fatte all'esito delle Conferenze di Interlaken, di Izmir e di Brighton, ha adempiuto al proprio ruolo nel sistema della Convenzione risolvendo questo genere di problemi a livello nazionale, riconoscendo così alle persone interessate i diritti e le libertà definiti nella Convenzione" (100).

L'operato dello Stato italiano, dunque sembra passare il vaglio del giudice europeo, il quale esplicitamente ha affermato di apprezzare i risultati significativi ottenuti finora grazie all'impegno considerevole delle autorità italiane a vari livelli, ed ha constatato che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia, benché persistente, presenta oggi proporzioni meno drammatiche.

Nel concludere la Corte ha disposto che i ricorrenti si debbano rivolgere al giudice italiano ed esperire le vie di ricorso messe a disposizione dal decreto legge n. 92/2014, allo scopo di ottenere a livello nazionale il riconoscimento della violazione dell'art. 3 e, se del caso, una compensazione appropriata.

Come si può osservare dall'analisi della sentenza Stella l'operato dello Stato italiano, per quanto talvolta caotico ha comunque soddisfatto il vaglio della Corte e così facendo si è posto sulla giusta strada per una riduzione significativa del sovraffollamento nelle carceri italiane e con esso una miglioria delle condizioni di detenzione dei soggetti reclusi.

3.2.5 Il rapporto tra Corte e CPT

Con l'aumentare dei casi presentati alla Corte in materia di violazione del divieto di tortura a danno di persone soggette a limitazione della libertà, sono aumentati anche i punti di contatto tra CPT e Corte. Il rapporto tra questi due organi è caratterizzato, in primo luogo, dalla funzione probatoria dei rapporti generali e quelli sulle singole visite, i quali vengono utilizzati in giudizio, tanto dalle parti per avvalorare le proprie argomentazioni, quanto dalla Corte per ricostruire le reali condizioni di detenzione del ricorrente. La tecnica argomentativa della Corte si articola in una fase iniziale in cui si riporta il fatto storico e l'accusa rivolta allo Stato, successivamente i giudici richiamano la disciplina interna allo Stato, le pratiche e le fonti internazionali alla luce dei quali poi valuterà l'attendibilità delle accuse mosse. In seguito procederà alla valutazione del fondamento dell'istanza e in caso positivo ad una decisione. La funzione probatoria dei report del CPT si inserisce nella fase di accertamento delle condizioni di detenzione riportate dal richiedente, la Corte utilizza questi documenti per valutare se in precedenza il Comitato aveva già individuato uno stato precario o insufficiente della struttura o se le pratiche di gestione della popolazione carceraria fossero compatibili con i principi della Convenzione europea dei diritti umani.

La prima interazione tra Corte e Comitato per la prevenzione della tortura risale al caso Delazarus c. Regno Unito (101), del 1993. In tale circostanza era stata investita della decisione sull'ammissibilità del ricorso la Commissione; nel percorso argomentativo i giudici per la prima volta richiamano un report del CPT avente ad oggetto l'istituto penitenziario del ricorrente. Nel documento i commissari avevano riportato l'esistenza di un grave stato di sovraffollamento, con conseguenti, gravi carenze a livello igienico e sanitario, oltre a una cattiva gestione delle attività all'interno dell'istituto. La conclusione affermata nel rapporto era che le condizioni di detenzione dei detenuti nel carcere di Wandsworth fossero talmente gravi da costituire violazione dell'art. 3 per trattamenti disumani e degradanti.

La Commissione pur tenendo in considerazione tale documento tuttavia ha ritenuto che nel caso di specie il ricorrente non avesse subito un trattamento di tale genere, infatti dalla ricostruzione dei fatti era emerso che l'isolamento cui era stato sottoposto trovava ragione nella necessità di non alterare l'indagine interna a suo carico avviata per accertare la sua responsabilità per il tentato furto di una prova dall'ufficio dell'istituto. Pur non essendo stata decisiva per la definizione della decisione, l'interazione tra Corte e CPT ha rappresentato, in questo primo caso, un'apertura a future consultazioni tra i due organi (102). Un deciso passo in avanti verso un utilizzo significativo dei monitoraggi del CPT è ravvisabile nel 1998 con la sentenza Aerts c. Belgio (103). Nel caso il ricorrente denunciava che la mancanza di cure adeguate nella struttura psichiatrica dove era detenuto avevano provocato un deterioramento della sua condizione e che, perciò, egli era stato vittima di trattamento inumano e degradante. Pochi anni prima, nel 1993, il Comitato aveva svolto un controllo nelle strutture belghe, ravvisando una carenza degli standard di cura dei pazienti, che comportava un offerta sanitaria al di sotto del minimo accettabile, sotto ogni punto di vista, umanitario ed etico. La Commissione utilizzò i dati contenuti nel rapporto per prendere una decisione, stabilendo che le condizioni di detenzione del ricorrente avevano costituito una violazione dell'art. 3 della Convenzione; in questa occasione, tanto la maggioranza che la minoranza in seno alla Commissione si erano basate sulle considerazioni del CPT, per argomentare le proprie conclusioni. Altra circostanza del riferimento ai documenti del Comitato attinente all'aspetto di formazione del giudizio della Corte, è ravvisabile nel caso A.B. c. Paesi Bassi (104). Nell'iniziare il procedimento, la Corte considerò soddisfatto l'esperimento dei ricorsi interni, nonostante l'opposizione dello Stato convenuto, richiamando a tale proposito le considerazioni del CPT per cui le autorità delle Antille olandesi avevano ripetutamente ignorato per più di un anno le ingiunzioni dello stesso a provvedere a risolvere i gravi problemi di igiene nelle strutture carcerarie.

A partire da queste prime sentenze, la Corte, sempre più spesso nelle proprie argomentazioni ha richiamato i rapporti compiuti dal CPT, durante le visite nei Paesi membri, per avere un quadro certo e incontrovertibile delle condizioni dei luoghi di detenzione oggetto di ricorso. Un abito nel quale l'interazione tra i due organi è particolarmente apprezzabile è quello delle sentenze aventi ad oggetto il sovraffollamento carcerario e le conseguenze che da tale problema derivano (si pensi alle condizioni igieniche, all'assenza di privacy o di spazi vitali adeguati) (105).

Un elemento interessante, per la sua novità, è il riferimento che la Corte fa ai rapporti specifici e generali del CPT nel contesto dei Testi internazionali rilevanti, quali strumenti per valutare l'attendibilità delle affermazioni delle parti o colmarne le lacune (106). La Corte molto spesso, quando non colloca i rapporti tra le fonti internazionali, li richiama tra i principi generali, in riferimento alla definizione dello spazio vitale da considerare minimo; in tali casi, la collocazione non solo rafforza il legame strumentale tra i due organi ma consolida la funzione probatoria dei rapporti del CPT (107).

All'interno delle sentenze pilota sin'ora rese dalla Corte, i giudici hanno ampiamente utilizzato i rapporti del CPT sulle visite nei Paesi in cui le carenze strutturali avevano determinato un numero di ricorsi particolarmente elevati, al fine di ricostruire la reale condizione detentiva. La Corte sembra voler dare, in tali casi una mappatura puntuale delle condizioni di detenzione dei ricorrenti e di voler individuare in proposito consigli per la soluzione altrettanto dettagliati. Per fare ciò il giudici si rifanno molto spesso ai giudizi circa la violazione dell'art. 3 a causa delle condizioni di detenzione, contenute nei documenti del Comitato per la prevenzione della tortura. Ad esempio nella sentenza Ananyev e a. c. Russia, i giudici della Corte hanno richiamato i rapporti del Comitato per ricostruire i principi rilevanti in materia di sovraffollamento, tema principale del caso, e dunque individuare dei parametri alla luce dei quali valutare le condizioni fattuali del detenuto (108). Dall'analisi delle altre sentenze pilota si evince che nella giurisprudenza odierna, è pratica consolidata quella del giudice di riferirsi ai rapporti del CPT per corroborare la propria decisione in un giudizio di violazione del divieto di tortura ai sensi dell'art. 3 della Convenzione.

Sebbene il quadro generale indica una sovente aderenza della Corte al giudizio di violazione dell'art. 3 della Convenzione emesso dal CPT nei vari rapporti via via richiamati nelle proprie argomentazioni, non esiste alcun obbligo secondo cui la prima debba conformarsi al giudizio del secondo. Lo afferma la stessa Corte, quando dice "The Court has taken that Committee's reports very seriously, as it plainly must. Even so, it does not follow that the Court is bound to find a violation of Article 3 of the Convention in each and every case where the CPT has expressed the view that conditions in an institution where an applicant is detained amount to 'inhuman or degrading treatment'" (109).

Ulteriore elemento a fondamento di tale affermazione è la differenza di computazione dello spazio minimo vitale. Per il Comitato tale spazio non deve essere inferiore a 4m² nelle celle condivise, ciò lo si evince ad esempio dalla Relazione al governo ungherese sulla visita in Ungheria effettuata dal CPT (110), e richiamata nella sentenza Szel c. Ungheria (111) nella quale la Corte ha condannato lo Stato convenuto per violazione dell'art. 3, ordinando alle autorità ungheresi di porre in essere tutte le misure necessarie, di carattere amministrativo e non, per migliorare le condizioni all'interno delle carceri. Tuttavia, una copiosa giurisprudenza della Corte contrasta con un simile parametro, poiché ha affermato che la soglia minima sotto la quale vi è una violazione dell'art. 3 della Convenzione è 3m² e non 4m² come affermato dal CPT (112). Recentemente, la Corte ha condannato lo Stato ricorrente in ipotesi di sovraffollamento, facendo riferimento a metrature pro capite molto varie tra loro; Nella già richiamata sentenza Sulejmanovic la Corte ha condannato l'Italia per aver detenuto il ricorrente in uno spazio che offrivo solo 2,70m² a persona, diversamente, lo stesso anno, nella sentenza Buzhinayev c. Russia (113) i giudici sono pervenuti alla medesima conclusione rispetto a uno spazio personale pari a 3,4m², nei momenti di maggior sovraffollamento.

Appare evidente che la Corte, se da una parte fa spesso riferimento ai documenti redatti dal CPT, sia per dimostrare la reale insufficienza delle condizioni di detenzione sia come elemento corroborante la propria linea decisionale, per altri versi, non si sente vincolata ai giudizi sulla violazione dell'art. 3 della espressi dal Comitato. Queste relazioni vengono utilizzate come uno strumento utile, ma non vincolante. Si può individuare una spiegazione a tali dinamiche in considerazione del fatto che la natura non giudiziaria del Comitato e la divisone delle competenze, rispetto alla Corte, chiaramente definita nel testo della Convenzione europea per la prevenzione della tortura, comporta una restrizione del campo di utilizzo dei rapporti del Comitato unicamente come elemento comprovante lo stato delle carceri nei Paesi visitati.

3.3 La sentenza pilota

La sentenza pilota, è uno strumento nato recentemente, che ha permesso ai giudici di Strasburgo di valutare insieme più casi originati dalla medesima situazione, ad esempio dal medesimo provvedimento o legge. La caratteristica primaria della sentenza pilota è quella di sospendere tutti i ricorsi simili per un periodo di tempo stabilito dalla Corte, al fine di permettere alle autorità nazionali la rimozione della causa generatrice dei ricorsi; allo scadere del periodo concesso dalla Corte lo Stato in causa, qualora non abbia rimosso la causa della violazione, è chiamato a rispondere in tutti i ricorsi, fino a quel momento congelati.

La procedura della sentenza pilota è stata introdotta nel Regolamento della Corte europea dei diritti dell'uomo il 21 Febbraio 2011, con l'art. 61. Il testo della norma prevede che la Corte possa decidere di applicare la procedura della sentenza pilota quando i fatti all'origine di un ricorso rivelano l'esistenza, nello Stato convenuto, di un problema strutturale o sistemico o di un'altra disfunzione simile che ha dato luogo o potrebbe dare luogo alla presentazione di altri ricorsi analoghi (114). Prima di decidere di applicare al caso una sentenza pilota la Corte deve favorire un dialogo tra le parti, ma alla fine potrà decidere di pronunciarsi in tal senso anche d'ufficio, garantendo un procedimento prioritario ai sensi dell'art. 41 dello stesso regolamento. Al comma 3 dell'articolo in analisi, si dispone che la Corte stessa debba specificare tanto la natura del problema che ha dato origine al ricorso (ma anche ai ricorsi che si presume possano derivare dallo stesso problema), quanto il tipo di misure riparatorie che la Parte contraente interessata deve prendere a livello interno in applicazione del dispositivo della sentenza (115). Tra i compiti della Corte, come abbiamo detto in apertura di questo paragrafo, c'è anche quello di fissare un termine per l'adozione delle misure volte a risolvere il problema strutturale, essa si pronuncia sulla base di una stima delle tempistiche necessarie allo Stato per adempiere, riservandosi di concedere una sospensione dei casi per il tempo accordato (116). I giudici allo scadere del termine fissato nella sentenza pilota, possono valutare se le misure adottate hanno rappresentato la giusta soddisfazione per i casi da esaminare. Se allo scadere del termine lo Stato convenuto non si conforma al dispositivo della sentenza pilota, la Corte, salvo decisione contraria, riprende l'esame dei ricorsi che sono stati rinviati. Della sentenza pilota e delle relative deficienze strutturali viene informato il Comitato dei Ministri, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, il Segretario generale del Consiglio d'Europa ed il Commissario per i diritti dell'uomo del Consiglio d'Europa, dando ampia pubblicità della misura straordinaria adottata per lo Stato membro.

La Corte ha utilizzato l'istituto della sentenza pilota, per la prima volta nel caso Broniowski c. Polonia (117), nel giugno del 2004; in quella circostanza l'oggetto del giudizio era il diritto di proprietà.

Con riferimento all'art. 3 della Convenzione, la prima testimonianza di utilizzo della sentenza pilota nei confronti di uno Stato membro per ragioni di sovraffollamento, è rappresentata dalle due sentenze coeve Orchowski c. Polonia e Norbert Sikorski c. Polonia (118) già citate. Per quanto concerne la prima delle due sentenze, la Corte ha affermato che "approximately 160 applications raising an issue under Article 3 of the Convention with respect to overcrowding and consequential inadequate living and sanitary conditions are currently pending before the Court. Ninety-five of these applications have already been communicated to the Polish Government". Proprio il numero elevato di ricorsi oltre alla gravità e alla natura strutturale del problema del sovraffollamento nelle carceri, hanno condotto i giudici a pronunciarsi con una sentenza pilota; in particolare essi hanno notato che "the violation of the applicant's right under Article 3 of the Convention originated in a widespread problem arising out of the malfunctioning of the administration of the prison system insufficiently controlled by Polish legislation, which has affected, and may still affect in the future, an as yet unidentified, but potentially considerable number of persons on remand awaiting criminal proceedings or serving their prison sentences". La Corte ha concluso sul caso affermando che per molti anni, e cioè dal 2000 fino alla metà del 2008, il sovraffollamento nelle carceri e nei centri di custodia cautelare polacchi ha rivelato un problema strutturale che consiste di üna pratica che è incompatibile con la Convenzione" (119). D'altra parte, la Corte prende atto del fatto che lo Stato convenuto ha recentemente adottato alcune misure generali per risolvere i problemi strutturali legati al sovraffollamento e le conseguenti condizioni di detenzione inadeguate; infatti la Corte Costituzionale polacca aveva sancito che l'art. 248 del codice dell'esecuzione penale fosse in contraddizione con l'art. 40 della Costituzione (che ha formulazione identica all'art. 3 della Cedu), dichiarandolo incostituzionale per il fatto di consentire che in casi particolari il direttore di un istituto penitenziario potesse decidere che per un periodo determinato i detenuti potessero essere reclusi in celle che offrivano meno di 3m² a testa di spazio.

Lo stesso percorso argomentativo viene riproposto nella sentenza Norbert Sikorski c. Polonia, anche in questa circostanza la Corte ribadisce il problema strutturale delle carceri polacche, sottolineando che il sovraffollamento e le scarse condizioni igienico-sanitarie hanno costituito l'oggetto di oltre centocinquanta ricorsi e che molti altri ne sarebbero seguiti se non vi fosse stato un intervento sistematico da parte del Governo polacco.

Per queste ragioni i giudici, dopo aver consultato le parti hanno pronunciato una sentenza pilota.

In seguito a questi provvedimenti lo Stato ha adottato misure soddisfacenti, secondo i giudici, a migliorare le condizioni di detenzione delle persone private della libertà.

Un altro caso emblematico è la sentenza Ananyev c. Russia (120) del gennaio 2012, già richiamata nei precedenti capitoli, con la quale la Corte ha sanzionato il Governo russo a causa del numero elevato di sentenze riguardanti la violazione dell'art. 3 già pronunciate e dei numerosi ricorsi pendenti per le condizioni di detenzione disumane.

I giudici, con la sentenza in analisi hanno voluto richiamare e dunque fissare tutti i principi riguardanti la valutazione delle condizioni di detenzione; è una sentenza che potremmo definire quadro in materia di applicazione dell'art. 3, visto che tocca molti profili che la norma in analisi regola, e per i quali vengono cristallizzati i progressi giurisprudenziali intercorsi negli anni.

La Corte, nella sentenza Ananyev afferma che le condizioni di detenzione dei ricorrenti erano particolarmente gravi, sia a causa delle carenze igienico-sanitarie (121), sia per l'assenza di luce naturale e aria fresca (122), nonché per l'impossibilità di svolgere esercizi all'aria aperta per un periodo adeguato (123). Ad aggravare tali condizioni di detenzione vi era anche il problema del sovraffollamento, infatti la Corte ha accertato che il sig. Ananyev ha soggiornato per due mesi in una cella adibita ad ospitare tredici persone, ma che nel momento di massimo sovraffollamento ve ne erano stipate addirittura ventuno, e comunque sempre più di quanti erano i posti letto, così da costringere i prigionieri a dormire secondo dei turni. La Corte in un'ulteriore riflessione afferma che la condizione denunciata dai ricorrenti non era eccezionalmente riferita ad un caso isolata, bensì rappresentava la realtà detentiva di una grande parte della popolazione carceraria russa; per questi motivi era necessario intervenire in modo molto più profondo e sistematico.

In virtù della regolamentazione dell'istituto della sentenza pilota, la Corte dopo aver appurato che le violazioni della Convenzione erano legate a carenze strutturali da parte dello Stato russo, ha negato una sospensione dei procedimenti al momento pendenti presso di sé ed ha concesso al Governo solamente sei mesi per apportare miglioramenti alle condizioni dei detenuti. E' interessante notare che un anno dopo, nella sentenza Torreggiani, i giudici opteranno per una soluzione ben diversa, accordando allo Stato italiano un intero anno per adempiere alle disposizioni della sentenza pilota, oltretutto disponendo il congelamento delle cause pendenti.

In riferimento alla sentenza Ananyev i giudici hanno anche avanzato delle proposte per porre rimedio alle carenze dello Stato, in riferimento alla detenzione cautelare la Corte ne ha proposto una drastica riduzione, sia per quanto riguarda i tempi che la durata; mentre in generale essa ha invitato i giudici nazionali a ricorrere alla sanzione detentiva solo in extrema ratio, come richiesto anche dalla Raccomandazione del Consiglio d'Europa del 30.09.1999 e dalle Regole minime penitenziarie, come modificate nella Raccomandazione del 2006.

Riflettendo sulla natura derogatoria dell'istituto in analisi, è necessario notare che per il periodo di validità della sentenza pilota, coloro i cui diritti sono stati violati o che si trovano nella situazione di subire condotte contrarie all'art. 3, si vedono inibita la possibilità di ricorso e quindi di far cessare immediatamente la condotta lesiva dei loro diritti e ottenere un risarcimento.

A mio parere è interessante osservare che il principio di assolutezza intrinseco nell'art. 3 della Convenzione viene fortemente sacrificato, subendo una deroga per tutto il tempo di validità della sentenza pilota. Infatti per il periodo, stabilito dalla Corte, di inibizione del ricorso, il soggetto che avrebbe diritto ad un esame della propria condizione di detenzione e nel caso di violazione ad una riparazione, sia in termini di miglioramento della propria condizione, sia in termini di risarcimento, non trova alcuna tutela.

Il bilanciamento operato è tra l'interesse dello Stato a ottenere tempo per le riforme strutturali e contemporaneamente una sospensione dei ricorsi, da un lato, e il diritto a ottenere tutela da parte di soggetti che la stessa Corte ha giudicato categoria vulnerabile e bisognosa di protezione. A mio parere la scelta di sacrificare gli interessi dei detenuti a quelli dello Stato contraente non rispetta lo spirito dell'art. 3, sia perché contrasta con la natura garantista di quest'ultimo, sia perché spesso il tempo concesso ad un Paese membro si esaurisce senza un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti nelle carceri. Infatti i problemi strutturali che originano i ricorsi, richiedono un investimento cospicuo di denaro e l'adozione di provvedimenti normativi molto complessi che devono ottenere l'appoggio delle forze politiche; questo processo dunque, è destinato a richiedere una tempistica che in un caso annullerebbe per un tempo inaccettabilmente lungo le tutele a livello europeo dei soggetti vessati da maltrattamenti.

Nel caso di specie la Corte ha affermato che "al fine di facilitare l'effettiva attuazione delle sue sentenze secondo il principio di cui sopra, la Corte può adottare una procedura di sentenza pilota che le consenta di mettere in luce chiaramente, nella sua sentenza, l'esistenza di problemi strutturali all'origine delle violazioni e di indicare le misure o azioni particolari che lo Stato convenuto dovrà adottare per porvi rimedio" (124). In questo modo i giudici riconoscono l'esistenza di condizioni di detenzione in contrasto con l'art. 3 della Convenzione, che non attengono solo ai casi presentati dai ricorrenti, ma che toccano la realtà carceraria dell'intera penisola.

I giudici in tale situazione ricorrono allo strumento della sentenza pilota anche per individuare soluzioni che possano risolvere il problema strutturale portato alla luce nei ricorsi presentati dal Sig. Torreggiani e dagli altri sei detenuti. In tale ottica, la Corte richiama il principio di sussidiarietà, affermando che "un altro fine importante perseguito dalla procedura della sentenza pilota è quello di indurre lo Stato convenuto a trovare, a livello nazionale, una soluzione alle numerose cause individuali originate dallostesso problema strutturale, dando così effetto al principio di sussidiarietà che è alla base del sistema della Convenzione" (125). Secondo questo principio, le garanzie offerte dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo sono tanto meglio assicurate quanto più vicino agli interessati è l'organo che ne assicura l'effettivo godimento. La Corte si mostra ben consapevole che soltanto sforzi a lungo termine da parte delle autorità italiane potranno risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario, e sottolinea come il suo compito non possa essere quello di indicare le specifiche misure da adottare in questo contesto, che resteranno affidate alla valutazione discrezionale delle autorità italiane, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa (126).

La Corte ha riconosciuto con favore che qualche sforzo nella direzione di un miglioramento del problema del sovraffollamento è stato adottato dal Governo italiano, infatti ha affermato che "Essa osserva che, recentemente, lo Stato italiano ha adottato misure che possono contribuire a ridurre il fenomeno del sovraffollamento negli istituti penitenziari e le sue conseguenze. Essa si compiace per i passi compiuti dalle autorità nazionali e non può far altro che incoraggiare lo Stato italiano a proseguire gli sforzi" (127).

Tuttavia il giudice di Strasburgo riconosce che tali sforzi non sono sufficienti e dopo aver ricordato che non spetta alla Corte suggerire agli Stati delle disposizioni riguardanti le loro politiche penali e l'organizzazione del loro sistema penitenziario, afferma che, "essa desidera rammentare in questo contesto le raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa che invitano gli Stati ad esortare i procuratori e i giudici a ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione allo scopo, tra l'altro, di risolvere il problema della crescita della popolazione carceraria (si vedano, in particolare, le raccomandazioni del Comitato dei Ministri Rec(99)22 e Rec(2006)13)" (128).

Più nello specifico, in riferimento alla situazione in cui un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all'art. 3 della Convenzione, "la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, chiunque abbia subito una detenzione lesiva della propria dignità deve potere ottenere una riparazione per la violazione subita" (129). In altre parole, la Corte afferma che lo Stato italiano debba al più presto dotarsi di un sistema di ricorsi interni idonei tanto a garantire un rimedio preventivo contro le violazioni dell'art. 3 Cedu a carico dei detenuti e dunque idonei a far cessare le violazioni in atto, quanto un rimedio compensatorio nei casi di avvenuta violazione (130).

In conclusione vorrei richiamare anche il caso Kaverzin c. Ucraina (131), in cui la Corte è nuovamente ricorsa allo strumento della sentenza pilota a causa delle carenze dello Stato in riferimento alle garanzie contro i maltrattamenti nei luoghi di polizia e l'impossibilità per i detenuti di avere accesso alla documentazione relativa al proprio caso (utile eventualmente a presentare ricorso di fronte al giudice di Strasburgo per ottenere un miglioramento delle proprie condizioni o la cessazione degli abusi, o ancora il risarcimento per i maltrattamenti subiti).

Il ricorrente lamentava di essere stato torturato dalla polizia durante la sua permanenza in custodia e che la sua denuncia di tortura non era stata debitamente esaminata. Egli ha inoltre lamentato che le autorità non gli avevano fornito di adeguate cure mediche, e che a seguito di tale, grave mancanza era diventato disabile. Secondo il ricorrente, le condizioni della sua detenzione erano state ulteriormente scorrette e degradanti, in ragione del fatto che egli era stato ammanettato in ogni momento in cui gli era stato permesso di lasciare la sua cella.

Similmente ai casi riportati sopra, la Corte riconosce l'esistenza di un'ampia casistica di violazioni dell'art. 3 nelle sue varie accezioni, affermando che "The Court notes that a part of the present case concerns recurring problems underlying frequent violations of Article 3 of the Convention by Ukraine. In particular, in about 40 of its judgments the Court has found that the Ukrainian authorities were responsible for ill-treatment of people in police custody and that no effective investigation was conducted into allegations of such ill-treatment (see, for instance, the cases to which reference is made at paragraph 94 above). More than 100 other cases raising those issues are currently pending before the Court" (132).

La Corte nota inoltre che le violazioni oggetto di ricorso non erano oggetto di casi isolati, e non sono attribuibili ad un particolare stato di cose, ma sono la conseguenza di carenze normative e della condotta amministrativa delle autorità in contrasto con i precetti dell'art. 3 della Convenzione. La Corte per ricostruire le dinamiche concrete nel caso di specie fa ricorso a testi internazionali quali i rapporti del Comitato per la prevenzione della tortura, relativi alle tre visite compiute negli anni immediatamente precedenti alla denuncia del ricorrente e il rapporto del Commissario dei diritti umani relativo alla visita del 2006.

Per queste ragioni, la Corte ha condannato lo Stato ucraino a effettuare con urgenza le riforme del sistema ordinamentale in modo che le indagini sui casi di maltrattamento seguano quei criteri di effettività richiamati nella giurisprudenza precedente della Corte stessa.

Note

1. P. Lambert, Le sort des détenus au regard des droits de l'homme et du droit supranational, Rivista trimestrale dei diritti dell'uomo, v. 9, n. 34, p. 291-302, 1998.

2. Art. 10, par.1, "Qualsiasi individuo privato della libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana".

3. Art. 5, par.2, "Nessuno sarà sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Tutti coloro che siano privati della libertà saranno trattati con il rispetto dovuto alla dignità inerente alla persona umana".

4. C. Bianco, La privazione della libertà nelle sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo, seminario su Il carcere in Europa fra reinserimento ed esclusione, Pisa 29.02.2008.

5. Commissione, rapporto Ilse Koch c. Austria, in annuario 5, p.127.

6. Corte, sentenza Campbell e Fell c. Regno Unito, 28.06.1984, riferimenti n. 7819/77 7878/77.

7. Commissione, parere sul caso X. c. Repubblica Federale Tedesca, n.6315/73, DR,1, p. 73.

8. Commissione, parere sul caso Kotalla c. Paesi Bassi, DR,14, p.243.

9. L. M. Solivetti, Società e risocializzazione: il ruolo degli esperti nelle attività di trattamento rieducativo, in Rassegna penitenziaria e criminologica, vol. I, 1983, p. 260.

10. ONU, Risoluzione per la prevenzione del delitto ed il trattamento dei delinquenti, 30.081955art. 1.

11. Ibidem, art. 2.

12. Ibidem, artt. 9.1-14.

13. L. Daga (a cura di), Notiziario internazionale, in Rassegna penitenziaria e criminologica, vol. I, 1987, p. 445.

14. Corte, sentenza Kafkaris c. Cipro, 12.02.2008, riferimento n. 2196/04, §73; Corte, sentenza Renolde c. Francia, 16.10.2008, riferimento n. 5608/05, §65; Corte, sentenza Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, 18.07.2014, riferimenti n. 15018/11 61199/12, §159.

15. G. Capoccia, Introduzione e commento alle Regole penitenziarie europee, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 07/11/2012, p. 8 e ss.

16. Corte, sentenza Tyrer c. Regno Unito, cit., §30.

17. A. Esposito, art. 3 Proibizione della tortura, in Bartole, Conforti, Raimondi (a cura di) Commentario alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, Cedam, 2001, pp. 69 e ss.

18. Corte, sentenza Costello-Roberts, 25.03.1993, riferimento n. 13134/87, §30.

19. Corte, sentenza Poltoratskiy c. Ucraina, 29.04.2003, riferimento n. 308812/97, §132.

20. C. Grabenwarter, European Convention on Human Rights, Commentary, C.H. Beck- Hart-Nomos-HLV, p. 42.

21. Corte, sentenza Kudla c. Polonia, 26.10.2000, riferimento n. 30210/96.

22. Ibidem, §96.

23. Ibidem, §94.

24. Corte, sentenza Dougoz c. Grecia, 06.03.2001, n. 40907/98, §§45-46.

25. Corte, sentenza Keenan c. Regno Unito, 03.04.2001, n. 27229/95, §110; Corte, sentenza Kaprykowsky c. Polonia, 03.02.2009, n. 23052/05, §§68 e ss.

26. Corte, sentenza Dobrev c. Bulgaria, 10.08.2006, n. 55389/00, §138.

27. Corte, sentenza Kalashnicov c. Russia, 15.07.2002, ricorso n. 47095/99, §92-103.

28. Ibidem, §94.

29. Corte, sentenza Alver c. Estonia, 08.11.2005, ricorso n. 64812/01, §§49-57.

30. Corte, sentenza Poltoratskiy c. Ucraina, cit., §§145 e ss.

31. Corte, sentenza Yankov c. Bulgaria, 11.12.2003, riferimento n. 39084/97, §§112-113.

32. Corte, sentenza Kashavelov c. Russia, 20.01.2011, riferimento n. 891/05, §§38-40.

33. In proposito rimando al Capitolo 3 di questo elaborato, al § "Trattamento o punizione degradante".

34. C. Grabenwarter, European Convention on Human Rights, Commentary, cit., p. 42.

35. Corte, sentenza Kaverzin c. Ukraina, 15.05.2012, riferimento n. 23893/03, §§161-163.

36. Corte, sentenza Istratii c. Moldova,27.03.2007, riferimenti n. 8721/05 8705/05 8742/05, §§68-72.

37. Corte, sentenza, Gorodnitchev c. Russia, 24.05. 2007, riferimento n. 52058/99, §32.

38. Corte, sentenza Idalov c. Russia, 22.05.2012, riferimento n. 5826/03, §§58-61 e §§103 e ss.

39. Si veda ad esempio: Corte, sentenza Khudoyorov c. Russia, 08.11.2005, riferimento n. 6847/02, §§118-120; Corte, sentenza Starokadomskiy c. Russia, 31.07.2008, riferimento n. 42239/02, §§53-60.

40. Commissione, rapporto Kröcher e Müller c. Svizzera, 16.12.1982, DR, 49 pp. 87 e 116; Commissione, rapporto Dhoest c. Belgio, 14.05.1987, DR, 55 pp. 6 e 42, §116.

41. Corte, sentenza Lorsé e a. c. Olanda, 04.02.2003, riferimento n. 52750/99, §§60 e ss.

42. Corte, sentenza Messina c. Italia 08.06.1999, riferimento n. 25498/94, §13.

43. Su questo tema si veda anche: Van der Ven c. Olanda, 04.02.2003, riferimento n. 50901/99, §§53 e ss (La Corte Europea si trovò in accordo con il CPT, nel considerare la reclusione nel carcere EBI come destabilizzante psichicamente; inoltre la stessa Corte ritenne impossibile, per il detenuto, riuscire ad essere rieducato in quella struttura, a causa del sovraffollamento. In proposito essa ha affermato che: "Consiste in un trattamento inumano e degradante, così come capitato al ricorrente, lo spogliarsi nudi dei detenuti davanti ai loro carcerieri"); Corte, sentenza Babar Ahmad e a. c. Regno Unito, 10.04.2012, riferimento n. 24027/07, §§205 e ss.

44. Si veda ad esempio: Corte, sentenza Ivan Vasilev c. Bulgaria, 12.04.2007, riferimento n. 48130/99, §63; Corte, sentenza Kurnaz e a. c. Turchia, 24.07.2007, riferimento n. 36672/97, §§53-55; Corte, sentenza Staszewska c. Polonia, 03.11.2009, riferimento n. 100049/04, §53.

45. Corte, sentenza Muradova c. Azerbaijan, 02.04.2009, riferimento n. 22684/05, §109.

46. Così, ad esempio, le sentenze: Rachwalski e Ferenc c. Polonia, 28.07.2009, riferimento n. 47709/99, §59; Corte, sentenza Kop c. Turchia, 20.10.2009, riferimento n. 12728/05, §27.

47. Corte, sentenza Ramirez Sanchez c. Francia, 04.07.2006, ricorso n. 59450/00; si veda anche: Corte, sentenza Popov c. Russia, 13.07.2006, ricorso n. 26853/04, §208.

48. Corte, sentenza Zelilof c. Grecia, 24.05.2007, riferimento n. 17060/03, §§46-47.

49. Corte, sentenza Muradova c. Azerbaijan, cit., §133.

50. Corte, sentenza Protopapa c. Turchia, 24.02.2009, riferimento n. 16084/90, §§46-48.

51. D. Ranalli, Nuovi interventi della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di trattamento carcerario, in Rassegna penitenziaria e criminologica, vol. II, 2013, p. 157 e ss.

52. Commissione, relazione sul caso Cartier c. Italia, n. 9044/80, DR,33, p. 41.

53. Commissione, decisione sul caso B. c. Germania, n. 13047/87, DR,55, p. 271.

54. Corte, sentenza Papon c. Francia (no. 1), 07.06.2001, ricorso n. 64666/01.

55. Corte, sentenza Mouisel c. Francia, 14.11.2002, ricorso n. 67263/01, §37 e ss.

56. Ibidem, §40.

57. Corte, sentenza Keenan c. Regno Unito, 03.04.2001, ricorso n.27229/95, §110.

58. D. Ranalli, Nuovi interventi della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di trattamento carcerario, cit., p. 160; F. Sudre, Les grands arrêts de la Cour européenne des droits del'homme, Puf, 2003, p.174-178.

59. Corte, sentenza Hurtado c. Svizzera,28.01.1994, in Serie A n. 280-A, §67.

60. Corte, sentenza Xiros c. Grecia,09.09 2010, riferimento n. 1033/07, §§73 e ss.

61. Corte, sentenza Mouisel c. Francia, cit.

62. Corte, sentenza Paladi c. Moldavia, 10.03.2009, ricorso n. 39806/05, §72; Corte, sentenza Oshurko c. Ucraina, 08.09.2011, ricorso n. 33108/05, §82.

63. Corte, sentenza Vladimir Vasilyev c. Russia, 10.01.2012, ricorso n. 28370/05, n 58.

64. L. Cesaris, Prassi giudiziarie e sovraffollamento, in Rassegna penitenziaria e criminologica, vol. I, 2013, p. 157.

65. Corte, sentenza Kalashnikov c. Russia, cit., §92-103.

66. Ibidem, §95.

67. Corte, sentenza Labzov c. Russia, 16.06.2005, ricorso n. 62208/00, §44.

68. Corte, sentenza Babushkin c. Russia, 18.10.2007, ricorso n. 67253/01, §44.

69. Corte, sentenza Vlassov c. Russia, 12.06.2008, ricorso n. 78146/01, §84.

70. Corte, sentenza Belevitskiy c. Russia, 01.03.2007, ricorso n. 72967/01, §§73-79.

71. Ibidem, §76.

72. Corte, sentenza Istvan Gabor Kovacs c. Ungheria, 17.01.2012, riferimento n. 15707/10, §26.

73. Corte, sentenza Koktysh c. Ucraina, 10.12.2009, ricorso n. 43707/07, §93-95.

74. Per un approfondimento della giurisprudenza della Corte in tema di violazione dell'art. 3 anche per breve periodo di tempo, si veda: per un periodo di cinque giorni: Corte, sentenza Gavrilovici c. Moldova, 15.12.2009, ricorso n.25464/05, §§30 e 43; Corte, sentenza Ciupercescu c. Romania, 24.07.2012, ricorso n. 64930/09, §24; per un periodo di sette giorni: Parascineti c. Romania, 13.03.2012, ricorso n. 32060, §47-55.

75. Corte, sentenza Alver c. Estonia, cit., §§51-52.

76. Corte, sentenza Orchowski c. Polonia, 22.10.2009, ricorso n. 17885/04, §151; Corte, sentenza Norbert Sikorski c. Polonia, 22.10.2009, ricorso n. 17599/05, §155-156.

77. A. Colella, Rassegna delle pronunce del triennio 2008-2010 in tema di art. 3 Cedu, in Diritto penale Contemporaneo, cit., p. 238 e ss.

78. Corte, sentenza Sulejmanovic c. Italia, 16.07.2009, Ricorso n. 22635/03.

79. Ibidem, §41.

80. Ibidem, §§43-45.

81. Corte, sentenza Labzov c. Russia, cit., §44.

82. L. Cesaris, Primi effetti della decisione della corte europea dei diritti dell'uomo, Sulejmanovic contro Italia, in Rassegna penitenziaria e criminologica, vol. II, 2011, p. 157.

83. Magistrato di Lecce, ordinanza 09.06.2011.

84. Magistrato di Vercelli, ordinanza 18.04.2012.

85. Corte di Cassazione, sentenza Vizzari, 15.01.2013, riferimento n. 4722.

86. Corte, sentenza Torreggiani e a. c. Italia, 8.01.2013 nn. 43517/2009, 46882/2009, 55400/2009, 57875/2009, 61535/2009, 35315/2010, 37818/2010.

87. M. Montagna, Corte europea dei diritti dell'uomo e sovraffollamento carcerario, in Quaderni della ricerca diritti-cedu.unipg.it, 2013.

88. Corte, sentenza Kadikis c. Lettonia, 04.05.2006, n. 62393/2000; Corte, sentenza Kantyrev c. Russia, 07.04.2008, n. 37213/2002; Corte, sentenza Sulejmanovic c. Italia, cit.

89. Corte, sentenza Torreggiani c. Italia, cit., §78.

90. Ibidem, §87.

91. Ibidem, §65.

92. Ibidem, §90.

93. Ibidem, §76.

94. A. Tamietti, M. Fiori, F. Desantis, D. Ranalli, EV. Ledri, Note a margine della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nel caso Torreggiani e altri in Rassegna penitenziaria e criminologica, vol. I, 2013, p. 49.

95. Eventualità realizzatasi per il Tribunale di sorveglianza di Venezia, 13 febbraio 2013: Il giudice nazionale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147 c.p. nella parte in cui non prevede, oltre alle ipotesi tassativamente indicate, anche il caso di rinvio dell'esecuzione della pena quando quest'ultima debba avvenire in condizioni contrarie al principio di umanità, e quindi, in spregio degli art. 27 e 117 Cost., letti congiuntamente all'art. 3 Cedu.

96. Corte, sentenza Stella e a. c. Italia, 16.09.2014, riferimento n. 49169/09.

97. Ibidem, §§10-19.

98. Ibidem, §24.

99. Ibidem, §41.

100. Ibidem, §42.

101. Commissione, decisione Delazarus c. Regno Unito, 16.02.1993, ricorso n. 17525/90.

102. M. Nowak, The European Convention on Human Rights and its Control System, 1989, in Murdoch, The Treatment of Prisoners. European Standards, Strasbourg, 2006, p. 38.

103. Corte, sentenza Aerts c. Belgio, 30.07.1998, ricorso n. 25357/94, §§23, 50 e 67.

104. Corte, sentenza A.B. c. Paesi Bassi, 29 .01.2002, ricorso n. 37328/97, §73.

105. Ad esempio, nel leading case Kalashnikov c. Russia, la Corte ha fatto riferimento ai parametri del CPT nella sua giurisprudenza, per stabilire se lo spazio vitale del ricorrente fosse sufficiente, Corte, sentenza Kalashnikov c. Russi, cit., §97.

106. Si veda ad esempio: Corte, sentenza Kantyrev c. Russia, cit., §32; Corte, sentenza Aleksandr Makarov c. Russia, 12.03.2009, ricorso n. 15217/07, §68; Corte, sentenza Veleyev c. Russia, 24.06.2010, ricorso n. 24202/05, §115.

107. Si veda ad esempio: Corte, sentenza Suleymanovic c. Italia, cit., §21.

108. Corte, sentenza Ananyev e a. c. Russia, cit., §§56 e 144.

109. Corte, sentenza Narcisio c. Belgio, 27.01.2005, ricorso n. 47810/99, §3.b.

110. CPT, Rapporto sulla visita svolta in Ungheria, 24.03-02.04.2009, §§65 e 80.

111. Corte, sentenza Szel c. Ungheria, 07.06.2011, ricorso n. 30221/06, §18.

112. L. Cesaris, Prassi giudiziarie e sovraffollamento, in Rassegna penitenziaria e criminologica, cit., p.158.

113. Corte, sentenza Buzhinayev c. Russia, 15.10.2009, ricorso n. 17679/03, §53.

114. Regolamento della Corte europea dei diritti dell'uomo, art. 61 co. 1.

115. Ibidem, art. 61 co. 3.

116. Ibidem, art. 61 co. 6: 6. a) All'occorrenza, la Corte può rinviare l'esame di tutti i ricorsi che traggono origine da uno stesso motivo in attesa dell'adozione delle misure riparatorie indicate nel dispositivo della sentenza pilota.

117. Corte, sentenza Broniowski c. Polonia, 22.06.2004, riferimento n. 31443/96, §§189-194.

118. Corte, sentenza Orchowski c. Polonia, cit., §151; Corte, sentenza Norbert Sikorski c. Polonia, cit., §155-156.

119. Corte, sentenza Broniowski c. Polonia, cit., §§190-191.

120. Corte, sentenza Ananyev c. Russia, 10.01.2012, riferimento n. 42525/07.

121. Ibidem, §§150-152.

122. Ibidem, §§153-155.

123. Ibidem, §§156-159.

124. Corte, sentenza Torreggiani e a. c. Italia, cit., §84.

125. Corte, sentenza Torreggiani e a. c. Italia, cit., §85.

126. F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all'adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, cit.

127. Corte, sentenza Torreggiani e a. c. Italia, cit., §92.

128. Corte, sentenza Torreggiani e a. c. Italia, cit., §95.

129. Corte, sentenza Torreggiani e a. c. Italia, cit., §96.

130. Nel paragrafo precedente ho cercato di esporre le problematiche riferite al risarcimento del danno in caso di sovraffollamento, pagine cui rimando per un approfondimento.

131. Corte, sentenza Kaverzin c. Ucraina, del 15.05.2012, riferimento n. 23893/03 §85 e ss.

132. Ibidem, cit., §172.