ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
Difficoltà applicative nell'ordinamento italiano. Il quadro giuridico-repressivo in materia di schiavitù, tratta di esseri umani e sfruttamento lavorativo: quali prospettive?

Diana Genovese, 2015

3.1 La riforma operata dalla legge n. 228/2003 in attuazione della Decisione quadro 2002/629/GAI e suoi limiti

Passando ad esaminare il quadro normativo interno che viene in rilievo nella presente trattazione, occorre premettere che l'attuale formulazione degli articoli 600, 601 e 602 c.p. è frutto di una serie di atti riformatori posti in essere in un arco temporale di una decina d'anni.

Una prima rilevante riforma è stata operata con le legge n. 228/2003 "Misure contro la tratta di persone", che se da una parte era imposta dal dovere dell'ordinamento italiano di conformarsi agli strumenti internazionali in materia, tra cui la decisione 2002/629/GAI, dall'altra si dimostrava necessaria a fronte dell'esigenza di superare le formulazioni originarie delle tre fattispecie eccessivamente indeterminate, dunque in aperta tensione con i principi costituzionali di determinatezza e tassatività della norma penale, che ne avevano comportato una rara applicazione.

La riforma del 2003 appare innanzitutto aver prodotto uno spostamento del baricentro della tutela, assestato oramai sulla centralità della dignità della persona, trattandosi di delitti che "trascendono nel loro disvalore, l'offesa alla libertà umana nei suoi singoli aspetti, in quanto investono l'intera personalità individuale, segnatamente nella facoltà di determinazione autonoma del proprio esistere, tendendo a reificare la soggettività in oggettività, l'uomo in res" (1).

L'art. 1 della l. 228/2003 introduce una norma a più fattispecie: la 'riduzione o mantenimento in schiavitù' e la 'riduzione o mantenimento in servitù' (2).

La prima condotta è descritta come «esercizio su una persona dei poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ». La locuzione in questione mira evidentemente a risolvere i precedenti contrasti dottrinale formatisi prima della riforma ove le opinioni si dividevano tra chi considerava come la schiavitù come condizioni di diritto e chi faceva riferimento anche a situazioni di mero fatto. L'espressione «corrispondenza dei poteri» è formulata in grado di contenere allo stesso tempo le situazioni di fatto e quelle di diritto (3).

In prima istanza, la norma rinvia dunque a quegli ordinamenti statali che riconoscono formalmente ed espressamente la 'proprietà' sull'uomo come istituto giuridico: in questo caso, il fatto sarà dunque realizzabile solo all'estero e perseguibili in Italia ai sensi dell'art. 600 c.p., in combinato disposto con gli artt. 604 e 7, n. 5, c.p.

La scelta legislativa di punire tali condotte, pur in assenza oggi di ordinamenti che espressamente di autodefiniscono come schiavistici, è dovuta per lo più in ossequio della risalente pretesa del diritto internazionale di contribuire alla stigmatizzazione dei suddetti ordinamenti (4).

Per quanto concerne le situazioni di fatto, la norma sembra riferirsi ad alcune forme di riduzione in schiavitù che sebbene non legittimate dall'ordinamento statale sono praticate in contesti sociali nei quali hanno assunto la forma di vere e proprie consuetudini (5).

A tal proposito, si deve rammentare che, già prima della riforma del 2003, le Corti avevano cercato di ricondurre alla disciplina penale della schiavitù le «condizioni o pratiche analoghe», secondo dizione dell'art. 600 c.p. nella versione originaria del Codice Rocco, prive di un connotato necessariamente giuridico e riferite anche a situazioni di mero fatto.

La giurisprudenza di merito aveva in particolare ravvisato tale «condizione analoga alla schiavitù» nella vicenda relativa ai cosiddetti 'minori argati', ossia bambini o minori di quattordici anni, dunque non imputabili, acquisitati in seguito a contratto di concessione stipulato con i genitori da nomadi slavi in Jugoslavia, allo scopo di asservirli e sfruttarli nel nostro Paese per la commissione di reati contro il patrimonio o per l'accattonaggio. È stato sottolineato che l'importanza della decisione in questione va colta nel fatto che la stessa Corte di Cassazione applicò il reato di riduzione in schiavitù a fatti commessi in un ordinamento, cioè la Jugoslavia, che non riconosceva giuridicamente la schiavitù (6).

La seconda forma di condotta, che costituisce la vera novità della riforma, facendo riferimento ad una diversa accezione di schiavitù di fatto, sanziona la 'riduzione o il mantenimento in servitù', definita dall'attuale art. 600 c.p. come una «soggezione continuativa, che costringe a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportano lo sfruttamento». A differenza della 'riduzione o mantenimento in schiavitù' che si sostanzia in un reato di mera condotta, tale seconda fattispecie si delinea come reato di evento 'a forma vincolata', in quanto, lo stato di soggezione deve essere, a sua volta, il frutto di «violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità » ovvero ancora frutto di «promessa o di dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona».

Tra le descritte modalità di realizzazione del fatto, maggiormente 'inedita' appare l'ipotesi di «approfittamento di una situazione di necessità », che sembra fare riferimento ad un bisogno tanto estremo - tanto di difficile elusione - di una qualsivoglia forma di assistenza altrui, da rendere soggettivamente obbligata la scelta di consegnarsi al proprio futuro padrone (7). Sul punto, è opportuno precisare che negli anni successivi alla riforma, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il riferimento alla necessità deve essere interpretato non nel senso dell'art. 54 c.p., ma avuto riguardo allo «stato di bisogno» secondo l'accettazione utilizzata nel delitto di usura aggravata (art. 644, comma 5, n. 3, c.p. o allo «stato di bisogno» secondo l'accezione utilizzata nell'istituto della rescissione del contratto per lesione (art. 1448 c.c.) (8).

In particolare, laddove il legislatore sembra evidenziare i due momenti della fattispecie cumulativamente considerati, ossia lo sfruttamento coattivo di una persona e la condizione di costante assoggettamento del soggetto sfruttato, c'è chi ha ravvisato la natura di reato complesso dell'art. 600 c.p.: sarebbe infatti solo dalla sinergia di queste due condizioni che si verrebbe a determinare una vera e propria reificazione della persona (9).

Ne deriva che assume rilevanza non già un qualsiasi asservimento, ma solo quello il cui contenuto intrinseco di coartazione appaia strutturalmente indirizzato verso lo sfruttamento.

Secondo un indirizzo condiviso dalla Corte di Cassazione e dalla giurisprudenza prevalente, elemento qualificante tanto della fattispecie sulla schiavitù quanto di quella sulla servitù sarebbe infatti lo sfruttamento della vittima e/o delle sue prestazioni (10). Non solo, ma tale finalità costituirebbe il vero tratto distintivo fra queste figure e le altre fattispecie inibitorie o privative della libertà personale (11). Nello svincolarsi dal riduttivo e anacronistico riferimento ai rapporti di asservimento di diritto e nell'incentrare il nucleo del disvalore del reato nella finalità di sfruttamento, la nuova formulazione sembra pertanto aver voluto introdurre un presidio normativo della dignità e dei diritti fondamentali dell'essere umano, che si concretizzano nello sviluppo e nella libera estrinsecazione della personalità (12).

Per quanto riguarda, invece, l'assoggettamento rilevante ai fini dell'integrazione dell'art. 600 c.p. non sembra richiesto un annichilimento assoluto e continuativo della personalità altrui: dovendo, infatti, l'asservimento consentire un'attività di sfruttamento, la stessa implicherà la concessione alla vittima di spazi di 'pseudo-libertà' necessari per poter realizzare prestazioni produttive di frutti: pertanto la riduzione in schiavitù potrebbe realizzarsi anche qualora la soggezione si allentasse temporaneamente, alternando momenti di libertà finalizzati a vincere le resistenze della vittima (13). Non è infatti un caso che non si faccia più riferimento al «totale stato di soggezione» come avveniva nell'art. 603 c.p. (14)

Per concludere, per quanto riguarda i rapporti tra i delitti di schiavitù e servitù, è stato rilevato che le rispettive sfere di applicazione sono difficilmente individuabili in quanto un'eventuale funzione sussidiaria della servitù, qualora riferita ad ipotesi meno gravi, sarebbe smentita dall'identità di pena, mentre se riferita ad ipotesi diverse da quelle di schiavitù non sarebbe facilmente ravvisabile a fronte dell'ampia portata della schiavitù: pertanto è apparso sostanzialmente inutile distinguere i fatti rientranti nell'una e nell'altra fattispecie (15).

Passando all'esame delle modifiche del 2003 che hanno coinvolto il reato di tratta, si sottolinea che nella formulazione antecedente al 2014, l'art. 601 c.p. prevedeva due distinte fattispecie: la tratta di schiavi, ravvisabile nell'atto di colui che 'commette la tratta' in danno di persona che già versi nelle condizioni di cui all'articolo 600 c.p.; la tratta o cattura a scopo schiavistico, realizzata da chi, con una serie di mezzi e di modalità espressamente indicate, costringe la vittima ad immigrare in o ad emigrare da un certo territorio nazionale o a soggiornarvi, con l'obiettivo ultimo di commettere uno dei reati di cui all'articolo 600 c.p. (16)

Anche l'art. 601 c.p. che emerge dalla riforma del 2003 assume la forma di 'norma a più fattispecie', le quali peraltro sono immediatamente distinguibili nel diverso valore assunto dalla condizione o stato di schiavitù/servitù. Nel primo caso infatti, esso rappresenta un presupposto della condotta tipica, in quanto la persona offesa si trova già in una simile situazione; diversamente nella seconda ipotesi, dove presupposto è lo stato di libertà della vittima, l'apprensione schiavistica del soggetto è lo scopo della condotta, ovvero l'elemento che va ad integrare e definire il dolo specifico.

Tuttavia, neppure la nuova formulazione sembra offrire una definizione chiara e circoscritta di tratta. Pertanto, da una parte si può ritenere che l'intervento abbia inteso rinunciare a fornire tale definizione, accettando implicitamente la nozione di tratta che emerge complessivamente dai diversi strumenti internazionali e comunitari al riguardo (nello specifico all'epoca, dall'articolo 1, n. 2, della Convenzione di Ginevra sulla schiavitù del 25 settembre 1926, dall'articolo 3 del Protocollo di Palermo sulla tratta e infine dalla decisione quadro 2002/629/GAI). Dall'altra, potrebbe invece concludersi che la tratta di schiavi e la tratta o cattura a scopo schiavistico descrivano due aspetti di un identico fenomeno e perciò, di un'unica fattispecie. Quest'ultima soluzione, seppure consentirebbe di superare alcuni dubbi circa la tassatività/determinatezza della disposizione codicistica, contrasta con la ricostruzione proposta in ordine alla previsione di due fattispecie distinte e in rapporto di incompatibilità reciproca.

Elemento tipico della fattispecie in esame è la cosiddetta abductio, ovvero il trasferimento spaziale della vittima. Non sono considerati rilevanti ai fini della descrizione dei fatti né la presenza di una seppur minima organizzazione imprenditoriale delle suddette attività illecite, né la plurisoggettività dei destinatari in senso passivo delle stesse.

Il reato di tratta viene in sostanza ad atteggiarsi quale reato comune, solo eventualmente abituale e pure, eventualmente monosoggettivo.

Un aspetto che distingue in modo leggermente più significativo le due presunte fattispecie dell'art. 601 c.p. è l'elemento soggettivo del reato: un dolo (solo) eventualmente specifico nella prima ipotesi (in cui il fine è identificato alternativamente o nel fine di vendere o scambiare l'individuo asservito, o nel fine di lucro affermato dalla dottrina ante-reformatio); un dolo specifico nella seconda.

Rispetto a quanto detto sin qui, alcuni autori hanno sostenuto che la riforma del 2003 avrebbe in qualche modo rovesciato la configurazione dei rapporti tra tratta e schiavitù, come risultante tradizionalmente dalle numerose fonti internazionali. In tali testi, e da ultimo nella decisione quadro 2002/629/GAI, la riduzione in schiavitù o in una condizione analoga viene concepita come frutto di condotte di tratta, mentre il legislatore del 2003, invece, è intervenuto disegnando una nuova fattispecie del delitto di tratta la quale presuppone, almeno in una delle due tipologie di condotte, un soggetto passivo già ridotto in condizione di schiavitù o servitù (17).

È infine importante precisare che il reato di cui all'art. 601 c.p. non concorre mai con quello dell'art. 600 c.p. perché: rispetto alla prima ipotesi delittuosa sulla tratta, tale status costituisce un presupposto nella struttura della fattispecie successiva, e perciò, un antefatto non punibile; nella seconda ipotesi dell'art. 601 c.p., lo status o condizione di schiavitù/servitù rappresenta lo scopo ultimo della condotta descritta (il dolo specifico), e quindi un post factum non punibile (18).

Alla luce della richiamata disciplina, è evidente che nella formulazione del 2003, gli artt. 600 e 601 c.p. risultano inscindibilmente connessi: in particolare, l'applicazione dell'art. 601 c.p. dipende in toto dal contenuto e dai limiti dell'art. 600 c.p. che, come si vedrà, sono stati con il tempo definiti dalla stessa giurisprudenza di legittimità. Non sembra dunque sussistere uno spazio autonomo applicativo dell'art. 601 c.p. che non rimandi al presupposto o alla finalità della riduzione in schiavitù, a differenza peraltro della tendenza internazionale, come si è visto, orientata a fornire una definizione autonoma di tratta di esseri umani improntata al fine dello sfruttamento, non necessariamente di tipo schiavistico o para-schiavistico.

La legge n. 228/2003 ha inoltre modificato la fattispecie, confinante con quella di tratta delle persone, prevista all'art. 602 del c.p. (19), lasciando tuttavia aperti numerosi interrogativi in ordine alle relazioni reciproche tra le due fattispecie penali.

In tale sede è possibile omettere una più approfondita analisi di questa figura delittuosa, in quanto pur contenendo la stessa un'espressa clausola di applicazione sussidiaria rispetto ai casi di tratta («fuori dei casi indicati dall'articolo 601»), essa è priva di un reale ambito applicativo, effettivamente autonomo rispetto alla norma che la precede.

Nonostante, in passato, la distinzione fra i suddetti reati fosse ricavata, sotto un profilo quantitativo, dalla diversa consistenza numerica delle vittime coinvolte, considerando la tratta come reato necessariamente plurisoggettivo e l'art. 602 c.p. applicabile ai casi di offesa a singola persona, con la novella del 2003, quest'ultimo elemento viene definitivamente a cadere, ritenendo la maggioranza della dottrina applicabile la fattispecie di tratta anche in presenza di un unico soggetto passivo. Inoltre, l'identità di pena tra le due fattispecie evoca una parità di disvalore sociale dei fatti che vanifica qualsivoglia funzione sussidiaria dell'art. 602 c.p. (20)

Alla luce di queste considerazione, è stato rilevato che la fattispecie di cui all'art. 602 c.p. si presenta sostanzialmente 'inutile', mancando di fatto di uno spazio applicativo autonomo nei confronti della fattispecie di cui all'art. 601 c.p. (21)

3.2 L'introduzione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (603-bis c.p.) e l'attuazione della Direttiva 2009/52/CE

Con specifico riferimento al fenomeno dello sfruttamento lavorativo, l'art. 12 del d.l. 13 agosto 2011 n. 138 (conv. in legge 14 settembre 2011, n. 148) ha introdotto l'art. 603-bis c.p.

Il primo disegno di legge in materia fu presentato alla Presidenza del Senato il 5 dicembre 2006 da parte dell'allora in carica governo Prodi, e recava oggetto "Interventi per contrastare lo sfruttamento di lavoratori irregolarmente presenti sul territorio nazionale" (22).

Il testo, modificato successivamente dalle Commissioni del Senato, aveva il grande pregio di introdurre una disciplina dedicata esclusivamente al fenomeno dello sfruttamento lavorativo. La norma in questione estendeva infatti il proprio raggio applicativo non solo al reclutatore di lavoratori (caporale) ma anche all'organizzatore del lavoro stesso (datore di lavoro) (23).

Assegnato alla competente commissione in sede referente, il testo del disegno di legge A.S. 1201, denominato A.C. 2784, non veniva tuttavia esaminato oltre dalla Camera dei Deputati, a causa della prematura interruzione della legislatura nel maggio del 2008.

In tal modo terminava un lungo iter legislativo che avrebbe consentito di colmare un'importante lacuna in materia di sfruttamento lavorativo.

A seguito di ulteriori tentativi (falliti) in sede parlamentare, in data 13 agosto 2011, il governo Berlusconi emanava un decreto legge recante "Ulteriori misure per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo". In particolare, nell'ambito del Titolo III, relativo a "Misure a sostegno dell'occupazione", l'art. 12 introduceva un nuovo art. 603-bis nel codice penale, rubricato "Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro", il quale attualmente risulta così formulato: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un'attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori".

La norma punisce chiunque svolga, in modo imprenditoriale o para-imprenditoriale, attività organizzata di intermediazione caratterizzata dallo sfruttamento dei lavoratori, facendo uso di violenza, minaccia o intimidazione, o ancora, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.

Il legislatore pur non avendo introdotto una definizione precisa di 'intermediazione' illecita, stabilisce, con formulazione decisamente infelice, che tale condotta si realizza con il 'reclutamento' (attraverso uno dei mezzi indicati) della manodopera destinata allo sfruttamento lavorativo o tramite l'organizzazione dell'attività lavorativa della medesima.

Le maggiori difficoltà interpretative derivano proprio dall'utilizzo di tale congiunzione. Infatti, le condotte tipiche ascrivibili al fenomeno del 'caporalato' parrebbero essere le prime due: il soggetto attivo in questione 'recluta o reperisce' la manodopera nei modi illeciti descritti e la garantisce all'impresa utilizzatrice. Egli si 'interpone' poi illecitamente fra l'utilizzatore delle prestazioni e i fornitori (sfruttati) delle stesse, accordandosi direttamente con l'impresa e ricevendo personalmente le somme pattuite (che poi distribuirà ai lavoratori, trattenendone una parte variabile).

In alcune ipotesi può accadere tuttavia che il 'caporale', dopo una prima fase di reclutamento/intermediazione, si dedichi anche ad 'organizzare, dirigere e sorvegliare' l'attività degli operai, spesso ricorrendo nuovamente a metodi e tecniche violenti o comunque illeciti.

Ecco dunque esplicitata la problematicità insita nel ricorso ad una simile formulazione: l'utilizzo della o con valore disgiuntivo provoca un'estensione non ragionevole della portata della fattispecie, la quale finisce per ricomprendere condotte che nulla hanno a che vedere col 'caporalato'. Inoltre, il riferimento disgiunto all'aspetto organizzativo, se letto in questi termini, finirebbe per rendere perseguibile tramite la norma in esame il fatto dell'imprenditore (o suo preposto) che ricorre al servizio del 'caporale', soluzione che tuttavia non appare prospettabile alla luce dell'intentio legis, caratterizzata dell'esigenza di colmare un vuoto di tutela rispetto ai soggetti lavoratori o in cerca di lavoro intrappolati nella morsa del 'caporalato'.

Adottando tale interpretazione, che ha indubbiamente riscosso la totalità dei consensi nella magistratura e in dottrina, l'unico modo per incriminare il datore di lavoro sarebbe ipotizzare un concorso nel reato, laddove lo stesso fosse a conoscenza dei metodi svolti dall'intermediario perché da lui incaricato o utilizzato a procacciare lavoratori.

Tuttavia non è mancata l'opinione contraria che tende ad interpretare la congiunzione o in chiave disgiuntiva, considerando l'«organizzazione» come aggiuntiva e/o alternativa rispetto al «reclutamento», e non già esplicativa di esso, rendendo di conseguenza la norma incriminatrice riferibile anche al datore di lavoro (24). Tale interpretazione, sebbene suggestiva, non trova riscontro alcuno nella giurisprudenza di legittimità: a tal proposito, la Suprema Corte ha infatti precisato che, nonostante le perplessità sollevate dalla scelta legislativa così restrittiva, l'unica lettura ragionevole appare quella che individua nell'intermediario il solo referente della norma (25).

Occorre inoltre sottolineare che la clausola espressa di riserva «Salvo che il fatto costituisca più grave reato» configura in termini di sussidiarietà il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro rispetto evidentemente ad un'altra fattispecie che si pone in stretta contiguità con quest'ultimo, ossia l'art. 600 c.p. limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento abbia ad oggetto prestazioni lavorative: entrambe le norme sono infatti caratterizzate oltre che dallo sfruttamento lavorativo anche dalle connotazioni modali della condotta (violenza, minaccia e approfittamento dello stato di necessità) (26).

Passando ad esaminare la fattispecie, sotto il profilo oggettivo, l'attività dei 'caporali', per assumere rilevanza penale, deve essere caratterizzata dallo sfruttamento dei lavoratori, il quale può essere individuato per il tramite di una serie di indici o elementi sintomatici elencati al secondo comma dell'art. 603-bis c.p. Essi in particolare sono: 1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la sistematica violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità personale; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

Tali 'indici' costituiscono dei criteri guida che il legislatore fornisce al giudice al fine di accertare se effettivamente, l'attività lavorativa cui l'intermediazione è rivolta, sia connotata o meno da un trattamento particolarmente sfavorevole e gravoso dei lavoratori, perciò, non è detto che siano gli unici criteri utilizzabili. Non deve però essere trascurato l'incipit della disposizione («Ai fini del primo comma»), il quale sembra restringere il valore di tali parametri alla mera applicazione dell'articolo in questione, piuttosto che riferirlo alla legge penale in generale.

Quest'ultima precisazione pone infatti alcuni problemi di coordinamento con la recente attuazione della direttiva 2009/52/CE, che stabilisce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, avvenuta con il decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109 (cosiddetta 'legge Rosarno').

Ai fini del presente elaborato, le modifiche più rilevanti riguardano l'art. 22 d. lgs. 286/1998, al quale sono stati aggiunti alcuni commi dopo il dodicesimo (da 12-bis a 12-quinquies).

In particolare, con il comma 12-bis, il legislatore integra la fattispecie principale di cui al comma precedente con delle nuove fattispecie aggravanti, le quali considerano casi di occupazione di lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti caratterizzati da sfruttamento.

Le circostanze in questione, definite dal comma 12-quater «di particolare sfruttamento» lavorativo, determinano un aumento da un terzo alla metà della pena prevista, e sono: a) il caso in cui i lavoratori impiegati (in simili condizioni) siano più di tre; b) il caso in cui vengano scoperti lavoratori occupati che sono in realtà minori in età non lavorativa; c) l'ipotesi in cui i lavoratori occupati sono soggetti a «condizioni lavorative di particolare sfruttamento».

È interessante notare come invece di tentare di elaborare una nozione esplicativa di tali condizioni - di cui al punto c) - il legislatore del 2012 abbia scelto di operare una definizione delle stesse 'per rinvio' al terzo comma dell'art. 603-bis c.p., dedicato alle circostanze aggravanti ad effetto speciale del reato di intermediazione illecita appena visto, le quali comportano l'aumento della pena da un terzo alla metà quando: 1) il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) il fatto sia stato commesso esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

Posto che le lettere a) e b) del comma 12-bis corrispondono alle circostanze di cui ai numeri 1) e 2) del comma terzi, l'unica ipotesi aggravata che si ritiene debba essere aggiunta in forza del richiamo, è quella in cui il datore abbia esposto il lavoratore clandestino ad una generica «situazione di pericolo» nello svolgimento delle mansioni affidategli (art. 603-bis, co. 3, n. 3), c.p.).

Occorre ricordare che, prima dell'introduzione di questo insieme di circostanze si riteneva che, l'elemento dello sfruttamento, in quest'ambito, determinasse l'applicazione dell'articolo 12, co. 5, d. lgs. 286/1998, ovvero il delitto di favoreggiamento della permanenza clandestina dello straniero irregolare «al fine di trarne un ingiusto profitto». L'art. 22 riguardava invece i soli casi di impiego di tale individuo, a prescindere dal modus. Con la novella, viene a decadere tale criterio distintivo degli ambiti applicativi delle due fattispecie: perciò, ad oggi, l'utilizzo a fini lavorativi di stranieri non in regola con il soggiorno è sempre riconducibile all'articolo 22 d. lgs. 286/1998. Se ricorrono poi modalità d'impiego vessatorie, particolarmente gravose e/o discriminatorie, troveranno spazio le ipotesi di cui al comma 12-bis dello stesso articolo, più gravemente sanzionate.

Si rammenta, inoltre, che con la riforma in esame, è stato previsto che qualora sussistano le situazioni di particolare sfruttamento lavorativo, così come definite dal combinato disposto delle due norme citate, il comma 12-quater dell'art. 22 prevede che il questore, su proposta o con il parere favorevole del Procuratore della Repubblica, possa provvedere al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell'articolo 5, co. 6, d. lgs. 286/1998 in favore di quello straniero che abbia presentato denuncia e collabori nel procedimento istaurato nei confronti del datore di lavoro.

Tuttavia, proprio il concetto di «particolare sfruttamento lavorativo», come disegnato dalla riforma operata dal d. lgs. 109/2012, ha destato le maggiori perplessità, soprattutto in ordine alla discrasia aperta con la formulazione adottata dal legislatore europeo che all'art. 13 della direttiva 2009/52/CE definisce di «particolare sfruttamento» quelle "condizioni lavorative, incluse quelle risultanti da discriminazioni di genere e di altro tipo, in cui vi è una palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori assunti legalmente, che incide, ad esempio, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori ed è contraria alla dignità umana" (27).

Tale nozione non sembra infatti coincidere con le fattispecie aggravate di cui all'art. 603-bis, co. 3, n. 3), c.p. richiamate dal comma 12-bis dell'art. 22 d. lgs. 286/1998.

Ma ciò che appare ancor più paradossale è la mancata menzione, ai fini della ricostruzione del concetto di «particolare sfruttamento lavorativo», degli indici di cui al comma secondo dell'art. 603-bis c.p. precedentemente richiamati, indubbiamente più specifici e significativi per l'individuazione dei casi di sfruttamento lavorativo, e tuttavia apparentemente limitati ad operare per la fattispecie di intermediazione illecita.

3.3 La giurisprudenza italiana in materia di schiavitù, tratta di esseri umani e sfruttamento lavorativo

Alla luce del quadro normativo italiano appena visto, si può osservare come nel nostro ordinamento scarseggino non solo le definizioni di sfruttamento lavorativo ma anche specifiche fattispecie normative in grado di fronteggiare penalmente il fenomeno in questione.

Rimanendo all'interno della cornice penale analizzata, i casi di sfruttamento lavorativo, almeno fino alle recenti modifiche di cui si dirà, hanno assunto rilevanza penale solo laddove le condotte poste in essere integrassero i requisiti richiesti dagli articoli 600 e 601 c.p., rispetto ai quali contenuti e limiti sono stati tracciati e precisati negli ultimi anni in particolare dalla giurisprudenza di legittimità.

Con particolare riferimento all'art. 600 c.p., in ordine al quale la giurisprudenza è stata indubbiamente più prolifica, la Corte di Cassazione ha a più riprese affermato che l'evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consiste nella privazione della libertà individuale cagionata con minaccia, inganno, violenza od approfittando di una situazione di inferiorità psichica o di necessità. In particolare, la Suprema Corte ha precisato che nel caso dello sfruttamento delle prestazioni altrui, la condotta criminosa non si ravvisa nell'offerta di lavoro implicante gravose prestazioni in condizioni ambientali disagiate verso un compenso inadeguato, poi neanche versato, se la persona si determina liberamente ad accettarla, ma può nel contempo sottrarvisi una volta rilevato il disagio concreto che ne consegue (28). Al contrario, la condizione sussiste quando si impedisce alla persona di determinarsi liberamente nelle sue scelte esistenziali, per via od in costanza di una situazione di soggezione come sopra definita.

Tale pronuncia scaturiva da un caso di due cittadini rumeni ospitati in locali fatiscenti e, in seguito, gravemente sfruttati dal datore di lavoro che si era approfittato della situazione di necessità di questi, omettendo di versare loro la retribuzione che gli spettava, ha annullato la sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria che invece aveva ritenuto sussistenti gli estremi per l'applicazione dell'art. 600 c.p. Le motivazioni addotte dalla Suprema Corte rispecchiano un'interpretazione particolarmente restrittiva dell'art. 600 c.p. evidentemente legata ad una concezione di assoggettamento di carattere esclusivamente "fisico".

Tale orientamento, da ultimo affermato nella sentenza della Corte di Cassazione, 10 aprile 2013, n. 16313, ai fini della configurazione del reato ritiene a titolo di elemento necessario la mancanza di autodeterminazione; pertanto la soggezione perpetrata dal soggetto che esercita il controllo deve essere tale da condizionare la scelta del soggetto, al punto da annullarne la capacità di autodeterminazione. In particolare, secondo la giurisprudenza di legittimità, la mancanza della possibilità di sottrarsi dalla situazione di sfruttamento da parte del soggetto passivo appare quale requisito essenziale all'integrazione della fattispecie.

In altre pronunce la Corte Suprema ha affermato che la necessità richiamata dall'art. 600 c.p. pur non dovendo raggiungere gli estremi dello stato rilevante ai sensi dell'art. 54 c.p., richiede comunque una situazione di debolezza ovvero una mancanza materiale o morale idonea a condizionare la volontà della vittima al pari di quella contemplata dall'art. 644, co. 5, n. 3, c.p. nel reato di usura aggravata o di quella prevista dall'art. 1448 c.c. nell'ambito della rescissione del contratto (29).

Tuttavia è anche vero che, in una pronuncia precedente rispetto all'orientamento maggioritario sopra rammentato, la Suprema Corte si era espressa nel senso che un effettivo condizionamento della volontà nell'accettare condizioni lavorative quali quelle descritte non può essere ravvisato nella mera esigenza di prestare un lavoro per ottenere sostentamento, identificabile nella generalità delle situazioni personali e non corredata da connotati qualitativi ulteriori negli stranieri regolarmente o irregolarmente entrati nel territorio nazionale alla ricerca di migliori condizioni di vita; occorrendo che a detta condizione si aggiungano fattori di ulteriore e più stringente incidenza sulla libertà personale e di circolazione della vittima, quali a titolo di esempio quella individuate dalla stessa Corte di Cassazione nella necessità di saldare il debito contratto con i soggetti che abbiano agevolato l'immigrazione clandestina dello straniero (30).

A fronte dell'interpretazione fortemente restrittiva fornita dalla giurisprudenza di legittimità per l'applicazione della predetta fattispecie, le condotte ipoteticamente rientranti nell'art. 600 c.p. sono state progressivamente ricondotte ad altre fattispecie penali di minor gravità, come il reato di 'Maltrattamenti contro familiari e conviventi' (art. 572 c.p.) e il reato di 'Estorsione' (art. 629 c.p.).

Per fare alcuni esempi, si rammenta la vicenda di un imputato che aveva tenuto alle proprie dipendenze lavorative alcuni cittadini rumeni in condizioni di estremo degrado materiale, poiché ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico-sanitarie, con somministrazione scarsa o nulla di cibo e privazione del compenso. La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza emessa nel maggio del 2011 dal Tribunale di Viterbo, riqualificava la condotta originariamente contestata di riduzione in schiavitù, come maltrattamenti in famiglia. La Corte di appello riteneva infatti che dette condizioni non avevano impedito alle persone offese di determinarsi liberamente nelle proprie scelte di vita, nonostante avessero subito violenze e minacce essendosi infine sottratta all'iniquo regime lavorativo.

Riteneva la Corte che la condotta contestata integrasse il diverso e meno grave reato di cui all'articolo 572 c.p., la cui sussistenza, essendo stata più volte affermata nell'ambito di rapporti lavorativi di natura c.d. parafamiliare, caratterizzati da plurimi indici quali l'esistenza di relazioni abituali ed intense tra datore e prestatore di lavoro, consuetudini di vita tra i soggetti, soggezione degli uni nei confronti dell'altro, fiducia riposta dal soggetto passivo in quello attivo, erano tutte circostanze ravvisabili nel caso di specie.

Giunto il caso dinnanzi alla Suprema Corte, quest'ultima conformava alla decisione dei giudici di appello e riteneva che, nonostante la situazione delle vittime fosse quasi equiparabile ad una situazione di schiavitù, il fatto non fosse però sussumibile nel più grave delitto di cui all'art 600 c.p., rientrando particolare vicenda in una delle situazioni di lavoro di carattere para-familiare previste dall'art. 572 c.p. (31)

La soluzione, tuttavia, non appare convincente, in quanto sebbene la collocazione della norma nel titolo XI dei 'Delitti contro la famiglia' non sia di per sé decisiva, è altrettanto vero che il reato di maltrattamenti in famiglia trova il suo disvalore in quelle situazioni di vessazione e violenza praticate in un contesto nel quale la vittima dovrebbe invece trovare, almeno apparentemente, sicurezza e protezione. Nonostante, infatti, il reato, per come è attualmente formulato, vada inevitabilmente a comprendere anche situazioni di convivenza di fatto, queste relazioni devono possedere almeno 'in potenza' la possibilità di una reciproca assistenza e solidarietà. Tuttavia, nel caso deciso dalla Corte di Cassazione appena ricordato, appare inverosimile che le vittime abbiamo trovato - anche solo inizialmente - un conforto anche solo potenziale, in un luogo in cui, fin da subito, hanno vissuto condizioni di abuso, degrado e privazioni.

A fronte della consistente lacuna penale in tema di sfruttamento lavorativo, il rischio è evidentemente quello di estendere la portata applicativa dell'art. 572 c.p. anche a rapporti di natura principalmente lavorativa, ove si consumino anche i più gravi abusi lavorativi e umani a danno di vittime che spesso si trovano in una condizione di forte vulnerabilità.

In altri casi, la giurisprudenza di legittimità, in luogo del più grave reato di riduzione in schiavitù, ha invece optato per l'applicazione del reato di cui all'art. 629 c.p. La Suprema Corte ha infatti stabilito in più occasioni che la condotta del datore di lavoro il quale, minacciando il licenziamento o la mancata assunzione, faccia accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge o alla contrattazione collettiva, quali lavoro in nero, trattamenti economici inferiori rispetto al pattuito (nel caso di specie le decurtazioni allo stipendio in parte andavano a compensare un'illegittima attività di caporalato), sottoscrizione di lettore di dimissioni in bianco, rinuncia a congedi per malattia o per infortunio, così procurandosi un ingiusto profitto a danno dei lavoratori configuri il reato di estorsione (32).

Le ragioni di una simile resistenza della Corte di Cassazione a far rientrare tutte quelle situazioni 'limite' di sfruttamento lavorativo all'interno dell'art. 600 c.p. sembrano riconducibili in primo luogo all'elevato minimo edittale del reato di riduzione in schiavitù (8 anni) che senza dubbio incoraggia la giurisprudenza a individuare altre fattispecie criminose che più si adattano al disvalore concreto del fatto; in secondo luogo, non può negarsi che il concetto di costante assoggettamento appare intriso di un elevato portato di indeterminatezza, che di volta in volta non può che essere riempito di contenuto se non andando a vedere il singolo caso di specie in cui lo sfruttamento si è consumato (33).

Per concludere sulla giurisprudenza di legittimità concernente l'art. 601 c.p., occorre sottolineare innanzitutto la scarsità della stessa, soprattutto per ciò che riguarda il fenomeno dello sfruttamento lavorativo.

È utile tuttavia riportare almeno una delle poche pronunce più rilevanti sul tema. La vicenda riguardava alcuni cittadini polacchi, facenti parti di un'associazione di carattere criminale attraverso la quale pubblicavano su stampa, in Polonia ed altri paesi dell'Est, e via internet ingannevoli annunci di lavoro agricolo ben remunerato in Italia, assicurando trasferimento, alloggio e vitto nel luogo, il foggiano, dove singole cellule smistavano i lavoratori nei campi.

Le persone, per lo più indigenti e bisognose, che aderivano all'annuncio erano condotte presso ciascuna cellula sita in zona isolata e, già debitrici del costo di trasporto, private dei passaporti, subivano di seguito trattenute sulle paghe anche per il compenso dovuto per il collocamento lavorativo, l'alloggio ed il vitto. Ridotte già per questo in soggezione, il lavoro consentiva loro poche ore di riposo e retribuzioni decisamente inferiori alle promesse, spesso mancate o ritardate. Venivano poi private delle esigenze basilari nonché della possibilità di spostarsi nel territorio, anche perché i veicoli servivano solo a condurle nei campi. Pertanto le vittime erano per le ragioni appena dette, incapaci di sottrarsi allo sfruttamento altrui tanto che, nel caso tentassero la fuga, subivano violenze o minacce.

Considerate le circostanze, i giudici di merito applicavano gli artt. 600 e 601 c.p. ravvisando, in quest'ultimo caso, gli estremi dell'induzione mediante inganno e dell'approfittamento dello stato di necessità delle vittime. In seguito, anche la Suprema Corte confermava la decisione della Corte di appello sostenendo che le offerte di trasferimento, alloggio e lavoro ben remunerato erano strumentali alla riduzione in condizione analoga alla schiavitù (art. 601 c.p. seconda parte) e le condizioni di vita trovate in Italia, l'assenza di alternative, il sacrificio delle necessità di riposo e dei bisogni primari, il debito contratto, le minacce e violenze in caso di fuga uniti al costante sfruttamento lavorativo configuravano il reato di cui all'art 600 c.p. seconda parte (34).

Va sottolineato che, nel caso di specie, non si poneva un problema di eventuale concorso fra il reato di tratta e riduzione in servitù, in quanto i soggetti che avevano trasferito le vittime in Italia al fine di ridurle in condizione di servitù erano soggetti diversi da quelli che poi le hanno effettivamente ridotte in dette condizioni.

La sentenza in esame è una delle pochissime - se non l'unica - in cui si riscontra l'applicazione dell'art. 601 c.p. a casi di grave sfruttamento lavorativo. Ritenendo plausibile immaginare che quello in esame non sia l'unico caso, in più di dieci anni, in cui si siano verificate situazioni di sfruttamento ai danni di cittadini stranieri indotti mediante inganno o minaccia a recarsi nel nostro Paese, possiamo concludere sottolineando come l'art. 601 c.p. ante riforma 2014, nonostante gli intenti del legislatore, si sia dimostrato inadatto a reprimere fenomeni di sfruttamento lavorativo riguardanti in particolari gli stranieri. Come si dirà, indubbiamente lo stretto collegamento con l'art. 600 c.p. ne ha fortemente compromesso la portata applicativa: da una parte la severità edittale identica a quella del delitto di cui all'art 600 c.p., dall'altra la necessità di ravvisare uno stato di schiavitù/servitù preesistente per quanto riguarda la prima parte dell'art. 601 c.p. ovvero il dolo specifico di schiavitù/servitù per quanto riguarda la seconda parte dell'art. 601 c.p.

Si tenterà di dimostrare nella parte finale del presente elaborato come la direttiva 2011/36/UE abbia destato l'interesse su una norma così scarsamente utilizzata.

3.4 L'attuazione della Direttiva 2011/36/UE: il d. lgs. 24/2014 e le modifiche apportate all'art. 601 c.p.

Ai fini dell'attuazione della direttiva 2011/36/UE, avvenuto con il d. lgs. 24/2014 il reato di tratta di persone (art. 601 c.p.) è stato riformulato nei seguenti termini:

È punito con la reclusione da otto a venti anni chiunque recluta, introduce nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l'autorità sulla persona, ospita una o più persone che si trovano nelle condizioni di cui all'articolo 600, ovvero, realizza le stesse condotte su una o più persone, mediante inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, al fine di indurle o costringerle a prestazioni lavorative, sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi.

Alla stessa pena soggiace chiunque, anche al di fuori delle modalità di cui al primo comma, realizza le condotte ivi previste nei confronti di persona minore di età.

Il nuovo art. 601 c.p., riprendendo la definizione di cui alla art. 2 della direttiva, ha ampliato la portata applicativa della fattispecie, individuando ora specificamente le condotte di tratta, a differenza della previgente norma che indicava genericamente la condotta di «tratta» (35).

A ben vedere la norma non punisce più necessariamente un 'trasporto' o un trasporto attraverso i confini nazionali, ma anche il fatto di reclutare, 'spostare' sul territorio nazionale, cedere od ospitare la vittima del reato.

Alcuni dubbi possono tuttavia sorgere dalla traduzione dell'inglese 'receipt' con l'italiano 'accoglienza', in quanto il termine inglese ricomprende anche le ipotesi nelle quali il datore di lavoro o dell'intermediario siano consapevoli della "situazione di coercizione connaturata al traffico" (36), sebbene non coinvolti direttamente con lo stesso. Tale terminologia, se correttamente interpretata, ha evidentemente il fine di prendere in considerazione quelle ipotesi in cui la tratta di essere umani e il suo consequenziale sfruttamento non siano riconducibili ad un'unica condotta ma a più azioni riferibili anche a soggetti diversi.

La nuova formulazione dell'art. 601 c.p. appare inoltre più ampia di quella precedente, laddove sgancia la fattispecie in questione da quella di cui all'art. 600 c.p. Secondo alcuni autori, infatti, non è più necessario che la vittima del reato sia già ridotta nelle condizioni previste dall'art. 600 c.p., né che la stessa sia destinata ad esserlo (37).

Ciò evidentemente dipende dal significato che si decida di attribuire all'ovvero: in particolare, ci si chiede se la norma, così riformulata, debba essere intesa quale norma a fattispecie unica o a fattispecie bipartita.

Occorre premettere sul punto che, come si è visto, la definizione di tratta proposta di recente dalla direttiva 2011/36/UE è costituita dalla presenza simultanea dei tre tipi di elementi costitutivi della fattispecie criminosa (atti, mezzi, fini), mentre non riconosce la tratta delle persone in condizione di schiavitù, che pertanto costituisce una particolarità propria del nostro ordinamento, con possibili rischi di discrasia rispetto alla linearità della fattispecie europea. L'unico legame con la riduzione in schiavitù sembra, come si è visto, il riferimento contenuto nel paragrafo 3 dell'art. 2 della direttiva ai «lavori o servizi forzati», inciso peraltro che non è stato riprodotto nella nuova fattispecie di cui all'art. 601 c.p. (38)

Dovendo interpretare l'articolo 601 c.p. in senso conforme all'articolo 2, par. 1, della direttiva, sarebbe sufficiente limitarsi alla soluzione di una fattispecie unica, semplificando così notevolmente la questione. La fattispecie di tratta verrebbe perciò a realizzarsi quando siano poste in essere le condotte tipiche previste nella prima parte del comma primo, con il contestuale ricorso ai mezzi ricompresi nella seconda parte del comma e per i fini indicati dallo stesso.

Se invece si volesse seguire la via suggerita dall'interpretazione 'storico-letterale', nonché sistematica, si potrebbe anche ipotizzare che il legislatore, con la riforma in esame, abbia inteso andare oltre l'intervento comunitario, disegnando una fattispecie bipartita e ben più ampia di quella delineata nell'art. 2 della direttiva. Se così fosse, le condotte consistenti nel reclutare, introdurre nel o trasferire al di fuori del territorio dello Stato, trasportare, cedere l'autorità sulla persona, accogliere od ospitare le persone sottoposte alle condizioni di cui all'articolo 600 c.p., sarebbero oggetto di considerazione autonoma nell'ordinamento penale, a prescindere dai mezzi con cui sono perpetrate. O, più precisamente, sarebbero punibili anche se poste in essere con mezzi diversi da quelli elencati dallo stesso articolo 601, seconda parte, c.p. La sussistenza di tali mezzi andrebbe invece ad integrare la fattispecie tipizzata nella seconda parte del comma, costituita dalle medesime condotte e rivolta ad assoggettare e sfruttare le prestazioni fornite dai soggetti trafficati, slegandosi definitivamente dalla sussistenza di una condizione di schiavitù/servitù della vittima e concentrandosi esclusivamente sul dato dello sfruttamento.

Tale seconda interpretazione potrebbe rivelarsi una notevole apertura verso l'utilizzo della norma anche a situazioni di sfruttamento lavorativo, sganciandosi per la prima volta da quello stretto rapporto con l'art. 600 c.p. che l'ha sempre caratterizzata.

Immaginare l'art. 601 c.p. come fattispecie bipartita non potrebbe tra l'altro porsi in contrasto con la direttiva 2011/36/UE la quale, prevedendo una soglia minima di tutela, non vieta indubbiamente l'apporto di una tutela maggiore.

Inoltre la fattispecie disegnata dal nostro legislatore sembra superare la direttiva anche laddove amplia l'ambito applicativo della norma facendo riferimento, oltre alla costrizione, anche all'induzione («al fine di indurle») allo svolgimento di prestazioni lavorative. Tale aggiunta, rispetto all'intervento comunitario, rappresenta indubbiamente un miglioramento, andando a ribadire la non necessarietà dell'uso della coercizione e rendendo di fatto sufficiente un semplice 'convincimento' della vittima a prestare un determinato lavoro.

L'interpretazione proposta sembra peraltro avvalorata dalla circostanza che l'art. 601 c.p. non recepisce la parte della direttiva 2011/36/UE, in cui nel definire la tratta, si comprende «come minimo» anche lo sfruttamento del «lavoro e dei servizi forzati».

Questa tesi, se recepita dalla giurisprudenza, potrebbe ampliare la portata applicativa del reato di tratta e rappresentare un efficace strumento nella lotta alla tratta di esseri umani, finalizzata - nel caso che ci interessa - allo sfruttamento lavorativo, come richiesto dall'Unione europea.

Tuttavia, alcune opinioni dottrinali sembrano propendere invece per un'interpretazione ancora fortemente ancorata all'art. 600 c.p., laddove ammettono che la seconda fattispecie sia, al pari della precedente formulazione, diretta alla finalità di commettere il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù, avendo il legislatore mutato unicamente il modo di enunciarla, facendo attualmente riferimento al suo contenuto (39).

Rispetto a quanto detto sin qui, è possibile proporre alcune riflessioni. In primo luogo, continuare a concepire il reato di tratta, come ancora inscindibilmente connesso all'art. 600 c.p. e dunque alla condizione di schiavitù - o allo stato di soggezione continuativa - in cui necessariamente deve versare la vittima, appare fortemente anacronistico rispetto alle attuali modalità di 'reclutamento' degli esseri umani che arrivano nel nostro continente, magari volontariamente, ma finendo per essere sfruttati una volta giunti a destinazione. Tale consapevolezza permetterebbe infatti di utilizzare le modifiche di cui all'art. 601 c.p. per colpire tutti quei nuovi fenomeni di tratta di esseri umani che attualmente il nostro ordinamento non riesce a raggiungere, in quanto ancora legato ad una concezione classica della tratta, intesa come 'tratta degli schiavi'.

In secondo luogo, in combinazione con quanto sinora sottolineato, l'introduzione nell'art. 601 c.p., tra le modalità di realizzazione della tratta, di un espresso riferimento all'abuso della posizione di vulnerabilità sembra scorgere nuovi orizzonti applicativi per il reato di tratta, sempre tenendo a mente la definizione adottata a livello europeo (40) che, seppur non trasposta nel testo interno, deve costituire un vincolo per la giurisprudenza nella prospettiva di un'interpretazione e applicazione in armonia con la direttiva europea.

Tale inserimento ha evidentemente il pregio di raggiungere gli attuali fenomeni di tratta che spesso si caratterizzano per modalità di 'reclutamento' più blande rispetto al passato, poste in essere nei confronti di persone apparentemente libere, il cui stato di sottomissione può dipendere da molteplici fattori che inducono la vittima a credere di non avere nessuna alternativa se non quella di accettare lo sfruttamento.

Nonostante l'art. 1, comma 1 (Principi generali), del d.lgs. 24/2014 precisi che nell'attuazione delle disposizioni si deve tener conto della «specifica situazione delle persone vulnerabili quali i minori, i minori non accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne , in particolare se in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere», si può immaginare che la condizione di vulnerabilità non si esaurisca nell'elenco anzidetto ma vada accertata caso per caso rispetto alla concreta situazione della vittima e alla sua capacità di intravedere alternative possibili allo sfruttamento cui è sottoposta.

Nell'attuale formulazione dell'art. 601 c.p., come del resto nelle precedenti, non è contenuto un espresso riferimento circa l'irrilevanza del consenso della vittima, in quanto ritenuta superflua nel nostro ordinamento ove beni personalissimi, come quello alla dignità e alla libertà personale sono ritenuti indisponibili. In tal senso la Corte d'Assise di Roma in una sentenza del 1968 (41) affermava che lo status libertatis è assolutamente indisponibile, cosicché l'eventuale consenso del soggetto passivo non serve ad escludere l'antigiuridicità del fatto.

Pronunciandosi sull'art. 600 c.p., più recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che in nessuno dei casi previsti dalla norma in questione, ove l'agente deve ricorrere alternativamente o a violenza o a inganno, o ad approfittamento di uno stato di inferiorità o di una situazione di necessità ovvero a promesse di vantaggi a chi eserciti autorità sulla persona, potrebbe darsi l'ipotesi del consenso dell'avente diritto con efficacia scriminante, in quanto la posizione del soggetto passivo della condotta è sempre descritto dalla norma come riferita a condizione fisica o psichica nella quale i processi volitivi sono assolutamente alterati e il consenso si atteggerebbe come viziato (42). Altrove, la Corte ha escluso che un soggetto, "che non sia affetto da particolari turbe psichiche" possa prestare il consenso alla propria reificazione e, quand'anche un consenso venga prestato, "non avrebbe, sul piano giuridico, alcun rilievo e certo non sarebbe penalmente scriminante nei confronti dello "schiavista", stante l'indisponibilità del bene della libertà personale, qualunque sia la cultura dei soggetti coinvolti" (43).

Si ricorda tuttavia che lo stato di bisogno di cui all'art. 600 c.p., ancor prima della riforma operata dal d.lgs. 24/2014, secondo alcune letture giurisprudenziali, era da ricondurre alla posizione di vulnerabilità di cui alla previgente decisione quadro 2002/629/GAI dell'Unione europea (44).

Nel paragrafo precedente, si è visto, attraverso al ricostruzione della giurisprudenza di legittimità sull'art. 600 c.p., che accanto alla tutela della libertà personale, quale bene personalissimo e indisponibile, sussiste pur sempre una sfera intangibile costituita dalla libertà di autodeterminazione che il soggetto deve poter conservare scegliendo le condizioni cui sottoporre la propria prestazione, seppur implicanti uno sfruttamento. Tale soluzione, che probabilmente costituisce un compromesso ad un sistema fortemente paternalistico, riterrà dunque configurabile il reato solo nel momento in cui tale libertà di autodeterminazione risulterà del tutto annullata.

Tuttavia non è possibile negare l'esistenza di una rilevante 'zona grigia' che non trova riscontro alcuno nel nostro ordinamento giuridico laddove si è affermato anche in giurisprudenza che non qualsiasi forma di lavoro sotto-pagato o violazione dei diritti del lavoratore possa costituire una 'riduzione in schiavitù', dovendo queste o altre forme di sfruttamento 'innestarsi' in una complessa vicenda esistenziale caratterizzata dal totale e continuo asservimento della vittima al proprio 'aguzzino' (45).

Considerate le forti resistenze della giurisprudenza a riconoscere la sussistenza dell'art. 600 c.p. e alla luce delle innovative possibilità di applicazione offerte dal nuovo art. 601 c.p., ove meno stringenti possono i limiti precedentemente imposti per la configurabilità del reato di tratta di persone, si ritiene, in conformità con gli strumenti internazionali e la direttiva 2011/36/UE, che per la sua integrazione sia sufficiente che l'agente persegua uno scopo di sfruttamento, realizzando la condotta mediante i mezzi di coercizione di cui all'art. 601 c.p.

Note

1. SCEVI P., Nuove schiavitù e diritto penale, Università degli Studi di Bergamo, Giuffrè, Milano, 2014, p. 49. Sulla ratio e il bene giuridico protetto dai delitti in questione si veda anche: RESTA F., Neoschiavismo e dignità della persona (Nota a Corte d'Assise Trento, 20 novembre 2007, n. 5246), in Giurisprudenza di merito, 2008, 6, p. 1673.

2. VALLINI A., Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 n. 228 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), in Legislazione penale, 2004, 4, p. 628.

3. FIANDACA G. e MUSCO E., Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, Zanichelli, Torino, 2013, p. 140.

4. VALLINI A., Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 n. 228 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., p. 628. Ci si riferisce in questi casi alla definizione offerta dall'art. 1 della Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926 (ratificata con r.d. 26.4.1928 n. 1723).

5. Ivi, p. 629. A tali situazioni si riferisce per lo più l'art. 1 della Convenzione Supplementare di Ginevra del 17 novembre 1956 relativa all'abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù (ratificata con l. 20.12.1957 n. 1304).

6. Cass. pen., Sez. I, 1 luglio 2002, Dimitrijevic, in Guida al diritto, 2002, 44, p. 79. Sul punto si veda: PICOTTI L., I delitti di tratta e schiavitù. Novità e limiti della legislazione italiana, in Diritto immigrazione e cittadinanza, 2007, 1, p. 46.

7. Ivi, p. 639.

8. Ex multis: Cass. pen., Sez. III, 25 gennaio 2007, n. 2841.

9. VALLINI A., Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 n. 228 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., pp. 634-635.

10. Cass. pen., Sez. fer., 6 ottobre 2004, rv. 230130: "la nozione di riduzione in schiavitù, alla base del reato di cui all'art. 600 c.p., come modificato dalla l. n. 228 del 2003, è connotata non solo e non tanto dal concetto di proprietà in sé dell'uomo sull'uomo, ma dalla finalità di sfruttamento di tale proprietà, per il perseguimento di prestazioni lavorative forzate o inumane, di prestazioni sessuali pure non libere, di accattonaggio coatto, obblighi «di fare» imposti mediante violenza fisica o psichica. La detta finalità di sfruttamento è quella che distingue la fattispecie dell'art. 600 c.p. da ogni altra forma di inibizione della libertà personale, considerata quest'ultima come facoltà di spostamento nel tempo e nello spazio e tutelata dagli artt. 605-609-decies c.p.". Sul punto si veda anche: RESTA F., Schiavitù e sfruttamento. L'art. 600 c.p. tra vecchia e nuova disciplina (Nota a Corte d'Assise Trapani, 27 novembre 2009), in Giurisprudenza di Merito, 2010, 11, pp. 2844 e ss.

11. Sul punto: BERNASCONI C., La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, in FORLATI S. (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani. Tra dimensione internazionale e ordinamento interno, cit., p. 77.

12. RESTA F., Neoschiavismo e dignità della persona (Nota a Corte d'Assise Trento, 20 novembre 2007, n. 5246), cit., p. 1675.

13. In tale senso: PECCIOLI A., "Giro di vite" contro i trafficanti di esseri umani: le novità della legge sulla tratta di persone, in Diritto penale e processo, 2004, 1, p. 33 e AGNINO F., Riduzione in schiavitù e "reificazione" della vittima, in Il Corriere del merito, 2008, 7, p. 847.

14. L'art. 603 c.p. che configurava il delitto di plagio ("Chiunque sottopone una persona al proprio potere , in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni") è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza 8 giugno 1981, n. 96, per violazione dell'art. 25 Cost. Nella motivazione la Corte rileva "l'imprecisione e l'indeterminatezza della norma, l'impossibilità di attribuire ad essa un contenuto oggettivo, coerente e razionale e pertanto l'assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione" ed afferma che la norma costituisce una "mina vagante nel nostro ordinamento", potendo essere applicata a "qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di un essere umano da un altro essere umano e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l'intensità ".

15. MANTOVANI F., Diritto penale. Parte speciale I - Delitti contro la persona, Cedam, Padova, 2008, p. 275; SCEVI P., Premesse per uno studio sui delitti di schiavitù e tratta di persone nel quadro della tutela del diritto alla libertà , in Rivista Penale, 2012, 10, p. 933.

16. Art. 601 c.p. (vecchia formulazione): "Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all'articolo 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i delitti di cui al presente articolo sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi
".

17. CALLAIOLI A., Art. 2 - Modifica dell'articolo 601 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., p. 656. Secondo l'autore la formulazione dell'art. 601 c.p. quanto meno nella sua prima parte "ribalta il rapporto facendo della condizione d'esclavage un prius rispetto al verificarsi della tratta".

18. MANTOVANI F., Diritto penale. Parte speciale I - Delitti contro la persona, cit., p. 274.

19. Art. 3, l. 228/2003: "L'articolo 602 del codice penale è sostituito dal seguente: ART. 602. - (Acquisto e alienazione di schiavi). - Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 601, acquista o aliena o cede una persona che si trova in una delle condizioni di cui all'articolo 600 è punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diritti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo degli organi".

20. SCEVI P., Nuove schiavitù e diritto penale, cit., p. 73.

21. MANTOVANI F., Diritto penale. Parte speciale I - Delitti contro la persona, cit., p. 281.

22. In particolare, il riferimento è al disegno di legge A.S. 1201, presentato alla presidenza del Senato della Repubblica durante la XV legislatura, il 5 dicembre 2006, dal Presidente del Consiglio dei ministri Prodi.

23. Il testo del disegno di legge formulava l'art. 603-bis c.p. nei seguenti termini: "(Grave sfruttamento dell'attività lavorativa). - Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque recluti lavoratori, ovvero ne organizzi l'attività lavorativa, sottoponendo gli stessi a grave sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, anche non continuative, esercitate nei confronti del lavoratore sottoposto a condizioni lavorative caratterizzate da gravi violazioni di norme contrattuali o di legge ovvero a un trattamento personale, connesso alla organizzazione e gestione delle prestazioni, gravemente degradante, è punito con la reclusione da tre a otto anni, nonché con la multa di euro 9.000 per ogni persona reclutata o occupata. La pena è aumentata se tra le persone occupate di cui al precedente periodo vi sono minori degli anni diciotto o stranieri irregolarmente soggiornanti".

24. MANCINI D., La tutela del grave sfruttamento lavorativo ed il nuovo articolo 603-bis c.p., del 26.09.2011.

25. Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione (Luca Pistorelli e Alessio Scarcella), Novità legislative: D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (Gazz. Uff. n. 188 del 13 agosto 2011), Rel. N. III/11/2011, del 5 settembre 2011.

26. SCEVI P., Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: alcuni spunti di riflessione, in Rivista Penale, 2012, 11, p. 1062.

27. FERRERO M. e BARBAIOL G., Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, in FORLATI S. (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani. Tra dimensione internazionale e ordinamento interno, cit., pp. 107 e ss.

28. Ex multis: Cass. pen., Sez. V, 4 aprile 2011, n. 13532.

29. Cass. pen., Sez. V, 26 ottobre 2011, n. 251.

30. Cass. pen., Sez. V, 13 novembre 2011, n. 46128: "Integra il delitto di riduzione in schiavitù mediante approfittamento dello stato di necessità altrui la condotta di chi approfitta della mancanza di alternative esistenziali di un immigrato da un Paese povero, imponendogli condizioni di vita abnormi e sfruttandone le prestazioni lavorative al fine di conseguire il saldo del debito da questi contratto con chi ne ha agevolato l'immigrazione clandestina".

31. Cass. pen., Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057.

32. Cass pen., Sez. VI, 1 luglio 2010, n. 32525. Sul punto si veda anche Cass. pen, Sez. V, 26 ottobre 2011, n. 251, ove la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire che la minaccia di licenziamento che il datore di lavoro utilizza per far accettare condizioni di lavoro fortemente gravose e mal retribuite, verso soggetti con poche alternative di vita non è sufficiente ad integrare il reato di cui all'art. 600 c.p., qualora il soggetto abbia la concreta possibilità di sottrarsi a questo regime.

33. Sul punto si veda: Report by Maria Grazie Giammarinaro, OCSE Special Representative and Coordinator for Combating Trafficking in Human Beings, following her visit to Italy from 18-19 June and 15-19 July 2013. La Rappresentante dell'OCSE, a seguito delle perplessità sollevate da alcuni Procuratori della Repubblica, in occasione della sua visita, in ordine all'applicazione degli artt. 600 e 601 c.p. a casi di sfruttamento lavorativo, sottolinea che la «soggezione continuativa» potrebbe essere difficile da riconoscere e provare, specialmente nei casi di tratta a fini di sfruttamento lavorativo, dove la soggezione può essere raggiunta attraverso situazioni di debt bondage e/o manipolazione psicologica.

34. Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2010, n. 40045.

35. Art. 601, ante riforma l. n. 228/2003: 'Tratta e commercio di schiavi' - "Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da cinque a venti anni".

36. GIAMMARINARO, M.G., La direttiva 2011/36/UE sulla prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, cit., pp. 18-19.

37. VALLINI A., Reati di sfruttamento lavorativo, 2014.

38. Ai sensi dell'art. 2, par. 3, Direttiva 2011/36/UE, il lavoro forzato è menzionato solo nel definire lo sfruttamento, il quale costituisce il fine della tratta e non il suo presupposto, a differenza dell'art. 601 c.p. nella formulazione introdotta dalla legge n. 228/2003.

39. MADEO A., Il D.lgs 04/03/2014, n. 24, di recepimento della Direttiva 2011/36/UE, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, in Studium Iuris, 2014, 10, p. 1107. Si veda anche in proposito: SCEVI P., Nuove schiavitù e diritto penale, cit., p. 81. L'autrice, nel delineare le modifiche apportate dalla riforma all'art. 601 c.p., afferma che, in considerazione della sostanziale omogeneità dell'obiettività giuridica e della struttura del reato, sussiste una continuità normativa tra le fattispecie incriminatrici in materia di tratta di esseri umani.

40. Art. 2, par. 2, Direttiva 2011/36/UE, cit.: "Per posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima".

41. Corte d'Assise di Roma, sentenza del 14 luglio 1968.

42. Cass. pen., Sez. V, 7 giugno 2010, n. 35479.

43. Sul punto: CORBETTA S., Quando lo sfruttamento della prostituzione integra la "riduzione in schiavitù", in Diritto penale e processo, 2008, 9, p. 1105.

44. Cass. pen., Sez. III, 26 ottobre 2006-25 gennaio 2007, n. 2841.

45. La Suprema Corte ha a questo proposito precisato che "le condizioni inique di lavoro, alloggio incongruo e la situazione di necessità dei lavoratori, non configurano il reato di schiavitù disciplinato dall'art. 600 c.p., a patto che il soggetto rimanga libero di determinarsi nelle proprie scelta esistenziali" (Cass. pen., sez. V, sentenza 10 febbraio-4 aprile 2011, n. 13532). Sul punto si veda anche: VALLINI A., Reati di sfruttamento lavorativo, 2014.