ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
Analisi diacronica dell'evoluzione dei diritti umani a livello internazionale

Alessia Gori, 2015

1.1 Introduzione

E' oggetto di discussione in dottrina se sia corretto ordinare i diritti umani secondo una scala gerarchica. Per quanto opinabile in linea di principio, è opportuno dare a questo interrogativo una risposta positiva, infatti è innegabile che la giurisprudenza e i trattati internazionali moderni hanno riservato un trattamento particolare ad alcuni diritti umani, in ragione della loro rilevanza rispetto ad altri della stessa categoria.

Esistono dei diritti fondamentali dell'uomo, enunciati nel Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite, cui si riconosce una tutela maggiore rispetto ad altri; il loro riconoscimento è ormai un obbligo imprescindibile da parte dell'intera Comunità internazionale, derivante dal diritto consuetudinario cogente, ius cogens. Le norme di ius cogens attualmente esistenti a tutela dei diritti fondamentali dell'uomo sono quelle che vietano la commissione delle cosiddette gross violations, un catalogo che ricomprende al suo interno, tra gli altri, il crimine di genocidio, la tortura, la schiavitù o il trattamento disumano e degradante dei prigionieri politici.

1.2 L'Organizzazione delle Nazioni Unite

Le atrocità compiute nel corso delle due Guerre Mondiali hanno posto in evidenza la precarietà dei diritti umani fino a quel momento sanciti. In particolare, il conflitto mondiale ha rivelato la possibilità di cancellare secoli di lotte politiche e conquiste giuridiche nel corso di pochi anni, gettando l'umanità nello sconforto e nella paura (1). Durante questo periodo oscuro della storia moderna è apparso tristemente evidente la fragilità di costruzioni giuridiche quali la democrazia e i diritti del cittadino, per queste ragioni le nazioni occidentali, hanno avvertito una carenza di strumenti volti alla tutela dell'uomo e del suo patrimonio normativo. In ragione di questo sentimento di inadeguatezza, si avvia un processo di transizione verso un nuovo ordine internazionale, in cui la tutela dei diritti umani rappresenta non più solo un'esigenza legata agli interessi di uno o più Stati, ma una delle condizioni essenziali al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali (2). Questo nuovo processo di integrazione tra gli Stati ha comportato un'erosione del principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato ogni qual volta siano in pericolo i diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti. Di conseguenza, l'osservanza dei diritti umani non rappresenta più una questione di diritto interno, ma interessa l'intera comunità internazionale.

Nel quadro appena tratteggiato si inserisce il primo strumento internazionale di tutela dei diritti umani, ovvero la Carta delle Nazioni Unite, redatta il 26 giugno 1945 a San Francisco, a conclusione della Conferenza sull'Organizzazione Internazionale, in cui si raccolse l'adesione di 51 membri originari all'Organizzazione delle Nazioni Unite. L'Italia entrerà a farne parte solo nel 1955, ratificando la Carta nel 1957.

Nel sistema concepito dai redattori della Carta, la prevenzione e la salvaguardia dei diritti fondamentali costituiscono il presupposto per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Nel Preambolo stesso viene riaffermata la fede nei diritti fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana e nell'eguaglianza del valore dei diritti degli uomini e delle donne. Prima che venisse istituita l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), promotrice della Carta, esistevano ben poche norme internazionali in materia di diritti dell'uomo, tra di esse ad esempio le Convenzioni de L'Aja (1899 e 1907) o le Convenzioni di Ginevra e i relativi protocolli (1949 e 1977). L'importanza della Carta è quella di rappresentare una dichiarazione di intenti forte e chiara: per la prima volta, infatti, appare l'espressione "diritti umani" in un documento internazionale, tuttavia essa era limitata nella portata a causa della mancanza di obblighi precisi in capo agli Stati in materia di tutela dei diritti fondamentali. Era infatti stabilito in modo generico che il mancato rispetto dei principi e delle finalità in essa enunciati avrebbe comportato sia la non ammissione, sia l'espulsione di uno Stato dall'Organizzazione (3).

1.2.1 La Dichiarazione universale dei diritti umani

Lo Statuto dell'ONU, sancendo per la prima volta a livello internazionale il principio del rispetto dei diritti umani, ha posto la base giuridica per lo sviluppo del sistema internazionale di protezione dei diritti dell'uomo di cui esso stesso è parte attiva. In virtù dell'art. 68 della Carta fu costituita la Commissione che elaborò la Dichiarazione universale dei diritti umani, in cui per la prima volta si stilava una lista organica di diritti, andando a colmare il vuoto lasciato proprio dallo Statuto (4). La Dichiarazione fu adottata a Parigi dall'Assemblea Generale, il 10 dicembre 1948. Giuridicamente essa è una risoluzione ovvero una raccomandazione approvata sotto forma di dichiarazione di principi, per questi motivi non le si riconosce carattere vincolante. Se formalmente il documento non impone obblighi agli Stati, è innegabile che la Dichiarazione costituisca uno strumento dal forte valore etico-politico, ponendo le basi per la costituzione del futuro corpus di norme internazionali a tutela dei diritti umani e per l'adozione dei successivi documenti, anche a carattere vincolante.

La Dichiarazione si compone di 30 articoli, divisi tra "diritti politici e civili", preminenti, e "diritti economici, sociali e culturali"; all'interno della prima categoria spicca l'art. 5 "Diritto a non essere sottoposto a tortura ovvero a trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti", che con la sua formulazione precisa e chiara costituirà il fondamento per il futuro divieto di tortura contenuto nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il cui art. 3 è previsto come vincolante per tutti gli Stati aderenti.

1.2.2 La Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti

La Convenzione del 1984 origina da una Dichiarazione di principi adottata dall'Assemblea Generale dell'ONU nel 1975, in virtù dell'esigenza di ostacolare la pratica della tortura al tempo ancora molto diffusa tra gli Stati. Il fondamento giuridico della Convenzione è l'art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani, contenente appunto il divieto di tortura; in Italia il documento è stato ratificato il 3 novembre 1988, e è entrato in vigore l'11 febbraio 1989.

Nel testo si definisce la tortura come "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche e mentali" da parte di un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale (art. 1). Le torture non inflitte dai soggetti espressamente indicati dalla Convenzione non costituiscono violazione della stessa e pertanto restano sotto la giurisdizione del giudice nazionale, salvo poi l'orientamento della dottrina che ricomprende anche casi diversi da quello di cui all'art. 1, in forza del principio dell'efficacia orizzontale dei trattati internazionali (5). La Convenzione inoltre copre anche altri atti costitutivi di pena o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, che non sono atti di tortura se commessi dagli stessi soggetti indicati nell'art. 1 (art. 16).

La Convenzione prevede principalmente quattro obblighi in capo agli Stati firmatari, in primo luogo l'obbligo ad adottare misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per impedire che in tutto il territorio nazionale siano commessi atti di tortura (art. 2). Gli Stati si impegnano a non espellere, respingere o estradare una persona verso un altro Stato se vi sono seri motivi di credere che costui rischi di essere sottoposto a tortura (art. 3). Parimenti, vi è l'obbligo di punire sul suolo nazionale tutti gli atti di tortura e di estradare il responsabile di atti di tortura, oppure a sottoporlo alle autorità nazionale per l'esercizio dell'azione penale.

Per quanto riguarda le procedure di controllo e garanzia, all'art. 17 è stato previsto l'istituto del Comitato contro la tortura e altre pene disumane o degradanti, competente ad esaminare i rapporti periodici degli Stati parti contraenti, le denunce provenienti da quest'ultimi attraverso il sistema dei ricorsi interi statuali e i ricorsi individuali. Il comitato può anche ricevere informazioni su presunte pratiche di tortura e, eventualmente, inviare uno o più dei propri membri sul territorio per un'inchiesta confidenziale nei confronti dello Stato.

1.3 Il Consiglio d'Europa

Il processo di riscoperta del valore della tutela dei diritti dell'uomo vede un'evoluzione trasversale in tutti i luoghi che furono devastati dal conflitto mondiale. In Europa, la prima organizzazione internazionale con finalità di ordine generale è stata il Consiglio d'Europa, fondato il 5 maggio 1949 con il Trattato di Londra, oggi composto da 47 Stati e principale organizzazione di difesa dei diritti umani nel continente.

Tra i Paesi che attualmente ne fanno parte, 28 sono anche membri dell'Unione europea; l'integrazione evidenzia che il Consiglio d'Europa e l'Unione europea condividono gli stessi valori fondamentali, quali i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto, e pur rimanendo entità distinte che svolgono ruoli diversi, per certi aspetti sono complementari. Infatti, l'Unione europea si basa spesso sulle norme del Consiglio d'Europa al momento dell'elaborazione di strumenti giuridici e di accordi applicabili ai suoi Stati membri. Inoltre, essa si serve regolarmente delle norme e delle attività di monitoraggio del Consiglio d'Europa nelle relazioni con i Paesi vicini. Gli Stati Fondatori, nello Statuto affermarono il bisogno di creare un'unione stretta tra i popoli, al fine di garantire uno sviluppo negli ambiti economici, sociali, culturali, scientifici nonché la salvaguardia e lo sviluppo dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Lo scopo di questo importante ente sovranazionale è promuovere la democrazia, i diritti dell'uomo, l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa.

A difesa dei principi e di altri obiettivi ad ampio raggio, come la ricerca di soluzioni a problemi sociali, il Consiglio d'Europa dispone di strumenti operativi quali le raccomandazioni, gli accordi e le convenzioni, ma solo quest'ultime se debitamente ratificate, diventano giuridicamente vincolanti.

L'organizzazione interna del Consiglio d'Europa è delineata dallo Statuto dell'Organizzazione e si compone di cinque organi principali:

  • Il Comitato dei Ministri, con funzioni decisionali.
  • L'Assemblea Parlamentare, rappresentativa delle istanze dei singoli Paesi e dunque forza trainante della cooperazione europea.
  • La Corte europea dei diritti dell'uomo, organo giuridico del Consiglio d'Europa e principale garante del rispetto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
  • Il Congresso dei poteri locali e regionali.
  • Il Segretariato Generale, apparato con competenze tecniche.
  • Commissario ad hoc, il quale opera in completa indipendenza dagli Stati e si rivolge esclusivamente al settore della tutela dei diritti umani.

Subito dopo la nascita di questa importante organizzazione, gli Stati si adoperarono per elaborare Convenzioni volte alla salvaguardia dei diritti umani. Per prima fu siglata la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, una carta in grado di definire i vari diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e di prevedere una rete di garanzie che potesse creare un vincolo per tutti gli Stati firmatari. Affinché tale documento fosse effettivo, venne istituita la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, quale organo in grado di ricevere le istanze provenienti da Stati e individui, per la violazione di uno o più diritti enunciati nella Convenzione (6).

Oltre al documento del 1950, il Consiglio d'Europa si è mosso per redigere anche un altro importante documento per la protezione dei diritti umani, la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani e degradanti, adottata nel 1987. Questo strumento, combinato con il precedente, va ad arricchire la tutela dei diritti umani, prevedendo una forma di protezione contro gli abusi su individui privati della libertà personale, sia detenuti in carcere, in istituti psichiatrici o trattenuti presso commissariati di polizia (7). La Convenzione prevede anche l'istituzione di un Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT), composto da esperti competenti e imparziali afferenti a vari ambiti professionali.

1.3.1 La Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo

La Convenzione europea dei diritti dell'uomo è un trattato internazionale con il quale gli Stati membri del Consiglio d'Europa si sono impegnati a garantire i diritti fondamentali civili e politici sia ai propri cittadini che a chiunque si trovi sotto la loro giurisdizione, infatti ai sensi dell'art. 34 della Convenzione, ha titolo ad adire la Convenzione europea dei diritti dell'uomo ogni persona, organizzazione non governativa o gruppo di individui che si trovino sotto la giurisdizione di uno Stato membro (8).

La firma è avvenuta a Roma il 4 novembre 1950, ma la Convenzione è entrata in vigore solo nel 1953. Essa si compone di un nucleo originale di articoli e di una serie di Protocolli addizionali che via via si sono aggiunti negli anni per ampliare il ventaglio delle garanzie tutelate o per apportare modifiche strutturali. In tutto sono stati adottati 14 Protocolli, rispetto ai quali lo Stato membro può decidere di ratificarli in toto o di applicarvi una deroga ovvero una riserva. La decisione circa le modalità di adozione deve essere comunicata al Segretario Generale del Consiglio d'Europa. Fra i diritti protetti dalla Convenzione troviamo il diritto alla vita, il diritto a un equo processo, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, la libertà di espressione, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione e il diritto al rispetto della proprietà. Mentre tra i divieti possiamo leggere, il divieto di tortura e i trattamenti inumani o degradanti, oggetto di questo elaborato, il divieto di schiavitù e lavoro forzato, quello di pena di morte e detenzione arbitraria e illegale e ancora il divieto di discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione.

La Convenzione si pone come novità nel panorama internazionale dell'epoca, essa è portatrice di una triplice innovazione sotto altrettanti profili. Il primo è l'introduzione del principio di tutela collettiva dei diritti dell'uomo. Gli Stati membri infatti riconoscono la necessità di introdurre un organo di controllo esterno e imparziale in grado di garantire effettività ai diritti sanciti dalla Convenzione e evitare gli abusi da parte delle istituzioni pubbliche. L'intera comunità, ed ecco la prima novità, si assume la responsabilità della salvaguardia dei diritti riconosciuti, e gli stessi giudici della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ne hanno riconosciuto la rilevanza dichiarando che la Convenzione ha creato una rete di relazioni in cui gli Stati interagiscono aiutandosi l'un l'altro per garantire una tutela collettiva (9).

Il secondo profilo innovativo è rappresentato dalla previsione per il singolo, di ottenere tutela attraverso lo strumento della petizione, essa costituisce una ricognizione sul piano internazionale della garanzia di un diritto che a detta dell'individuo è stato leso. La petizione garantisce al quisque de populu di intervenire in uno scenario che prima era di esclusivo dominio statale e introduce un controllo diffuso del rispetto dei diritti sanciti dalla Convenzione, in base al principio per cui è il soggetto titolare del diritto il miglior guardiano del suo rispetto (10).

Infine l'elemento di novità che in un certo senso richiama i primi due è l'istituzione di un organo di controllo che sia formato da un rappresentante per Stato firmatario, ma che sia in grado di assicurare un giudizio terzo e imparziale. Con l'entrata in vigore della Convenzione, si introduce una terza innovazione, l'istituzione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, uno strumento nato per interpretare e garantire l'applicazione della Convenzione stessa. Al suo interno questo istituto era composto dalla Commissione Europea dei diritti umani, che aveva il compito di decidere sull'ammissibilità, sul reale accertamento dei fatti e esprimere un parere non vincolante nel merito della decisione; dalla vera e propria Corte, costituita da un giudice per ogni Stato membro, e dal Consiglio dei Ministri, un organo dalla duplice funzione di controllo dell'operato e di giudizio nel merito di una denuncia giudicata inammissibile. In seguito questa istituzione ha subito dei cambiamenti, anche al fine di garantirne la funzionalità, in ragione della mole di lavoro che negli anni è andata aumentando, principalmente per l'ampliamento del Consiglio d'Europa.

1.3.2 La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo

La Convenzione entrò in vigore nel 1953, tuttavia la Corte non divenne operativa fino al 1959, e anche dopo la sua instaurazione sono stati necessari altri quindici anni prima che la mole di lavoro diventasse significativa. L'incremento dei casi a ruolo si dovette sia all'aumento della consapevolezza dei cittadini e degli operatori giuridici dell'esistenza di questo nuovo organo, sia all'allargamento del Consiglio d'Europa. Agli inizi degli anni Novanta il successo della Corte era diventato anche la sua principale ragione di mal funzionamento, infatti tra il 1988 e il 1994 il numero dei casi registrati dalla Commissione passò da circa un migliaio a tremila. Il numero crescente di casi costituì una ragione di mal funzionamento dell'organo giuridico, comportando anche una dilazione dei tempi di giudizio, richiedendo, in media, cinque anni per arrivare ad una decisione. Un tale ritardo era spiegabile anche in ragione del fatto che dal punto di vista procedurale la presentazione della petizione investiva prima la Commissione, la quale valutava l'ammissibilità e accertava il fatto storico, emettendo un parere non vincolante nel merito, per poi essere decisa dalla Corte o eventualmente dal Comitato dei Ministri. Il doppio binario di giudizio costituiva un iter farraginoso e dispendioso, sia sotto il profilo economico che temporale, apparendo una duplicazione superflua. Allo stesso tempo si ravvisò un aumento del ruolo del Consiglio dei Ministri come ricognitore nelle cause che vertevano sulla violazione della Convenzione, e apparve inopportuno che un organo politico avesse una simile influenza. Divenne necessario apportare una modifica alla struttura della Corte, in modo da rendere lo strumento di garanzia del rispetto della Convenzione, esclusivamente giurisdizionale. Fu così avviata, nel consenso generale, la stesura di un Protocollo che modificasse la struttura della Corte in modo da snellire il procedimento e ridurre i tempi di giudizio, rendendo più forte il profilo giurisdizionale del sistema. Il risultato fu il Protocollo 11, aperto alla firma nel 1994 ed entrato in vigore il 1º novembre 1998; esso aboliva la Commissione Europea dei diritti dell'Uomo e istituiva un'unica Corte, sempre operante, per rimpiazzare la precedente struttura bipartita. Il Protocollo prevedeva anche l'abolizione del potere di deliberare sui ricorsi del Comitato dei Ministri, riservando a questi la sola funzione di supervisore del rispetto della sentenza da parte dello Stato soccombente

La procedura prima del novembre 1998

Prima dell'entrata in vigore del Protocollo 11, la procedura di fronte alla Corte prevedeva un'analisi della Commissione volta all'accertamento dei fatti e alla verifica dei criteri per l'ammissibilità, svolta in forma privata e strettamente confidenziale. Ai sensi dei vecchi artt. 26 e 27 della Convenzione, poi riformati nell'art. 35 co. 1 e 3, i criteri per l'ammissibilità erano:

  • l'aver esperito tutti i possibili rimedi interni.
  • l'aver presentato il ricorso entro sei mesi dalla violazione della Convenzione ovvero dalla conclusione del procedimento interno.
  • il respingimento di tutti i ricorsi anonimi o sostanzialmente identici ad altri già studiati dalla Commissione, oppure i casi manifestamente infondati, o incompatibili con la Convenzione, o che avessero abusato del diritti di petizione.

Successivamente, qualora fosse stata riconosciuta l'ammissibilità, la Commissione tentava una composizione stragiudiziale tra le parti, al fine di fare una ulteriore scrematura; in caso di fallimento, si procedeva alla stesura di un rapporto contenente un'opinione sul merito della causa da presentare ai giudici della Corte. Il ricorso era poi esaminato in ultima istanza alternativamente dalla Corte, tramite una procedura pubblica ed un nuovo contraddittorio tra le parti, oppure dal Consiglio dei Ministri, il quale provvedeva ad emanare una risoluzione. In questa seconda ipotesi, si escludeva la partecipazione del ricorrente e lo Stato chiamato in causa risultava di fatto sia parte convenuta che giudice di se stesso, poiché rappresentato in seno al Consiglio.

In seguito, a causa dell'aumentare del carico di lavoro, è apparso necessario modificare il meccanismo di giudizio, superando il sistema del doppio grado di giudizio, tramite l'istituzione di una Corte unica.

La procedura in vigore dopo il Protocollo 11

La prima novità introdotta a partire dal 1998 è l'istituzione di un'unica Corte permanente dei Diritti dell'Uomo. La Corte si occupa di petizioni individuali e inter-statali, nella maggior parte dei casi, essa si riunisce in "Chambers" composte da sette giudici, ma esistono anche formazioni di tre giudici dette "Committees", mentre nel caso straordinario di riunione nella "Grand Chamber" i giudici sono ben diciassette.

Le procedure da seguire nel giudizio di fronte alla Corte sono contenute nel Protocollo 11 e nel Regolamento della Corte (11), tuttavia quest'ultima, ai senti dell'art. 31 del Regolamento, ha il potere di derogare a tali procedure per l'esame di una causa particolare, dopo avere consultato le parti laddove necessario.

Un altro elemento volto allo snellimento alla procedura è la previsione per cui, in casi di manifesta infondatezza, è possibile dichiarare l'irricevibilità, con voto unanime di una commissione di tre giudici. Se la Corte dichiara ricevibile il ricorso, si proseguirà nell'esame del caso, insieme con i rappresentanti delle parti, e se necessario si effettuerà un'indagine. E' anche possibile per la Corte mettersi a disposizione delle parti in vista di una composizione amichevole della controversia sulla base del rispetto dei diritti umani come definiti nella Convenzione e dei suoi protocolli. Entro un termine di tre mesi dalla data della sentenza di una Camera, ogni parte della controversia può, in casi eccezionali, gravi problemi di interpretazione o applicazione della Convenzione o dei suoi protocolli, o di gravi questioni di importanza generale, chiedere che il caso sia rinviato alla Grande Camera. Se la richiesta viene accettata, il giudizio risultante da quest'ultima sarà definitivo. In caso contrario, le sentenze delle sezioni diventano definitive quando le parti dichiarano che non richiederanno il rinvio del caso alla Grande Camera, o non ne hanno fatto alcuna richiesta entro tre mesi dalla data della sentenza, o, se tale richiesta viene fatta, quando il collegio della Grande Camera respinge tale richiesta. I criteri di ricevibilità sono gli stessi che erano previsti prima dell'entrata in vigore del Protocollo, con un'unica modifica a livello di collocazione nella Convenzione; infatti i due artt. 26 e 27 concernenti l'ammissibilità sono ora confluiti nell'unico art. 35, che attribuisce alla Corte il compito di effettuare il vaglio. In conclusione, la riforma del 1998 adotta misure anche nei confronti del Comitato dei Ministri, disponendo che esso non è abilitato a trattare nel merito i casi, pur mantenendo il suo importante ruolo di garante del rispetto delle sentenze della Corte da parte dei Governi.

Il Protocollo 11 alla Convenzione non è il solo intervento strutturale operato per garantire il miglior funzionamento dell'organo giurisdizionale del Consiglio d'Europa. Già a partire dal 2001 fu avviato un processo di riforma della struttura della Corte, per garantirne l'efficacia a lungo termine, in modo da poter continuare a svolgere il proprio ruolo preminente nella tutela dei diritti umani in Europa. Infatti, in ragione dell'adesione di tutti gli Stati d'Europa al Consiglio, il numero dei casi a ruolo era aumentato esponenzialmente, pertanto si avvertiva la necessità di aumentare la produttività del sistema di controllo istituito dalla Convenzione. Il Protocollo 11 ha contribuito a migliorare l'efficacia del sistema, in particolare facilitando l'accessibilità e la visibilità della Corte e semplificando la procedura per far fronte all'afflusso di applicazioni generate dal costante aumento del numero degli Stati. Tuttavia, il sistema così riformato si è rivelato inadeguato a far fronte alla nuova situazione, anche in ragione dei numerosissimi ricorsi individuali. La causa principale di ingolfamento è dovuta ad un numero molto alto di ricorsi che non si concludono con un giudizio, principalmente per due motivi, o perché non superano il vaglio di ammissibilità o perché sono casi che vengono proposti in seguito ad una sentenza pilota, e dunque derivano da una stessa causa strutturale di una domanda precedentemente decisa della Corte. E' chiaro che la notevole quantità di tempo dedicato al lavoro di filtraggio ha un effetto negativo sulla capacità dei giudici di smaltire il carico di lavoro.

Le novità introdotte dal Protocollo 14

A differenza del Protocollo 11, il Protocollo 14 non fa cambiamenti radicali al sistema di controllo istituito dalla Convenzione. Lo scopo principale è quello di fornire alla Corte degli strumenti in grado di assicurare flessibilità procedurale, consentendo in questo modo ai giudici, da una parte di concentrarsi sui casi che richiedono un esame più approfondito, dall'altra di ridurre i tempi nei casi più semplici. Per raggiungere questo obiettivo, le modifiche vengono introdotte in tre aree principali:

  • Il rafforzamento della capacità di filtraggio della Corte per quanto riguarda la massa di applicazioni infondate.
  • Un nuovo criterio di ammissibilità per quanto riguarda i casi in cui il richiedente non abbia subito uno svantaggio significativo; il nuovo criterio contiene due clausole di salvaguardia: la norma non si applica a quei casi che non siano stati debitamente considerati da un tribunale nazionale, non si applica nemmeno in quei casi in cui la natura per così dire banale del caso presenta comunque gravi questioni che riguardano l'applicazione o l'interpretazione della Convenzione o importanti questioni relative al diritto nazionale.
  • Le misure per il trattamento dei casi ripetitivi: in ipotesi del genere hanno ora competenza i Comitati formati da tre giudici, con il potere di decidere con una procedura semplificata, non solo sulla ricevibilità, ma anche sul merito di una domanda, se la questione di fondo sia stata già oggetto di consolidata giurisprudenza della Corte.

Elemento di novità è la previsione di un unico giudice competente a dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo un ricorso individuale, in modo da dedicare un tempo maggiore e necessario ai casi concernenti gravi violazioni dei diritti umani, inoltre i giudici saranno affiancati da relatori non togati, aventi il compito di fornire informazioni dettagliate al giudice. Infine il Comitato dei Ministri, sulla base di una decisione presa a maggioranza dei due terzi, gode di maggiori poteri per avviare un'azione giudiziaria davanti alla Corte in caso di inottemperanza alla sentenza da parte di uno Stato. In aggiunta ha anche il nuovo potere di chiedere alla Corte l'interpretazione di una sentenza, al fine di essere agevolato nel proprio compito di supervisione dell'attuazione delle sentenze, in particolare nel determinare quali misure siano necessarie per ottemperare ad una sentenza.

Il Protocollo 14, attraverso la condizione di ricevibilità, crea un sistema di filtro per i ricorsi individuali che ha trovato la sua prima applicazione con la decisione Adrian Mihai Ionescu c. Romania del 1º giugno 2010 (12). La Corte in quest'occasione ha affermato che è possibile rigettare un ricorso se si accerta che il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, tuttavia anche in questa circostanza, bisogna assicurare che il rispetto dei diritti dell'uomo sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli sia garantito da un esame del ricorso nel merito. La Corte afferma anche che non sarà possibile rigettare un ricorso per via di un pregiudizio non importante se il caso non è stato prima debitamente esaminato da un tribunale interno. Alla luce di queste premesse, i giudici hanno stabilito che per il ricorrente non vi fosse stato alcun pregiudizio di rilevante entità, e che il giudice nazionale avesse esaminato il caso in modo adeguato nel rispetto del dispositivo sul giusto processo; hanno dunque concluso dichiarando irricevibile il ricorso ai sensi del nuovo art. 35 Cedu.

Cenni sul processo di riforma dopo il Protocollo 14

Il processo di riforma del meccanismo di controllo della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo non si esaurisce con il Protocollo 14. Infatti, già nel febbraio 2010, a Interlaken si è tenuta una Conferenza avente ad oggetto l'impegno degli Stati nella tutela dei diritti umani in Europa e quello di redigere una tabella di marcia in prospettiva della futura evoluzione della Corte. La dichiarazione congiunta adottata in questa occasione, prevede in particolare di riequilibrare il rapporto tra i casi in entrata e quelli evasi e di garantire che i nuovi ricorsi possano essere sbrigati in tempo ragionevole. Obiettivo della Conferenza era inoltre ottimizzare l'applicazione delle sentenze della Corte nei singoli Paesi e, di rimando, garantire un controllo efficace in materia da parte del Comitato dei Ministri. Per realizzare tali obiettivi, la dichiarazione politica comprendeva un piano d'azione corredato di un elenco di misure a breve e medio termine, completo di scadenzario. Ad aprile del 2011, si è tenuta ad Izmir la Conferenza del Consiglio d'Europa, durante la quale si è adottata la "Dichiarazione di Izmir" sul futuro della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Scopo della Conferenza era proseguire e mantenere la dinamica del processo di riforma del meccanismo di controllo della Convenzione lanciato in occasione della Conferenza di Interlaken.

Nella Conferenza del 2011, avvenuta durante la Presidenza turca del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, sono stati toccati i temi inerenti al funzionamento della Corte. In primo luogo si è ribadita la necessità di un'effettiva implementazione della Convenzione a livello nazionale, per garantire una corretta funzione del sistema; altrettanto importante è che la Corte applichi a pieno il principio di sussidiarietà, e che nei suoi giudizi utilizzi in modo preciso e categorico i criteri di ammissibilità presenti nella Convenzione, in particolare il requisito dell'esaurimento dei rimedi interni propedeutico all'accesso al giudizio della Corte edu.

La Dichiarazione di Brighton sul futuro della Corte europea dei diritti dell'uomo, adottata il 20 aprile 2012 dai 47 Stati membri del Consiglio d'Europa, si colloca in un processo di riflessione politica sul futuro della Corte iniziato, come ricordato, con la Conferenza di alto livello di Interlaken, tenutasi nel febbraio 2010 e proseguito con la Conferenza di alto livello svoltasi nell'aprile 2011 a Izmir (13). L'obiettivo della nuova conferenza doveva essere quello di creare le condizioni politiche per permettere al Consiglio d'Europa, in particolare al suo organo esecutivo, il Comitato dei Ministri, di prendere decisioni adeguate per consentire alla Corte di continuare a svolgere il suo ruolo con la necessaria efficienza ed autorevolezza (14). La dichiarazione del 2012 si è caratterizzata per un maggiore livello di approfondimento rispetto alle due precedenti, e sebbene non abbia prodotto proposte di riforma concrete, gli Stati in quell'occasione hanno stretto alcuni impegni e evidenziato alcuni elementi di un certo rilievo, e tra questi anche alcune concrete prospettive di emendamento della Convenzione, con la definizione di termini per il completamento dei rispettivi procedimenti negoziali per la preparazione dei necessari strumenti.

Uno dei temi particolarmente interessanti toccati nella conferenza di alto livello, è quello riguardante i Pareri consultivi (Advisory opinions), già oggetto di discussione nella precedente Conferenza di Izmir. Questo istituto rappresenta un meccanismo simile a quello del rinvio pregiudiziale che, nel sistema giuridico dell'Unione europea dà facoltà alle Corti nazionali, o obbligo, quando sono di ultima istanza, di chiedere alla Corte di giustizia dell'Unione europea quale sia la corretta interpretazione della norma comunitaria da applicare nel procedimento interno. In riferimento alla Corte europea dei diritti dell'uomo, questo istituto era stato pensato come un aiuto per gli Stati membri nella prevenzione della violazione dei diritti umani, senza precludere, tuttavia, la possibilità di un controllo finale da parte dell'organo giuridico.

La Corte è intervenuta nella discussione di Brighton con un proprio documento, con il quale si mostra favorevole all'introduzione dei Pareri consultivi (15). La Corte ha affermato che questo strumento non contribuirebbe ad ingolfare ulteriormente il proprio carico di lavoro, ma, al contrario, eviterebbe la proposta di numerosi ricorsi, che grazie ai Pareri consultivi, si potevano risolvere a livello nazionale.

Sul punto, il paragrafo 12 d) della Dichiarazione di Brighton ha invitato il Comitato dei Ministri ad elaborare un Protocollo opzionale volto ad introdurre questo nuovo meccanismo, ferma restando in ogni caso la non obbligatorietà dei pareri resi dalla Corte nei confronti degli altri Stati parti, per la fine del 2013.

Come risultato sono stati aperti alle firme i Protocolli 15 e 16, recanti emendamenti alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in modo da concretizzare le proposte avanzate nella Conferenza di Brighton (16).

Con il Protocollo 15 del 24 giugno 2013, sono state introdotte quattro modifiche alla Convenzione, tre di queste danno seguito a richieste della Corte, mentre una quarta, che è volta a semplificare le condizioni di applicazione del nuovo criterio di ammissibilità introdotto dal Protocollo no. 14, quello relativo ai casi di minore importanza, origina da una proposta tedesca nell'ambito del Comitato direttivo del Consiglio d'Europa per i diritti umani (CDDH). Oltre a queste modifiche il Protocollo ha introdotto anche un nuovo Considerando al Preambolo, concernente il principio di sussidiarietà, tema ampiamente affrontato nella Conferenza di Izmir (17).

Nel Protocollo 16, del 2 ottobre 2013, ben più rilevante dal punto di vista dell'operato della Corte, è stato inserito lo strumento dei Pareri consultivi, analizzati in precedenza. Le Parti nell'introdurre la modifica alla Convenzione, hanno motivato l'estensione della competenza della Corte a emettere pareri consultivi, come uno strumento che permetterà alla Corte di interagire maggiormente con le autorità nazionali, consolidando in tal modo l'attuazione della Convenzione, conformemente al principio di sussidiarietà. Il Protocollo prevede che gli Stati membri possano presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all'interpretazione o all'applicazione dei diritti e delle libertà definite dalla Convenzione o dai suoi protocolli, ma solo nell'ambito di una causa pendente dinanzi ad essa.

Per concludere è interessante notare che la Conferenza di Brighton, pur non contenendo novità tali da stravolgere gli assetti di Corte e Convenzione, ha comunque rappresentato un occasione in cui sono emerse proposte costruttive per il miglioramento del funzionamento della Corte e, in particolare, ha posto l'accento sulla responsabilità degli Stati di dare corretta esecuzione alle sentenze della Corte, in special modo in quei settori dove si sono riscontrati problemi sistemici e strutturali che alimentano quindi flussi di ricorsi ripetitivi che costituiscono una delle ragioni principali delle attuali difficoltà di funzionamento della Corte. Il riferimento è chiaramente alle cause che già in passato hanno portato la Corte ad applicare lo strumento della sentenza pilota, di cui si dirà meglio in seguito.

1.3.3 La Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti

Il sistema di protezione e controllo attuato dal Consiglio d'Europa con l'adozione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'istituzione della Corte, ha prodotto risultati importanti; tuttavia, i redattori della Convenzione ritennero necessario affiancare al sistema di tutela un meccanismo a carattere preventivo, volto a monitorare il trattamento cui fossero sottoposti gli individui detenuti o privati della libertà (18). Al fine di prevenire o far cessare atti di tortura o pene e trattamenti disumani e degradanti nei confronti di tali soggetti, venne promulgata, il 26 novembre 1987, la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, la quale ha previsto la creazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT). Il compito del Comitato consiste nell'effettuare visite in qualsiasi luogo posto sotto la giurisdizione degli Stati firmatari, in cui si trovino individui privati della libertà ad opera delle autorità pubbliche (19). Lo Scopo del CPT è quello di garantire un maggiore effetto protettivo nei confronti di quei soggetti che si trovano in condizioni di privazione della libertà personale da parte di un'istituzione, e quindi potrebbero avere maggiori difficoltà a denunciare la violazione dei diritti sottesi alla Convenzione EDU, si cerca di intervenire alla radice del maltrattamento e, talvolta, ad anticiparne la realizzazione, attraverso operazioni di sopralluogo. Il progetto di rafforzamento della tutela del detenuto europeo, quale concepito nella Convenzione per la prevenzione della tortura, si realizza in maniera innovativa mediante l'attività continua di monitoraggio nei centri detentivi e l'incoraggiamento al dialogo e alla cooperazione costante con i rappresentanti degli Stati interessati dai controlli. La Convezione per la Prevenzione della Tortura si configura così quale strumento complementare alla Convenzione EDU (20).

Il testo della Convenzione per la prevenzione contro la tortura risale alle proposte elaborate per l'adozione di un protocollo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, con le quali si proponeva l'istituzione di un organo con funzioni di controllo delle condizioni dei soggetti privati di libertà. Nel 1980, la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, preferì ignorare la proposta del Costa Rica di istituire un simile organo, preferendo assicurare l'adozione della Convenzione contro la tortura, rimandando al futuro la discussione sul Protocollo in questione.

In Europa, invece, l'idea di attivare un meccanismo di controllo parallelo all'attività di tutela della Convenzione EDU ebbe maggior successo. A partire dal 1981, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa adottò due raccomandazioni, con la prima si auspicava l'istituzione di un organo di prevenzione che potesse svolgere visite nei luoghi di prevenzione, con la seconda, nel 1983, si gettava le basi per la futura Convenzione. Infatti con la Raccomandazione 971 in materia di protezione dei detenuti, che riportava in appendice la bozza del testo predisposto dalla Commissione Internazionale di Giuristi e dal Comitato Svizzero contro la Tortura sulla scorta del progetto di Gautier, si apriva la strada ad una lunga discussione in sede europea che avrebbe condotto all'adozione definitiva del testo nel 1987 da parte del Comitato dei Ministri.

1.3.4 Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti

La Convenzione per la prevenzione della tortura è entrata in vigore il 1º febbraio 1989, e la creazione del CPT ha rappresentato un unicum a livello internazionale, rafforzando la tutela dei soggetti privati di libertà e integrando le lacune della Convenzione EDU in tale materia. La peculiarità del Comitato europeo rispetto a quello nato nell'ambito delle Nazioni Unite è che il primo ha potere di effettuare accertamenti in loco, attraverso un sistema di ispezioni nei luoghi di detenzione; il secondo invece ha un operato limitato, poiché ha solo il potere di ricevere e valutare i rapporti inviati dagli Stati oppure, a determinate condizioni, chiedere chiarimenti a uno Stato su circostanze determinate contenute in una segnalazione.

Il sistema di monitoraggio del CPT

Il Comitato per la prevenzione della tortura ha un ruolo strumentale rispetto alla Convenzione dei diritti dell'uomo, in questo senso, nella valutazione delle condizioni di detenzione, esso mutua la definizione di tortura e di trattamento inumano o degradante, direttamente dell'art. 3 CEDU, che costituisce il fulcro centrale dell'attività del Comitato.

Per questi motivi, come viene specificato dal Rapporto esplicativo alla Convenzione, il Comitato non deve cercare di interferire nell'interpretazione e nell'applicazione dell'art. 3. Esso ha natura meramente preventiva, non svolge funzioni giudiziarie, le sue raccomandazioni non sono vincolanti per lo Stato interessato e non deve esprimere opinioni sull'interpretazione di termini giuridici; tuttavia, in ragione della propria funzione preventiva, il Comitato, non deve limitarsi a verificare se siano effettivamente stati compiuti degli abusi, ma deve anche prestare particolare attenzione a segnali indicatori di possibili violazioni future. Dovranno essere tenute in considerazione, al fine di una corretta valutazione, tanto le condizioni materiali dei luoghi di detenzione, quanto le condizioni sociali, come ad esempio i rapporti tra detenuti o tra questi e il personale di sorveglianza.

L'attività del Comitato è diretta all'istituzione di un dialogo costante con gli Stati, piuttosto che ad una loro condanna, a differenza di altri strumenti pattizi, infatti, la Convenzione per la prevenzione della tortura non formula nuove norme, ma contiene solo norme procedurali volte a rafforzare la tutela garantita dall'art. 3 Cedu. In questa prospettiva, è possibile individuare nel Comitato uno strumento attivo della Convenzione EDU, avente il compito di svolgere sopralluoghi nelle strutture di detenzione e di suggerire miglioramenti per la protezione dalla tortura e trattamenti o pene disumani e degradanti, come enuncia l'art. 1 del testo del 1987.

Il sistema delle visite si fonda sui principi di cooperazione e confidenzialità. Per quanto riguarda il primo principio, lo Stato parte deve autorizzare la visita di ogni luogo rientrante nella sua giurisdizione, in cui si trovino persone private della libertà da un'autorità pubblica. Il principio di cooperazione si applica a tutte le fasi della visita, e si esprime principalmente nell'obbligo per lo Stato di garantire ai membri del Comitato il libero accesso e la libertà di movimento nel proprio territorio, inoltre lo Stato deve fornire al Comitato qualsiasi informazione sui luoghi di detenzione. Da parte sua il Comitato, prima di una visita, deve notificare al Governo interessato la sua intenzione di compierla, deve dare allo Stato un tempo ragionevole per adottare tutte le misure necessarie che rendano la visita più efficace possibile ed è tenuto anche a indicare i nomi dei membri che effettueranno il sopralluogo.

Il potere di indagine del Comitato non è illimitato, in particolari casi lo Stato ha la facoltà di obiettare sullo svolgimento di una visita. L'elenco delle ipotesi in cui un sopralluogo può essere annullato o rinviato sono tassative, anche se formulate con una dizione di ampia portata:

  • motivi di difesa nazionale
  • motivi di pubblica sicurezza
  • gravi disordini nei luoghi di detenzione
  • stato di salute di una persona
  • interrogatorio urgente relativo a un caso grave

In seguito ad una obiezione, lo Stato e il Comitato dovranno consultarsi il prima possibile e addivenire ad una soluzione che permetta a quest'ultimo di svolgere le proprie funzioni, ad esempio spostando la persona che il Comitato intende ascoltare il un luogo diverso rispetto a quello di detenzione e in cui non vi sia una delle cause sopra elencate.

Il secondo principio che il Comitato deve osservare nelle proprie visite è quello della confidenzialità, regolato dall'art. 11 della Convenzione per la protezione dalla tortura, il quale prevede che le informazioni raccolte durante le visite, il contenuto delle consultazioni e il rapporto finale, devono essere confidenziali. Lo Stato può richiedere la pubblicazione del rapporto del CPT, che in quel caso sarà di dominio pubblico; inoltre, non sarà possibile rendere noto alcun dato personale senza il consenso della persona interessata soggetta a reclusione. E' informato al principio della confidenzialità anche il rapporto che il Comitato deve redigere obbligatoriamente ogni anno e sottoporre al Comitato dei Ministri.

Le visite

Le tipologie di visita che il Comitato può effettuare sono di tre tipi: le visite periodiche, le visite ad hoc, le visite di follow-up.

Le visite periodiche sono programmate ed effettuate tra tutti gli Stati cercando di garantire un controllo il più possibile equo in termini di numero di visite e frequenza. Prima della fine dell'anno solare, il Comitato stila un programma provvisorio che, salvo imprevisti, si impegna a rispettare; dopo aver informato le autorità competenti, vengono resi pubblici i nomi degli Stati che saranno oggetto di controllo, tuttavia, per mantenere un elemento di sorpresa, i nomi degli istituti di detenzione saranno resi noti solo pochi giorni prima della visita. Questo sistema è il frutto di un equilibrio tra la necessità di effettuare una visita il più possibile "a sorpresa" e la necessità per lo Stato e il Comitato di predisporre il necessario per il sopralluogo, nel rispetto del principio di cooperazione.

Come regola generale, le visite sono effettuate da un delegazione composta da almeno due membri, ma nella realtà dei casi, il gruppo si compone di cinque-nove membri più interpreti o esperti, a seconda delle necessità. Questi ausiliari sono persone con specifica preparazione o esperienza in missioni umanitarie o in campo medico oppure nel trattamento dei detenuti; in circostanze eccezionali la visita può essere svolta dall'intero Comitato o da un singolo membro.

Le visite ad hoc, invece, sono effettuate se ritenute necessarie dal Comitato, sulla base di una segnalazione da un singolo individuo o da un gruppo di individui o organizzazione non governativa; rispetto alla decisione di effettuare una simile visita il Comitato gode di ampio discrezionalità. La prima visita di questo genere è stata effettuata dal CPT nel 1990 in Turchia (21), nel rapporto stilato in seguito è possibile leggere "In the report drawn up following its first visit to Turkey in 1990, the CPT reached the conclusion that torture and other forms of severe ill-treatment were important characteristics of police custody in that country. More specifically, in the light of all the information gathered concerning the Anti-Terror Departments of the Ankara and Diyarbakir Police, the CPT concluded that detectives in those departments frequently resorted to torture and/or other forms of severe ill-treatment, both physical and psychological, when holding and questioning suspects".

In particolare, i membri del Comitato hanno riportato con precisione gli atti di tortura e gravi maltrattamenti cui erano sottoposti i detenuti nelle carceri turche "In the first place, the CPT was struck by the extremely large number of allegations of torture and other forms of ill-treatment by the police received in the course of the visit, the wide range of persons making those allegations, and their consistency as regards the particular types of torture and ill-treatment said to have been inflicted. It should be noted that the allegations emanated from persons suspected or convicted of offences under anti-terrorism provisions and from persons suspected or convicted of ordinary criminal offences. As regards the latter, the number of allegations was especially high among persons detained for drug-related offences, offences against property (burglary, robbery, theft) and sex offences. Concerning the types of ill-treatment involved, the following forms were alleged time and time again: suspension by the arms; suspension by the wrists, which were fastened behind the victim (so-called 'Palestinian hanging', a technique apparently employed in particular in anti-terror departments); electric shocks to sensitive parts of the body (including the genitals); squeezing of the testicles; beating of the soles of the feet ('falaka'); hosing with pressurised cold water; incarceration for lengthy periods in very small, dark and unventilated cells; threats of torture or other forms of serious ill-treatment to the person detained or against others; severe psychological humiliation".

Un anno dopo la presentazione del secondo rapporto del CPT, il Comitato ha esaminato le azioni intraprese dalle autorità turche su tutte le raccomandazioni contenute nelle relazioni redatte dopo le sue due visite. È stato osservato che erano stati compiuti alcuni progressi su alcune questioni e che erano state adottate misure di natura sia giuridica che pratica in risposta alle raccomandazioni del CPT. Per quanto riguarda le condizioni materiali di detenzione nelle stazioni di polizia e gendarmeria si è potuto osservare un margine di miglioramento, tuttavia, l'attuazione delle raccomandazioni centrali in materia di tortura e di altre forme di maltrattamenti negli istituti di polizia rimaneva chiaramente a un punto morto.

Infine, il Comitato può svolgere visite di follow-up in ogni luogo o centro di detenzione già monitorato in precedenza durante una visita periodica o ad hoc. Questo tipo di controllo è volto alla verifica dell'attuazione, da parte dello Stato, delle raccomandazione e osservazioni formulate dal comitato precedentemente. Le visite terminano come sono cominciate, ovvero con una riunione dei membri del Comitato e i funzionari del Paese controllato, il capo della delegazione in questa circostanza, espone un resoconto orale circa quanto visto e le informazioni raccolte, terminando con la formulazione delle prime raccomandazioni.

I rapporti del Comitato

Dopo ogni visita il CPT adotta rapporti periodici aventi ad oggetto i fatti considerati e le eventuali osservazioni formulate dallo Stato visitato; oltre a questi, il Comitato redige un rapporto generale annuale sulle proprie attività per il Comitato dei Ministri.

Ogni rapporto contiene le raccomandazioni che il Comitato considera utili ad assicurare un miglioramento delle condizioni dei soggetti sottoposti a privazione della libertà personale. Talvolta può accadere che lo Stato non si adoperi per l'attuazione delle raccomandazioni effettuate durante la visita, oppure vi si opponga. In questi casi il Comitato, dopo aver dato la possibilità allo Stato di esprimere opinioni o fornire spiegazioni, può decidere di fare una dichiarazione pubblica al riguardo (ricordo che in virtù del principio di confidenzialità, il rapporto sulla visita non può essere pubblicato salvo sia lo Stato a chiederlo). Questa è l'unica "sanzione" che il Comitato può infliggere allo Stato inadempiente.

Per monitorare il comportamento successivo alla visita dello Stato, il Comitato, fin dai primi anni di attività, ha inserito nei suoi rapporti periodici la richiesta al Governo dello Stato visitato di inviare una nota preliminare sulle attività che si intendono svolgere per ottemperare alle raccomandazioni ricevute. Il rapporto preliminare deve essere stilato entro sei mesi dal ricevimento di quello da parte del Comitato e deve contenere le misure legislative e amministrative in programma per migliorare le condizioni dei detenuti e dei luoghi di detenzione. Lo scopo di tale previsione è quello di avviare tra CPT e Stato un dialogo che non si esaurisca con il rapporto preliminare, poiché entro dodici mesi lo Stato dovrà fornire un rapporto definitivo con le misure effettivamente prese, ma che si protragga fino alla visita successiva.

Il rapporto generale annuale viene trasmesso al Comitato dei Ministri e all'Assemblea del Consiglio d'Europa, è un documento pubblico che riporta dati basati sui rapporti stilati durante l'anno, quindi si tratta di informazioni dirette raccolte in completa autonomia. In ogni rapporto generale il Comitato affronta una particolare tematica (22), come ad esempio, la documentazione e relazioni delle prove mediche di maltrattamenti (2012-2013); i meccanismi di prevenzione nazionale (2011-2012); safeguards for irregular migrants deprived of their liberty (2008-2009). Una sezione del rapporto generale è dedicata anche alle questioni amministrative e di bilancio.

Gli standard del Comitato, l'interpretazione delle nozioni di tortura e trattamento disumano e degradante

Nel suo primo rapporto generale il Comitato ha chiarito la ripartizione di competenze con la Corte europea dei diritti dell'uomo, nei paragrafi 2-3 ha osservato che,"mentre le attività della Corte tendono alla soluzione del conflitto sul piano giudiziario, le attività del Comitato sono volte ad evitare il conflitto sul piano pratico" (23). Il Comitato dunque, non è un organo giudiziario, ma un organo con funzioni preventive, cui è stato affidato il compito di assistere gli Stati nella prevenzione di atti di tortura e trattamenti e pene disumani o degradanti compiuti nei confronti di soggetti privati della libertà personale. Questa ripartizione delle competenze rappresenta un discrimine rispetto alla Corte e sottolinea la primazia di quest'ultima, in particolare nell'interpretazione dell'art. 3 Cedu, cui il Comitato fa costante riferimento durante la sua attività. Lo scopo del CPT non è quello di svolgere indagini sulla colpevolezza dello Stato, altrimenti il suo ruolo si sovrapporrebbe a quello della Corte, bensì quello di coadiuvare lo Stato nella prevenzione di condotte vietate dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e nel miglioramento delle condizioni di detenzione. In linea teorica, dunque, il Comitato non ha necessità di definire i concetti di tortura e trattamento disumano o degradante, ma non si può ignorare che nella pratica spesso esso si trova a dover valutare le condizioni di detenzione sulla base di questi due concetti. Infatti, se anche il rapporto tra CPT e Corte è basato sulla preminenza di quest'ultima, vi è un collegamento biunivoco per cui da un lato le pronunce della Corte indirizzano il CPT, e dall'altro le rilevazioni del Comitato possono essere utilizzate come base per una denuncia di violazione dell'art. 3 davanti alla Corte e quindi suscitare indirettamente una eventuale sentenza di accertamento della violazione dell'art. 3 da parte della Corte Europea.

Con riferimento ai due concetti di tortura e trattamento disumano o degradante, il Comitato, se in generale segue l'interpretazione data dalla Corte europea per i diritti umani, di fatto ha consolidato una prassi in base alla quale non si ritiene vincolato dalla giurisprudenza di istituzioni giudiziarie o semi-giudiziarie (24). Ad esempio, oltre alla giurisprudenza della Corte, il Comitato ha come riferimento anche l'attività della Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura, le Regole minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei prigionieri, la Dichiarazione delle Nazioni Unite per la protezione di tutti gli individui da atti di tortura e trattamenti o pene disumani o degradanti.

Il Comitato può dunque utilizzare liberamente i termini dell'art. 3 della Convenzione, senza doversi attenere necessariamente all'interpretazione della Corte EDU, ma anzi potendone sviluppare una propria, purché non abbia lo scopo di individuare una violazione dell'art. 3. Questo autonomo corpus di standard costituisce una vera e propria "giurisprudenza" del CPT, tuttavia il primo rapporto generale ha definito questi parametri come linee guida, "measuring rods", gli Stati non sono vincolati a seguirle una volta individuata la criticità del sistema detentivo, ma generalmente costituiscono un valido aiuto per il Governo. I motivi dello sviluppo di questo autonomo corpus di standard si trovano espressi dal CPT nel primo Rapporto Generale: "The CPT often finds that no clear guidance can be drawn from it for the purpose of dealing with specific situations encountered by the Committee, or at least that more detailed standards are needed" (25). Una tendenza che si rinviene ancora oggi e si riflette nella riluttanza del Comitato a riferirsi, se non eccezionalmente, ad altri strumenti di diritto internazionale, quali ad esempio, le Regole penitenziarie europee.

Gli standard del CPT sono pertanto più dettagliati specialmente in confronto alle Regole Penitenziarie Europee, e più "esigenti" rispetto ai criteri giuridici stabiliti dalla CEDU, perché diversa è l'attività dei due organismi, preventiva nel caso del Comitato, a posteriori per la Corte EDU.

Questa libertà d'azione consente al Comitato di interpretare i concetti di tortura e trattamento inumano o degradante anche discostandosi in certa misura dall'indirizzo dei giudici della Corte europea per i diritti umani. Nella sua attività il Comitato fa costante riferimento all'art. 3 della Convenzione, il quale però non da una definizione precisa dei termini in analisi, una vaghezza "creativa" necessaria ad assicurare flessibilità alla norma e mantenerla diritto vivente. Allo stesso modo, il Comitato non definisce in modo chiaro e preciso il concetto di tortura o di trattamenti disumani o degradanti, proprio in ragione della sua attività sul campo, poiché necessità di orientamenti elastici capaci di adattarsi ai casi concreti.

La tendenza generale del CPT, nei suoi quasi venticinque anni di attività, è andata nella direzione dell'utilizzo di due, anziché tre, categorie: tortura e trattamento inumano e degradante, cosicché, anche quando una situazione è definita dal solo aggettivo "inumana", è da ritenere che essa rientri comunque nella sfera dei trattamenti degradanti e che non qualifichi una categoria a parte. Sia l'art. 3 della Convenzione, che la Convenzione europea per la prevenzione della tortura utilizzano la dicitura di trattamenti "inumani o degradanti", tuttavia il CPT, nella grande maggioranza dei rapporti, impiega l'espressione "inumani e degradanti", quasi che il primo dei due termini comprenda il secondo (26).

Il Comitato affronta l'interpretazione del concetto di trattamento inumano e degradante, per la prima volta in un rapporto pubblico risalente al 1990, redatto a conclusione di una visita dei membri del Comitato in Gran Bretagna (27). In questa occasione, i commissari avevano visitato cinque luoghi di detenzione, trovandone tre gravemente carenti per gli standard europei; in questi luoghi infatti, a causa di carenze strutturali, i detenuti erano costretti a rimanere chiusi in cella per 23 ore al giorno, dovendo espletare le proprie necessità fisiche di fronte ai compagni di cella e in luoghi non adatti, privi di impianto di scolo. Nel rapporto, oltre alle condizioni igieniche, si fa riferimento anche al problema del sovraffollamento e della percezione interna dei detenuti del concetto di pena. Questi, infatti, intervistati dai commissari, rivelano che la detenzione in simili circostanze era sentita come una punizione della società per i loro reati e che nulla vi rientrava il concetto di rieducazione o risocializzazione. Per questi motivi, il Comitato nel redigere il rapporto ha parlato di trattamenti disumani e degradanti, con riferimento al sovraffollamento, alle carenze igienico-sanitarie e allo stato psichico dei detenuti. Ciascuno di questi fattori, se cumulati fra loro, acquistano una gravità tale da integrare certamente il concetto di trattamento disumano, ma anche se presi separatamente sono indice di condotte vietate, specie se portati ai massimi estremi, è il caso del sovraffollamento e delle carenze igieniche, entrambi i fattori, da soli, sono in grado di qualificare la detenzione come disumana. Anche la Corte EDU si è talvolta attestata su posizioni analoghe nel giudicare denunce di violazione dell'art. 3 in contesti carcerari.

L'esempio inglese che si è appena riportato potrebbe dirsi riassuntivo della tendenza interpretativa del CPT nei confronti dell'espressione trattamento inumano o degradante. Il Comitato, infatti, ha adottato i termini quasi esclusivamente per la descrizione delle "environmental custodial conditions" (28), ovvero per qualificare le condizioni dell'ambiente detentivo e, più in generale, il livello di vita nelle carceri. La parola tortura, spesso accompagnata dalla locuzione grave maltrattamento, al contrario, è stata pressoché riservata a quelle forme di violenza compiuta dalla polizia che si caratterizza per essere "specialized or exotic, [...] purposefully employed to gain a confession or information, or generally employed to humiliate" (29). La tortura sarebbe quindi l'aspetto "attivo" del maltrattamento, l'elemento "passivo" consistente nelle degradanti condizioni di detenzione. Un esempio di quanto detto circa l'interpretazione data al concetto di tortura lo possiamo individuare nel rapporto del 1991 sulla Spagna (30), dove il Comitato senza fare distinzioni ha osservato che

Many (though not all) prisoners held for terrorist offences alleged that they had been tortured following their arrest, and similar allegations were also made by some prisoners held for ordinary criminal offences. Most of the allegations related to periods of police or Civil Guard custody a few years ago. However, some of the allegations related to very recent periods of custody.

The forms of torture and severe ill-treatment most commonly alleged were:

  • asphyxiation by the placing of a plastic bag over the head;
  • electric shocks, applied usually to the genitals, mouth or feet;
  • immersion of the head in water;
  • severe beating with truncheons while covered in a blanket;
  • striking of the head with a heavy book (usually a telephone directory);
  • (more rarely) suspension from the wrists or feet;
  • threats of execution or serious injury to the detainee or others.

Rimane da chiarire se a livello argomentativo i due termini, tortura e gravi maltrattamenti, siano intercambiabili per il Comitato oppure, se quest'ultimi si collochino ad un livello intermedio tra trattamenti disumani o degradanti e tortura. Dalla lettura dei rapporti del CPT, resi noti in questi anni, molti interpreti hanno individuato nel concetto di tortura una particolare forma di gravi maltrattamenti, intendendo questa nozione più estesa della prima, tanto da ricomprenderla al suo interno (31). Tale deduzione deriva da una formula costante usata dai commissari nei rapporti sulle visite compiute nei paesi europei, secondo la quale "la severità dei gravi maltrattamenti riportati era tale da poter essere considerata tortura" (32). A riprova di quanto detto sin ora, è possibile fare riferimento al report del 2001, redatto in seguito alla visita presso la Federazione Russa, nel quale il Comitato ha constatato che "The forms of ill-treatment alleged concerned punches, slaps, kicks and blows with a truncheon, baseball bat or other hard objects, sometimes whilst being handcuffed to a radiator or suspended, whipping with wet towels and beating with plastic bottles filled with water. A few allegations were also received of asphyxiation using a gas mask or plastic bag and the infliction of electric shocks. The ill-treatment alleged was on occasion of such severity that it could be considered as amounting to torture" (33).

I commissari nei loro rapporti sembrano rimanere volutamente in uno stato di non chiara definizione, forse per garantirsi un certo margine interpretativo nel caso concreto, ma un'ulteriore spiegazione potrebbe essere trovata nella natura del Comitato, esso infatti ha funzione preventiva e di controllo, non giudiziaria, perciò non c'è la necessità di definire con esattezza i due concetti. Il ruolo del Comitato è quello di svolgere accertamenti sulle condizioni dei luoghi di detenzione, e sulla base delle visite svolte è possibile adire la Corte europea per i diritti umani, sarà poi l'organo giudiziario a definire meglio i fatti presentati in giudizio. Sotto un profilo argomentativo è utile richiamare la sentenza Selmouni c. Francia (34), con la quale la Corte ha inteso abbassare l'asticella della soglia minima di gravità, chiarendo che il concetto attuale di tortura ricomprende anche condotte che in passato non erano qualificate come tale. Per questo, atti rientranti prima nella definizione di trattamenti inumani o degradanti, possono oggi, alla luce della nuova corrente interpretativa, essere considerati forme di tortura. In proposito è interessante richiamare il report sulla visita in Spagna, di cui sopra, nel quale i commissari, ben prima della sentenza Selmouni, avevano introdotto una tripartizione tra tortura, maltrattamenti gravi e maltrattamenti, cosicché, a partire dal 1991, l'interpretazione del Comitato sulle condotte vietate si era evoluta rispetto all'inizio del proprio mandato (35).

Il ruolo del Comitato, durante la sua attività, ha subito varie evoluzioni. Originariamente nasce come "strumento" della Convenzione europea per i diritti umani, per garantire a priori il rispetto dei diritti sanciti dalla Carta. Il contenuto della Convenzione che lo ha istituito, a carattere prevalentemente procedurale, ha definito il rapporto subalterno rispetto alla Corte, ma fin dal primo Rapporto Generale, il Comitato si è svincolato del mero ruolo di esecutore passivo dei principi imposti dalla Corte nell'interpretazione dell'art. 3 della Convenzione, norma centrale della sua attività. Sul lato pratico il Comitato ha consolidato una prassi in base alla quale esso gode di una certa "libertà d'azione" che gli permette di interpretare l'art. 3 in maniera non necessariamente coerente con l'indirizzo della Corte, seppur con i limiti detti sopra. All'interno di questo margine d'azione, il Comitato ha potuto interpretare il contenuto della norma in modo flessibile e coerente con la propria attività "sul campo". In questo senso i commissari hanno potuto seguire una linea diversa rispetto alla Corte in tema di trattamenti disumani e degradanti; se per i giudici questi comportamenti integrano un maltrattamento, fisico o psichico, che non raggiunge la gravità di un atto di tortura, il Comitato ha inteso il concetto nel senso di ampliare i criteri e le circostanze che devono essere presi in considerazione, facendovi rientrare, ad esempio nel caso delle carceri, anche le condizioni di vita, il sovraffollamento, l'assenza di assistenza sanitaria ottimale, la possibilità di uscire fuori dal blocco e svolgere attività all'aperto. Il giudizio della Corte si attesterà successivamente su questo tipo di interpretazione, infatti, bisognerà attendere la fine degli anni '90, con la sentenza Ayndril, per apprezzare un discostamento dell'originaria impostazione definita a partire dalla sentenza Irlanda c. Regno Unito, del 1978.

Il Comitato, però, non è mai stato un organo in competizione con la Corte europea; esso ha sempre avuto un carattere politico, volto a migliorare le condizioni delle persone soggette a limitazione della libertà personale, attraverso un'attività di controllo preventivo, di colloquio con i Governi interni e di incoraggiamento degli Stati nel tutelare in maniera ottimale i diritti sanciti dalla Convenzione. In questo senso, nei casi in cui una seconda visita ha evidenziato un serio tentativo di miglioramento delle condizioni di detenzioni ritenute insufficienti la prima volta, il Comitato si è astenuto dal definire come trattamenti disumani e degradanti quelle situazioni, plaudendo invece gli sforzi del Governo e incoraggiando a proseguire in quella direzione (36).

1.4 Metodi interpretativi per l'esegesi delle norme convenzionali

1.4.1 Introduzione

Il principale scopo perseguito dalla Convenzione è quello di garantire la tutela dei diritti degli individui e, al fine di assicurare effettività alle norme, la Corte ha riconosciuto la capacità per alcune disposizioni di imporre obblighi positivi ai Paesi firmatari. Tra gli articoli rientranti in questa categoria troviamo l'art. 3, il quale stabilisce il divieto di tortura e trattamento disumano o degradante,

Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

Per quanto concerne l'interpretazione, dalla giurisprudenza della Corte emerge in modo sempre più evidente l'orientamento verso quei criteri in grado di valorizzare lo strumento della Convenzione quale corpus normativo vivente, quindi in grado di adeguarsi rispetto ai mutamenti normativi interni agli Stati firmatari (37).

Una corretta interpretazione della Carta, dovrà tenere di conto delle evoluzioni politiche, culturali ed etiche intercorse dalla sua entrata in vigore fino ad oggi; nel fare ciò, la Corte ha sfruttato il carattere duttile di alcune norme, in primis l'art. 3, il quale sistematicamente ha funto da grimaldello per l'ampliamento delle tutele offerte dalla Carta, in settori del tutto nuovi rispetto a quelli concepiti dai suoi redattori. Il concetto di strumento vivente, riferito alla Convenzione, significa proprio questo, cioè che essa è un corpus normativo malleabile e adattabile alle circostanze del caso concreto e capace di rimanere attuale anche dopo sessant'anni dalla sua stesura. In proposito, possiamo fare riferimento alle parole della sentenza Soering c. Regno Unito (38), dei primi anni Novanta: i giudici del caso, nel valutare se un determinato trattamento o punizione fosse da considerarsi inumano o degradante ai sensi dell'art. 3 affermarono che "la Convenzione è uno strumento vivo che [...] deve essere interpretato alla luce delle condizioni attuali"; per questo motivo "la Corte non può non essere influenzata dagli sviluppi e dagli standard comunemente accettati nella politica penale del Stati membri del Consiglio d'Europa in questo settore". Il ragionamento dei giudici era volto a vagliare l'opportunità di estradare il ricorrente in un Paese nel quale avrebbe rischiato di essere sottoposto alla pena di morte; in tal modo, si voleva garantire che il divieto sancito dall'art. 3 della Convenzione potesse avere, per mezzo di una interpretazione evolutiva, una portata tale da assicurare in modo effettivo la tutela contro atti di tortura o trattamenti disumani o degradanti e quindi, sottoporre al vaglio dell'art. 3 la pena capitale. Il concetto di strumento vivente è più volte affermato nelle pronunce della Corte, ad esempio, nel caso V. c. Regno Unito (39); il giudice di Strasburgo, chiamato a decidere circa la possibilità di attribuire una responsabilità penale ad un bambino di dieci anni, ha dichiarato di dover tenere di conto che la Convenzione è uno strumento vivo e che deve essere interpretata guardando alle norme prevalenti negli Stati membri in quel preciso momento. La Corte, nel caso di specie, ha concluso affermando che le prassi processuali nei vari Stati membri erano le più differenti e che il Governo inglese aveva adottato una forma semplificata di procedimento penale in ragione dell'età dell'imputato, tale da evidenziare la totale assenza di volontà da parte del Governo di umiliare o maltrattare la vittima. Infatti, era stata prevista una seduta più breve, con pause ravvicinate e la presenza di psicologi, al fine di monitorare il livello di stress del bambino.

Le numerose pronunce, in questo senso, permettono di individuare nelle scelte interpretative della Corte una finalità comune perseguita dai giudici di Strasburgo, quella di assicurare che le tutele sancite dalla Convenzione non si fermino di fronte agli ostacoli che rischiano di renderle solo parole e non uno strumento di protezione effettivo.

1.4.2 Il principio di effettività

It is of crucial importance that the Convention is interpreted and applied in a manner which renders its rights practical and effective, not theoretical and illusory. A failure by the Court to maintain a dynamic and evolutive approach would risk rendering it a bar to reform or improvement (40).

Secondo l'orientamento prevalente della Corte, la Convenzione deve essere interpretata attraverso criteri che assicurino una protezione pratica ed effettiva ai titolari dei diritti e delle garanzie previsti, in tal senso uno dei criteri più utilizzati nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo è quello dell'effettività. In virtù del principio di effettività, non saranno ammesse interpretazioni che si basino su ragionamenti di tipo formalistico o puramente teorico; il giudice per individuare se vi è stata una violazione dei diritti garantiti dalla norma convenzionale, dovrà valutare la realtà del caso in analisi "al di là delle apparenze e della terminologia usata" (41). In base al principio d'effettività, la sostanza deve prevalere sulla forma e lo spirito sulla lettera. La Convenzione, pur essendo un corpus positivo, deve essere intesa come flessibile, sia per il giudice che per lo Stato firmatario, il quale è chiamato ad applicare gli obblighi derivanti dalla Convenzione in modo da garantire la reale fruibilità dei diritti protetti (42).

Dal principio di effettività derivano alcune conseguenze rilevanti sul piano dell'interpretazione delle norme della Corte, in primo luogo i giudici, con un'interpretazione non formale, hanno stabilito che le garanzie processuali della difesa, tutelate dall'art. 6 della Convenzione, non possono essere considerate esistenti solo su un piano formale, ma che lo Stato o le autorità hanno il dovere di assicurare una fruibilità effettiva sia nella fase processuale che predibattimentale (43). Ulteriore corollario del principio in analisi prevede il divieto di eliminare nella sostanza un diritto protetto, attraverso limitazioni legittime ma eccessive; un esempio di quanto detto è la sentenza Golder c. Regno Unito (44) in cui la Corte ha stabilito che costituisce un esempio di interpretazione formalistica che, anziché tutelare il titolare del diritto, ammette una indebita restrizione, l'interpretazione secondo cui la restrizione o la proibizione nei confronti dei detenuti di intrattenere corrispondenze non viola l'art. 8 della Convenzione (Diritto al rispetto della vita privata e familiare). La sentenza è molto interessante poiché si riferisce all'ambito delle tutele dei soggetti privati della libertà, infatti sulla base delle argomentazioni addotte in questa sentenza, i giudici affermeranno qualche anno più tardi che le garanzie sancite dalla Convenzione non devono arrestarsi davanti ai cancelli delle prigioni, garantendo in tal modo uno sviluppo delle tutele dei diritti dei detenuti (45). Sempre derivante dal principio di effettività è la cosiddetta modernità della Convenzione, per cui l'interpretazione delle norme non deve basarsi unicamente sulla volontà dei suoi autori, così come ci giunge dai lavori preparatori, ormai troppo lontani dai tempi attuali. Alla Corte è dunque richiesto un continuo rinnovamento in considerazione dell'evoluzione della realtà culturale, sociale, politica ed economica degli Stati membri, i diritti dovranno essere interpretati in senso ampio e le limitazioni in senso restrittivo.

1.4.3 L'interpretazione evolutiva

Quanto detto sopra fa pensare che nel pensiero della Corte, il principio di effettività imponga un'interpretazione evolutiva, ovvero un'interpretazione che guardi ai mutamenti avvenuti in un ordinamento o, in questo caso, in tutti gli ordinamenti degli Stati firmatari e che tenga conto delle diversità intrinseche in ogni caso posto al giudizio della Corte.

L'interpretazione evolutiva, in altri termini, è quella che si forgia sull'evoluzione della coscienza e della realtà di fatto e che rispetta la flessibilità del diritto convenzionale, un diritto vivente e in continuo movimento. La Corte definisce la propria interpretazione come dinamica ed evolutiva, ma i due termini sono sinonimi?

In proposito trovo interessante l'argomentazione di Andreana Esposito con cui si discosta dall'opinione comune che da una risposta affermativa al quesito. La giurista, infatti, ritiene che se entrambe le disposizioni richiamano l'idea di movimento, solo il termine evoluzione è capace di rendere l'idea di uno sviluppo progressivo, il quale comporta uno sviluppo o perfezionamento crescente della tutela dei diritti contenuti nella Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Pertanto, conclude Esposito, se i due termini indicano concetti diversi, è possibile che l'attività interpretativa della Corte segua ora l'uno, ora l'altro o entrambi, non dando per scontata un'applicazione simbiotica (46).

L'interpretazione evolutiva trova un campo di applicazione ideale ogni qual volta vi sia una disposizione vaga o dal contenuto sfumato, come ad esempio la norma oggetto di questo elaborato. L'art. 3, infatti, proprio per la sua struttura concisa ha necessità di un'interpretazione di questo tipo per poter dare una concretezza alla tutela prevista in astratto. In proposito, il leading case è la sentenza Tyrer c. Regno Unito (47), dove per la prima volta la Corte si è trovata a dover affrontare il problema di definire la rilevanza dell'art. 3 rispetto ad una condotta che apparentemente non vi rientrava, la pena corporale quale sanzione per atti di teppismo a scuola. I giudici hanno rilevato che non fosse sufficiente che gli abitanti del luogo considerassero la sanzione corporale per certi tipi di condotta come una consuetudine, ma che fosse necessario che la pratica risultasse da una politica criminale consolidata. Contrariamente a quanto affermato dal procuratore generale dell'Isola di Man, la grande maggioranza delle politiche criminali europee dell'epoca andava verso l'orientamento opposto, portando ad escludere le pene corporali dal novero delle sanzioni penali. Per questi motivi i giudici statuirono che, in base ai cambiamenti sociali, politici e culturali, la violazione di cui all'art. 3 comprendesse anche condotte del tipo riportato nel caso di specie, stabilendo che la punizione corporale, pur non integrando i requisiti della tortura o trattamento disumano, costituiva comunque violazione della Convenzione perché degradante per la vittima. Nella stessa sentenza il giudice Fitzmaurice, nell'opinione separata allegata alla decisione, afferma chiaramente che, nel caso di norme vaghe e dai confini incerti, spetta all'attività della Corte individuarne la portata, attraverso un'interpretazione evolutiva.

Oggetto di un'interpretazione evolutiva è stata anche la nozione di tortura contenuta nel dispositivo dell'art. 3 della Convenzione, la Corte nella sentenza Selmouni c. Francia (48) si orienta verso una definizione del concetto di tortura del tutto innovativa, basata sul fatto che la sensibilità sociale in materia ha subito un innalzamento dall'entrata in vigore dello strumento convenzionale ad oggi, e ciò non può rimanere estraneo al giudice di Strasburgo quando si trovi ad individuare ciò che rientra nella nozione di tortura. Per questi motivi, ciò che in passato non era ritenuto così grave da configurare una condotta di tortura, oggi potrebbe esserlo; in questo senso, condotte qualificate come trattamenti disumani o degradanti, per il giudice odierno potrebbero essere considerate tortura.

L'interpretazione della Corte, come abbiamo detto in apertura è sia evolutiva che dinamica, in questa seconda accezione l'interpretazione data dal giudice può variare in rapporto al mutamento degli elementi di fatto che caratterizzano i singoli casi; le decisioni, infatti, possono essere costruite su variabili la cui mutevolezza determina la dinamicità dell'interpretazione convenzionale, la soluzione può variare con la modifica o l'aggiunta di una o più informazioni. In altre parole la dinamicità fa si che un elemento del caso, se acquista un significato diverso rispetto a prima, può influenzare l'interpretazione del giudice.

1.4.4 La protezione par ricochet e gli obblighi positivi

Tra le tecniche di interpretazione utilizzate dalla Corte, la protezione par ricochet e gli obblighi positivi sono funzionali ad assicurare una tutela reale ed effettiva. Il primo strumento, la protezione par ricochet, è una tecnica con la quale si è riconosciuta la possibilità di valutare la conformità alla Convenzione anche di istituti o pratiche che non rientravano direttamente nel campo di applicazione della stessa. Le materie maggiormente interessate da questo tipo di protezione sono i diritti dei detenuti e i casi di espulsione ed estradizione, trattati spesso marginalmente o addirittura assenti nei testi convenzionali. La prassi in esame è stata introdotta dalla Commissione nel rapporto X c. RFA (49), in cui si legge che "se la materia dell'estradizione, dell'espulsione e del diritto di asilo non rientrano tra quelle espressamente previste dalla Convenzione, gli Stati contraenti hanno non di meno accettato di restringere i poteri loro conferiti dal diritto internazionale generale ivi compreso quello di controllare l'ingresso e l'uscita degli stranieri, nella misura e nel limite degli obblighi che essi hanno assunto in virtù della Convenzione. Allora l'espulsione o l'estradizione di un individuo può, in alcuni casi eccezionali, essere contraria alla Convenzione e in particolare all'articolo 3, quando ci sono serie ragioni di credere che quello sarà sottoposto nello Stato di destinazione a trattamenti proibiti da questo articolo".

Sulla base dello strumento ideato dalla Commissione, la Corte ha costruito tutta una serie di tutele prima inesistenti, ad esempio nel caso Soering, in materia di diritti dei detenuti, essa ha affermato che gli Stati possono essere giudicati anche in ambiti non direttamente rientranti nella Convenzione, qualora vi sia stata in tali settori una violazione dei diritti convenzionali, nel caso di specie, dell'art. 3 Cedu. Nello specifico, la Corte ha statuito che, in materie poco disciplinate come estradizione o espulsione e diritti dei detenuti, ci può essere una violazione dei diritti convenzionali anche nel caso in cui le condizioni di detenzione o la decisione di espulsione non siano direttamente lesivi di un diritto tutelato dalla Convenzione.

Da quel momento numerosi articoli della Convenzione sono stati invocati, da persone sottoposte a detenzione, come strumenti di tutela; oltre al già menzionato art. 3, fra i più utilizzati sono gli articoli 8 e 10, data la loro rilevanza per il mantenimento dei contatti con il mondo esterno al carcere, esigenza vitale per chi si trova in stato di isolamento rispetto al resto della società.

Gli obblighi positivi consistono nell'assegnazione di un significato speciale ad alcune locuzioni di un trattato, significato che rimane indipendente rispetto alle categorie del diritto nazionale, al fine di evitare un'elusione degli obblighi da parte degli Stati. La tecnica ha due funzioni: la prima è quella di uniformare il contenuto semantico di termini diversi nei vari paesi; la seconda è quella di rigenerare il concetto convenzionale al fine di aggirare il tentativo degli Stati di restringere il campo di applicazione del diritto per mezzo della legislazione nazionale interna. Gli obblighi positivi sono uno strumento quasi interamente di derivazione giurisprudenziale, infatti sono pochissime le norme che prevedono espressamente simili obblighi, per lo più si tratta di una trasformazione di obblighi negativi in positivi. Non esiste una definizione ufficiale di questo strumento, ma la si può ricavare indirettamente dalle parole del giudice Martens rese nell'opinione dissenziente alla sentenza Gul c. Svizzera (50). Egli definisce l'obbligo positivo come la richiesta ad uno Stato di porre in essere un'azione. Ancora una volta è possibile fare riferimento all'art. 3 della Convenzione per una esemplificazione concreta, nel rapporto Hurtado c. Svizzera (51), la Commissione ha delineato accanto ad un obbligo negativo uno di tipo positivo in base al quale le autorità dello Stato devono adottare misure tendenti a garantire l'integrità fisica della persona che si trova sotto la responsabilità delle autorità di polizia. Come questo, ci sono numerosi altri esempi sempre riferiti all'art. 3 della Convenzione, ma rimando al capitolo dedicato per un maggiore approfondimento.

1.4.5 La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati

La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ha una genesi postuma rispetto alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, essa risale al 23 maggio 1969, tuttavia la Commissione prima e la Corte poi hanno riconosciuto che essa rappresenta una codificazione dei principi generali di diritto internazionale, per questi motivi i giudici ritengono possibile utilizzare tale strumento per interpretare la Cedu (52).

La natura particolare della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo ha richiesto un uso altrettanto peculiare dei criteri interpretativi sanciti agli artt. 31-33 della Convenzione di Vienna; ciò in particolare, nella valutazione dell'oggetto e dello scopo della Cedu, e nell'interpretazione evolutiva di tali elementi, che ha comportato un'attribuzione di significato del tutto sui generis di molte disposizioni della Convenzione. Nella sentenza Irlanda c. Regno Unito e Soering c. Regno Unito, la Corte ha fatto riferimento alle norme convenzionali per giustificare il suo allontanarsi da criteri interpretativi tradizionali in favore di un metodo evolutivo e progressivo. Altre volte, la Corte nel tentativo di sviluppare un altrettanto innovativo profilo dell'art. 3, ha fatto riferimento proprio all'art. 31, §3, lettera C della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, il quale stabilisce che per interpretare un trattato, occorre tenere conto di ogni norma di diritto internazionale pertinente e applicabile al caso di specie. In questo modo la Corte ha potuto sostenere nella sentenza Selmouni c. Francia, che le nozioni di tortura, o di trattamenti o pene disumani e degradanti non sono immutabili, anzi, subiscono l'influenza dei cambiamenti significativi intervenuti in materia di diritti umani.

Per comprendere meglio, si pensi al mutamento di giurisprudenza ravvisabile tra le sentenze precedenti la Convenzione ONU contro la tortura e le altre pene crudeli, disumane o degradanti, e quelle postume. Nello specifico vorrei fare un confronto tra la valutazione dei giudici nel caso Irlanda c. Regno Unito (53), e il caso Aydin c. Turchia (54). Nel primo caso, emerse che alcuni irlandesi, presunti membri dell'I.R.A (Irish Republican Army) vennero sottoposti dagli agenti speciali inglesi a tecniche interrogatorie che comprendevano la privazione di sonno, di cibo, l'obbligo di rimanere in piedi per molte ore e l'essere incappucciati e torturati psicologicamente con minacce, al solo scopo di ottenere una confessione. I giudici in questa sentenza dichiararono che i trattamenti, per quanto riprovevoli e gravi non erano tali da potersi qualificare come tortura, la sentenza, dal profilo evidentemente politico, ritenne le cinque tecniche di privazione sensoriale trattamento disumano e degradante. Nel secondo caso invece, l'influenza della Convenzione ONU del 1984, contro la tortura, fa sentire tutto il suo peso nella coscienza giuridica dell'organo europeo; nel caso di specie, la ricorrente, minorenne e la sua famiglia vennero prelevati dalla polizia di Stato per essere interrogati con l'accusa di appartenere a un'organizzazione ribelle ostile al governo. Una volta giunta nella gendarmeria, la ragazza è stata separata dagli altri parenti e tenuta in isolamento per tre giorni, bendata, picchiata, costretta a spogliarsi e violentata. La Corte, nelle sue argomentazioni ha affermato che lo stupro, atto di per sé particolarmente crudele, che colpisce l'integrità fisica e morale della vittima, risulta in quelle circostanze aggravato perché commesso da personale di polizia, dotato di autorità sulla ricorrente, (parte estremamente vulnerabile). I giudici di Strasburgo ribadiscono la precedente giurisprudenza, per cui il carattere assoluto dell'art. 3 della Convenzione, non ammette in alcun caso che si utilizzi tortura o trattamenti inumani o degradanti nei confronti di altre persone, nemmeno quando questi potrebbero essere coinvolti in attività di terrorismo.

I giudici hanno riconosciuto nel soggetto detenuto una figura particolarmente vulnerabile che deve essere protetta dall'eventuale abuso dell'ufficiale, il quale molto facilmente può compiere atti violenti senza che nessuno sia testimone o possa ostacolarlo. Alla luce di queste considerazioni appare evidente che il rapporto tra diritto convenzionale, e diritti interni non è di tipo piramidale, bensì una cooperazione interattiva, in cui gli ordinamenti statali ed europeo si sovrappongono nello stesso quadro sociale e giuridico che dà origine ad una pluralità di ordini giuridici composti da regole di diversa origine, il tutto costantemente influenzato e, per questo modificato, dai nuovi strumenti internazionali. Il punto di contatto tra queste realtà è il giudice che ha la funzione di risolvere i conflitti e di integrare i diversi sistemi.

1.4.6 La rilevanza dell'opinione dissenziente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo

L'art. 45 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, rubricato "Motivazione delle sentenze e delle decisioni", al comma 2 regola l'istituto dell'opinione individuale, stabilendo che "Se la sentenza non esprime in tutto o in parte l'opinione unanime dei giudici, ogni giudice avrà diritto di allegarvi l'esposizione della sua opinione individuale". Questo istituto, tipico dei sistemi di common law si declina nelle due ipotesi di opinione concorrente e opinione dissenziente. Nel primo caso il giudice pur aderendo al dispositivo della pronuncia, non ne condivide in tutto o in parte le motivazioni, e per questo ricostruisce un percorso argomentativo proprio. Nel secondo caso, si ha un disaccordo di uno o più giudici nei confronti della decisione giudiziale adottata a maggioranza dai componenti del collegio, e con la dissenting opinion allegata alla decisione si vuole prendere le distanze dalla maggioranza, dando spiegazione delle ragioni che hanno condotto ad una scelta diversa.

La Corte nella propria attività non si ritiene legata al principio dello stare decisis, ovvero della vincolatività del precedente giurisprudenziale, tuttavia, è stato notato che i giudici di Strasburgo fanno molto affidamento sul metodo del precedente, dal momento che solo quando questo viene a mancare si ricerca il significato delle disposizioni della Convenzione attraverso gli ordinari metodi interpretativi (55).

L'istituto dell'opinione dissenziente ha origine in America, nelle aule della Corte Suprema degli Stati Uniti, ma ben presto è diventato proprio di ogni organo giurisdizionale collegiale e internazionale, addirittura ci sono studiosi di diritto comparato che si stanno interrogando se questo istituto possa radicarsi anche nel sistema italiano, superando l'ostacolo dell'ormai labile differenziazione tra sistema di common law e sistema di civil law (56).

La dissenting opinion, rappresenta l'istanza democratica di "discostarsi" dall'opinione generale e rafforzare la propria posizione attraverso un intervento motivato e positivizzato nella pronuncia della Corte sul caso a ruolo. Molto spesso, questo istituto permette di aprire la strada a interpretazioni che in un successivo momento potrebbero diventare maggioritarie, in altre parole permette la discussione sia tra i giudici, sia in dottrina, favorendo in ultima analisi la flessibilità dell'interpretazione dei giudici. D'altro canto però è innegabile che l'opinione dissenziente, quando è mossa da un numero considerevole di membri del collegio decisionale, indica una forte spaccatura tra le correnti di pensiero perseguite dai giudici e indebolisce la forza della pronuncia, rendendola precaria e instabile, soggetta ad un overruling, un mutamento di indirizzo futuro. Sul piano concreto è possibile prendere ad esempio la sentenza Labita c. Italia (57), nel caso concreto il ricorrente, Benedetto Labita, venne arrestato nel 1992 con l'accusa di far parte di un'associazione mafiosa, in seguito venne trasferito nel carcere di Termini Imerese e successivamente nuovamente spostato nell'istituto di Pianosa, dove vi rimase fino al 12.11.1994, data in cui il tribunale di trapani emise la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto. Durante il soggiorno nel carcere toscano, il ricorrente lamentò di aver subito maltrattamenti plurimi e di grave entità da parte degli agenti di custodia, tali da integrare una violazione dell'art 3 della Cedu. In particolare Labita dichiarò di aver subito innumerevoli umiliazioni, vessazioni, intimidazioni nonché forme di violenza fisica e psichica, ad esempio, minacce in caso di rivelazione dei maltrattamenti, percosse su tutto il corpo, l'obbligo di camminare su una superficie scivolosa e qualora fosse caduto la minaccia di subire percosse dagli agenti disposti in fila lungo il percorso. Egli dichiarò inoltre di aver subito perquisizioni corporali mentre si trovava sotto la doccia, di essere rimasto ammanettato durante le visite mediche, e che dopo ave protestato per la lacerazione dei suoi abiti è stato minacciato, insultato e picchiato da un agente. Tutto ciò è attestato da certificati medici datati 1993, 1994, 1995 e 1996. All'attenzione dei giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo è stata posta anche la procedura di indagine svolta dalle autorità locali in seguito alla denuncia. Dopo l'audizione davanti al giudice per le indagini preliminari e la relativa trasmissione degli atti alla procura di Livorno, passarono quattordici mesi prima che il ricorrente fosse convocato per l'identificazione dei responsabili, l'unica attività che risulta compiuta durante questo intervallo di tempo fu l'acquisizione di fotocopie delle fotografie degli agenti di custodia che avevano prestato servizio a Pianosa nei mesi indicati dal Labita. Egli non fu in grado di riconoscere gli agenti dalle fotocopie mostrategli perché troppo scure e comunque prese da documenti non recenti, e nonostante sostenesse di essere capace di riconoscere i responsabili dei maltrattamenti subiti la sua richiesta di avere la possibilità di identificarli di persona non fu accolta; il Pubblico Ministero ottenne l'archiviazione del caso, non per infondatezza, ma perché rimasero ignoti gli autori del reato.

La Corte dopo aver ascoltato le istanze del ricorrente e dello Stato italiano, si pronunciò con un voto di nove giudici contro otto per l'assenza di violazione dell'art. 3 della Convenzione, nel punto in cui concerne le condotte vietate, poiché ritenne che le prove addotte non fossero sufficienti a vacare ogni ragionevole dubbio sugli avvenuti maltrattamenti; tuttavia la Corte riconobbe violazione dell'art. 3, nella parte in cui tutela il diritto ad avere indagini effettive ed efficienti.

In questo quadro si inserisce l'opinione parzialmente dissenziente di nove giudici della Corte, nella quale si prospetta una conclusione in tema di violazione dei diritti umani, fondata su un argomentazione diametralmente opposta rispetto a quella della maggioranza. Richiamo brevemente i punti principali del pensiero logico dei giudici dissenzienti:

  • Lo standard probatorio, richiesto per le persone soggette a limitazione della libertà personale da parte di una autorità pubblica, non può essere quello dell'oltre ogni ragionevole dubbio, perché nel contesto carcerario questo sarebbe illogico, impraticabile e iniquo. Per un detenuto, raccogliere prove a sostegno delle proprie accuse è compito assai arduo quando si rischia di subire rappresaglie da parte della polizia giudiziaria, inoltre la richiesta di una visita medica a seguito di un maltrattamento potrebbe segnalare al personale di guardia un tentativo di denuncia che potrebbe mettere in serio pericolo l'integrità del detenuto, per non contare la difficoltà di raccogliere testimonianze tra gli stessi detenuti, ciascuno, infatti, è poco propenso ad esporsi per il compagno, conoscendo il rischio di ripercussioni.
  • I giudici, nella loro argomentazione, suggeriscono un ribaltamento dell'onere della prova, per cui in seguito a denuncia spetta allo Stato e alle autorità responsabili del luogo di detenzione dare prova contraria, dal momento che esse non avranno difficoltà a reperire tutte le prove e comunque non possono non essere a conoscenza di ciò che avviene negli istituti. Parallelamente i giudici auspicano un abbassamento dell'asticella dell'onere probatorio, in modo da permettere anche al detenuto, con le prove che è riuscito a raccogliere, di far valere il suo diritto a non subire un trattamento disumano o degradante oppure tortura.
  • In ultima analisi, i giudici fanno notare che un giudizio come quello reso nel caso di specie non fa che indebolire la tutela garantita dall'art. 3 della Convenzione, poiché da prova dell'esistenza di una "via di fuga" per lo Stato colpevole di maltrattamenti. Infatti un'indagine poco approfondita porterebbe ad una archiviazione della denuncia da parte del detenuto e, anche qualora questi ricorresse di fronte alla Corte di Strasburgo, l'accertamento dei fatti sarebbe impossibilitato dalla stessa carente indagine. In questo modo lo Stato e le autorità competenti rischierebbero "solo" una condanna per violazione dell'art. 3 in merito al diritto ad avere indagini efficaci, rapide ed esaustive, mentre sul piano sostanziale eviterebbe una sanzione per violazione del divieto di tortura o trattamento disumano o degradante, stigma ben peggiore del primo.

Per questi motivi i nove giudici che hanno reso l'opinione dissenziente hanno ritenuto che le prove presentate dal Labita fossero sufficienti a dimostrare l'avvenuta violazione dell'art. 3 in tema di condotte vietate.

Come possiamo evincere dal caso concreto sopra riportato, la decisione della Corte è stata ampiamente dibattuta, tanto da spaccare in due correnti di pensiero diametralmente opposte il collegio giudicante. Come si è detto in apertura di questo capitolo, la presenza di un'opinione dissenziente, specie se condivisa da un numero così alto di giudici, da luogo a un'instabilità del precedente e apre la strada ad una corrente interpretativa che successivamente si attesterà su una posizione in contrasto con la maggioranza. Ciò è quanto avvenuto in tema di onere della prova relativo a casi coinvolgenti persone sottoposte a limitazione della libertà, in tali ipotesi infatti l'opinione dissenziente riportata si allinea con l'interpretazione che poi successivamente si è consolidata come preponderante. Rimandando l'approfondimento del tema al paragrafo dedicato nel capitolo successivo, concludo dicendo che nel corso degli anni Novanta la Corte ha mutato il proprio orientamento, a partire dalla sentenza Tomasi c. Francia (58) e Selmouni c. Francia (59), nelle quali è possibile apprezzare un cambiamento di criterio, non più quello dell'"oltre ogni ragionevole dubbio", bensì una "presunzione di responsabilità" in capo alle autorità statali, suffragando l'argomentazione supportata nell'opinione dissenziente in analisi.

Note

1. A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, il Mulino, 2013, pp.3 e ss.

2. C. Cardia Genesi dei diritti umani, Giappichelli, 2009.

3. AA.VV., La tutela internazionale dei diritti umani, Napoli, 2011.

4. A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, cit., pp. 3 e ss.

5. AA.VV., La tutela internazionale dei diritti umani, Napoli, 2011.

6. R. Giordano, Giurisdizione europea e nazionale sui diritti umani, Roma 2012.

7. A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, cit.

8. B. Emmerson-A. Ashworth-A. Macdonald, Human Rights and Criminal Justice, Londra, 2007, p. 1 ss.

9. È possibile leggere le esatte parole dei giudici nella sentenza Irlanda c. Regno Unito, 18.01.1978, riferimento n. 5310/71, §239.

10. R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il ruolo del giudice, Roma, 2011.

11. Al momento è in vigore l'edizione del regolamento della Corte datata 1º maggio 2013, contenente le modifiche adottate dalla Corte plenaria il 14 gennaio e il 6 febbraio 2013.

12. Corte, sentenza Adrian Mihai Ionescu c. Romania, 01.06.2010, ricorso n. 36659/04.

13. Le Dichiarazioni e i documenti più importanti delle tre Conferenze, sono reperibili sul sito del Consiglio d'Europa.

14. G. Raimondi, La dichiarazione di Brighton sul futuro della corte europea dei diritti dell'uomo, in Rivista telematica giuridica dell'Associazione italiana dei costituzionalisti, 3/2012,.

15. Reflection Paper on the Proposal to Extend the Court's Advisory Jurisdiction, ECHR, Strasbourg, 2012, doc. 3853038, reperibile sul sito del Consiglio d'Europa.

16. In proposito si veda il documento del Comitato direttivo del Consiglio d'Europa per i diritti umani (CDDH), che ha studiato la proposta per il Protocollo no. 16: CDDH(2012)009, disponibile sul sito del Consiglio d'Europa.

17. Queste le parole aggiunte nel Preambolo: "Affermando che spetta in primo luogo alle Alte Parti contraenti, conformemente al principio di sussidiarietà, garantire il rispetto dei diritti e delle libertà definiti nella presente Convenzione e nei suoi protocolli e che, nel fare ciò, esse godono di un margine di apprezzamento, sotto il controllo della Corte europea dei Diritti dell'Uomo istituita dalla presente Convenzione".

18. M. Fornari, La Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, in L. Pineschi (a cura di) La tutela internazionale dei diritti umani, 2005.

19. Rapporto Esplicativo della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, par. 13.

20. Evans, Morgan, Protecting Prisoners: The Standards of the European Committee for the Prevention of Torture in Context, Oxford, 1999, p. 85.

21. CPT, Rapporto sulla visita svolta in Turchia, 1992, par. 4-5.

22. Fino ad oggi sono stati redatti 23 rapporti annuali.

23. Primo rapporto generale (1989-1990), par. 2-3.

24. Primo rapporto generale (1989-1990), par. 5.

25. Primo rapporto generale (1989-1990), par. 95.

26. Evans, Morgan, Protecting Prisoners: The Standards of the European Committee for the Prevention of Torture in Context, cit.

27. CPT, Rapporto sulla visita svolta nel Regno Unito, 1991, par. 17.

28. Evans, Morgan, Preventing Torture: The Standards of the European Committee for the Prevention of Torture in Context, cit., p. 240.

29. Evans, Morgan, Preventing Torture: The Standards of the European Committee for the Prevention of Torture in Context, cit., p. 237.

30. CPT, Rapporto sulla visita svolta in Spagna, 1991, par. 18-19.

31. M. Fornari, La Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, cit., p.571.

32. Ulteriori esempi: CPT, Rapporto sulla visita svolta in Moldavia, 1998, par. 17; CPT, Rapporto sulla visita svolta in Ucraina, 2002, par. 18; CPT, Rapporto sulla visita svolta in Armenia, 2002, par. 17.

33. CPT, Rapporto sulla visita svolta nella Federazione Russa, 2001, par. 16.

34. Gran Camera, Selmouni c. Francia, 28.07.1999, ricorso n. 25803/94.

35. M. Fornari, La Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, cit., p.584.

36. CPT, Rapporto sulla visita svolta in Portogallo, 1999, par. 77; CPT, 2º Rapporto Generale, 1992, par. 46 e ss. (in particolare par.50).

37. A. Esposito, Il diritto penale "flessibile": quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, Giappichelli, 2008, p 118.

38. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, 07.07.1989, ricorso n.14038/88, §102.

39. Grande Camera, sentenza V. c. Regno Unito, 16.12.99 ricorso n. 24888/94, §72.

40. Grande Camera, sentenza Stafford c. Regno Unito, 28.05.2002, ricorso n. 46295/99, §68.

41. Corte, sentenza De Jong, Baljet e Van den Brik c. Paesi Bassi, 22.05.84, Serie A n.77, §48.

42. Per un approfondimento: A. Esposito, Il diritto penale "flessibile": quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, cit., pp. 120 e ss.; B. Emmerson, A. Ashworth, A. Macdonald, Human Rights and Criminal Justice, cit., p.72 2-08.

43. Corte, sentenza Artico c. Italia, 13.05.1980, Serie A. n. 37, §33 e Corte, sentenza Campbell e Fell c. Regno Unito, 28.06.1984, Serie A n. 80, §99.

44. Corte, sentenza Golder c. Regno Unito, 21.02.1975, Serie A. n. 18.

45. A. Esposito, Il diritto penale "flessibile": quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, cit., p. 121.

46. Ibidem, p. 125.

47. Corte, sentenza Tyrer c. Regno Unito, sentenza 25.04.1978, ricorso n. 5856/72, opinione separata del Giudice Fitzmaurice.

48. Gran Camera, Selmouni c. Francia, cit.

49. Commissione, rapporto X c. RFA, n. 6315/73, D.R. 1, p.73.

50. Corte, sentenza Gul c. Svizzera, 19.02.1996, ricorso n. 23218/94.

51. Commissione, rapporto Hurtado c. Svizzera, 08.07.1993, p.79.

52. Corte, sentenza Golder c. Regno Unito, cit., §29-30 e 34-36; Corte, sentenza Cruz Varas e a. c. Svezia, 20.03.1991, ricorso n.15576/89.

53. Corte, sentenza Irlanda c. Regno Unito, cit.

54. Corte, caso Aydin c. Turchia, 25.09.1997, ricorso n. 23178/94, §83.

55. A. Guazzarotti, Sintesi della relazione presentata al Seminario di studi "La CEDU tra effettività delle garanzie e integrazione degli ordinamenti", Università degli Studi di Perugia, in Diritti Comparati, comparare i diritti fondamentali in Europa, 23.01.2012.

56. M. Gorlani, La dissenting opinion nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti: un modello importabile in Italia?, in Forum di quaderni costituzionali, 17 maggio 2002.

57. Corte, sentenza Labita c. Italia, 06.04.2000, riferimento n. 26772/95, comune opinione parzialmente dissenziente dei giudici, Pastor Ridruejo, Bonello, Makarczyk, Tulkens, Strážnická, Butkevych, Casadevall e Zupančič.

58. Corte, sentenza, Tomasi c. Francia, 27.08.1992, ricorso n. 12850/87.

59. Corte, sentenza, Selmouni c. Francia, cit.