ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

4 La protezione delle vittime. In particolare: lo speciale permesso di soggiorno rilasciato ai sensi dell'articolo 18 del D.lgs. 286/98 (T.U. sull'immigrazione)

Carlo Vettori, 2014

4.1 Protezione sociale e motivi umanitari: un'introduzione

Nella Circolare n. 11050 (1), rivolta dal Ministero dell'Interno ai questori (veri e propri domini a livello procedurale in materia di permessi ex articolo 18 del T.U.) ed ai prefetti della Repubblica, ben si intuisce l'importanza e la delicatezza assunte di recente dai temi della tratta di persone e dello sfruttamento. Si pone in evidenza infatti, seppur in modo generico ed enfatico, come il flusso di mobilità generato dai fenomeni migratori verso il nostro paese (ormai decennali ed a corrente alterna) e dall'ingresso di alcuni nuovi stati nell'Unione è andato a rinvigorire (complice anche la crisi economica?) i suddetti drammatici problemi. Ad esempio, in un rapporto (2) redatto nel marzo 2007 relativamente ai progetti di protezione sociale nel nostro paese ed alla loro concreta efficacia, si pone in evidenza come nel periodo 2000-2006 soltanto le persone vittime di traffici assistite e/o accompagnate presso servizi sociali di varia natura sfiorino le 50000 unità (fonte: Dipartimento per i diritti e le pari opportunità). I programmi considerati nel documento individuano un duplice riferimento normativo nell'articolo 18 del T.U. sull'immigrazione e nell'articolo 13 della legge 228/03 in materia di tratta e segnalano il massiccio coinvolgimento di giovani donne provenienti soprattutto dalla Nigeria e dall'Est Europa.

Inutile sottolineare che, la ricerca delle cause del rinnovato interesse verso questi aspetti deve concentrarsi non solo sul presunto acuirsi di certi fenomeni, ma anche, come abbiamo visto, in una crescente sensibilità sul tema delle fonti del diritto internazionale e del diritto comunitario.

Il permesso di soggiorno ex articolo 18 deve essere perciò letto parallelamente ai principi ed alle norme introdotti in questi ambiti, senza tuttavia scordare che esso costituisce una particolarità dell'ordinamento italiano che non trova similitudini nemmeno nel contesto comunitario. Esso infatti è previsto per la prima volta, con un consistente anticipo rispetto a tale contesto, dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, all'articolo 16 e poi ricompreso fra le "Disposizioni a carattere umanitario" previste dal titolo II, capo III del T.U.I. (d.lgs. n. 286/98).

Occorre premettere una distinzione importante. Quando si parla di "protezione umanitaria", si fa riferimento ad un concetto che soltanto di recente ha fatto ingresso nella terminologia delle politiche sull'immigrazione. Inizialmente, esso era impiegato con riferimento a quegli interventi legislativi rivolti a rendere possibile la concessione di permessi per motivi straordinari (o, appunto, per motivi umanitari), al verificarsi di eventi di eccezionale gravità, determinanti flussi in entrata di persone particolarmente ingenti e prolungati. Si pensi, ad esempio, all'arrivo di cittadini albanesi oppure bosniaci nei primi anni Novanta sulle coste italiane, o agli sbarchi di tunisini in fuga dalla guerra e dall'instabilità politica generata dalla 'primavera araba' iniziati nel 2011. Si tratta dunque, in origine, di una retorica legata a strumenti volti a fronteggiare situazioni a carattere emergenziale. Il comma 1º dell'articolo 20 del Testo Unico, ha poi introdotto la possibilità di derogare stabilmente alla legge che regola i flussi in entrata laddove ricorrano "rilevanti esigenze umanitarie". E' stato così attenuato dalla prassi questo suo carattere di eccezionalità (tant'è che adesso indica anche una forma di soggiorno regolare). Detto questo, è bene chiarire che la connessione fra i motivi umanitari ed il permesso di soggiorno in esame è fondata, in primis, sulla collocazione delle norme ricomprese nel capo III del T.U.I. (ovvero, la possibilità di tener conto di situazioni di particolare difficoltà o vulnerabilità degli stranieri). Ma è, soprattutto, una connessione di carattere terminologico, come sarà specificato più avanti nell'esame del comma 3-ter dell'articolo 27 del regolamento attuativo al Testo Unico (d.P.R. n. 394/99, così come modificato dall'articolo 21 del d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334).

La "protezione sociale", sta invece in questo caso ad indicare uno speciale titolo di soggiorno, rilasciabile a quegli stranieri che denuncino (o che siano rinvenuti in) situazioni di violenza o grave sfruttamento e che, eventualmente, decidano di collaborare con la giustizia. L'applicazione di tale misura è frequente soprattutto nel caso delle persone trafficate al fine di sfruttarne la prostituzione (3).

Il testo definitivo dell'articolo 18 è frutto di due modifiche. L'articolo 6, comma 4º, del d.l. 28 dicembre 2006, n. 300 (convertito con modifiche nella legge 26 febbraio 2007, n. 17) introduce il comma 6-bis.

Il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 (emanato in attuazione della Direttiva n. 36 del 2011) poi, introduce un comma 3-bis nel testo dell'articolo 18 medesimo, il quale, come diremo, apre a numerosi interrogativi ed anche a nuove prospettive.

4.2 L'articolo 18 del T.U. sull'immigrazione: origini e letture diverse

Il permesso di soggiorno previsto dall'articolo 18 del T.U. è denominato 'Soggiorno per motivi di protezione sociale' e rientra fra le 'Disposizioni di carattere umanitario'. L'ambivalenza degli appellativi ha una duplice precisa ragione, illustrata dal comma 3º ter dell'articolo 27 del Regolamento attuativo (peraltro introdotto con la modifica al Regolamento del D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334): "Il permesso di soggiorno di cui all'art. 18 del testo unico contiene, quale motivazione, la sola dicitura 'per motivi umanitari' ed è rilasciato con modalità che assicurano l'eventuale differenziazione da altri tipi di permesso di soggiorno e l'agevole individuazione dei motivi del rilascio ai soli uffici competenti [..]". Perciò, differenziazione dagli altri titoli ma, allo stesso tempo, occultamento delle vere ragioni del rilascio per non esporre la vittima ad ulteriore rischio di ritorsioni.

Esistono nell'ordinamento italiano poco meno di una decina di ipotesi di permessi per motivi umanitari (4), divisi dalle circostanze fattuali che presuppongono e dalle discipline giuridiche a livello nazionale, ma accomunati dalla rispondenza a precisi obblighi internazionali e principi costituzionali. Si tratta perlopiù di titoli speciali e a rilascio obbligatorio, ovvero essi rappresentano eccezioni al principio generale contenuto nel T.U. per cui la permanenza sul territorio è concessa solo in presenza di un ingresso regolare (conforme ai requisiti richiesti da T.U. medesimo) (5). In special modo per il permesso in questione perciò, si prescinde dalla regolarità dell'ingresso dello straniero e si valorizzano una serie di motivazioni tassative che lo hanno sostenuto: l'irregolare è regolarizzato (temporaneamente?) tramite un provvedimento discrezionale di un'autorità di governo di pubblica sicurezza, nei casi e nei modi indicati dalla legge. L'assenza di necessità di contribuzioni per l'ottenimento del titolo (articolo 5, comma 2º ter del T.U.) o di documenti specifici (articolo 9 comma 6º reg. att.) come nei soggiorni ordinari confermano tale peculiarità.

Si possono distinguere tre ipotesi generali di applicazione del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, che fanno rifermento a tre categorie di destinatari parzialmente diversi per situazione di bisogno e programmi adottabili. E' concedibile il titolo allo straniero (da intendersi qui, in linea con le premesse del T.U., come il cittadino di Paese terzo o l'apolide) che si trovi nei casi descritti dai commi 1º e 2º dell'art. 18.

Secondariamente, è concedibile il permesso con contestuale partecipazione a programmi di assistenza ed integrazione sociale allo straniero che ha terminato l'espiazione di pena detentiva per reati commessi durante la minore età; questa ipotesi particolare è contenuta nel comma 6º e differisce, seppur parzialmente, dalla precedente sia sotto il profilo soggettivo che sui requisiti (è una possibilità che ha generato diverse problematiche interpretative).

In terzo luogo, devono ritenersi applicabili queste disposizioni, in quanto compatibili, anche ai cittadini di Stati membri dell'Unione europea che si trovino "..in una situazione di gravità ed attualità di pericolo" (comma 6º bis, inserito con l'articolo 6 comma 4º, D.L. 28 dicembre 2006, n. 300). La norma prevede una disciplina semplificata nel caso del cittadino comunitario (rispetto alla prima categoria di soggetti) richiedendo al questore di valutare un unico generico requisito. Tuttavia, l'inciso 'in quanto compatibili' deve essere letto alla luce del comma 2º dell'articolo 1 del T.U., che esclude l'applicabilità del T.U. medesimo ai cittadini comunitari, salvo che esso preveda un trattamento più favorevole rispetto a quello riconnesso allo status di cittadino di uno Stato membro. Questo è il ragionamento che l'autorità preposta deve compiere nell'ipotesi (6).

Fino al 2006 circa, ha prevalso un'interpretazione (7) piuttosto restrittiva dell'articolo18 e delle norme regolamentari: anche nella prassi applicativa, il rilascio nei confronti delle prime due categorie di soggetti è stato subordinato ad una rigida compresenza di tutti i requisiti legislativi, fra cui, in casi come lo sfruttamento della prostituzione straniera, la denuncia della vittima (cui sola si riconnetteva un reale pericolo di ritorsioni). La necessità di una collaborazione giudiziaria dello straniero ai fini del rilascio del titolo di soggiorno dimostra come la concezione originaria della misura prediligesse la finalità di prevenzione e repressione di tali odiosi reati, invece della protezione sociale. Il permesso aveva perciò un implicito valore premiale. Questo orientamento cambia attraverso l'opera di alcune circolari interpretative provenienti prevalentemente dal Ministero dell'interno e volte a conformare l'efficacia dello strumento ai principi comunitari e alla legge 228 del 2003 (8). Si opera un rovesciamento delle logiche: sulla scia di alcune norme europee, diviene prioritaria l'assistenza e la tutela della integrità psico-fisica della persona coinvolta nei fenomeni di tratta e/o sfruttamento, la quale dovrebbe beneficiare di una sorta di diritto soggettivo (subordinato solo agli accertamenti del questore) al rilascio del permesso e all'accesso ai programmi previsti. Si specifica espressamente che il permesso non ha valore premiale: il contributo alla giustizia diviene elemento secondario rispetto alla tutela dei diritti fondamentali della vittima, e non decisivo. Questa nuova visione dovrebbe essere accentuata nel caso di vicende riguardanti bambini, minori o altri appartenenti a categorie cosiddette vulnerabili. La sottrazione dello straniero e dei suoi familiari ai condizionamenti e ai pericoli provenienti dall'organizzazione criminale (in Italia o nel Paese d'origine) diviene l'obiettivo sul breve termine; un inserimento sociale duraturo, quello a lungo termine (questo secondo aspetto dovrebbe essere l'intento delle particolareggiate norme regolamentari che descrivono i programmi) (9).

Un'ultima considerazione generale. Il d.lgs. 24 del marzo 2014, in attuazione della Direttiva 2011/36/UE, ha avvertito l'esigenza di modificare l'art. 18 introducendo un ulteriore comma. Il comma 3º bis così recita: "Per gli stranieri e per i cittadini di cui al comma 6º bis del presente articolo (dunque, comunitari), vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale, o che versano nelle ipotesi di cui al comma 1º del presente articolo si applica..[..].., un programma unico di emersione, assistenza e integrazione sociale che garantisce, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria, ai sensi dell'articolo 13 della legge 228 del 2003, e successivamente, la prosecuzione dell'assistenza e l'integrazione sociale, ai sensi del comma 1ºdi cui al presente articolo.[..]" (10). La disposizione appare complessa ed è prematuro cercare di prevederne il possibile impatto sul quadro normativo vigente e le relative problematiche di armonizzazione. Ancora più improbabile pare ipotizzare l'efficacia pratica e la realizzabilità in concreto del 'programma unico in via transitoria' in sequenza con i requisiti dell'articolo 18. Si possono fare però alcune osservazioni.

Innanzitutto, è interessante notare come non vi è alcun riferimento espresso alla collaborazione processuale dei soggetti lesi. Se ne deve dedurre che lo status di vittima dei reati indicati rappresenta il requisito decisivo ai fini dell'accesso alla misura, che non ha dunque carattere premiale.

Il legislatore, individua quali soggetti interessati i soli cittadini, comunitari e non, che, versino in determinate condizioni specificate, mentre nulla dispone circa i particolari casi di cui al comma 6º. La mancata considerazione espressa delle situazioni di cui al comma 6º potrebbe far pensare ad una sua esclusione dall'ambito applicativo del comma 3-bis. In realtà, non sembrano esservi motivi validi a sostegno di tale esclusione. Perciò, ragionevolmente, la nuova disposizione è applicabile anche agli stranieri di cui al comma 6º, a patto che, prima della commissione dei reati durante la minore età, siano stati vittima di tratta o di schiavitù o si siano trovati nelle condizioni di cui al comma 1º dell'articolo 18.

Nello specificare i presupposti soggettivi ed oggettivi, sono menzionati non solo gli elementi di cui al comma 1º della disposizione in esame, ma anche l'emersione dei reati contro la libertà individuale degli articoli 600 (riduzione e mantenimento in schiavitù) e 601 (tratta di persone) del Codice penale. La precisazione è forse superflua visto che l'impianto normativo della modifica si fonda sull'articolo 13 della legge 228, il quale già prevede l'istituzione di un "Fondo speciale" per la realizzazione di un programma di assistenza che garantisca, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, vitto e di assistenza per le vittime dei reati di cui ai suddetti articoli.

L'intento di questo nuovo comma è probabilmente di semplificazione e rafforzamento della tutela: si cerca di istaurare un coordinamento legislativo fra le due disposizioni dell'articolo 13 e dell'articolo 18. La prima norma troverebbe applicazione transitoriamente in un momento antecedente, nell'ottica di un'assistenza di prima necessità più che di integrazione, meglio realizzabile (quest'ultima) dal più dettagliato articolo 18. Da notare, è anche il riferimento ad un programma "unico", ponte fra le due previsioni, da precisarsi e realizzarsi tramite un Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanare entro 6 mesi dall'entrata in vigore della modifica (tuttavia, ad oggi non ancora emanato).

Il successo di questa iniziativa pare condizionato anche dal gravoso compito di chiarire un'apparente imprecisione: come è possibile che i commi 1º e 2º dell'articolo 18 trovino applicazione "successivamente", visto che essi riguardano principalmente l'emersione e l'accertamento delle situazioni che legittimano il rilascio del permesso? Quale dovrebbe essere il momento antecedente di applicazione dell'articolo 13? Ed ancora: in cosa dovrebbero distinguersi i programmi di assistenza finanziati tramite il"Fondo speciale" della legge 228 rispetto a quelli già esistenti e previsti dal Regolamento attuativo del Testo unico? Le incertezze di formulazione e di coordinamento paiono esserci; forse, solo il Decreto che deve essere emanato e la prassi interpretativa ed applicativa che ne dovrebbero conseguire possono scioglierle.

4.3 La normativa ed il Regolamento specifico

L'articolo 18 del D.lgs 286/98, con le successive modifiche, è composto di otto commi (11). Tralasciando gli ultimi due ed il comma 3º bis già in parte trattati, concentriamoci sui rimanenti. I commi 1º e 2º contengono rispettivamente la descrizione delle situazioni legittimanti la concessione della speciale misura di protezione, l'accertamento delle medesime e l'avvio del procedimento per il rilascio. Il comma 3º rimanda al Regolamento attuativo per la definizione dei programmi di assistenza ed integrazione sociale e dei soggetti diversi chiamati a predisporli, finanziarli, approvarli ed attuarli: le relative disposizioni si trovano agli articoli da 25 a 27 e da 52 a 54 del Regolamento medesimo. Il comma 4º si occupa della durata, del rinnovo, della conversione e della revoca del permesso. Infine il comma 5º individua le possibilità concrete che il riconoscimento del titolo apre per lo straniero.

4.3.1 Il contesto scaturente ed i requisiti necessari

Il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale è concesso in base ai commi 1º e 2º dell'articolo 18 a quegli stranieri (anche se entrati irregolarmente sul territorio nazionale) che a giudizio del questore (12) si trovino nella seguente condizione: situazione di violenza o grave sfruttamento, accertata in due possibili contesti diversi e connessa al perpetrarsi di alcuni gravi reati; situazione di pericolo concreto, grave ed attuale per l'incolumità dello straniero (e/o suoi familiari), frutto o del tentativo di sottrarsi ai condizionamenti di un'organizzazione criminale dedita ai suddetti gravi reati o di dichiarazioni rese al riguardo nel corso di un procedimento penale. Questi due elementi rappresentano i presupposti fondamentali (13); nel 2º comma si accenna al fatto che, nella proposta o parere del Procuratore della Repubblica dovrebbe essere valutato un ulteriore aspetto, ovvero, la "..rilevanza del contributo offerto dallo straniero per l'efficace contrasto dell'organizzazione criminale ovvero per l'individuazione o cattura dei responsabili dei delitti indicati nello stesso comma.[..]". E' abbastanza intuitivo però che, da quando si ritiene prevalente l'interpretazione più ampia e garantista dell'articolo 18, questo sia inquadrato come requisito secondario.

Tenendo presenti l'evoluzione tracciata delle possibili letture di questa misura e i differenti soggetti cui può essere rivolta, analizziamo separatamente questi aspetti.

Per quanto riguarda il primo presupposto essenziale (14), si deve notare innanzitutto come le due condotte della violenza e del grave sfruttamento possano sussistere alternativamente. La prima ricomprende una vasta gamma di azioni che sottendono forme diverse di coercizione, non necessariamente fisica; si può richiamare in questo caso, seppur a titolo esemplificativo, l'elenco delle modalità con cui è indotto e mantenuto lo stato di soggezione nella fattispecie di cui all'articolo 600 c.p. (peraltro costitutiva di una delle ipotesi del reato di tratta di cui all'articolo successivo). Lo sfruttamento (grave) è fenomeno ancora più variegato e da tempo all'attenzione delle organizzazioni internazionali e delle istituzioni comunitarie. (15) Genericamente, consiste nell'utilizzare le prestazioni fisiche o mentali di un soggetto al fine trarne profitto. Anche in questo caso sono richiamabili ai fini dell'illiceità i modi e i mezzi con cui è perpetrato lo stato di coercizione dell'articolo 600 c.p. (con la riforma del 2003 sono indicate espressamente alcune tipologie di prestazioni oggetto di questa fattispecie).

Il pericolo per l'incolumità dello straniero rappresenta l'elemento decisivo che deve essere valutato dalle autorità per il rilascio del titolo, ed è proprio la sua valorizzazione che ha rappresentato la chiave dell'affermazione di un'interpretazione più garantista della norma. Non è casuale che la maggioranza delle Circolari interpretative ministeriali nonché diverse pronunce giurisprudenziali si soffermino su questo punto. Il pericolo, originato dalle dichiarazioni rese dallo straniero o dalla sottrazione/tentativo di sottrazione dai condizionamenti dell'associazione criminale, è un pericolo di ritorsioni violente verso di sé ed i propri familiari soprattutto nel Paese d'origine. Deve trattarsi quindi di un pericolo concreto, grave ed attuale al momento della richiesta di protezione. Nella prassi si ritiene che, se il pericolo scaturisce dalle dichiarazioni rese dallo straniero in un procedimento penale esso è accertato in modo vincolante per il questore nel parere o nella proposta proveniente dal Procuratore della Repubblica. E' il Procuratore che deve evidenziare e trasmettere "..gli elementi da cui risulti la sussistenza delle condizioni ivi indicate..[..]" (2º comma articolo 18). Quando invece esso è collegato alla sottrazione o ai tentativi di sottrarsi, il questore gode di una più ampia discrezionalità di valutazione (16) e può essere coadiuvato in ciò dalle associazioni o dai servizi sociali coinvolti (articolo 27 comma 3º reg. att.).

Le situazioni descritte da questi requisiti centrali possono emergere in due occasioni distinte (17), precisate sempre dal 1º comma dell'articolo 18. In primo luogo, possono essere rilevate nel corso delle operazioni di polizia, di indagini o del procedimento penale avviato (perciò, è stata presentata formale denuncia) per alcune specifiche fattispecie di reato indicate. Oppure, possono emergere nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali (senza alcuna denuncia). I due modi non possono coesistere. La precisazione è importante, soprattutto se si guarda alla disciplina sulla formulazione della proposta per il permesso di soggiorno (articolo 27, comma 1º reg. att.). L'impulso al procedimento può provenire dai servizi sociali (o dalle associazioni di cui diremo), senza denunce, determinando l'avvio del cosiddetto percorso sociale (secondo caso); ovvero, dal Procuratore della Repubblica, nel caso in cui lo straniero si sia rivolto all'autorità giudiziaria, proseguendo così il procedimento secondo il percorso giudiziario (primo caso). In sintesi, le modalità di accesso alla misura di protezione condizionano lo svolgimento del percorso procedurale per il rilascio del titolo di soggiorno. Al di là degli aspetti tecnici, questa duplice possibilità di ingresso della vittima nei circuiti della protezione sociale è importante, specialmente se si considera la frequente difficoltà e/o diffidenza dello straniero (per giunta, irregolare) a rivolgersi alla polizia od alla magistratura. Se si aggiungono poi le pressioni o le violenze cui il soggetto può essere sottoposto dalla criminalità, si può ipotizzare che l'intervento assistenziale sia in determinati casi il modo più sicuro ed efficace per captarne l'adesione ed eventualmente ottenere un contributo alle indagini.

Prima di vedere gli altri presupposti, deve essere precisato quali siano i gravi reati cui l'articolo 18 si riferisce e quindi, quali siano le tipologie di stranieri assistibili (18). La disposizione fa espresso riferimento in proposito all'articolo 3 della legge n. 75 del 1958, che prevede lo sfruttamento e l'induzione alla prostituzione, fenomeno da sempre legato alla tratta di persone ed in generale ai flussi migratori (così come ad esempio la schiavitù o il traffico di organi). Si ritiene che anche gli altri reati connessi a questa fattispecie (ad esempio il favoreggiamento della prostituzione) rientrino nell'ambito dell'articolo 18, il quale perciò si rivolge potenzialmente a tutti gli stranieri comunque vittime dello sfruttamento sessuale. Sono citati anche i delitti di cui all'articolo 380 c.p.p. (arresto obbligatorio in flagranza), norma che permette di includere nella misura tutti gli stranieri vittime di forme gravi di sfruttamento lavorativo o in attività illecite, sfruttamento minorile ed accattonaggio. All'interno di questo secondo ambito devono ritenersi incluse anche le fattispecie di cui agli articoli 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù), 601 (tratta di persone) e 602 (acquisto o alienazione di schiavi) del c.p. Infatti l'articolo 13 della l. 228/03 stabiliva: "..qualora la persona vittima del reato di cui all'articolo 600 e 601 del codice penale sia persona straniera, restano comunque salve le disposizioni dell'articolo 18 D.lgs 286/98). [..]".

Affinché il questore possa procedere al rilascio di questo permesso di soggiorno per motivi umanitari devono sussistere anche alcune ulteriori condizioni (19) (articolo 27 comma 2º reg. att.). In particolare, è necessario che ci sia già un programma attivo a livello territoriale locale cui lo straniero possa accedere. Questo implica che il programma di assistenza ed integrazione sociale sia già stato elaborato e pianificato dai servizi sociali degli enti locali o da associazioni di privati autorizzate e convenzionate con l'ente locale di riferimento; che sia già stato approvato anche a livello finanziario dall'apposita commissione interministeriale in base all'articolo 25 del Regolamento (il comma 3º dell'articolo 18 rinvia al Regolamento attuativo per l'individuazione dei requisiti specifici "..per l'affidamento della realizzazione del programma a soggetti diversi da quelli istituzionalmente preposti ai servizi sociali dell'ente locale..[..]"). Sono richiesti poi il consenso informato, l'adesione consapevole dello straniero al programma e l'accettazione da parte del responsabile della struttura presso cui il programma deve essere attuato di quelli che sono i doveri e gli impegni che ne derivano (lettere c) e d), comma 2º dell'articolo 27). Alla lettera a) del comma 2º medesimo si precisa inoltre come anche il parere del Procuratore della Repubblica possa ricomprendersi fra le precondizioni del rilascio, laddove sia iniziato un procedimento penale per i fatti di cui al comma 1º dell'articolo 18 del Testo unico, ma il Procuratore abbia omesso di formulare la proposta o il contenuto di questa sia eccessivamente generico. Del resto, la discrezionalità complessivamente riconosciuta al questore nel procedimento consente di ritenere non decisivo questo tipo di problematiche.

4.3.2 La procedura di rilascio: il cosiddetto doppio binario

Nel paragrafo precedente, si è precisato come il procedimento amministrativo che termina con la concessione del permesso di soggiorno in questione allo straniero possa snodarsi in un duplice percorso, a seconda delle diverse modalità di rilevamento dei presupposti concreti (20). Punto di raccordo fra i due percorsi è la verifica della sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio dal Testo unico e dal Regolamento, cui solo il questore può attendere (21). E' il questore infatti che riceve le proposte per il rilascio provenienti alternativamente: dai servizi sociali degli enti locali o dalle associazioni convenzionate ed iscritte al registro di cui all'articolo 52, comma 1º, lettera c) reg. att. che abbiano riscontrato i fatti di violenza o grave sfruttamento (percorso sociale); o dal Procuratore della Repubblica, se vi è stata formale denuncia o comunque è in corso un procedimento penale per tali fatti (percorso giudiziario). Come si intuisce dal comma 2º dell'articolo 18, le proposte (cui deve essere equiparato il parere del Procuratore nel caso dell'articolo 27 comma 2º lettera a), ovvero quando la proposta sarebbe dovuta giungere dal Procuratore e non è pervenuta o è troppo generica) devono contenere gli elementi concreti, precisi, concordanti, fattuali che permettono al questore di ritenere sussistenti la violenza o il grave sfruttamento e la situazione di pericolo. Inoltre, sempre dagli elementi suddetti, potrà desumersi anche il contributo effettivamente portato dalla vittima alla giustizia e alle indagini, ovvero al contrasto dei reati indicati e/o all'individuazione e cattura dei responsabili.

Partendo da queste premesse, si può evidenziare subito come l'istruttoria che caratterizza il procedimento di rilascio del titolo di soggiorno per motivi di protezione sociale si connota per una certa complessità nel panorama dei permessi di soggiorno. E' l'articolo 27 del Regolamento che delinea la disciplina dei due percorsi, mentre dall'articolo 18 questa suddivisione non è chiaramente ravvisabile. In proposito, non è mai superfluo inoltre ricordare che la previsione di due distinti iter ed in particolare del cosiddetto percorso sociale, non rappresenta una costruzione legislativa. Essa non è individuata esplicitamente né dal T.U. né dal regolamento attuativo, ma costituisce il frutto di una faticosa e complessa elaborazione nella prassi delle questure, col supporto degli altri operatori giuridici e sociali coinvolti.

Il cosiddetto percorso giudiziario - comma 1º, lettera b) - presuppone la denuncia e quindi l'avvio di un procedimento penale relativamente a fatti rientranti nelle fattispecie legate alla prostituzione o nei gravi delitti di cui all'articolo 380 c.p.p. Formalmente, in questi casi la proposta deve provenire dal Procuratore della Repubblica competente sul procedimento penale, ovvero quello presso il Tribunale nella cui circoscrizione si è consumato il reato. Leggendo però il comma 1º dell'articolo 18 T.U., che consente al questore di rilasciare il permesso "..anche su proposta del Procuratore della Repubblica o con il parere favorevole della stessa autorità..[..]", e il già citato comma 2º lettera a) dell'articolo 27 reg. att., si rende possibile anche un iter parzialmente diverso. L'iniziativa può provenire anche dallo straniero interessato o dall'ente che gestisce il programma, i quali possono formulare la proposta. Tuttavia questa si presume incompleta, non sufficiente al rilascio e deve essere integrata dal parere conforme del Procuratore (che ha lo stesso contenuto della proposta). Lo stesso tipo di parere può essere richiesto dal questore se la proposta iniziale del Procuratore non contenga gli elementi necessari per desumere la attualità e la gravità del pericolo. La ratio di questo primo percorso è abbastanza intuitiva. Il Procuratore della Repubblica, quale titolare dell'azione penale relativamente ai procedimenti instaurati sui gravi reati che coinvolgono lo straniero, è il soggetto che dispone della maggiore quantità di informazioni riguardo alla situazione di pericolo ed ha anche la posizione idonea per valutarle correttamente. Come già precisato, si ritiene nella prassi che, quando il rischio per l'incolumità della vittima provenga dalle dichiarazioni rese dalla medesima nel contesto giudiziario, a maggior ragione il parere/proposta del Procuratore rivesta un notevole peso specifico (da cui il questore difficilmente può emanciparsi del tutto nel decidere il rilascio). Meno vincolante deve ritenersi invece la proposta/parere che abbia ad oggetto l'indicazione degli elementi da cui desumersi la gravità ed attualità del pericolo derivante dalla sottrazione dello straniero dalle influenze dell'organizzazione criminale.

L'autorità giudiziaria si esprime anche sull'opportunità, nel caso specifico, di attribuire o meno il permesso di soggiorno.

Un ultimo aspetto merita di essere sottolineato. Non vi è niente nella formulazione né nella terminologia utilizzata dall'articolo 27 che permetta in generale di ritenere vincolante l'atto del Procuratore. Il questore valuta autonomamente e discrezionalmente la sussistenza dei due requisiti generali e di quelli specifici, e solo sulla base di ciò rilascia o nega il titolo di soggiorno. Nel fare ciò, è vincolato soltanto ad attendere la proposta o a richiedere il parere prima di decidere, prendendo conoscenza del relativo contenuto. Quello del Procuratore della Repubblica si configura così come atto obbligatorio-non vincolante della procedura (22).

Il percorso sociale - lettera a) - diverge dal precedente sotto più profili. Innanzitutto, le situazioni di cui al comma 1º dell'articolo 18 sono accertate da organismi ed associazioni di carattere assistenziale nello svolgimento dei loro compiti in ambito sociale (vedi il paragrafo 4.3.4) per le distinzioni, le caratteristiche e i requisiti previsti per questi soggetti). Di conseguenza, la proposta per il rilascio del permesso, attestante la condizione di violenza o grave sfruttamento in cui è rinvenuto lo straniero, deve provenire dall'ente stesso che, eventualmente, si occuperà di portare avanti il programma di assistenza ed integrazione sociale. Nella fase iniziale del procedimento e dell'istruttoria non vi sono quindi denunce né giudizi penali in corso.

Il comma 3º dell'articolo 27 è poi piuttosto chiaro sulla prosecuzione dell'iter: "Quando la proposta è effettuata a norma del comma 1º, lettera a), il questore valuta la gravità ed attualità del pericolo anche sulla base degli elementi in essa contenuti.". In primis, leggendo il comma 2º lettera a) si ricava come il parere del Procuratore ivi previsto non si riferisca a questo tipo di percorso e non trovi pertanto applicazione. Se ne deduce che in questa ipotesi il questore valuta in via esclusiva ed autonoma tutti i presupposti per la concessione del titolo di soggiorno, comprese la concretezza, la gravità e l'attualità del pericolo per la persona della vittima (e dei suoi familiari) (23). Si tratta di una discrezionalità notevole che è lasciata nelle mani della autorità di pubblica sicurezza, soprattutto considerando che essa è esercitata avvalendosi praticamente soltanto degli elementi contenuti nella comunicazione dell'ente. Questa soluzione non ha mancato di far discutere. In particolare ci si chiede se la documentazione fornita dall'ente possa costituire, quantitativamente e qualitativamente, materiale sufficiente per svolgere un'istruttoria appropriata alla delicatezza della questione (l'incolumità di più individui può dipendere dalla decisione presa). Inoltre, osservando il comma 2º dell'articolo 18, alcune espressioni quali "Con la proposta o il parere di cui al comma 1º" o ancora "con particolare riferimento alla gravità ed attualità del pericolo" potrebbero essere viste come frutto di una visione del Testo unico a favore di un questore sempre affiancato dagli uffici della Procura per il compimento di almeno una parte delle sue valutazioni.

Ulteriore problematica che potrebbe delinearsi è: con quali strumenti il questore può comprovare l'attendibilità dei rilievi effettuati dagli enti e la correttezza della loro trasmissione? E ciò non va a costituire un aggravio eccessivo delle sue già numerose competenze (verifica peraltro resa necessaria dal mancato intervento prodromico dell'autorità giudiziaria)?

L'introduzione di un percorso sociale risponde ad un'esigenza precisa e da non sottovalutare: la possibilità di accedere alla misura di protezione sociale in modo pieno e senza la necessità di presentare denuncia formale, aggirando i circuiti giudiziari. La complessa situazione dello/a straniero/a, irregolare, vittima di sfruttamento sessuale o di altro tipo da parte di una criminalità strutturata e potenzialmente molto pericolosa, produce un forte effetto deterrente nei confronti dell'avvicinamento alle istituzioni della giustizia penalistica. Nonostante questo considerevole vantaggio, i dubbi interpretativi ed applicativi visti sopra hanno inibito il successo di questo canale di protezione. In primo luogo, le incertezze sulla idoneità della base valutativa costituita dalle comunicazioni dei servizi sociali/associazioni, le difficoltà a verificarne la veridicità, e, di conseguenza, gli incerti limiti alla discrezionalità del questore, hanno portato ad una scarsa applicazione sul territorio. Nuovamente, il Ministero dell'Interno ha cercato di superare questo ostacolo con una serie di circolari interpretative (24), che però sembrano soltanto ribadire la validità del percorso sociale senza affrontare il merito delle questioni sorte.

Non si deve in ogni caso trascurare un aspetto. La proposta proveniente dai servizi sociali viene trasmessa agli uffici della Questura. Essa evidentemente contiene una notizia di reato (in questi casi, spesso per delitti procedibili d'ufficio); l'incaricato che riceve e tratta la comunicazione sarà, al di là della qualifica specifica, un membro della Polizia di Stato (agente od ufficiale di polizia giudiziaria), e come tale penalmente obbligato ad inoltrare gli atti alla Procura competente. Ciò può determinare l'apertura delle indagini e, se come sovente accade, i tempi per il rilascio del permesso sono parecchio lunghi, l'avvio di un procedimento (in cui la vittima è persona offesa) in un momento antecedente alla conclusione del procedimento amministrativo.

4.3.3 Rinnovo, conversione e revoca (25)

L'articolo 18 comma 4º del Testo unico stabilisce che il permesso di soggiorno in esame ha una durata iniziale di sei mesi, ed è rinnovabile. Il rinnovo è concesso dal questore per un anno o per un periodo superiore, legittimato però da non ben precisati "motivi di giustizia"; in particolare, non si capisce se si tratti di un espressione che richiama la tutela dei diritti e delle libertà essenziali dello straniero o se si tratti di esigenze attinenti all'ambito giudiziario (in qual caso, sul rinnovo dovrebbe esprimersi anche il Procuratore?).

Il comma 5º aggiunge un'eventualità: se alla scadenza del permesso l'interessato ha un rapporto di lavoro corrente, il titolo di soggiorno potrà essere ulteriormente prolungato in base alla durata del rapporto suddetto. Nel caso in cui si tratti di lavoro a tempo indeterminato si dovrà procedere allo stesso modo, compatibilmente con le ragioni e le possibilità connesse a questo tipo di soggiorno (anche in questo caso si utilizza una formula di chiusura piuttosto elastica, che non indica criteri guida o particolari limiti per la valutazione del questore).

Complessivamente, si ricava da queste due norme che non c'è un tetto massimo prestabilito per il numero di rinnovi del permesso di soggiorno per esigenze di protezione sociale: l'autorità incaricata ha una certa libertà di modellare la durata alle necessità del caso specifico.

Circa le ipotesi di conversione, l'ultima parte del comma 5º riconosce allo straniero la possibilità di tramutare il permesso per motivi umanitari in permesso per motivi di studio, ma ad una condizione: quella di essere già iscritto ad un regolare corso di studi. La disciplina deve essere integrata richiamando anche la previsione dell'articolo 27 del Regolamento attuativo, che al comma 3 bis (introdotto dall'articolo 21 del D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334) descrive un particolare meccanismo di conversione. Non solo, si stabilisce che il permesso in esame può essere convertito in un permesso di soggiorno per lavoro (a patto che siano integrati i requisiti e rispettate le procedure proprie di quest'ultimo).

Il legislatore del 2004 stabilisce una sorta di prelazione per gli stranieri che hanno ottenuto la conversione, attuata in concreto mediante una decurtazione delle quote d'ingresso stabilite nei decreti (cosiddetti decreti flussi) per l'anno successivo, in misura pari al numero di permessi ex articolo 18 divenuti permessi di soggiorno per motivi di lavoro.

Né il Testo unico né il Regolamento contengono norme riguardo alla conversione 'finale' di questo tipo di permesso umanitario. Con questa espressione si fa riferimento al momento in cui si è esaurito il periodo previsto in conseguenza del rilascio del titolo di soggiorno (comprensivo di eventuali rinnovi) e la vittima non è più parte dei programmi di assistenza ed integrazione. Da questa mancanza di previsioni specifiche, unita alla lettera dei commi 5º (articolo 18) e 3º bis (articolo 27) ed alla facoltà concessa ai possessori del permesso di svolgere attività lavorativa, si può trarre la conclusione che la conversione non è atto dovuto. Inoltre, mancando nuovamente criteri più puntuali, tale attività esigerà una attenta valutazione delle circostanze concrete da parte della Autorità di pubblica sicurezza.

Infine, sempre il comma 4º dell'articolo 18 disciplina la revoca del permesso, in stretta connessione con la programmazione attuata. Le situazioni che originano la revoca sono di due tipi: interruzione del programma; condotta dell'interessato incompatibile con le finalità del medesimo. In linea con questa impostazione, si prevede che le infrazioni possano essere accertate e segnalate dal questore, dal Procuratore della Repubblica, ma ovviamente, anche dall'ente/associazione incaricato nei limiti dei suoi compiti di sorveglianza. La norma termina con una clausola aperta, la quale legittima la revoca del titolo "..quando vengano meno le altre condizioni che ne hanno giustificato il rilascio.": ad esempio, si può ipotizzare la sopravvenuta carenza dei requisiti di cui alle lettere c) e d), comma 2º dell'articolo 27 del Regolamento.

E' discussa la questione della automaticità o meno della revoca. Ovvero ci si chiede se, al verificarsi di una della circostanze di cui sopra, consegua immediatamente un provvedimento di revoca o se, ancora una volta, vi sia spazio per valutazioni discrezionali del questore sulla situazione concreta. La soluzione normativamente indicata parrebbe essere la prima; alcune pronunce giurisprudenziali (26) hanno introdotto elementi che dovrebbero essere considerati nella decisione del questore: ciò implicherebbe un bilanciamento e quindi la preferenza per una procedura che eviti eccessivi automatismi. Tali aspetti, quali l'accertamento dell'inserimento sociale dello straniero o la possibilità di accedere ad un diverso programma, testimonierebbero la scelta di una revoca non automatica, in quanto inappropriata in circostanze delicate come quelle dell'articolo 18 del Testo unico.

4.3.4 Le caratteristiche del permesso e la centralità dei programmi: l'obiettivo di un'integrazione ad ampio respiro

Il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ".. consente l'accesso ai servizi assistenziali e allo studio, nonché l'iscrizione nelle liste di collocamento e lo svolgimento di lavoro subordinato, fatti salvi i requisiti minimi di età [..]." (comma 5º dell'articolo 18). Le previsioni in tema di durata e conversione del titolo sono modellate su queste ampie possibilità, nel tentativo di valorizzare gli strumenti che permettono allo straniero di inserirsi nella società di arrivo. Come precisato nel paragrafo sopra, per una parte almeno della giurisprudenza questo inserimento ha una sua precisa importanza pratica, che dovrebbe influire sulle decisioni più importanti del questore in materia.

Il meccanismo di tutela ed integrazione dello straniero ha però come suo fulcro l'adesione e la partecipazione attiva dello stesso ad uno specifico programma, con determinate caratteristiche, e già attivo sul territorio. Si rammenti che, l'obiettivo è fornire protezione ed assistenza non solo a chi è già fuoriuscito dalla condizione di sfruttamento, ma anche a chi ancora debba effettivamente distaccarsi da un simile contesto (27).

Leggendo il 1º comma dell'articolo 18, si ha l'impressione che il rilascio del permesso di soggiorno costituisca pre-condizione per un valido accesso ai programmi; l'impostazione corretta è invece quella dell'articolo 27 del Regolamento attuativo, il quale indica come presupposti imprescindibili della decisione positiva del questore il programma (conforme agli articoli 25 e seguenti), il consenso informato dello straniero e l'accettazione di un responsabile della struttura incaricata. Operata questa precisazione, conviene partire da quelli che sono i soggetti (28) chiamati a predisporre, gestire e sorvegliare i percorsi di inserimento. Dal comma 3º dell'articolo 18 si ricava che, regola generale sia affidarne la realizzazione ai servizi sociali degli enti locali, rimettendo al Regolamento il compito di stabilire se e in che termini possano essere coinvolti altre tipologie di associazioni. In questa fase, possono perciò essere incluse a vario titolo tre categorie di soggetti: enti locali, servizi sociali ad essi direttamente afferenti e associazioni, enti od altri organismi privati in possesso di requisiti tassativamente previsti dalla legge. A questo quadro si deve aggiungere la presenza di una Commissione interministeriale, di recente istituita, con numerose ed importanti funzioni in quest'ambito.

La disposizione del comma 3º è attuata dall'articolo 26 del Regolamento, il quale prevede nei suoi quattro commi rispettivamente: i requisiti generali che i soggetti privati devono presentare per poter svolgere "..attività di assistenza ed integrazione sociale per le finalità di cui all'articolo 18..[..]"; i rapporti con gli enti locali di riferimento; i doveri che derivano dall'ammissione alla gestione di un programma. Partendo dal primo aspetto, è necessario che la suddetta organizzazione possa dimostrare: l'iscrizione nel registro di cui all'articolo 42, comma 2º del Testo unico, a norma degli articoli 52 e seguenti del Regolamento; una specifica convenzione con l'ente locale interessato. Pur essendo entrambi requisiti fondamentali, dalla struttura dei commi 2º ("L'ente locale stipula la convenzione..") e 4º ("I soggetti privati convenzionati...sono tenuti a:..") l'iscrizione pare pre-condizione alla concessione della facoltà generale (nonché condizione necessaria per ottenere il contributo previsto dal Fondo nazionale per l'integrazione ex articolo 45 T.U., articolo 52 comma 2º); la convenzione, momento perfezionativo degli obblighi e facoltà previsti.

L'articolo 42 T.U., significativamente intitolato "Misure di integrazione sociale", introduce una serie di progetti più o meno ampi, ispirati dall'idea di rendere possibile un'integrazione effettiva dei migranti e per combattere le discriminazioni cui spesso sono soggetti. Nell'affidare il perseguimento di queste finalità alle istituzioni pubbliche di vario grado e ai privati, il comma 2º introduce un Registro (nazionale) delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati. Esso è suddiviso, in base all'articolo 52 (reg. att.) in due sezioni, di cui la seconda appositamente dedicata ad "..associazioni, enti ed altri organismi privati abilitati alla realizzazione dei programmi di assistenza ed integrazione sociale degli stranieri di cui all'articolo 18 del testo unico." (disposizione frutto della riforma del 2004). Al comma successivo si introducono alcune cause di inammissibilità all'iscrizione. L'articolo 53 (reg. att.) descrive in modo dettagliato le condizioni necessarie per l'iscrizione al Registro. La disposizione si apre con un 1º comma che elenca i requisiti generali richiesti a qualsiasi ente che voglia partecipare o promuovere iniziative che in qualsiasi modo favoriscano l'integrazione degli stranieri, sul modello dell'articolo 42 T.U. (prima sezione). In particolare si indicano:

  • un atto costitutivo od uno statuto ed una forma giuridica ispirati a chiari principi democratici e senza fini di lucro;
  • un obbligo di bilancio o di rendiconto dei beni;
  • sede legale in Italia;
  • esperienza almeno biennale nel settore della integrazione e in quello della mediazione interculturale.

Il previgente comma 5º prevedeva inoltre, quale condizione per l'iscrizione nella seconda sezione del Registro, che i richiedenti avessero esperienza sul campo nelle attività di sostegno ed assistenza nei confronti delle vittime di tratta, prostituzione, violenza e grave sfruttamento (soprattutto donne e bambini). Con la modifica del 2004 questo comma è abrogato, e il comma 7º modificato nel senso di non prevedere più questo elemento. Più precisamente, già dal 17 gennaio 2000, le associazioni di privati senza esperienza specifica erano legittimate all'iscrizione piena: esse dovevano soltanto presentare i requisiti espressi nel Regolamento in aggiunta ad un rapporto di partenariato con un ente iscritto nella seconda sezione. Il comma 2º contiene la documentazione generica necessaria all'iscrizione nel Registro; il comma 6º quella specifica per la seconda sezione. Al di là dell'elenco, questa ultima disposizione prevede che le organizzazioni interessate devono disporre di personale preparato e competente e di strutture adatte alla realizzazione dei programmi di assistenza ed integrazione sociale; si richiede una descrizione puntuale dei programmi medesimi, i quali devono essere "differenti" e "personalizzati"; si impone la tutela dei dati personali secondo le normative vigenti.

In ultimo, il seguente articolo 54 rappresenta una disposizione procedurale. Si dispone che l'iscrizione alla sola (per la riforma del 2004) seconda sezione del Registro avvenga per decreto ministeriale su parere dell'apposita Commissione incaricata sull'articolo 18 T.U.. Sempre il Ministero del lavoro e delle politiche sociali cura l'aggiornamento annuale del Registro, utilizzando a tal fine le relazioni periodiche inviate dagli organismi od associazioni privati; esso ha inoltre un vago potere di sorveglianza sugli iscritti, che può condurre però ad una cancellazione dal Registro in caso di "..rilevazione di comportamenti non compatibili con le finalità..[..]".

Il secondo requisito fondamentale che l'articolo 26 (commi 2º, 3º e 4º) del Regolamento disciplina è la convenzione che i privati interessati ad occuparsi di assistenza ed integrazione sociale devono concludere con l'ente locale (o gli enti locali) che si occupano di tali problematiche nel territorio considerato. La stipulazione è preceduta da una verifica svolta dall'ente stesso ed avente ad oggetto tre elementi:

  • l'iscrizione al Registro (nei casi e nei modi sopra indicati, ovvero il primo requisito);
  • la conformità dei programmi da realizzare a criteri e principi che devono essere indicati in base ad uno specifico Decreto ministeriale previsto dall'articolo 25, comma 3º, lettera c) (norma che ha portato all'emanazione del Decreto interministeriale 23 novembre 1999);
  • i requisiti professionali, organizzativi e logistici occorrenti alla gestione dei programmi e al perseguimento delle relative finalità.

L'ente locale è comunque titolare di un potere di vigilanza sull'organizzazione privata, che si traduce in verifiche semestrali aventi ad oggetto la gestione dei programmi e lo stato di avanzamento degli obiettivi perseguiti. Tale potere implica anche la possibilità di apportare modifiche concordate ai piani di assistenza ed integrazione.

Seppure non immediatamente desumibile dalla norma, nella prassi tale potere di sorveglianza si ritiene esteso anche ai doveri extra-programmatici, che gravano sui privati interessati proprio in forza della convenzione. Fra questi, elencati nell'ultimo comma dell'articolo 26, devono rammentarsi:

  • le comunicazioni da rivolgere al sindaco del luogo riguardo ad inizio, partecipazione dello straniero al programma e sua eventuale interruzione (richieste anche dall'articolo 18 al 2º comma);
  • gli adempimenti di carattere amministrativo indicati dal Testo unico (anche per conto degli stranieri a ciò impossibilitati);
  • le relazioni periodiche agli enti competenti.

Per poter analizzare le tipologie e le modalità di finanziamento dei programmi di assistenza ed integrazione sociale, si deve concludere l'esposizione dei soggetti coinvolti, introducendo la Commissione interministeriale per l'attuazione dell'articolo 18 del Testo unico (29). Tale commissione è prevista dal comma 2º dell'articolo 25 del Regolamento, il quale la istituisce presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e ne descrive la composizione. Questo organismo ha un serie di competenze riconducibili a quella generale di pianificazione, gestione e controllo relativamente alle risorse necessarie all'attuazione dei programmi. I suoi compiti principali sono - lettere da a) a d) -:

  • rilasciare pareri sulle richieste di iscrizione nella seconda sezione del Registro dell'articolo 52 presentate dai soggetti interessati;
  • esprimere pareri o proposte sui progetti di convenzione ex articolo 26 fra gli enti locali e i privati che intendono occuparsi dei programmi;
  • prescegliere i programmi di assistenza ed integrazione 'meritevoli', e quindi da finanziare, sulla base di criteri indicati in un decreto ministeriale (il Decreto interministeriale 23 novembre 1999, citato anche dall'articolo 26, comma 2º, lettera b, sopra visto) (30);
  • verificare stato di attuazione ed efficacia dei programmi, avvalendosi anche della relazioni semestrali inviate dagli enti locali interessati (frutto a loro volta, dei rapporti intrattenuti con enti ed associazioni di cui all'articolo 26 reg. att. che svolgono i programmi).

Con il d.P.R. 14 maggio 2007 n. 102, articolo 1, si modifica il nome della Commissione in: "Commissione interministeriale per il sostegno alle vittime di tratta, violenza e grave sfruttamento".

Svolte queste premesse, può essere meglio contestualizzato l'articolo 25 del Regolamento attuativo, norma che affida la realizzazione dei programmi ai soggetti ivi indicati, specificando le modalità di finanziamento (31) dei medesimi. I programmi di assistenza ed integrazione sociale dell'articolo 18 del Testo unico sono finanziati: dallo Stato, nella misura del 70%, attingendo alle risorse assegnate al Dipartimento per le pari opportunità ex articolo 58, 2º comma; dall'ente locale territorialmente interessato, nella misura del rimanente 30%, a valere sulle risorse relative all'assistenza. Il contributo statale è disposto dal Ministro per le pari opportunità, previa la importante valutazione della Commissione interministeriale.

Il Decreto del Ministro per le pari opportunità del 23 novembre del 1999 (pubblicato in G.U. n. 291, serie gen., del mese successivo) disciplina le modalità concrete di presentazione delle domande di coloro che intendono svolgere attività di assistenza ed integrazione in favore dei migranti vittime di certe dinamiche delittuose. Come indicato nella norma regolamentare dell'articolo 26, i privati che si accingono a predisporre e realizzare programmi per queste finalità sono soggetti ad una serie di verifiche preventive da parte dell'ente locale. Fra queste, è incluso un controllo di conformità dei programmi ad alcuni criteri e procedure da fissarsi, per l'appunto, tramite decreto ministeriale.

Sulla base di tali principi, il Decreto del 1999 ammette al finanziamento pubblico due tipologie di programmi (32): azioni di sistema e programmi di protezione sociale.

Le azioni di sistema sono progetti a carattere nazionale, presentabili perciò solamente da soggetti pubblici; per essi è previsto un tetto massimo del 25% relativamente alla percentuale annua di risorse disponibili indirizzate verso questi tipi di programmi. Rientrano in questa prima tipologia: interventi volti all'informazione e campagne di sensibilizzazione; indagini e ricerche sulla consistenza e l'andamento del fenomeno; interventi volti alla formazione di funzionari ed operatori pubblici e privati, che svolgono compiti attinenti alla prevenzione o alla repressione del fenomeno del traffico di persone, nonché alle diverse forme di assistenza alle vittime; interventi volti alla attivazione, aggiornamento e gestione di reti informative tra le istituzioni, alla interconnessione ed al coordinamento dei progetti di contrasto del fenomeno, nonché alla generalizzazione delle buone pratiche; promozione e sviluppo si iniziative di cooperazione con i Paesi di origine del fenomeno o con i Paesi interessati dal flusso del traffico; sperimentazione di progetti pilota finalizzati alla messa a punto di modelli di intervento innovativo su specifiche tipologie di soggetti vittime del traffico; attività di monitoraggio e di verifica dell'efficacia dei programmi di assistenza ed integrazione sociale.

I programmi di protezione sociale possono essere presentati da tutti gli enti pubblici locali costituzionalmente previsti oppure da soggetti privati convenzionati con essi ed iscritti nell'apposito Registro dell'articolo 42 T.U. Questo tipo di progetti è rivolto in particolare agli stranieri che intendano sottrarsi alla violenza e allo sfruttamento perpetrati dalle organizzazioni criminali dedite ai gravi reati di cui all'articolo 18. L'obiettivo è quello di delineare per queste vittime percorsi specifici di protezione ed assistenza, eventualmente anche concedendo lo speciale permesso di soggiorno in esame. La presentazione dei progetti deve essere corredata da una serie di elementi. Innanzitutto, vi deve essere una relazione esplicativa concernente la tipologia e la natura del programma di protezione sociale: devono essere indicati gli obiettivi da raggiungere sul territorio, i tempi di realizzazione e le fasi in cui si articola il progetto, la localizzazione dell'intervento, le metodologie utilizzate, la tipologia di azioni previste (lavoro di strada, accoglienza, inserimento socio-lavorativo ecc.), i destinatari dell'intervento (numero, tipologia, provenienza), la rete dei soggetti pubblici e privati coinvolti e le modalità di collegamento fra i diversi attori, le risorse umane coinvolte e le loro caratteristiche e qualifiche, le strutture occorrenti (compresi immobili ed attrezzature), le diverse voci di costo suddivise analiticamente per genere e provenienza, la partecipazione dell'ente locale al finanziamento nella misura prestabilita e le eventuali fonti di co-finanziamento presenti. In secondo luogo, si fa menzione ad un'analisi costi/benefici da rapportarsi a quelli che sono gli obiettivi perseguiti, allegata dal soggetto proponente al programma di protezione sociale e incentrata su una serie di parametri (ad esempio, numero di persone assistibili o destinatarie, effetto moltiplicatore, trasferibilità dei risultati, promozione delle 'buone pratiche'). Infine, è necessaria una scheda contenete tutte le informazioni e dati relativi a natura e caratteristiche del soggetto proponente, e, se diverso, del soggetto attuatore, indicandosi le esperienze maturate sul campo da entrambi (è una sorta di curriculum dell'associazione, organismo od ente che sia).

La Commissione dispone di un termine di 90 giorni per concludere la valutazione dei progetti (decorrenti dalla scadenza del termine per la presentazione degli stessi). Nello svolgere le verifiche, essa si avvale di griglie tecniche di attribuzione di punteggio organizzate sulla base di priorità indicate dal Dipartimento per le pari opportunità nonché attraverso una serie ulteriore di indicatori e parametri stabiliti dal Decreto.

In conclusione, si può notare che il legislatore ha inteso disegnare una disciplina dei programmi di assistenza ed integrazione sociale piuttosto articolata e complessa. Il Testo unico e soprattutto il Regolamento attuativo e il Decreto del 1999 individuano minuziosamente i caratteri e gli adempimenti relativi ai soggetti diversi che a vario titolo influiscono (direttamente o indirettamente) sul procedimento amministrativo per il rilascio, ed in particolare sulla fase successiva. Ed è proprio alla fase attuativa, quando ormai sono acquisiti il consenso e la partecipazione dello straniero al programma e il permesso di soggiorno è rilasciato, che sembrano rivolte molte di queste disposizioni. L'attenzione meticolosa verso certi requisiti di formazione ed esperienza sul campo degli operatori cui è affidata la gestione dei progetti, la funzione di vigilanza degli enti per prevenire qualsiasi tipo di abuso, la precisione con cui il Decreto descrive i programmi e l'enfasi da esso posta sulla sensibilizzazione ed informazione della società civile su questi temi, testimoniano quello che è l'intento reale di queste misure, almeno sulla carta. Non solo, la concessione di una protezione, effettiva ed accessibile, della incolumità e dei diritti fondamentali di soggetti doppiamente a rischio (e dei loro cari): in quanto immigrati ed irregolarmente presenti sul territorio ed in quanto vittime gravi forme di delinquenza strettamente connesse alla loro condizione precaria. Ma anche, la pianificazione di possibili percorsi di inserimento linguistico, formativo, culturale, lavorativo, sociale realizzabili in tempi non brevissimi e con la volontà in tal senso dell'interessato.

4.3.5 Un caso particolare: il comma 6º

Il comma 6º (33) dell'articolo 18 rappresenta una norma speciale ed aggiuntiva rispetto alle precedenti. Essa riconosce la possibilità di concedere il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale a quei particolari stranieri che abbiano commesso reati di un certo tipo durante la minore età, ma per i quali abbiano già espiato la pena detentiva inflitta.

A primo impatto, la concessione di un permesso per motivi umanitari allo straniero che abbia infranto la legge e sia perciò noto alle forze dell'ordine e al sistema giudiziario dalla minore età, può lasciare perplessi. Tuttavia la prassi interpretativa, nell'articolazione dei requisiti, nella disciplina giuridica e nella considerazione sociologica di queste ipotesi, si dimostra abbastanza attenta e ponderata.

Il soggetto destinatario deve aver commesso un delitto punibile con pena detentiva e ciò, necessariamente quando era minorenne; deve effettivamente essere stato condannato in modo definitivo alla pena detentiva prevista ed averla espiata interamente. Inoltre, se davvero il comma 6º è considerabile come norma speciale e aggiuntiva, esso deve essere inteso come rivolto non solo alla specifica categoria di stranieri ivi espressamente indicata, ma a tutti coloro che rientrano nell'ambito applicativo dell'articolo 18 (a prescindere dall'età in cui è commesso il reato). In ogni caso, si ritengono non ostativi per il rilascio del titolo ex comma 6º: il conseguimento della maggiore età da parte dell'interessato (durante il periodo di detenzione) e il possesso di altra tipologia di titolo di soggiorno precedentemente rilasciato.

La norma sembra richiedere tre presupposti generali per concedere la misura:

  • l'iniziativa deve essere promossa in un preciso momento temporale, individuato nella dimissione dall'istituto di pena;
  • deve essere conclusa la fase esecutiva della pena di carattere detentivo;
  • lo straniero, durante la fase dell'esecuzione penale, deve aver dato "prova concreta" di partecipazione ad un programma di assistenza ed integrazione sociale.

Relativamente al procedimento, il legislatore ha voluto riproporre implicitamente la possibilità di un doppio binario ("Il permesso...può essere altresì rilasciato...anche su proposta..[..]", comma 6º). La proposta può perciò provenire: dai servizi sociali degli enti locali o da enti/associazione autorizzati secondo le norme regolamentari; oppure dall'autorità giudiziaria, in questo caso costituita dal Procuratore della Repubblica o dal giudice di sorveglianza presso il Tribunale dei minori. Quanto al primo caso, si deve notare come i servizi sociali pubblici coinvolti potrebbero essere rispettivamente il C.S.S.A. per i maggiorenni e l'U.S.S.M. per i minorenni, ovvero enti istituzionalmente preposti alla gestione e cura del periodo di transizione del detenuto dall'istituto penitenziario all'inserimento socio-lavorativo. Della seconda modalità di iniziativa, spicca l'intervento del giudice di sorveglianza presso il Tribunale dei minori, che deve la sua competenza ed alcune prerogative peculiari ad una serie di norme che trovano applicazione quando lo straniero è minore di anni 21.

Competente per la verifica della sussistenza dei requisiti e per il rilascio del permesso di soggiorno resta esclusivamente il questore, il quale deve accertare tutti gli elementi previsti dalla legge sulla condizione dell'interessato e gli aspetti procedurali. E' richiesta una situazione iniziale di violenza o grave sfruttamento e di pericolo per l'incolumità della vittima, ma con la notevole differenza dal comma 1º che in questo caso è supposta come esistente a livello normativo (non è quindi accertata dall'autorità di pubblica sicurezza, per le ragioni di cui si dirà). Si deve poi ritenere che la Questura non sia tenuta, in questa ipotesi, ad addentrarsi nel merito di valutazioni eccessivamente approfondite per la sua posizione nel procedimento: ad esempio, la "prova concreta della partecipazione" dello straniero al programma (già in fase di esecuzione della pena) dovrà essere desunta dagli elementi contenuti nella proposta dei servizi, limitandosi ad assicurare la veridicità dei fatti. Non può imporsi al questore di dimostrare un'intima e durevole adesione in base ai comportamenti del soggetto.

Per quanto riguarda caratteristiche, contenuti, realizzazione dei programmi e durata, rinnovi, conversione e revoca del permesso di soggiorno in questione, sono applicabili le disposizioni precedenti sul permesso per ragioni di protezione sociale 'ordinario'(i due titoli si distinguono quindi essenzialmente solo per i presupposti concreti).

L'attuazione del comma 6º dell'articolo 18 ha generato diversi problemi pratici, descrivibili soltanto tenendo presente la ratio della previsione. L'intento teorico della norma è tutelare l'interesse e l'incolumità di un soggetto ancora più esposto di quello considerato nei commi precedenti, in ragione della sua minore età. Il modo per realizzare questo rafforzamento di garanzie è facilitare ulteriormente l'accesso alle misure di protezione sociale. Questa impostazione si traduce concretamente nel fatto che, i requisiti fondamentali per il rilascio del titolo, ovvero violenza/grave sfruttamento e pericolo attuale, non sono puntualmente accertati dalla Questura, ma sono presunti. In sostanza si ritiene implicito che, il minore straniero che delinque può essere non pienamente in grado di discernere il disvalore delle sue azioni, sia a livello di sviluppo psico/fisico che a livello culturale. Ma soprattutto, si presume (e si tratta di presunzioni di tipo assoluto) che egli abbia commesso il reato a causa di forme di pressione e coercizione fisica e/o psicologica, minacce o inganno che non può distinguere, in quanto minore e in quanto le stesse talvolta originatesi nel suo ambiente familiare, culturale, relazionale (anche in connessione con il contesto di provenienza). Se si aggiunge l'eventuale coinvolgimento della vittima in una organizzazione criminale strutturata si può intuire come, anche in presenza di una qualche capacità di discernimento della medesima, essa potrebbe non avere alcuno stimolo positivo ad opporsi o a tentare di segnalare la sua situazione. Per questo i due strumenti della denuncia o del rilievo dei servizi sociali sono spesso del tutto insufficienti in questi casi, considerando anche gli ulteriori effetti desocializzanti della detenzione (34).

Riassumendo, per rendere effettivamente possibile la prosecuzione del programma di assistenza ed integrazione sociale da parte dello straniero (cui ha già aderito e partecipato) e per facilitare l'emersione e il miglioramento della sua condizione (anche tramite la concessione del permesso per motivi umanitari), si operano due ordini di presunzioni: si presume che il minore abbia commesso il reato in quanto indotto a ciò da violenza o forme di sfruttamento subite all'epoca; si presume un contesto di pericolo per il minore o per la sua famiglia che va oltre le sue capacità di comprensione ed oltre i suoi mezzi per neutralizzarlo/aggirarlo. Come detto, sono presunzioni assolute, essendo impensabile che l'autorità di pubblica sicurezza, le forze dell'ordine ma anche gli enti assistenziali pubblici e privati siano in grado di rilevare e descrivere caso per caso simili ipotesi.

D'altro canto, il legislatore ha voluto cautelarsi anche da eventuali abusi dello strumento. In particolare, fungono da contrappesi a questa interpretazione garantista:

  • la necessità di una proposta proveniente da un'autorità giudiziaria, dai servizi sociali o da enti accreditati in base all'articolo 27 del Regolamento;
  • il consenso dell'interessato ad essere coinvolto nel programma e la prova concreta della avvenuta partecipazione al medesimo durante l'espiazione della pena.

Una delle prime questioni sorge proprio sulla specificazione che il comma 6º fa, cioè quella relativa ad una "pena detentiva". Si è precisato innanzi, che si deve riscontrare una condanna definitiva dello straniero, potendosi così escludere dalla fattispecie il novero delle misure cautelari. Per il significato di tale espressione si deve guardare all'articolo 18 del Codice penale, che vi include tutte le sanzioni fortemente restrittive e limitative della libertà personale, a carattere non pecuniario. Quindi, i reati implicitamente considerati nel comma 6º, presuppongono condotte di una certa rilevanza nonché particolarmente gravi da parte del minore. Nulla è invece precisato sulle modalità esecutive della stessa. Seguendo un'interpretazione letterale della norma, si potrebbe concludere per la non estendibilità delle favorevoli previsioni del comma 6º a coloro che abbiano beneficiato di pene alternative o sostitutive alla detenzione. Ciò genererebbe situazioni paradossali, come il caso di due stranieri che si trovino nelle medesime condizioni descritte dalla norma, salvo che per il fatto di aver commesso fattispecie di reato che contemplano pene detentive quantitativamente molto diverse. L'assurdità di una lettura di questo tipo risiede nella circostanza che essa va a privilegiare il rilascio in favore del reo su cui grava la sanzione più elevata, escludendo irragionevolmente l'altro sulla base di una mera questione di diritto. Deve ritenersi pertanto che, una lettura improntata al ritenere la detenzione carceraria quale presupposto applicativo della norma in questione sia insostenibile, in quanto contraria: alla ratio della norma stessa, ai principi costituzionali in materia di pena (articolo 27 della Costituzione), al principio di uguaglianza (articolo 3 della Costituzione), agli istituti penalistici delle sanzioni alternative e di quelle sostitutive e loro finalità e infine alla norma dell'articolo 18 c.p.

Non vi è invece univocità di visioni su uno degli elementi oggettivi che definiscono la condizione dello straniero al momento del rilascio del permesso di soggiorno. Le difficoltà sorgono laddove il comma 6º stabilisce che il titolo sia concesso "all'atto delle dimissioni dall'istituto di pena" a chi "ha terminato" l'espiazione di una pena detentiva. La norma di per sé, non impone la coincidenza fra i due momenti della dimissione e del fine pena, ma è il primo che deve ritenersi decisivo per il rilascio (che può avvenire solo quando il soggetto è fuori definitivamente dall'istituto penitenziario). Detto questo, restano due letture ipotizzabili. Se si opta per un'interpretazione più rigida, è necessario che il destinatario (anche se dimesso dall'istituto) abbia terminato del tutto di scontare la sua condanna (a prescindere dalle forme concrete con cui essa si svolge). Prima di questo momento è legittimato ad accedere e prendere parte al programma di assistenza ed integrazione sociale, ma la regolarizzazione completa potrà perfezionarsi solo col fine pena. In un'ottica più garantista, è stato sostenuto invece che il permesso in esame è rilasciabile, letteralmente, quando è conclusa la (sola) pena detentiva. Il che non esclude che vi sia una parte residuale di pena da scontarsi in diverso modo e soprattutto al di fuori dell'istituto penitenziario (ad esempio, quando è concessa una misura alternativa). Entrambe le interpretazioni sono considerate valide nella prassi.

Da ultimo, pare esserci un ulteriore elemento che mina la realizzabilità in concreto del comma 6º. Esistono diverse disposizioni regolamentari e del Testo unico volte a differenziare il permesso per motivi umanitari dalle altre tipologie e a specificare il contenuto dei programmi in modo da renderli quanto più possibili efficaci ma anche personalizzati ed adattabili a individui diversi. In questo tipo di situazioni, data la delicatezza del contesto e la peculiarità dei destinatari, sarebbe forse necessaria una specificazione ulteriore dei contenuti dei progetti. Tale precisazione dovrebbe venire per via legislativa, ma tentando di coinvolgere anche, in fase di elaborazione, soggetti dotati di competenze mirate in materia, come il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria e il Dipartimento della Giustizia minorile presso il ministero della giustizia.

4.3.6 Valutazioni circa l'impatto della disciplina dell'articolo 18 e problematiche connesse

Si può adesso vedere in che rapporto stia il permesso di soggiorno dell'articolo 18 T.U. con la disciplina degli allontanamenti, anche leggendo in retrospettiva alcune norme introdotte con la legge 15 luglio 2009, n. 94 in materia di sicurezza pubblica (35). Partendo proprio da quest'ultimo intervento, i problemi maggiori potevano sorgere dalla previsione della discussa figura del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (articolo 10 bis T.U.). Questa fattispecie, dal forte impatto politico e mediatico, non ha praticamente trovato applicazione ed è stata di recente oggetto di accesi dibattiti parlamentari circa la possibilità di una sua abolizione (36). Inizialmente però, essa era apparsa di difficile armonizzazione con l'articolo 18, visto che essa andava a colpire proprio quelle tipologie di stranieri extracomunitari che quest'ultima norma intendeva proteggere. Ovvero, soggetti vittime di tratta o di forme di grave sfruttamento che fanno ingresso irregolarmente sul territorio (senza documenti né altro) e, pertanto, irregolarmente vi si trattengono senza prospettive di riconoscimento. In ogni caso, l'ostacolo per queste categorie di persone era facilmente aggirabile in via interpretativa. L'articolo 10 bis puniva infatti coloro che soggiornavano sul territorio dello Stato "in violazione delle disposizioni del testo unico": tuttavia, era proprio una di queste disposizioni (l'articolo 18) che prevedeva e motivava una deroga al riguardo, pertanto qui il reato non era configurabile.

In sintesi, nella disciplina attuale del permesso di soggiorno per motivi di protezione ed integrazione si ritiene implicitamente che, a prescindere dalla procedura di rilascio seguita, l'autorità preposta non possa esimersi da questo tipo di valutazione. Quindi, se lo straniero che rientra nell'ambito applicativo dell'articolo 18, è anche destinatario di un provvedimento di espulsione, esso potrà rivolgere al Prefetto un'istanza per la sospensione o la revoca dell'espulsione medesima (37). Fa eccezione, come negli altri casi di allontanamento, l'espulsione amministrativa ministeriale per ragioni di tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza dello stato.

Nel complesso, dalle relazioni degli enti e delle associazioni impegnate nella lotta alla tratta e ai connessi fenomeni di sfruttamento e dai resoconti della Commissione interministeriale sull'articolo 18, emerge una discreta efficacia concreta del sistema della progettazione volta alla prima assistenza e all'inserimento sociale. In particolare, si sottolinea come i programmi rivolti a certe tipologie di situazioni in costante aumento di diffusione (soprattutto prostituzione) sono presenti e funzionanti su buona parte del territorio. Viene anche posto in evidenza come, nonostante sia ormai acquisita una certa omogeneità interpretativa ed applicativa dell'articolo 18 e disposizioni connesse (grazie al coordinamento fra i soggetti coinvolti, incluse forze dell'ordine, associazioni e società civile), persistano una serie di questioni procedurali e giuridiche che ostacolano seriamente la realizzabilità pratica dei programmi.

In primo luogo, uno dei maggiori problemi, da più parti segnalato, è rappresentato dalla lentezza e dai ritardi, i quali comportano il frapporsi di un considerevole lasso di tempo fra la proposta ed il rilascio del titolo di soggiorno. Si è visto come, l'accesso ai programmi di assistenza e a quelli di integrazione sociale in un momento antecedente al perfezionarsi del rilascio non è fatto oggetto di espresso divieto, ma anzi, in alcune circostanze, suggerito o addirittura imposto dal legislatore. Tuttavia, un eccessivo dilatarsi dei tempi, mal si concilia con le complesse situazioni su cui il permesso interviene e con le peculiari finalità umanitarie che gli sono proprie. Da questo punto di vista, il Ministero dell'Interno (38), ha cercato di portare alla luce il tema, invitando gli uffici della Questura e il suo personale a sondare la possibilità di creare un "canale prioritario e riservato di trattazione".

Un ulteriore aspetto, che emerge anche dall'analisi della disciplina procedimentale specifica del Testo unico e del Regolamento attuativo, riguarda l'accertamento e la valutazione dei presupposti richiesti. In particolare per questa seconda competenza, è stata segnalata una discrezionalità eccessiva del questore (39) nel valutare gli elementi prodromici al rilascio, ma anche al rinnovo ed alla revoca del permesso. Inoltre, il dovere per il servizio sociale dell'ente locale di sorvegliare lo straniero e riportare al questore l'interruzione del programma o condotte incompatibili con esso, pare delineare un perimetro attorno ai movimenti e ai comportamenti dell'interessato, posto in una posizione di soggezione verso queste autorità.

Infine, ha fatto di recente discutere la facoltà, espressamente prevista per questo tipo di permesso per motivi umanitari, di svolgere lavoro subordinato (40), anche con riguardo al particolare meccanismo di conversione in permesso di lavoro (previsto con la riforma del 2004 dal Regolamento attuativo). Non è contestata la possibilità di svolgere attività lavorativa in sé, quanto il fatto che: prevedendo una simile disciplina in questi casi, a fronte di un'attuale legislazione nazionale restrittiva sui flussi d'ingresso per motivi di lavoro, potrebbero originarsi utilizzi distorti o fraudolenti della misura.

Nel complesso, da questi elementi si possono desumere due considerazioni generali sull'attuazione della disciplina descritta: in primis, la tratta degli esseri umani, dal punto di vista del singolo ordinamento nazionale, è difficilmente affrontabile senza una proficua collaborazione fra istituzioni di vario livello e natura, mondo dell'associazionismo e società civile. Misure di protezione sociale come il permesso per motivi umanitari non possono essere lette prescindendo da ciò; ed esso, nella sua formulazione nel T.U. e nelle norme regolamentari, di questo è macchinosamente consapevole (41).

In secondo luogo, altra condizione per il successo di questo tipo di interventi è che si diffonda quanto più è possibile tra le questure una prassi interpretativa ed applicativa uniforme (soprattutto sui requisiti preliminari) (42). Con l'articolo 18, la tutela della incolumità dello straniero ed eventualmente dei suoi familiari è nelle mani delle Questure, senza appelli, ricorsi o forme di controllo 'gerarchico'. Pur essendo titolo di soggiorno speciale ed a rilascio obbligatorio (ovviamente in presenza dei presupposti indicati dalla legge), in assenza del riconoscimento della protezione internazionale connessa allo status di rifugiato (43), non è costituzionalmente tollerabile che l'ottenimento di suddetta tutela sia condizionato dalla prassi della questura 'di approdo'. Del resto, è proprio questo che le numerose circolari del Ministero vogliono evitare, per non vanificare nel concreto l'efficacia delle misure in materia di diritti fondamentali dello straniero.

4.3.7 La concreta attuazione dell'articolo 18: alcuni risultati e riscontri pratici

E' opportuno concludere l'esposizione con alcuni dati, tratti principalmente dalla relazione tecnica (44) già precedentemente citata, per rendere il senso di quello che si è detto su questo tipo di permesso di soggiorno e le sue difficoltà attuative.

Nel periodo dal 2000 al 2007, il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità ha bandito 8 Avvisi (tutti pubblicati in Gazzetta Ufficiale) riguardanti la possibilità di presentare i progetti previsti dall'articolo 18 del D.lgs 286/98. I programmi di protezione sociale che ha co-finanziato a livello nazionale sono stati 448, diversamente distribuiti a livello numerico fra le Regioni. Il Dipartimento ha calcolato (avvalendosi soprattutto delle relazioni finali redatte da enti ed organismi che hanno collaborato ai progetti) che, all'incirca nel medesimo periodo, hanno beneficiato di prima assistenza (ad esempio, accompagnamenti assistiti presso centri sanitari oppure consulenza legale o psicologica) più di 45.000 persone. Di queste, 1 su 4 ha dato la propria adesione ed ha effettivamente partecipato a programmi vari, ma pochi sono stati invece i minori di anni 18. Gli stranieri che hanno beneficiato di corsi di formazione professionale, scolastica o hanno ottenuto borse di lavoro sono stati 8.326, un numero più consistente rispetto a quello dei soggetti effettivamente inseriti in un circuito occupazionale normale (circa 5.500). I numeri non sono del tutto insoddisfacenti, considerando il bassissimo grado di scolarizzazione o di conoscenze tecnico-professionali di cui di solito dispongono coloro che sono strappati a questo tipo di contesti criminali (spesso giovani donne, già da tempo avviate alla prostituzione o provenienti da realtà ancora piuttosto arretrate rispetto alla considerazione del lavoro e dell'istruzione femminile). Inoltre, non si devono trascurare le enormi difficoltà fronteggiate nel reperire aziende disposte ad investire risorse e tempo in questo tipo di interventi: difficoltà burocratiche, finanziarie, culturali, istituzionali, legislative. E di certo la crisi economica ed occupazionale che si allargano a macchia d'olio non favoriscono una ripresa di questo ramo del mercato del lavoro (nonostante ci siano stati tentativi anche recenti di adeguare il diritto del lavoro a queste situazioni).

Un ultimo dato pare certificare questa fase di rallentamento dei risultati. Fino al 2004, la percentuale espressiva del rapporto permessi (ex articolo 18) concessi/permessi (ex articolo 18) richiesti ha mostrato tassi di crescita costanti; dal 2004 si è avuta un'inversione di tendenza, con l'avvio di una fase di leggera flessione al ribasso di tale indicatore.

La gestione e l'organizzazione sul territorio delle iniziative volte a garantire l'assistenza e tutela alle persone vittime dei traffici di esseri umani e/o sfruttate, implicano, come già ricordato, la collaborazione di diversi soggetti. A conclusione dei percorsi procedurali indicati dall'articolo 18, l'attività concreta di programmazione volta alla protezione ed integrazione sociale, può svilupparsi in modo proficuo solo se sopravvive quella rete di interazioni sinergiche che già rileva dall'accertamento dei presupposti indicati dalla legge. In primo luogo, sono dunque le associazioni private che attuano i programmi, anche cooperando reciprocamente, a rivestire un ruolo primario. Il questore d'altro canto, mantiene un potere di sorveglianza e revoca della misura durante la fase dello svolgimento dei progetti. Mentre il compito degli enti pubblici sostanzialmente si esaurisce nella concessione dei finanziamenti e, talvolta, nella promozione e sostegno di iniziative congiunte con le associazioni che lavorano sul campo (45).

Fra i diversi punti di vista adottabili per osservare gli effetti e la rilevanza pratica della disciplina descritta (il punto di vista delle questure o delle prefetture, degli enti pubblici interessati, della magistratura che si occupa di questo tipo di reati, del mondo dell'associazionismo, della società civile), si è scelto di soffermarsi brevemente su alcuni aspetti che emergono dal lavoro e dall'esperienza degli enti ed organismi privati che si occupano di tutela delle vittime di tratta e di grave sfruttamento. Ciò per diverse ragioni (46).

Tali associazioni operano in collegamento costante con le amministrazioni interessate ed anche con le questure. Solitamente la loro azione è suddivisa in una o più 'macro aree di intervento', facenti riferimento a specifiche problematiche. Le iniziative ed i programmi seguiti da ciascun organismo sono perciò suddivisibili in base alle persone a cui si rivolgono (principalmente donne e minori); oppure per tipologia di vittime (vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale o a scopo lavorativo, vittime di altre forme di sfruttamento o di violenze); od ancora, si ricorrerà ad una combinazione di entrambi i criteri (minori non accompagnati vittime di tratta, donne sessualmente sfruttate in una certa zona), o alle diverse modalità di intervento assistenziale perseguite (spesso concordate nei modi, nei tempi e nei costi tramite apposite convenzioni con gli enti locali di riferimento).

Secondariamente, è piuttosto ampio ed articolato anche il quadro delle misure e delle iniziative specifiche offerte agli stranieri. Esse riguardano: la prima accoglienza e l'assistenza di base (legale, sanitaria, linguistica, ecc.); varie forme di supporto per le esigenze di vita; la protezione e la sicurezza dei soggetti e dei loro cari; la riduzione di danni fisici e/o psicologici subiti ed un'ulteriore serie di obiettivi in linea con i contenuti previsti dalla disciplina legislativa dell'articolo 18.

Non si deve poi scordare che frequentemente l'associazione prende in carico la vittima o potenziale tale direttamente in questura, assistendola anche nei diversi percorsi che permettono a quest'ultima di veder legalmente riconosciuta la propria condizione (potendo così conseguire un titolo di soggiorno o altre forme di protezione).

Questi pochi elementi sono comunque sufficienti per comprendere perché le organizzazioni di cui si sta discutendo godano di una posizione privilegiata da cui poter osservare, non solo i fenomeni della tratta e dello sfruttamento 'in azione' nel contesto sociale e territoriale italiano, ma anche, pregi e difetti degli strumenti concretamente messi in campo dal legislatore. Quindi, le numerose esperienze dislocate a livello regionale, provinciale, comunale costituiscono dunque una preziosa fonte di informazioni e dati più significativi sulla reale consistenza, la natura e l'evoluzione di questi crimini. Allo stesso tempo però, esse consentono di raccogliere valutazioni mirate sul funzionamento delle misure di protezione sociale come l'articolo 18 del T.U.I.

E' stato rilevato, ad esempio, che nella pratica il "percorso sociale" ed il "percorso giudiziario" tendono a sovrapporsi e ad identificarsi in ragione di un certo modus operandi delle questure (47). Dall'articolo 18 del d.lgs. 286/98 e dagli articoli 27 e ss. del d.P.R. 394/99 (regolamento attuativo) sono ricavati nella prassi due iter ben distinti, in particolare rispetto ai requisiti richiesti per accedere all'uno o all'altro percorso per l'ottenimento dello speciale permesso. La denuncia formale dei fatti da parte delle vittime alle autorità competenti è necessaria se si procede per via giudiziaria, mentre non è prevista nel caso che l'iniziativa provenga dai servizi sociali. Accade tuttavia che "anche quando c'è l'interesse esplicito, da parte di un'associazione accreditata, a promuovere un percorso sociale, nella gran parte dei casi tale percorso non si realizza con questi presupposti. Per quanto non ci sia obbligo di denuncia da parte della persona lesa, la Questura chiede comunque un'audizione" (48). Dunque, in tali ipotesi le questure non si limitano a richiedere una formale relazione di presa in carico all'associazione coinvolta, ma riterranno di dover ottenere un colloquio nei proprio uffici con lo straniero, finalizzato ad ottenere dallo stesso una dichiarazione scritta. La differenza fra una formale denuncia e una raccolta di informazioni (anche finalizzate ad orientare le indagini) esiste nella teoria e nei riflessi pratici, ma difficilmente in questa situazione la vittima riuscirà percepirla come tale.

Un ulteriore terreno di confronto, tanto sul piano del diritto che su quello della prassi, fra le organizzazioni che si occupano di assistenza e sostegno agli stranieri oggetto di trafficking e le autorità pubbliche interessate, riguarda i cosiddetti indicatori della tratta (49). Complessivamente, le difficoltà in quest'ambito derivano dalla corretta individuazione e 'classificazione' delle vittime e della loro situazione, in modo da essere in grado di indirizzarle verso il tipo di protezione più idonea. L'identificazione delle vittime di tratta (specialmente se si abbia a che fare con presunti minori) e la predisposizione di apposite procedure e meccanismi efficaci affidate a personale formato e qualificato è un tema risalente. Di esso si trovano solo alcune tracce nei primi atti comunitari (nella decisione quadro 2002/629/GAI e nella direttiva 2004/81/CE), mentre è maggiormente valorizzato dalla Convenzione di Varsavia del 2005 (che lo inserisce all'interno del capitolo dedicato alle "misure di protezione e di promozione dei diritti delle vittime"). Il comma 4º dell'articolo 11 della direttiva 2011/36/UE invita gli Stati membri ad adottare le disposizioni necessarie a predisporre "adeguati meccanismi di rapida identificazione"; tuttavia, si è anche visto come il legislatore italiano, con la riforma del 2014, abbia recepito solamente alcuni generici obblighi formativi (articolo 7 del d.lgs. n. 24/14). Il quadro complessivo circa questi indicatori e sugli strumenti connessi, è perciò costituito da molte incertezze e pochi strumenti e regole concrete, quantomeno per l'ordinamento italiano. Il che, conduce inevitabilmente ad un irrigidimento delle prassi applicative da parte delle istituzioni e degli enti coinvolti. Ha suscitato, ad esempio, numerose perplessità da parte degli operatori sul campo, l'individuazione dei soggetti legittimati ad accedere alla tutela di cui all'articolo 18 secondo parametri eccessivamente stretti. E' considerato incoerente con le finalità proprie di questi interventi ritenere quali vittime solo coloro che tassativamente si trovino nelle condizioni di gravità (violenza, sfruttamento), urgenza e stato di pericolo (concreto ed attuale) richieste dalla norma. Una lettura di questo tipo inoltre, rischia di escludere a priori dall'ambito applicativo della misura tutta una serie di situazioni non immediatamente considerate dalle disposizioni legislative e regolamentari, ma altrettanto gravi. Basti pensare al caso delle vittima di tratta avviata alla prostituzione senza l'uso della coercizione (fisica e non). Si parla in questo caso di prostituzione negoziata, in quanto basata su un "patto di reciproco interesse" fra la donna e il suo sfruttatore. Siamo qui sempre in presenza di uno sfruttamento della persona, la quale può trovarsi in uno stato di notevole assoggettamento e debolezza. Tuttavia, per una serie di fattori diversi, essa non è in grado di identificarsi come vittima e quindi di percepire a fondo la propria situazione: di conseguenza, è molto improbabile che presenti denuncia contro i propri sfruttatori, a meno che non si modifichino inaspettatamente le circostanze iniziali (ad es., la donna rimane incinta e non vuole abortire). L'evidenza empirica portata a sostegno di queste ricostruzioni da parte delle associazioni che si occupano di prostituzione straniera risiede nel fatto che, mentre sono registrati diversi processi per sfruttamento della prostituzione, sono molto scarsi (se non, del tutto assenti in alcune zone) i processi per tratta (sempre nell'ambito dello sfruttamento sessuale). Ciò dimostra le difficoltà di emersione di queste peculiari situazioni, soprattutto nei primi periodi di soggiorno nel Paese di destinazione.

Al fine di favorire il riconoscimento del maggior numero possibile di vittime di tratta, a prescindere dagli specifici mezzi con cui esse sono legate alle reti della criminalità e, di conseguenza, per intervenire in modo non discriminatorio e consono a tali esigenze, sarebbero auspicabili due innovazioni. In primis, sarebbe opportuna la diffusione di una prassi applicativa più elastica delle misure di protezione sociale, meno rigidamente vincolata alla presenza di certi elementi. Tale modifica, a sua volta presuppone la possibilità di svolgere indagini più approfondite sulla condizione dello straniero e sui requisiti d'accesso. A questo proposito, sarebbe necessaria l'introduzione di meccanismi identificativi chiari e semplici, con contestuale specificazione ed arricchimento degli obblighi formativi del personale interessato.

Per concludere, meritano un accenno due ulteriori tematiche, sviluppabili anch'esse dalle rilevazioni sulle pratiche di protezione sociale (50). Circa i rapporti fra tratta ed asilo politico, è riscontrata negli ultimi anni una crescente presenza di profughi richiedenti asilo. La tendenza che emerge è quella di tentare in primo luogo la strada della domanda d'asilo e di rivolgersi, in un secondo momento, alle associazioni ed enti anti-tratta in caso di diniego. Questa deriva sarebbe frutto sia di una difettosa cooperazione fra forze dell'ordine, soggetti preposti a decidere sulle richieste d'asilo e soggetti che intervengono nella procedura di concessione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari. Ma anche, è secondo alcuni ravvisabile una precisa volontà politica recente, tesa ad interpretare in senso restrittivo gli strumenti di tutela ed integrazione sociale sul modello dell'articolo 18 del T.U.I. Il rischio, è che di questa impostazione possano risentire negativamente anche i meccanismi di rilascio dell'asilo politico, subendo così una progressiva svalutazione al pari di quello che sta accadendo per il permesso per motivi di protezione sociale.

Un altro aspetto non sufficientemente valorizzato nella prassi è la tutela del diritto alla salute dei migranti irregolari e delle vittime di tratta. Il Testo Unico sull'immigrazione descrive in modo piuttosto articolato la disciplina sull'assistenza sanitaria ai cittadini stranieri soggiornanti sul territorio nazionale, distinguendo fra diverse categorie di beneficiari (Titolo V, Capo I, articoli 34, 35 e 36). Il trattamento dello straniero in materia deve essere ispirato al principio di parità di condizioni con il cittadino italiano e al principio di non discriminazione, quantomeno sotto due profili fondamentali: l'accesso a strutture sanitarie non può comportare alcun tipo di segnalazione, salvo i casi di obbligatorietà del referto; le spese sanitarie devono essere calcolate proporzionalmente alle prestazioni erogate, secondo i criteri ordinari. I problemi in quest'ambito sono legati, in alcuni casi, ad un'interpretazione volutamente distorta delle norme interne e del diritto comunitario, la quale legittimerebbe la pratica di fornire esclusivamente le cure urgenti. La possibilità di aprire ad altri tipi di assistenza sanitaria (comprese le cure continuative) è resa difficoltosa dalla mancanza di uniformità (anche all'interno di una stessa regione), sia nell'applicazione delle direttive sulle cure per gli stranieri irregolari, sia riguardo alle modalità di accesso alle cure stesse.

4.4 Osservazioni conclusive. Articolo 18 del T.U.I. e direttiva 2011/36/UE: possibili interazioni al fine di promuovere una tutela 'ibrida' e più approfondita

Occorre a questo punto fare un bilancio del percorso fin qui tracciato, tentando al contempo di ricavarne alcuni spunti conclusivi ed eventuali prospettive future.

I fenomeni della tratta degli esseri umani, della schiavitù, della servitù e del commercio di schiavi vengono da lontano nella storia e tuttavia le prime forme di attenzione concreta da parte degli ordinamenti giuridici sono databili verso la fine dell'Ottocento. I documenti ed accordi dell'epoca concernono principalmente lo schiavismo, considerandosi la tratta come una manifestazione connessa e secondaria, una dinamica implicita nel concetto stesso di schiavitù. La progressiva abolizione di quest'ultima ha mostrato invece con chiarezza l'autonomia e le peculiarità delle vicende di tratta di persone, oltre ad una crescente diffusione di questo tipo di criminalità. La maggior parte dei codici penali europei della prima metà del Novecento (fra i quali, il nostro Codice Rocco del 1930) riconoscono, seppure spesso in termini deficitari, un'apposita fattispecie dedicata ai reati in questione. Il trend evolutivo e di crescente diffusione a livello globale della tratta prosegue nel secondo dopoguerra, quando si inizia ad osservare l'eterogeneità delle condotte che possono confluire in questo reato. Gli strumenti giuridici e repressivi a livello nazionale si rivelano spesso inefficaci di fronte ad un fenomeno complesso, dal frequente carattere transnazionale, poco conosciuto e le cui dinamiche mutano in continuazione (quasi di pari passo con gli ordinamenti).

La svolta che conduce a quello che è l'approccio attualmente seguito circa la repressione e prevenzione della tratta a livello internazionale, europeo e comunitario, nazionale è individuabile nella ormai nota Convenzione di Palermo del 2000 sulla criminalità organizzata. In particolare, in uno dei Protocolli Addizionali si introduce la distinzione fondamentale fra trafficking in human beings (tratta degli esseri umani) e smuggling of migrants (favoreggiamento dell'immigrazione illegale). Sono così convenzionalmente adottate chiare ed articolate definizioni di queste fattispecie, che andranno ad influenzare tutti gli interventi successivi (compresi quelli in ambito europeo).

A partire da questi documenti, ed ancor più con la Convenzione di Varsavia del 2005, si delinea un ulteriore profilo di rilevanza della tratta: la tutela delle vittime. Ciò è frutto, in parte, di un leggero affinamento delle conoscenze circa la gravità delle condizioni in cui solitamente versano i soggetti trafficati. La causa principale è tuttavia da ricercarsi in una maggiore attenzione degli ordinamenti per la tutela dei diritti umani fondamentali, i quali risultano profondamente lesi dalla tratta. L'enfasi posta sulla recente e progressiva affermazione, tanto nel diritto internazionale quanto a livello di principi costituzionali nazionali, di diritti inviolabili della persona, ha reso impossibile chiudere gli occhi di fronte alle intollerabili violazioni cui sono sottoposte le numerose persone oggetto di tratta a scopo di sfruttamento.

Tale retorica è densa di significati anche per il contesto comunitario, a maggior ragione in seguito all'elaborazione della Carta di Nizza del 2000 sui diritti fondamentali nell'Unione e dopo l'espresso riconoscimento della applicabilità delle norme della CEDU. I primi interventi in materia di tratta risalgono alla seconda metà degli anni Novanta e seguono essenzialmente due linee guida generali: empowerment e sviluppo degli strumenti repressivi e preventivi; protezione delle vittime, con particolare attenzione a quelle rientranti nelle categorie cosiddette particolarmente vulnerabili. Tale percorso ha condotto, non senza inciampi (ci si riferisce soprattutto alla direttiva 2004/81/CE, il meccanismo di natura premiale che essa introduce e la conseguente difficile armonizzazione con la normativa attuale), all'emanazione della direttiva 2011/36/UE. Tale intervento costituisce, almeno sulla carta, uno strumento completo volto ad indirizzare gli Stati membri nel contrasto alla tratta degli esseri umani e nella tutela delle vittime e dei loro diritti essenziali.

Per quello che riguarda il nostro ordinamento giuridico, è stata messa in evidenza una certa discontinuità ed una mancanza di organicità del sistema anti-tratta. I principali accordi internazionali e gli atti comunitari sono stati recepiti spesso tardivamente ed in modo incompleto (come, ad esempio, è avvenuto per il Protocollo di Palermo, per la Convenzione di Varsavia o anche per la direttiva 2011/36/UE), oppure non sono stati recepiti affatto (decisione quadro 2002/629/GAI, direttiva 2004/81/CE). Le norme del codice penale in tema di repressione e prevenzione della tratta, della schiavitù/servitù e del commercio di schiavi hanno subito alcune modifiche rispetto alle fattispecie originariamente previste. Si è cercato in questo modo di riformulare disposizioni eccessivamente generiche ed arretrate, scarsamente considerate dagli operatori e finite per tali ragioni nell'oblio dal punto di vista applicativo. Nonostante i miglioramenti apportati, in particolar modo con la riforma del 2003, l'articolo 601 si mostrava comunque un passo indietro rispetto alle norme sovranazionali ed all'evoluzione del fenomeno del trafficking. Soltanto con il d.lgs. 24 del 2014 si introduce finalmente una congrua definizione di tratta, predisponendo una fattispecie quantomeno in linea con le indicazioni comunitarie.

Il legislatore poi, con un certo anticipo rispetto agli sviluppi disciplinari sovranazionali in tema di tutela delle vittime, ha previsto all'articolo 18 del d.lgs. n. 286 del 1998 (Testo Unico in materia di immigrazione e condizione dello straniero) un elaborato meccanismo che tutt'oggi spicca in ambito europeo. Esso rappresenta un tentativo ben congegnato (almeno negli intenti) di mediare fra l'esigenza della giustizia di perseguire un certo tipo di grave criminalità e la necessità, divenuta ormai primaria, di assistere gli stranieri. Ciò dovrebbe realizzarsi in vari modi. Innanzitutto, con il coinvolgimento, fin dalle fasi iniziali di ricerca e scoperta delle situazioni di disagio e sfruttamento, dei servizi sociali e delle associazioni accreditate che intendono svolgere attività di sostegno in questo campo. In secondo luogo, attraverso la previsione di un percorso di carattere sociale che consente di accedere alle misure protettive senza dover passare prima dai circuiti giudiziari. Ha questo stesso obiettivo la concessione alla vittima di tratta e/o grave sfruttamento di un titolo di soggiorno speciale, per fini umanitari, ma che sottende anche la possibilità di accedere al mercato del lavoro e quindi potenzialmente, di integrarsi in modo definitivo.

D'altro canto, sono stati portati alla luce quelli che sono i limiti di questa costruzione. Parte delle responsabilità sono attribuibili al legislatore, il quale non è più intervenuto in modo significativo né sulla normativa generale pro victimae, né sull'articolo 18 per circa quindici anni. Dopodiché, si è forse tentato di mascherare il sostanziale insuccesso dell'altra iniziativa in argomento (di cui agli articoli 12 e 13 della legge 228/03), con l'introduzione di una dubbia disposizione-ponte fra i due tipi di intervento (prevista all'articolo 8 del d.lgs. 24/14). Nel vuoto legislativo, hanno poi attecchito altre problematiche, più orientate verso l'ambito attuativo delle norme e solo in parte arginate da una serie di Circolari Ministeriali. Le difformità di prassi sviluppatesi fra le Questure sul rilascio del permesso per motivi di protezione sociale e la tacita priorità soventemente riconosciuta alle esigenze del sistema giudiziario hanno determinato uno svuotamento del significato di questo meccanismo e la sua progressiva dismissione sotto il profilo applicativo.

A queste riflessioni deve poi aggiungersi che, la ricezione delle misure a garanzia dei soggetti trafficati previste dalla direttiva europea n. 36 del 2011 tramite il d.lgs. 24/14, non può sicuramente dirsi soddisfacente. Alle 7 articolate disposizioni previste dall'atto europeo fanno riscontro due vaghi articoli in materia di obblighi formativi e di accoglienza dei minori non accompagnati oggetto di tratta. Viene così a porsi un quesito. Visto e considerato che, la tutela delle vittime attraverso il meccanismo previsto dall'articolo 18 del T.U.I. presenta tutti gli elementi necessari per divenire lo strumento di punta del sistema italiano anti-tratta, e ritenendosi, quale lacuna primaria ed attuale di tale sistema, la mancanza di un effettivo e funzionale apparato di protezione, viene da chiedersi se non sarebbe opportuno inserire le innovazioni comunitarie (non recepite dal decreto) nell'ambito della disciplina dell'articolo 18. In questo modo, sarebbe oltretutto operato un tentativo concreto di rivalutare tale misura. Il punto da cui partire, volendo ipotizzare la struttura di una riforma di questo tipo, potrebbero essere proprio i programmi cui la vittima ha il diritto di accedere non appena è riconosciuta la sua situazione (51). Si è visto come essi siano suddivisi in azioni di sistema e programmi di protezione sociale. Le azioni di sistema hanno rilevanza nazionale e ricomprendono una serie di progetti rivolti all'informazione ed alla sensibilizzazione della società civile, al monitoraggio del fenomeno ed alla formazione del personale e degli operatori. La loro utilità in questo caso specifico è comunque limitata. Di maggiore interesse sono invece i programmi di protezione sociale. Essi possono essere presentati anche dagli enti pubblici locali e persino da soggetti privati convenzionati, caratterizzandosi dunque per un maggiore radicamento su una certa realtà territoriale (il che potrebbe avere un suo peso nell'eventuale vicenda di integrazione dello straniero). Questi progetti, rivolti in primis alle vittime più vulnerabili, ma più in generale, a qualsiasi vittima che voglia sottrarsi ai condizionamenti degli autori dei reati, sono mirati a creare percorsi di assistenza e sostegno mirati, che possono culminare nel rilascio di un titolo di soggiorno. Tuttavia, i contenuti di questi programmi e le misure concrete in cui dovrebbero sostanziarsi non sono indicati in modo approfondito dalla legge. Inoltre, né il Testo Unico, né il regolamento attuativo disciplinano le modalità con cui dovrebbero svolgersi i contatti fra le vittime di tratta e gli operatori (pubblici o privati che siano) ed i primi interventi. Occorre allora chiedersi da quali norme si potrebbe attingere al fine di riempire di significato pratico questa soluzione.

Per quello che riguarda gli orientamenti generali, sarebbe opportuno richiamare espressamente, anche nel teso dell'articolo 18 stesso, due importanti principi contenuti nella direttiva n. 36/11. In senso più generico, posto che l'obiettivo è quello di far si che la vittima di tratta sia posta in condizione di esercitare almeno i suoi diritti fondamentali, dovrebbe essere ribadito con forza che l'assistenza di base ed il sostegno dovrebbero essere garantiti prima, durante e dopo gli eventuali procedimenti, e dunque, a prescindere da essi. Subordinare la concessione di determinate garanzie, quali la concessione di permessi di soggiorno di varia natura, alla collaborazione della vittima è sicuramente scelta discutibile, ma deve essere tenuta distinta dalle misure assistenziali immediate e/o urgenti: queste non dovrebbero mai ammettere termini né condizioni (quantomeno in presenza di difficoltà in ambito sanitario, linguistico, giuridico..) (52). In secondo luogo, ai fini dell'alleggerimento della pressione sui soggetti lesi che intendano collaborare e per evitare una 'vittimizzazione secondaria' degli stessi, sarebbe opportuno riconoscere loro una qualche forma di esenzione dalla responsabilità penale e dalle sanzioni previste, in caso di attività criminali "che siano stati costretti a compiere come conseguenza diretta dell'essere oggetto di tratta" (53).

L'assistenza ed il sostegno dovrebbero essere garantiti, in linea col diritto comunitario, su base consensuale ed informata e, nei limiti del possibile, tenendo conto delle esigenze specifiche delle singole vittime (54). L'informativa allo straniero rappresenta il punto più delicato di questo discorso e forse anche quello maggiormente valorizzabile nell'ottica di un intervento legislativo. Facendosi riferimento al momento immediatamente successivo a quello in cui, tramite le operazioni di polizia o i sevizi sociali, sia stata rilevata la situazione di violenza e grave sfruttamento ai danni dello straniero, potrebbe essere ampliata la nozione di 'informativa. Ovvero, potrebbe essere previsto già in questa fase un "accesso senza indugio" (55), da parte del soggetto che ne faccia richiesta, alla consulenza legale ed alla assistenza legale (eventualmente, gratuite se il soggetto non disponga di risorse finanziarie). Ciò presuppone che tale soggetto sia tempestivamente informato di un simile sbocco. L'opportunità di ricevere assistenza e/o consulenza legale, a prescindere dalla sussistenza di uno specifico procedimento penale o di una domanda di risarcimento, andrebbe così ad aggiungersi ai servizi linguistici ed agli altri strumenti extra-procedimentali indicati dall'articolo 11 della direttiva (specialmente ai paragrafi 1º, 5º e 6º). Impostando in questo modo i primi contatti con la vittima, essa dovrebbe effettivamente disporre di un certo quantitativo di elementi e dati (giuridici e non), e dunque, di una situazione complessivamente più favorevole per prendere una decisione in merito alla possibilità di collaborare (nonché, sul tipo di percorso riabilitativo da poter intraprendere). Inoltre, dal miglioramento della conoscenza e della conoscibilità delle dinamiche tipiche dei percorsi sociale e giudiziario, potrebbe scaturire un positivo effetto di rivalutazione in senso applicativo dell'articolo 18 T.U.I.

Un secondo tipo di integrazione disciplinare che potrebbe essere effettuato con l'obiettivo di assicurare la protezione delle vittime di tratta e dei loro diritti ex articolo 18 riguarda il cosiddetto 'periodo di riflessione'. Una delle prime e più significative disposizioni su questo strumento è rappresentata dall'articolo 6 della direttiva 2004/81/CE, la quale, tuttavia, lo inquadra in un'ottica decisamente premiale. Inoltre, è opportunamente precisato come esso non attribuisca in alcun modo un diritto di soggiorno (il che, discutibile o meno che sia, andrebbe contro la ratio con cui è introdotta la misura dal legislatore comunitario). In ogni caso, il periodo di riflessione presenta anche degli indiscutibili vantaggi, soprattutto nel caso dello straniero irregolarmente presente sul territorio (circostanza piuttosto frequente nei casi di tratta). Infatti, durante il decorso del termine concesso dalle autorità (e revocabile dalle stesse), la vittima ha il diritto di accedere alle misure di assistenza e sostegno previste all'uopo e non può essere eseguito alcun tipo di allontanamento nei suoi confronti. Non pare possibile superare la natura premiale di questa soluzione, ma, anche alla luce del mancato recepimento della direttiva 81 da parte del legislatore, potrebbe comunque dare risultati apprezzabili un suo aggancio alla fase iniziale del 'percorso giudiziario'.

Un'ultima, ma non secondaria, notazione, deve essere riservata a quella che è la tutela delle vittime della tratta di esseri umani nelle indagini e nei procedimenti penali. E' stato recentemente sostenuto dalla giurisprudenza, circa quelli che sono i ritardi su questo argomento del nostro ordinamento giuridico, che:

ancora più necessaria poi è l'attuazione della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che introduce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, mai attuata..[..].. a fronte di ciò, la condizione delle vittime di reato, nel processo e fuori dal processo, è ancora per troppi versi deficitaria. Il ritardo dell'Italia nell'attuare le numerose misure europee in tema di cooperazione giudiziaria può tuttavia costituire anche un'opportunità e portare ad una rifondazione organica della materia all'interno di un unico corpus normativo (56).

Il sistema di protezione disegnato dalla direttiva n. 36 del 2011 è ancora incentrato sulla decisione quadro 2001/220/GAI (articolo 11, par 1º e 12, par 1º), tuttavia, né nel decreto di recepimento (d.lgs. n. 24/14), né precedentemente ad esso, v'è traccia di tali disposizioni. Con la legge di delegazione europea 2013 (57) (sulla base della quale è peraltro recepita la direttiva 2011) si fissa nel 16 novembre 2015 il termine massimo per adeguare la legislazione interna alla direttiva 2012/29/UE, contente la nuova disciplina. In attesa di tale scadenza, nella speranza di un esito positivo della riforma ventura, non può che segnalarsi la preoccupante e più che decennale inerzia che ha impedito di ricomprendere in un apposito documento legislativo almeno le norme generali della decisione quadro (le definizioni più importanti, il diritto ad ottenere informazioni, l'assistenza specifica alla vittima, le regole sulla protezione e sulla prevenzione della vittimizzazione secondaria). Il fatto che la nostra legislazione penale ed il codice di procedura penale contengano diversi accorgimenti in tal senso non può scongiurare la necessità di adeguarsi agli standard comunitari in materia. Inoltre, data la delicatezza della situazione delle persone vittime di traffici e viste le difficoltà riscontrate in concreto nel convincerle a collaborare, la mancata predisposizione di garanzie certe in quest'ambito costituisce un'inaccettabile lacuna, che rischia di minare dalle fondamenta qualsiasi tipo di percorso di reinserimento. In buona sostanza, tutto ciò che non agevola la partecipazione ed il coinvolgimento dello straniero nei progetti di protezione ed inserimento, lo allontana ancora di più dall'ordinamento giuridico e dai suoi strumenti di tutela, i quali perdono progressivamente di significato.

Resta da dire che di ciò si è forse reso conto anche il legislatore della riforma 2014, soprattutto grazie alle pressioni provenienti dall'Unione. Basti pensare che è del settembre 2014 l'ultimo monito ufficiale lanciato dalla Commissione Europea sull'insufficienza degli sforzi fatti dall'Italia nella lotta alla tratta degli esseri umani. Il richiamo, si fonda sul primo rapporto del GRETA, che è il meccanismo europeo di monitoraggio su questi fenomeni, istituito sulla base dell'articolo 36 della Convenzione del Consiglio d'Europa di Varsavia del 2005. Significativamente, il punto debole del contesto italiano è individuato nella lentezza ed inefficacia della legislazione, la quale è perciò frequente sostituita da decreti legislativi o decreti legge (prassi che l'Unione ha peraltro condannato in riferimento anche ad altri settori). Fra le conseguenze più gravi di ciò, è segnalata la difficoltà di individuare e punire i mercanti di schiavi ed i trafficanti di persone (avvalorata dall'esiguo numero di condanne ottenute in Italia (58)) e la scarsa attenzione per lo sfruttamento lavorativo e per la condizione dei minori. Ma ciò che più ci interessa in questa sede è che, tanto la Commissione quanto il rapporto, individuano quale ulteriore e rilevantissima lacuna, la mancanza di un piano d'azione nazionale di contrasto al trafficking in human beings, al pari degli altri Paesi membri. Un simile piano dovrebbe agevolare la definizione in modo compiuto di priorità ed obiettivi, fornire linee guida per migliorare la cooperazione giudiziaria con i Paesi esterni all'Unione e garantire una maggiore efficacia delle indagini, dei procedimenti e dell'esecuzione penale (59).

Evidentemente già consapevole di tali difetti (di certo, non particolarmente recenti), il legislatore, con l'articolo 8 del d.lgs. n. 24/14, introduce un peculiare comma 3-bis all'articolo 18. Tale norma potrebbe essere interpretata, rovesciando l'impostazione legislativa, nel senso di voler riordinare la disciplina italiana anti-tratta nell'ottica della preparazione del terreno per la futura definizione di un piano nazionale anti-tratta. Vero è che il comma 3-bis "si applica sulla base del Piano nazionale d'azione contro la tratta ed il grave sfruttamento degli esseri umani" (articolo 8 del decreto 2104). Tuttavia, tale piano, previsto espressamente dal comma 2-bis dell'articolo 13 della legge 228/03 (così come modificato con la riforma del 2014 (60)), non è ancora stato approvato. Inoltre, non si deve trascurare il fatto che il comma 3-bis rappresenta una disposizione che funge da ponte di collegamento fra i due principali interventi giuridici italiani in materia di tratta (la legge 228/03 e il d.lgs. 24 del 2014). La prospettiva considerata dalla norma è prevalentemente quella della protezione e del recupero degli stranieri trafficati, tramite l'elaborazione del citato "programma unico" finalizzato all'emersione, all'assistenza ed all'integrazione sociale degli stessi. Si potrebbe dunque ipotizzare che la realizzazione di tale "programma unico" (tramite decreto del Presidente del Consiglio, ancora non emanato) rappresenti il presupposto per la realizzazione del Piano nazionale, e non viceversa (come traspare dal comma 3-bis). La soluzione dovrebbe garantire un maggiore equilibrio in quanto, gli scopi e gli strumenti individuati dal Piano, troverebbero applicazione in un contesto disciplinare parzialmente riunificato, quantomeno rispetto alle due principali misure di tutela delle vittime (i programmi ex articolo 13 della legge 228 e quelli dell'articolo 18 del Testo Unico). In questo modo, il comma 3-bis ne risulterebbe valorizzato ed andrebbe a costituire un prezioso espediente di semplificazione ed armonizzazione della normativa anti-tratta, sulla strada di un miglioramento dei risultati concreti della stessa.

Note

1. Circolare n.11050/M del 28 maggio 2007.

2. Segreteria tecnica per l'attuazione dell'art. 18 T.U. sull'immigrazione (A. Barberi) (a cura di), Dati e riflessioni sui progetti di protezione sociale ex art. 18. Dal 2000 al 2006, marzo 2007.

3. D. POMPEI, Le parole dell'immigrazione, Maggioli editore, 2013, pp. 80 e ss.

4. Per una trattazione più ampia e dettagliata vedi V. MARENGONI, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, "Diritto immigrazione e cittadinanza", 14 (2012), 4, pp. 59 e ss.

5. G. SAVIO (a cura di) GUARISO A. CATTARUZZI A., Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2012, pp. 183-184 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, Padova, CEDAM, 2004, pp. 440 e ss.

6. F. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 5, pp. 12-13 e G. SAVIO, Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, cit., par. 6, pp. 187.

7. E. ZANROSSO, Diritto dell'immigrazione: manuale pratico in materia di ingresso e condizione degli stranieri in Italia, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone, 2012, pp. 258-261.

8. Vedi in particolare la Circ. n. 1025/M/24UFF.VI del gennaio 2006 e la Circ. del 28 maggio 2007.

9. F. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., pp. 2 e ss.

10. Corsivi miei.

11. Vedi circa la riflessioni che seguono G. SAVIO (a cura di)., Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2012, pp. 182 e ss., F. NICODEMI P. BONETTI (scheda pratica a cura di), Misure di protezione sociale, ASGI.it, 03.09.2009 (aggiornato al), pp. 2 e ss. e E. ZANROSSO, Diritto dell'immigrazione: manuale pratico in materia di ingresso e condizione degli stranieri in Italia, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone, 2012, pp. 255 e ss.

12. E' opportuno premettere che, la Corte di Cassazione, ha escluso la rilevanza degli accertamenti sulla sussistenza dei presupposti dello sfruttamento e della situazione di pericolo provenienti da organizzazioni private. Secondo la Corte, queste ultime non sarebbero in grado di fornire le necessarie garanzie di attendibilità ed imparzialità di giudizio. L'istruttoria dovrebbe perciò essere condotta in ogni caso dal questore (a prescindere cioè dal tipo di "percorso" che sarà seguito). Vedi in proposito Cass. Civ., sez. I, del 28 agosto 2000, n. 11209, in La tribuna, Archivio Civile, 2001, 6, pp. 814.

13. G. SAVIO, Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, cit., pp. 182 e ss. e F. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., pp. 5 e ss.

14. Su entrambe i presupposti fondamentali vedi in modo approfondito F. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 2 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, Padova, CEDAM, 2004, pp. 627 e ss.

15. Si possono citare la Convenzione O.N.U. sulla criminalità organizzata e i Protocolli annessi, che cercano di definire lo sfruttamento nelle sue diverse sfaccettature quale conseguenza frequente delle tratte (ratificati in Italia con la legge 16 marzo 2006, n.146). O ancora la Direttiva 2009/52/CE sullo sfruttamento lavorativo degli irregolari.

16. La centralità del ruolo del questore nell'istruttoria sui presupposti della misura è piuttosto evidente (vedi al riguardo anche nota 12). Tuttavia, non sono mancati interventi giurisprudenziali volti a sottolineare con forza come la valutazione dei requisiti non può essere integralmente lasciata alla discrezionalità amministrativa. Il Consiglio di Stato, in particolare, ha più volte ribadito questa tesi, ad esempio annullando il (provvedimento di) diniego di rilascio del titolo di soggiorno motivato con un mero richiamo alla comunicazione della Procura della Repubblica (nel caso di specie, tale comunicazione conteneva una richiesta di archiviazione senza entrare nel merito dei presupposti dell'articolo 18: Consiglio di Stato, sez. VI, del 10 ottobre 2006, n. 6023, in Foro Amministrativo - Consiglio di stato, 2006, pp. 2866). In questo senso, il TAR Toscana ha ritenuto di dichiarare illegittimo un diniego di rilascio del permesso di soggiorno ex articolo 18 del TUI, per carenza della motivazione, "qualora l'unica [..] fornita dall'Amministrazione sia che dalle indicazioni ottenute e dagli accertamenti esperiti non sono risultati elementi tali da far emergere una comprovata condizione di sfruttamento". Il problema, in tal caso, è stato rinvenuto nel fatto che la Questura ha mancato di esplicitare quali indicazioni fornite e quali procedimenti esperiti debbano essere considerati (TAR Toscana, sez. III, del 5 agosto 2009, n. 1350). Consiglio di Stato, sez. III, del 10 luglio 2012, n. 4098 ha invece ritenuto legittimo il diniego del permesso di soggiorno quando il parere del Procuratore della Repubblica non è stato formulato.

17. F. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 1.2 e 1.3.

18. Ivi; vedi anche P. BONETTI B. NASCIMBENE in op. cit., M. VIRGILIO, Le nuove schiavitù e le prostituzioni, "Diritto immigrazione e cittadinanza", 3 (2000), pp. 39 e ss. e NICODEMI F. BONETTI P. (scheda pratica a cura di), Prostituzione straniera, ASGI.it, 30.10.2009 (aggiornato al).

19. F. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., pp. 3 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 623 e ss.

20. Per la ricostruzione proposta devono essere considerati. G. SAVIO, Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, cit., pp. 184 e ss., F NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 3 e più diffusamente P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 627 e ss.

21. Vedi note 12 e 16.

22. Vedi nota 16 in fondo.

23. G. SAVIO, Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, cit., pp. 184 e ss., F NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 3 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 627 e ss. Vedi note 12 e 16.

24. Rientrano fra queste in particolare la Circolare n. 300 del 25/10/99, la Circolare n. 300 del 4/8/00, la Circolare n. 1025 del 2/1/06 e la n. 11050 del 28/5/07.

25. Sulla tematica trattata da questo paragrafo confronta G. SAVIO, Codice dell'immigrazione: il dlgs. 286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, cit., pp. 187, F NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 4 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 621 e 630-633.

26. Si vedano ad es. T.A.R. Veneto n. 1150 del 13 dicembre 2006 e T.A.R. Emilia Romagna n. 4155 del 9 dicembre 2004.

27. F NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., pp. 3 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 623.

28. F NICODEMI P. BONETTI, ibid., pp. 14 e ss., par. 6.2 e 6.3 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, ivi e ss.

29. F NICODEMI P. BONETTI, ibid., pp. 17 e ss., par. 6.5 (a).

30. Questa terza funzione (lettera c) del 2º comma) rappresenta probabilmente quella decisiva nel descrivere il ruolo della Commissione. Ad essa rimanda anche il 1º comma, stabilendo che tale valutazione è condizione per l'accesso al contributo statale. In particolare, la Commissione deve vagliare i programmi presentati alla luce di "..progetti di fattibilità indicanti i tempi, le modalità e gli obiettivi che si intendono conseguire, nonché le strutture organizzative e logistiche specificamente destinate.".

31. P. BONETTI B. NASCIMBENE, ivi.

32. F NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., pp. 18 e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 624 e ss.

33. G. SAVIO, Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, cit., par. 6, pp. 187 e ss., F NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 7, pp. 19 e ss. e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 632-633 e ss.

34. G. SAVIO, Codice dell'immigrazione: il dlgs.286/98 commentato articolo per articolo con giurisprudenza, cit., par. 6, pp. 187 e ss., F NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., par. 7, pp. 19 e ss. e P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 632-633 e ss.

35. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, cit., pp. 4 in alto e par. 8, pp. 24 e ss.

36. In un articolo del Corriere della Sera di 2/3 anni fa si parla dell'insuccesso di questa misura, citando le 12 condanne definitive ottenute in un anno e mezzo di applicazione, da luglio 2009 a fine 2010, e del fatto che solo un irregolare su quattro, una volta rintracciato, veniva effettivamente espulso. Si evidenziano anche i costi alti che sono stati sostenuti e che la causa principale del fallimento è da ricercarsi nella debolezza e disorganizzazione del sistema dei controlli. Il 4 luglio 2013 è stata presentata alla Camera una proposta di legge (modificata il 21 gennaio 2014 dal Senato) che prevede la depenalizzazione di questa fattispecie ad illecito amministrativo, con possibilità di esercitare l'azione penale solo in caso di recidiva (si veda in proposito il testo del documento, online sul sito della Camera dei Deputati). In buona sostanza, viene depenalizzato solamente il primo ingresso irregolare. Lo straniero sorpreso senza permesso di soggiorno o quello che violi determinate prescrizione indicate dalla legge in materia di immigrazione clandestina sarà sottoposto a processo amministrativo. La sanzione prevista è una multa, convertibile in un provvedimento amministrativo di espulsione. Si consulti in proposito Stranieri in Italia, Reato di clandestinità. Il Parlamento ha deciso: "Va cancellato". Il 2 aprile 2014 il Parlamento ha definitivamente approvato la proposta, incaricando il Governo di emanare un apposito decreto legislativo nel termine massimo di 18 mesi (autunno 2015).

37. Vedi anche al riguardo: Circolare del 23 dicembre del 1999 del Ministero dell'Interno.

38. In particolare, con le Circolari n.300 del 4 agosto 2000 e con quella del 24 luglio 2000.

39. Vedi in particolare P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit.: nelle pagine del testo citato ci si sofferma spesso su questo problema.

40. P. BONETTI B. NASCIMBENE, Diritto degli stranieri, cit., pp. 621 in basso.

41. F. NICODEMI P. BONETTI (scheda pratica a cura di), Misure di protezione sociale, ASGI, 03.09.2009 (aggiornato al), pp. 3-4.

42. F. NICODEMI P. BONETTI, Misure di protezione sociale, ivi.

43. Secondo una giurisprudenza recente, se le Commissioni territoriali competenti per il riconoscimento dello status di rifugiato accordano la protezione internazionale, la Questura è tenuta al rilascio del permesso per motivi umanitari senza avere poteri discrezionali al riguardo. Vedi Corte di Cass. S. U. Civili ordinanza del 9 settembre 2009 n.19393 e Corte di Cass. S. U. Civili ordinanza del 19 maggio 2009 n.11535.

44. Vedi, nota 2.

45. F. NICODEMI P. BONETTi (scheda pratica a cura di), Misure di protezione sociale, ASGI, 03.09.2009 (aggiornato al), consultato in dicembre 2013; ASGI (documento dal "Manifesto per una riforma della legislazione italiana"), Tutela delle vittime di tratta e grave sfruttamento, ASGI, 2013, consultato in marzo 2014.

46. Le riflessioni che seguono sono ispirate in parte a D. Casalino, Accoglienza e diritto alla salute delle vittime di tratta: l'esperienza del Centro Donna Giustizia di Ferrara, FORLATI S. (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013, pp. 111 e ss.; ed in parte dalle indicazioni provenienti dal progetto connesso Sistema "Oltre la Strada" (creato nel 1996), promosso dalla Regione Emilia-Romagna e reperibile on-line. Elemento comune a queste due fonti è la focalizzazione sui problemi legati alla tratta, con particolare attenzione alla prostituzione ed al tema della protezione delle vittime sfruttate sessualmente. Si veda in proposito anche F. NICODEMI P. BONETTI (scheda pratica a cura di), Prostituzione straniera, ASGI, 30.10.2009 (aggiornato al), consultato in dicembre 2013.

47. D. Casalino, Accoglienza e diritto alla salute delle vittime di tratta: l'esperienza del Centro Donna Giustizia di Ferrara, FORLATI S. (a cura di), cit. pp. 112-113.

48. Ivi.

49. Ivi. Si vedano anche A. Annoni, Gli obblighi internazionali in materia di tratta degli esseri umani, contributo in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013, pp. 10 e ss. e B. Nascimbene A. Di Pascale, Riflessioni sul contrasto al traffico di persone nel diritto internazionale, comunitario e nazionale, contributo in G. PALMISANO (a cura di), Il contrasto al traffico di migranti: nel diritto internazionale, comunitario e interno, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 35 e ss.

50. D. Casalino, Accoglienza e diritto alla salute delle vittime di tratta: l'esperienza del Centro Donna Giustizia di Ferrara, FORLATI S. (a cura di), cit., par. 5º e 6º e F. NICODEMI P. BONETTI (scheda pratica a cura di), Prostituzione straniera, cit., par. 4º.

51. La disciplina giuridica dei programmi ex articolo 18 è in parte contenuta nel regolamento attuativo (DPR n. 394 del 1999, articoli 26 e 27) ed in parte è basata sul decreto ministeriale del 23 novembre 1999.

52. Si vedano il considerando 18º e l'articolo 11 par. 1º e 3º della direttiva 2011/36/UE. La necessità di una tutela delle vittime diffusa e temporalmente più estesa dei procedimenti penali è ricavabile anche dall'impianto normativo della direttiva 2004/81/CE (articoli 7 e ss.).

53. Considerando 14º ed articolo 8 della direttiva 2011/36/UE, corsivo mio.

54. Articolo 11, rispettivamente, par. 5º e 7º della dirett. 2011.

55. Articolo 12, par. 2º, dirett. 2011.

56. A.N.M., La giustizia e l'ordinamento sovranazionale (7), in "Proposte ANM", 2013, corsivo mio.

57. Legge 06.08.2013 n. 96, G.U. 20.08.2013.

58. Secondo il rapporto GRETA fra il 2009 e il 2012 sono stati portati di fronte alla giustizia italiana migliaia di trafficanti, complice anche l'aumento degli sbarchi. Le condanne registrate sono state tuttavia 14 nel 2010 e 9 nel 2011. Fonte: rapporto GRETA, pp. 28 e ss. Vedi nota successiva.

59. Per avere un quadro generale d'insieme di questa critica si veda, ad esempio, l'articolo del Corriere della Sera del 22 settembre 2014. Per quanto riguarda invece il rapporto del GRETA (Group of Experts on Action against trafficking in human beings) 2014, il documento è reperibile online col titolo: "Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on action against trafficking in human beings by Italy", adottato il 4 luglio e pubblicato il 22 settembre 2014.

60. Articolo 9 del d.lgs. n. 24/14, "Modifiche alla legge 11 agosto 2003, n. 228, recante 'Misure contro la tratta di esseri umani'". Il Piano nazionale d'azione contro la tratta ed il grave sfruttamento deve essere proposto su delibera del Consiglio dei Ministri, previa consultazione con i Ministeri interessati.