ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

3 La situazione generale italiana dal punto di vista giuridico-legislativo

Carlo Vettori, 2014

Per inquadrare quella che è stata definita come la 'dimensione normativa del divieto internazionale di tratta' (1), con specifico riguardo ai riflessi teorici e pratici assunti da tale tematica nell'ordinamento italiano e nel diritto penale nazionale, deve essere sempre tenuto presente il processo di emersione di tale fenomeno che si è cercato di chiarire nei capitoli precedenti. Si deve perciò partire sempre dalla questione su quale sia la vera natura sociale e l'essenza giuridica della tratta, rectius, di come tale condizione si è progressivamente definita nell'esperienza e nel lavoro delle fonti e degli strumenti internazionali e sovranazionali. Non è questo un aspetto secondario dato che, come si dirà meglio più avanti, la legislazione italiana sull'argomento è improntata ad un forte 'effetto di trascinamento' esercitato dalle suddette fonti (2) (con oltretutto evitabili ritardi nel recepimento degli interventi e lacune apparentemente inspiegabili).

Complice nell'affermarsi di una simile dipendenza sistemica può in parte essere rinvenuto nell'atteggiamento ondivago, quasi schizofrenico, di un legislatore che, da un lato, introduce con discreto anticipo sulle prime norme internazionali una misura innovativa (nonché tutt'ora singolare in ambito comunitario) e dalle amplissime prospettive potenziali sotto il profilo della tutela delle vittime quale il permesso di cui agli articoli 18 del T.U. sull'immigrazione e 27 del relativo regolamento attuativo. Dall'altro lato, lascia tuttavia che si accumulino dei gravi ritardi nell'opera di recepimento, esponendosi alle critiche venute da più parti per la mancata previsione espressa di alcuni principi generali ormai ritenuti essenziali (ad esempio, in materia di irrilevanza del consenso delle vittime dei reati in questione).

La tratta degli esseri umani, più di altre forme di traffico di persone, è considerata innanzitutto nell'ambito costituzionale quale violazione particolarmente significativa della libertà e della dignità umana (3). Più precisamente, essa è lesiva della personalità e della libertà individuali di tutte le vittime sottopostevi e del loro diritto a poter circolare liberamente e spostarsi sul territorio (rispettivamente articoli 13 e 16 della Costituzione) (4).

Al fine di capire come è configurato l'approccio del legislatore in quest'area e quali sono i principi (seppur si tratti di una ricognizione parziale) che agiscono e modellano tale approccio, può essere utile richiamare una disposizione in particolare: l'articolo 5 comma 6º del T.U.I. Tale norma è dedicata ad un settore specifico della materia di cui si discute, ovvero la protezione delle vittime e nello specifico la realizzazione di tale obiettivo tramite la concessione di una serie di permessi che rientrano nella categoria generale dei 'permessi di soggiorno per motivi umanitari'. Rilevata la centralità del permesso ex articolo 18 del T.U.I. nel sistema italiano di contrasto alla tratta ed ai suoi effetti e considerato che tale permesso rientra nel genus dei permessi di cui all'articolo 5 comma 6º, occorre brevemente risalire dalla formulazione di tale norma ad alcune indicazioni utili per la prosecuzione dell'analisi sul tema (5).

In proposito, la disposizione vieta la revoca del titolo (o impedisce la decisione di rifiuto sulla domanda di rilascio) laddove sussistano "seri motivi, in particolare di carattere umanitario" nonché, laddove ciò sia imposto da obblighi costituzionali o internazionali. Tralascio, per il momento, la problematica definizione dei 'seri motivi di carattere umanitario', sulla quale il legislatore si è astenuto da qualsiasi tentativo concreto di tipizzazione, generando un diffuso dibattito giurisprudenziale e dottrinale (6). Concentriamoci su quali siano gli "obblighi costituzionali o internazionali" in questione, evidenziando inoltre come, tramite siffatto richiamo, essi godano di una diretta influenza ed applicabilità (quantomeno in queste situazioni).

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciabile nei casi in cui non sia possibile riconoscere la protezione internazionale (7) al soggetto straniero, o per la mancanza dei requisiti necessari, o perché sussiste una causa di diniego, revoca, cessazione o esclusione dal riconoscimento della protezione medesima (fra cui si deve ricordare l'impossibilità di accordare la tutela riconnessa allo status di protezione sussidiaria ex articolo 16 del d.lgs. 251 del 2007) (8).

In primis, fra gli obblighi internazionali volti a garantire la possibilità di ottenere o di conservare un permesso di soggiorno (per ragioni umanitarie) si può citare il principio, di carattere pattizio ma divenuto ormai consuetudinario ed inderogabile (9), di non refoulement. Si tratta di un concetto che nasce proprio con l'intento di preservare il valore essenziale della dignità umana e, nel modo in cui è sviluppato nelle fonti internazionali (partendo dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (10), dalla giurisprudenza della Corte dei diritti sulla CEDU e da altri strumenti pattizi in materia), costituisce "il cuore della protezione dovuta dallo Stato ad ogni straniero" (11). Deve essere segnalato poi come, nel frequente interagire di tale principio con i diversi atti ed organismi dell'ordinamento internazionale e di quelli sovranazionali, esso si emancipa in parte dal suo significato originario arricchendosi di ulteriori sfumature. Quale esempio, può essere considerata la evoluzione giurisprudenziale operata dalla Corte di Strasburgo attraverso alcune pronunce in cui venivano in rilievo il divieto di refoulement e il divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti di cui all'articolo 3 CEDU. La Corte, operando in questo modo un progressivo ampliamento di entrambi i concetti, ha riconosciuto che l'articolo 3 può essere oggetto, non solo di una lesione diretta dei beni da esso tutelati (che si realizza quando le autorità statali pongano in essere materialmente o non impediscano, laddove sia in loro potere, simili condotte). E' configurabile anche una lesione indiretta degli interessi protetti, consistente in due diversi casi rilevanti di refoulement dello straniero: o verso Paesi ove potrebbe subire suddetti trattamenti, o verso Paesi dai quali potrebbe essere nuovamente espulso in luoghi in cui rischierebbe di subirli (12).

Nel discutere di lotta alla tratta si deve poi necessariamente far riferimento agli strumenti che, sia a livello internazionale che a livello europeo e comunitario, tutelano, esplicitamente o implicitamente, i diritti fondamentali delle persone. A proposito di questo secondo ambito, può essere menzionato a titolo esemplificativo il divieto comunitario di espulsioni collettive (articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE e articolo 4 del protocollo addizionale n. 4 della CEDU), che viene in rilievo quando si sottopone lo/gli straniero/i ad allontanamento forzato senza tenere debitamente conto della sua condizione/situazione personale.

Per quanto concerne invece gli obblighi costituzionali che sostengono la concessione di titoli di soggiorno a carattere umanitario, si possono richiamare innanzitutto le disposizioni poste a protezione dei beni e dei valori essenziali tipicamente lesi dai reati di traffico di persone (su tutti, la libertà individuale così come ricavata dagli articoli 13 e 23 della Costituzione). E' abbastanza intuitivo poi come, oltre a questi concetti più generali (quali la tutela della libertà personale e della personalità individuale), venga in rilievo un 'secondo piano' di valori, direttamente od indirettamente legati ai principi costituzionali (spesso proprio per il tramite della prima tipologia di norme in questione). Basti pensare, ad esempio, alla vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. In seguito all'imprigionamento della stessa, attraverso vari mezzi illeciti, nelle dinamiche del meretricio gestito dalla mala-vita, dovranno essere adottate adeguate misure rivolte alla tutela della sua salute e della sua integrità psicofisica, oltre che della sua dignità e libertà sessuale (e da attuarsi prima, durante e dopo la fuoriuscita della persona da tale situazione).

In secondo luogo, devono essere almeno menzionati due specifici obblighi (costituzionali) inerenti in modo più specifico a questo tema (13). Il diritto di asilo, previsto dall'articolo 10 comma 3º della Costituzione in favore dello straniero che si vede impedito l'esercizio di una qualsiasi delle libertà democratiche riconosciute dal sistema costituzionale italiano nel proprio Paese d'origine (14); il divieto di estradizione per reati politici di cui al comma successivo. In particolare, riguardo alla prima categoria di interventi connessi realizzabili è stato osservato che:

sebbene in dottrina si sia affermato che l'articolo 10, comma 3º costituisca una misura di tutela per lo straniero distinta e separabile dalle altre..[...]..si è, all'opposto, ritenuto, che il diritto di asilo si configuri quale categoria generale entro la quale rientrano sia le due forme di protezione internazionale, sia la tutela accordata dalla legislazione nazionale anche a chi non abbia presentato domanda si protezione, consistente nel rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. (15).

In buona sostanza quindi, una delle differenze teoriche più consistenti fra il diritto di asilo e la possibilità per lo straniero di ricevere assistenza e sostegno tramite un meccanismo l'articolo 18 del T.U.I., risiederebbe nella specificità dei presupposti. Sotto questo profilo, la maggiore ampiezza del diritto d'asilo permetterebbe di inquadrarlo quale genus rispetto ai permessi per motivi umanitari, e dunque quale strumento qualitativamente non diverso circa la tutela riconosciuta all'interessato.

3.1 L'ordinamento italiano e la tratta: considerazioni sulla ricezione delle norme internazionali e comunitarie

Riepilogando, si può mettere in evidenza quale circostanza pressoché universale in epoca moderna, la prioritaria attenzione teorico-normativa del diritto internazionale e delle diverse fonti sovranazionali e regionali rispetto ai crimini della schiavitù/servitù e della tratta di esseri umani (16). Il progressivo riconoscimento ed inquadramento sovranazionale di queste situazioni ha costituito uno stimolo decisivo per gli ordinamenti interni, sia ai fini di una necessaria presa di coscienza sull'entità e gravità dei traffici, sia ai fini dell'adeguamento e dell'attuazione degli strumenti e dei vincoli concordatari (il sopra-citato 'effetto di trascinamento'). L'ordinamento italiano si inserisce in modo sostanzialmente uniforme in tale tendenza.

Tuttavia, pur nel doveroso rispetto dei requisiti minimi e delle norme più rilevanti di carattere internazionale, europeo e costituzionale, si deve tenere conto del fatto che esistono due ulteriori aspetti, circa il recepimento degli impegni in questa materia, su cui ciascun ordinamento detiene un autonomo potere di valutazione. In primo luogo, gli Stati beneficiano di solito di un ampio margine di apprezzamento circa la configurazione delle caratteristiche delle fattispecie penali (la cui portata, soprattutto nel caso italiano, chiama frequentemente in causa il lavoro interpretativo e chiarificatore della giurisprudenza).

Allo stesso modo, l'attuazione delle disposizioni volte a favorire e proteggere le vittime dei reati pare al momento fortemente condizionata da una simile discrezionalità.

In ultima istanza, la definizione del numero e del tipo delle tutele previste, delle condizioni d'accesso alle medesime e della natura della protezione riconosciuta (a carattere premiale o meno, temporanea o volta a rendere possibile una futura integrazione nella società d'arrivo) spettano ai legislatori interni secondo quelle le esigenze sociali, politiche ed economiche del momento.

Detto questo, posto che gli obblighi in materia di contrasto alla tratta degli esseri umani sono principalmente di natura consuetudinaria, pattizia e/o comunitaria (e sono quindi implicate le "garanzie costituzionali sul rispetto del diritto internazionale ed europeo" (17)) dovranno essere tenuti presenti, rispettivamente, gli articoli 10 comma 1º, 117 comma 1º e 11 della Costituzione. Riguardo alla prima ed alla terza norma, si può constatare come esse evochino anche per questi settori disciplinari i meccanismi di 'rinvio mobile' nonché il meccanismo che si basa sul rilascio di uno specifico ordine di esecuzione al trattato. In particolare, l'articolo 10 prevede l'adattamento automatico dell'ordinamento nazionale alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Dunque, secondo la lettura prevalente che si adotta per i casi di 'rinvio mobile', l'ordinamento richiama la norma esterna così come essa 'vive' nel suo ordinamento di provenienza. Ciò porta a due conseguenze: in primis, le vicende modificative che interessano la disposizione possono ripercuotersi sull'ordinamento che la recepisce; inoltre, la norma richiamata dovrà essere interpretata in conformità a quelli che sono i criteri stabiliti nell'ordinamento di provenienza. Il diritto internazionale convenzionale invece, una volta adottato l'ordine di esecuzione del trattato, ha efficacia nell'ordinamento italiano e prevale sulle norme interne, nel rispetto di alcuni limiti. Le sentenze della Corte Costituzionale 348 e 349 del 2007 hanno posto due principi a regolazione del processo di osmosi fra ordinamento interno ed ordinamento internazionale: il principio di legalità internazionale, che determina la prevalenza delle disposizioni internazionali sulle leggi nazionali; il principio di supremazia costituzionale, che subordina l'efficacia vincolante delle norme internazionali al rispetto della Costituzione. Sui giudici grava quindi un 'dovere di interpretazione conforme' al diritto internazionale convenzionale; laddove ciò sia precluso dal testo normativo e l'interprete dubiti della compatibilità fra norma internazionale e norma interna, dovrà essere sollevata questione di legittimità costituzionale della norma legislativa per contrasto con l'articolo 117, comma 1º.

L'articolo 117, comma 1º (come novellato) trova applicazione soprattutto laddove la normativa pattizia abbia sicura rilevanza in materia penale, il che determina che l'ordine di esecuzione debba essere emanato per legge conformemente alle garanzie predisposte da tale norma (circa l'osservanza degli obblighi internazionali e comunitari nell'esercizio del potere legislativo). Si deve ricordare come, a seguito della novella e dell'interpretazione data al riguardo dalle due celebri sentenze della Corte Costituzionale, la legge in questione possa avere carattere ordinario; essa dovrà però essere pienamente compatibile nei contenuti con gli impegni che introduce, posto che i medesimi potranno costituire 'norma interposta' in un eventuale giudizio di legittimità costituzionale sulla medesima (18).

A completare ulteriormente il quadro si può aggiungere che:

le possibili sovrapposizioni tra le diverse fonti internazionali costringono l'operatore giuridico a privilegiare quella normativa che fruisca della garanzia più incisiva dal punto di vista della Costituzione. Ma l'interprete del diritto interno deve altresì valutare la consistenza di tali obblighi nel loro ordinamento di origine e dunque procedere alla loro attuazione nell'ordinamento statale ricalcando le tecniche di coordinamento che si impongono sul piano internazionale..[..]..Non solo. Il rinvio 'mobile' dell'ordinamento interno all'obbligo internazionale costringe a considerare il possibile, se non inevitabile, significato che esso assume in una interpretazione evolutiva complessiva del diritto internazionale. (19)

In conclusione, deve essere comunque segnalato che, come già accennato, al di là delle singole questioni attinenti alle tecniche ed alle norme coinvolte nei meccanismi di recepimento e di adeguamento agli obblighi esterni, la situazione italiana si connota per un atteggiamento non proprio solerte da parte del legislatore. Osservando tale atteggiamento e i ritardi che ne sono derivati, non si può certo dire di ricavarne l'impressione che la lotta ai traffici di persone costituisse un obiettivo primario per l'ordinamento italiano. A conferma di ciò, il fatto che all'incirca fino al 2010 la normativa italiana antitratta annovera le norme previste dal T.U. sull'immigrazione, gli articoli da 600 a 602 del codice penale (come riformati nel 2003) e la legge 146 del 2006, la quale costituisce una ricezione piuttosto soft della Convenzione di Palermo e dei suoi Protocolli addizionali. Tuttavia, non c'è traccia del recepimento della decisione quadro 2002/629/GAI (che è comunque introdotta in un numero limitato di Stati) e della direttiva 2004/81/CE sui permessi di soggiorno, mentre la Convenzione di Varsavia del 2005 è stata oggetto di considerazione legislativa solo nel 2010 (20).

3.2 Il quadro legislativo e penalistico-repressivo in materia di tratta

3.2.1 Introduzione

Una delle conseguenze principali del cosiddetto 'effetto di trascinamento' esercitato dalle fonti e dagli interventi internazionali e sovranazionali sulle fonti interne, risiede nella struttura 'alluvionale' che vengono ad assumere i diversi contenuti normativi nazionali in materia di tratta (21). Il sistema legislativo italiano non fa certo eccezione, ma anzi, complici le inerzie e le difficoltà di cui si è detto, è visibilmente caratterizzato da una progressiva sedimentazione e stratificazione di materiali giuridici di varia ispirazione. Ciò determina non pochi problemi circa il coordinamento e l'armonizzazione dei contenuti degli atti e dei documenti e richiede quindi un complesso lavoro ermeneutico ai fini dell'individuazione della disciplina di volta in volta applicabile. Simili incertezze sono inevitabilmente acuite dalle discrasie temporali che hanno soventemente accompagnato l'operare del legislatore. Ad esempio, il recepimento della Convenzione di Palermo del 2000 sulla lotta alla criminalità organizzata e del relativo Protocollo antitratta avviene circa 6 anni dopo la sua firma, quando cioè questi strumenti, seppure innovativi ed ancora in vigore, avevano già chiaramente manifestato i loro limiti intrinseci. Tant'è che la Convenzione di Varsavia del 2005, negli stessi anni, ha aperto un nuovo percorso introducendo un nuovo approccio in materia di trafficking of human beings. Tuttavia, anche questo accordo è recepito dopo un certo lasso di tempo, quando già volgevano a conclusione i lavori prodromici all'emanazione della direttiva 36 del 2011 (chiamata a rendere possibile la realizzazione, in modo concreto e più efficace, dell'approccio espresso dal Consiglio d'Europa). Questo continuo 'incedere dietro' dell'assetto legislativo alle fonti esterne è forse ed in minima parte compensato dal fatto che la prassi italiana degli operatori giuridici ha trovato nell'articolo 18 del T.U.I. (sotto il profilo prioritario della protezione ed assistenza delle vittime) un valido mezzo operativo e di compensazione di tali gap. Come sarà evidenziato più avanti, non può dirsi invece molto soddisfacente l'impatto politico-criminale del diritto e della legislazione penale. Le norme, in particolare quelle codicistiche appositamente volte ad arginare i fenomeni della schiavitù/servitù e della tratta, hanno spesso "oscillato tra gli estremi dell'ineffettività o comunque della disfunzionalità da un lato (quando l'atteggiamento degli interpreti ha assunto toni rigorosi e restrittivi), e dell'indeterminatezza dall'altro (tutte le volte in cui si è tentato di attribuire alle norme in questione, attraverso vari espedienti esegetici, un qualche significato applicativo)" (22).

Il contesto normativo nazionale in tema di tratta può essere 'artificiosamente' suddiviso in alcuni ambiti, ognuno dei quali comunque ed in vario modo collegato con gli altri. Sul piano prettamente interno (dal punto di vista giuridico-legislativo) troviamo, da un lato, il Testo unico in materia di immigrazione e condizione dello straniero di cui al d.lgs. 286/98 e più volte modificato (esso viene in considerazione principalmente per l'articolo 18) ed, ovviamente, il suo regolamento attuativo. Dall'altro lato (sotto il profilo della repressione dei reati), vi sono gli articoli del codice penale rilevanti (e anch'essi più volte riformati), ovvero l'articolo 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù), l'articolo 601 (tratta di persone) e l'articolo 602 (cui si aggiungono una serie di circostanze aggravanti di cui diremo). Infine, si deve dar conto di quello che è l'elenco dei principali interventi legislativi e recettivi del diritto comunitario ed internazionale, i quali vanno a comporre un complesso quadro di relazioni sistematiche che funge da materiale di raccordo fra le diverse aree. Sono ricompresi:

  • la legge n. 228 del 2003 ("Misure contro la tratta di persone") (23), che rappresenta la più importante riforma delle fattispecie penali e che mostra, seppur in modo non dichiarato, di recepire timidamente alcuni orientamenti comunitari (ad esempio, la decisione quadro 2002/629) ed internazionali (la Convenzione di Palermo ed i suoi Protocolli);
  • la legge n. 146 del 2006 ("Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001") (24);
  • la legge n. 108 del 2010 ("Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani, fatta a Varsavia il 16 maggio 2005, nonché norme di adeguamento dell'ordinamento interno") (25).

A questi tre pilastri si devono necessariamente aggiungere:

  • il d.lgs. n. 109 del 16 luglio 2012, sull'attuazione della direttiva 2009/52/CE che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (il quale, in particolare, interviene ad arricchire la disposizione dell'articolo 22 del T.U.I. di alcune circostanze aggravanti);
  • e, soprattutto, il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 ("Attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI"), il quale introduce inoltre modifiche sia al codice penale sia alla legge 228/2003.

3.2.2 La dimensione socio-giuridica della tratta nell'ordinamento interno

Occorre ricostruire in primo luogo l'atteggiamento generale del legislatore italiano rispetto alla tratta quale grave crimine contro determinate categorie di stranieri ed i loro diritti fondamentali. Partendo dagli interventi in materia, dovranno essere portate alla luce alcune caratteristiche 'fenotipiche' del fenomeno decisive (o meno) a tale scopo secondo la legge (26).

E' ormai risaputo che la tratta di esseri umani può avere carattere organizzato, in quanto pianificata ed attuata da una o più organizzazioni criminali cooperanti al fine di soddisfare le esigenze di questi nuovi e proficui mercati, attraverso la realizzazione di uno strutturato 'commercio di persone'. E' noto anche, come la cosiddetta dimensione associativa non rappresenti un requisito imprescindibile per la configurazione giuridica di questo grave atto.

Il legislatore ha avuto perciò due possibili opzioni al riguardo: o introdurre un'autonoma fattispecie associativa, ovvero una norma ad hoc per punire e reprimere l'associazione a delinquere finalizzata al traffico di persone (ed eventualmente estensibile anche ai reati di riduzione in schiavitù/servitù) (27); o, diversamente, ricomprendere tali situazioni in una o più previsioni di natura circostanziale legate alla fattispecie delittuosa associativa generale. La soluzione seguita è la seconda, principalmente in ragione dei problemi di interferenza e di concorso che la dottrina penalistica ha evidenziato in relazione alla "proliferazione ingovernabile" (28) dei reati associativi. Tuttavia, una parte della dottrina ha anche ravvisato in questa scelta un espediente per semplificare l'analisi dell'elemento psicologico della partecipazione in una fattispecie potenzialmente complessa. In ogni caso, l'articolo 4 della legge 228/03 ha introdotto un ulteriore comma (dopo il quinto) all'articolo 416 c.p., il quale prevede una circostanza aggravante speciale del delitto di associazione a delinquere: è disposto un consistente inasprimento sanzionatorio "se l'associazione è diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602" (considerazioni a parte saranno svolte sull'analisi dell'articolo 12 comma 3-bis del T.U.I. in materia di immigrazione clandestina).

La strada scelta dal legislatore è difficilmente condivisibile, non tanto per non aver disegnato una figura associativa autonoma, quanto piuttosto per una specifica omissione o dimenticanza, e cioè, il non aver corredato la previsione con un idoneo meccanismo di 'blindamento' della circostanza (o, comunque, il non aver escluso il comma dall'ambito applicativo dell'articolo 69 del c.p.). Accade perciò che, in assenza di una simile precisazione, la fattispecie aggravata in esame sarà inevitabilmente oggetto del giudizio di bilanciamento di cui all'articolo 69 c.p. con le eventuali circostanze attenuanti in concorso. Ciò può in concreto indebolire od annullare l'unico vero elemento deterrente e repressivo, l'aggravio dei livelli edittali della sanzione penale, vanificando così l'efficacia della norma.

Omissione o dimenticanza che peraltro risalta se si guarda, ad esempio, alla formulazione delle misure in tema di contrasto all'immigrazione clandestina e reati connessi, di cui all'articolo 12 commi 3-bis, 3-ter e 3-quater. Nell'ultimo comma menzionato (riguardante le circostanze attenuanti), il legislatore esclude espressamente le circostanze aggravate di cui alle disposizioni 3-bis e 3-ter dal giudizio comparativo: in aree tematiche confinanti, alle medesime esigenze si danno risposte difformi e incoerenti.

Altro discorso sono poi gli orientamenti e gli obblighi sovranazionali (29), nonché le ragioni sociali ed etico-morali che propenderebbero a sfavore della sottoposizione di tali gravi reati a un simile sistema di bilanciamento.

Riflesso positivo della disposizione in questione rimane l'automatico radicamento della competenza investigativa (sui fatti di tratta e di schiavitù) e del relativo potere di coordinamento nella Direzione Nazionale Antimafia.

Ulteriore aspetto da inquadrare è rappresentato dalla presunta dimensione transnazionale (30) della tratta di persone, e quindi dal fatto che le suddette organizzazioni criminali (o trafficanti singoli) operino sinergicamente in più Stati, definendo una sorta di struttura reticolare delle rotte che uniscono Paesi di origine o di reclutamento delle vittime e Paesi di destinazione.

Il legislatore introduce per la prima volta una definizione di "reato transnazionale" con la legge di recepimento della Convenzione di Palermo e dei Protocolli addizionali (legge 16 marzo 2006, n. 146). La disposizione in questione (31), prevede una pena detentiva non inferiore nel massimo a quattro anni per la fattispecie penale che si compone, cumulativamente, di due circostanze: il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato; il ricorrere di casi di connessione fra uno o più Stati esteri. Questa seconda condizione è individuata a sua volta in quattro eventi, i quali possono sussistere alternativamente e che guardano alla dimensione spaziale in cui si collocano i diversi momenti della preparazione, pianificazione, direzione, controllo, commissione o manifestazione concreta degli effetti delle condotte incriminate.

E' singolare inoltre la circostanza aggravante prevista nell'articolo successivo della medesima legge (articolo 4): si dispone un aumento di pena da un terzo alla metà nel caso in cui, nei reati puniti con reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, sia accertato un contributo rilevante di un'associazione criminale coinvolta in attività illecite in più Stati. Elemento a favore di questa norma è il fatto che, la suddetta circostanza, gode di un'efficacia repressiva rafforzata dalla impossibilità di eseguire un bilanciamento con le circostanze attenuanti (32). Si deve però segnalare come la sua rilevanza applicativa sia fortemente ridotta dal richiamo ad una soltanto delle figure possibili di trans-nazionalità. E' infatti menzionato unicamente il caso in cui si tratti di un reato in cui "abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato", trascurandosi così la casistica ben più ampia dell'articolo precedente.

E' sempre nella legge 146/06 che sono indicati due ulteriori ambiti in cui viene in considerazione la natura transnazionale dei reati: come requisito costitutivo delle ipotesi di responsabilità amministrativa nelle gravi fattispecie criminose indicate nell'articolo 10 ("Responsabilità amministrativa degli enti"); come presupposto applicativo di alcune peculiari ipotesi di confisca contenute nell'articolo 11 ("Ipotesi speciali di confisca obbligatoria e confisca per equivalente").

Nonostante la sussistenza nell'ordinamento interno di questi riferimenti, l'essenza del problema teorico della rilevanza della cosiddetta 'tratta interna' (ed organizzata) non può essere individuata senza guardare ai documenti che per primi (e da un diverso punto di vista) hanno cercato di dare un peso alla dimensione transnazionale della tratta (33). Richiamando discorsi e riflessioni già affrontate in precedenza (34), se si vanno ad interpretare gli articoli 6 ed 1 del Protocollo di Palermo alla luce del dovere di interpretazione conforme alla Convenzione e, in particolare, considerando gli articoli 37, paragrafo 4º e 34, paragrafo 2º della Convenzione medesima, si giunge ad una lettura restrittiva delle norme, che sembrano circoscrivere la tratta alla sola dimensione transnazionale. In realtà, tenendo presente la rispondenza del diritto internazionale ad esigenze di carattere ordinatorio nella prassi contemporanea e guardando ai contenuti ed allo spirito degli interventi successivi al Protocollo, si deve respingere questa impostazione in quanto errata nei presupposti. Infatti è stato opportunamente sostenuto che:

avrebbe (perciò) poco senso asserire la sola rilevanza penalistica della tratta internazionale quale vietata da una norma imperativa di diritto internazionale ed eludere un simile obbligo per la 'tratta interna', quasi che la dignità della persona umana non sia ugualmente messa in gioco in tali circostanze. Il principio dell'effetto utile induce a valorizzare, in casi di dubbi interpretativi, ogni forma di tratta nell'ambito specifico dell'obbligo convenzionale di repressione penale. (35)

Una simile interpretazione estensiva è quella che ispira il legislatore italiano della riforma del 2003, il quale, superando i dibattiti antecedenti, pone le basi per il riconoscimento della tratta come reato a condotta anche 'monosoggettiva' ed 'occasionale', descritto da una norma, l'articolo 601, pienamente applicabile ai casi di 'rilevanza puramente interna' dei fatti.

Prima di passare in rassegna le norme penalistiche e le modifiche subite con le riforme del 2003 e del 2014, occorre soffermarsi brevemente su quella che è stata efficacemente definita come la "progressiva valorizzazione del bene giuridico tutelato" (36). Ciò appare necessario in quanto proprio tale 'percorso di valorizzazione' va a costituire la ratio fondamentale della suddetta interpretazione estensiva e prevalente.

Il codice penale prevede e sanziona il reato di tratta nel titolo XII (Delitti contro la persona), capo III (Dei delitti contro la libertà individuale), sezione I (Dei delitti contro la personalità individuale) (37). Secondo le indicazioni di autorevole dottrina, si discute perciò di fattispecie che sono poste a presidio dello status libertatis, ovvero a tutela non di "questa o quella forma di manifestazione della libertà individuale, bensì del complesso delle manifestazioni che si riassumono in tale stato" (38) (status libertatis, implicitamente oggetto di una garanzia di livello costituzionale in ragione del suo inquadramento nella categoria dei cosiddetti beni presupposto) (39). Dall'analisi delle condotte tipizzate si desume come gli effetti delle medesime si risolvano in una reificazione de jure o de facto della persona (con un'inversione che la porta quindi ad essere da soggetto ad oggetto di diritti e di rapporti giuridici) e, conseguentemente in un annientamento sostanziale della sua personalità individuale. La vittima di questi gravi reati è posta in una condizione in cui vede vanificata o seriamente compromessa la sua possibilità di godere della quasi totalità delle manifestazioni della sua libertà personale. E' abbastanza intuitivo inoltre, date queste premesse, come la dottrina e la giurisprudenza abbiano finito per ravvisare in queste circostanze la presenza di un interesse indisponibile dell'interessato, il quale esclude qualsiasi valore scriminante od attenuante del consenso di tale soggetto passivo.

Se è ovvio che queste considerazioni valgono in modo pressoché analogo per i reati confinanti in materia di schiavitù e di servitù, non si deve tuttavia commettere l'errore di pensare che sia sempre stato così. L'emersione del carattere personalistico del bene giuridico tutelato, ma anche, la contestuale valorizzazione del vulnus alla libertà generale di autodeterminazione e alla dignità soggettiva delle vittime nel quale si sostanzia adesso l'essenza del principio di offensività relativamente a questi crimini, sono tutti elementi che hanno vissuto un progressiva riscoperta da parte del legislatore negli ultimi due decenni (per il tramite soprattutto del lavoro della giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale). Quantomeno fino alla riforma del 2003 (legge 228), le fattispecie degli articoli 600, 601, 602 (come anche gli altri reati inclusi nel capo sui delitti contro la personalità individuale) hanno avuto scarsissima applicazione pratica, al punto che la critica dottrinale è arrivata a parlare di una loro "funzione essenzialmente simbolica" (40). Ciò era dovuto, soprattutto, a due fattori. Innanzitutto, una delle ragioni va individuata in un criticato approccio a queste situazioni proposto dal codice del 1930 (e seguito dalla giurisprudenza prevalente, anche sulla scorta delle linee guida dettate al riguardo con una relazione ministeriale all'epoca). In pratica, i tre articoli in materia di delitti di schiavitù dovevano essere intesi come riferiti a situazioni di 'schiavitù di diritto'; diversamente, le ipotesi di cosiddetta 'schiavitù di fatto' erano assoggettate alla norma sul plagio di cui all'articolo 603 (41) (abrogata in toto dalla Corte Costituzionale nel 1981). Una lettura di questo tipo, a fronte della risalente eliminazione dell'istituto giuridico della schiavitù in Italia, determinava che le norme trovassero applicazione per i soli fatti che si fossero verificati all'estero, i quali avessero riguardato pratiche schiavistiche riconosciute dal diritto locale o pratiche assimilabili e in cui fosse coinvolto a vario titolo un cittadino italiano.

Senza contare inoltre, gli innumerevoli dibattiti teorici e giuridici che circondano la distinzione della schiavitù in due forme, nonché i problemi legati all'ampiezza di nozioni quale quella di "pratiche analoghe alla schiavitù o alla servitù" (42).

Un secondo importante limite che ha prodotto conseguenze simili sull'applicazione della normativa in esame riguarda proprio l'esatta individuazione dei beni giuridici tutelati e del loro valore. Se pensiamo ad un fenomeno storicamente da sempre incluso nell'area dei crimini contro la libertà e, soprattutto, connesso strettamente ai traffici di persone, quale ad esempio la prostituzione, si può avere un'idea più precisa della dimensione delle questioni. Si omette in questa sede, per ovvie ragioni di natura espositiva, il riferimento a quella che è l'evoluzione concettuale e giurisprudenziale dei diversi valori, principi costituzionali e beni presupposto che vengono in considerazione quando si parla di questa tipologia di reati, preferendosi indicare alcune problematiche concrete ed esemplificative del suddetto limite.

In primis, l'apparente eterogeneità delle fattispecie incriminatrici e delle condotte represse, ma anche, i possibili collegamenti e gli eventuali casi di concorso fra le stesse hanno spesso reso difficoltosa la identificazione dei beni protetti. Basti pensare alle diverse figure della riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (600), oppure all'acquisto ed alienazione di schiavi (602) da un lato e, dall'altro, le ipotesi di tratta; o ancora, si pensi alle circostanze in cui le condotte di trafficking sono finalizzate alla commissione di uno o più delitti in tema di prostituzione (disciplinata in prevalenza fuori del codice, almeno fino al 1998, con la legge n. 75/1958). Data la vicinanza ontologica di queste situazioni (la vittima di tratta è spesso a tutti gli effetti uno 'schiavo', destinato a determinate attività illecite, fra le quali rientrano sicuramente quelle che ruotano attorno al 'mercato del sesso') ci si è spesso chiesti: i beni giuridici sottesi da queste fattispecie sono sostanzialmente sovrapponibili, oppure gli elementi distintivi della tratta rispetto all'articolo 600 richiamano ulteriori aspetti da considerare? Se e come deve essere valorizzata la violazione della dignità e della libertà ad autodeterminarsi (anche sessualmente) delle vittime di tratta costrette con varie modalità a prostituirsi? Ed ancora: in che cosa precisamente può essere identificata la ratio della protezione laddove vengano in rilievo le ipotesi del favoreggiamento (43) e dello sfruttamento della prostituzione in relazione a episodi di tratta?

Se si aggiunge poi che in passato, nel nostro ordinamento, le vicende legate al tema della prostituzione erano vagliate alla luce soprattutto della tutela di beni pubblicistici, quali la moralità ed il buon costume, non è difficile intuire la complessità di questa ricerca. Complessità e confusione che hanno avuto quindi quale effetto principale quello di ritardare il riconoscimento della tratta (e delle fattispecie connesse) come grave reato, lesivo prima di tutto dei diritti umani fondamentali internazionalmente e costituzionalmente riconosciuti.

Tuttavia, anche una volta individuati i beni giuridici tutelati, essi sono stati soggetti ad un bilanciamento reciproco da parte degli operatori del diritto, ispirato innanzitutto dai principi costituzionali e dagli orientamenti giurisprudenziali della Corte. Gli interventi legislativi sono stati perciò improntati ai risultati di simili valutazioni. Accade così ad esempio che, con la 'legge Merlin' (n. 75 del 1958) sono abolite le cosiddette 'case di tolleranza' e le relative normative di autorizzazione, sulla scia delle istanze umanitarie e moralizzatrici che guidano la riforma. A prescindere dai discutibili risultati ottenuti, quello che rileva ai fini del presente discorso è che "tale soluzione veniva sostenuta soprattutto appellandosi al valore della dignità della persona, tale da giustificare un limite alla libertà di iniziativa economica ai sensi dell'articolo 41 Cost., ma anche al divieto di trattamento sanitario obbligatorio stabilito dall'articolo 32 Cost." (44).

In sintesi, è quindi tramite la diffusione di simili retoriche interpretative, basate essenzialmente su di un bilanciamento dei valori 'del momento' (storico-politico) che si affermano, non solo i beni giuridici effettivamente tutelati dalle norme sul cosiddetto 'liberticidio', ma anche il loro significato intrinseco, determinante la graduazione dei medesimi nei singoli casi concreti.

La maggior parte di queste difficoltà sono comunque in parte superate o attenuate da un nuovo approccio del legislatore, il quale negli ultimi due decenni, mostra un'attenzione crescente nei confronti dell'esigenza di tutelare prioritariamente ed in modo idoneo la personalità e la libertà individuali. A testimonianza di tale progressivo mutamento (che affonda le sue radici nelle fonti sovranazionali del diritto) può essere citata ad esempio la legge 269 del 1998 ("Norme contro lo sfruttamento della prostituzione della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù"), con la quale si inseriscono nel capo in discussione del codice penale una serie di fattispecie volte a realizzare "un'anticipazione della tutela della personalità individuale con riferimento ai gravi pregiudizi che comportamenti incidenti nella sfera della sessualità possono determinare nello sviluppo psicofisico di persona particolarmente vulnerabile come il minore" (45). In secondo luogo, con la riforma contenuta nella legge 228/03 è ampliato e precisato meglio l'ambito applicativo degli articoli 600, 601 e 602, attraverso una significativa modifica e riformulazione delle norme. Ciò avrebbe dovuto, almeno negli intenti riformatori, rivitalizzare tali fattispecie e chiarire meglio i rapporti tra le medesime, sia sul piano applicativo che su quello dei valori coinvolti.

3.2.3 L'evoluzione del reato di tratta e i rapporti con le fattispecie limitrofe. In particolare, la riforma del 2003

I). Nel paragrafo precedente, si è fatto riferimento ad una considerazione più ampia della tratta, inquadrandola nei suoi rapporti generali con l'ordinamento ed accennando ad alcune questioni che si sono presentate al riguardo. Adesso è arrivato il momento di esaminare in modo più approfondito la tratta di persone quale fattispecie prevista e descritta dal codice penale all'articolo 601. Nel fare ciò è impensabile non riservare alcune riflessioni a quelle che sono le due norme fondamentali della medesima sezione sulla schiavitù/servitù e sul commercio di schiavi.

Per cominciare, l'attuale formulazione degli articoli 600, 601 e 602 è frutto di una serie di atti riformatori posti in un arco temporale di una decina d'anni: una prima fase si apre col significativo intervento operato con la legge 228 del 2003; per la sola previsione odierna sulla tratta, l'impianto normativo è riformato in modo deciso nel 2014 (mentre sono apportate solo modifiche mirate alle altre due fattispecie); nel mezzo, alcuni ritocchi sono dovuti anche alla legge 108/10 di recepimento della Convenzione del Consiglio d'Europa. Procediamo con ordine.

Il Codice del 1930 prevedeva quali disposizioni centrali in quest'area la norma sulla "riduzione in schiavitù" dell'articolo 600 (46) (punita con la reclusione da 5 a 15 anni) e quella sul "commercio e tratta di schiavi" dell'articolo 601 (47) (repressi in modo ancor più severo, con una reclusione dai 5 ai 20 anni). Meno rilevanti sono le differenze di formulazione e di trattamento circa l'articolo 602 ("acquisto ed alienazione di schiavi").

Il legislatore non dà definizioni analitiche, limitandosi ad indicare quale generica condotta il 'commettere tratta' ed il 'commerciare persone in condizione di schiavitù o in condizioni analoghe'. Mentre, la concezione di schiavitù originariamente accolta è improntata ad una visione strettamente giuridica del fenomeno: secondo questa, la 'riduzione' determinava l'insaturazione di uno specifico status di diritto sul soggetto passivo, consistente in una soggezione pressoché totale nei confronti dell'agente (48). Gli stimoli per un superamento di questa, piuttosto rigida, impostazione iniziale, possono essere suddivisi fra quelli provenienti da fuori i 'confini' dell'ordinamento giuridico nazionale e quelli attribuibili ad uno sviluppo soprattutto giurisprudenziale delle fonti interne (49). In particolar modo, circa il primo tipo di input devono essere ricordate la Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, approvata con r.d. 26 aprile 1928 n. 1723 e la Convenzione Supplementare di Ginevra (relativa all'abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù) del 7 settembre 1956 (ratificata con legge 20 dicembre 1957 n.1304). Al primo documento, è ricollegabile l'identificazione della schiavitù quale "stato o condizione" gravante su di un individuo sul quale si esercitano tutti o alcuni degli attributi tipici del diritto di proprietà. Inoltre, essa tenta di arricchire considerevolmente la definizione di tratta (50), seppure continui ad essere profondamente legata ai paradigmi schiavistici. Tuttavia, è precipuamente nel secondo intervento della Convenzione Supplementare (recepito con un certo ritardo) che si riscontra l'innovazione più marcata: l'articolo 1, introducendo la nozione di "istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù" apre uno squarcio nella precedente definizione, gettando la luce sulla rilevanza delle possibili configurazioni fattuali di queste vicende.

Per quello che riguarda invece le fonti interne, l'input decisivo è ravvisabile nell'entrata in vigore della Costituzione. L'attuazione dell'articolo 2 della Costituzione, il quale prescrive la realizzazione di meccanismi giuridici che permettano una garanzia effettiva dei diritti inviolabili dell'uomo, può essere individuato come uno dei motori principali. Parimenti importanti sotto il profilo delle cause che portano il legislatore ad intervenire, sono le norme degli articoli 10 Cost. (che impone la conformità dell'ordinamento giuridico agli impegni ed obblighi internazionali generalmente riconosciuti) e l'articolo 11 (che consente limitazioni alla sovranità nazionale in ragione del mantenimento della sicurezza e della concordia fra gli Stati).

Le ragioni fondamentali che stanno alla base dell'intervento riformatore del 2003 (51) (attuato con la citata legge n. 228 "Misure contro la tratta di persone", pubblicata in G.U. n. 195 del 23 agosto del 2003) sono riassumibili in due punti chiave: in primis, emerge quale intervento non procrastinabile l'esigenza di superare le formulazioni originarie delle tre fattispecie poste a tutela della personalità individuale. La genericità strutturale e contenutistica degli articoli aveva prodotto quale risultato una scarsa applicazione delle stesse e aveva posto in evidenza attriti con il principio costituzionale di determinatezza-precisione della norma penale. Una seconda ratio connessa, è ravvisabile nel dovere (anch'esso di natura costituzionale) per l'ordinamento di conformarsi agli strumenti internazionali più recenti. Più precisamente, questi ultimi già da tempo avevano spostato l'attenzione su quelle che adesso sono riconosciute come 'nuove' e/o 'moderne forme di schiavitù' ed in generale, sull'evoluzione continua dei crimini ablativi della libertà individuale e delle diverse forme di traffici degli esseri umani. Le 'statiche' fattispecie vigenti prima del 2003 non apparivano in grado di costituire un valido argine contro la diffusione di simili crimini.

Prima della elaborazione della riforma, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull'interpretazione delle previsioni codicistiche si era assestato due possibili orientamenti (52), accomunati esclusivamente dal fatto di fare riferimento per la nozione di "schiavitù" all'articolo 1, comma 1º della Convenzione di Ginevra del 1926 (53) e per quella di "condizioni analoghe" all'articolo 1, Sezione 1 della Convenzione Supplementare del 1956. Posto questo punto di convergenza, da un lato, vi era chi proponeva una lettura decisamente rigida (se non tassativa) delle definizioni e degli elenchi in questione, in quanto integrati in un precetto penale. Dall'altro, vi era chi propendeva per una loro non esaustività. Le prime posizioni trovavano riscontri soprattutto sul piano interno e nel diritto nazionale. Le seconde parevano maggiormente in linea con lo spirito degli strumenti internazionali.

In questo modo, si generava una discrasia fra gli ambiti applicativi della disposizione nazionale in questione (articolo 600 c.p.) e quello delle citate disposizioni internazionali (le quali non ambivano ad assumere carattere esaustivo circa le condotte realizzabili). Risultato era che, situazioni del tutto analoghe sul piano del disvalore dei fatti (e su quello delle modalità di manifestazione) ai casi dell'articolo 600 non risultavano punibili in quanto non perfettamente inquadrabili nelle elencazioni convenzionali.

Dall'altro lato, vi erano invece coloro che, come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ed una parte della dottrina, erano a favore di una esegesi meno restrittiva dei concetti di "schiavitù" e di "condizioni analoghe". Considerando le indicazioni ricomprese nelle fonti internazionali quali indirizzi generali ed aperti, si otteneva uno strumento, l'articolo 600, più versatile ed in grado di contrastare anche le nuove derive schiavistiche. Negli intenti del legislatore, la formulazione dell'articolo 600 che è proposta dall'articolo 1 della legge 228/03 dovrebbe fungere da compromesso fra queste due istanze, "descrivendo in termini particolareggiati i contenuti della norma incriminatrice, avendo tuttavia l'accortezza di fare di quest'ultima uno strumento repressivo sufficientemente duttile rispetto alle mutevoli esigenze della prassi" (54).

E' piuttosto evidente come, data la sua formulazione originaria (connotata da un legame intrinseco con la fattispecie della schiavitù), la fattispecie di tratta di cui all'articolo 601 risentisse inevitabilmente del suddetto dibattito teorico. Tale riflesso ha perciò portato automaticamente il legislatore a dover riformulare anche tale norma.

Brevemente, l'articolo 1 (55) della legge 228/ 2003 ("Modifica dell'articolo 600 del codice penale") introduce una "norma a più fattispecie" (56), precisamente due: "riduzione o mantenimento in schiavitù" e "riduzione o mantenimento in servitù". I concetti di schiavitù, riduzione e mantenimento sono ripresi rispettivamente dalla citata norma della Convenzione di Ginevra del 1926 e dall'articolo 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale (del 17 luglio 1998) (57): il riferimento è perciò ad ordinamenti che riconoscano formalmente ed espressamente la 'proprietà sull'uomo' quale istituto giuridico. Pertanto, i fatti indicati dalla norma incriminatrice potranno realizzarsi compiutamente solo all'estero e saranno poi perseguibili in Italia in relazione agli articoli 604 ("Fatto commesso all'estero") e 7 n. 5 ("Reati commessi all'estero").

Secondo un indirizzo condiviso dalla Cassazione e dalla giurisprudenza prevalente, elemento qualificante tanto della fattispecie sulla schiavitù quanto di quella sulla servitù sarebbe lo sfruttamento della vittima e/o delle sue prestazioni. Non solo, ma tale finalità costituirebbe il vero tratto distintivo fra queste figure e le altre fattispecie inibitorie o privative della libertà personale (58).

Nella laboriosa identificazione dei casi di 'schiavitù di fatto' in contrapposizione a quelli 'di diritto', si inserisce l'innovativa nozione di "servitù" (sostitutiva delle previgenti "condizioni analoghe alla schiavitù"). Come si intuisce dalla formulazione della seconda parte dell'articolo 600, siamo in presenza di un reato complesso, definito dalla sinergia tra due condizioni: l'assoggettamento o sottomissione continuativa della vittima; lo sfruttamento della medesima. La fattispecie, dal carattere descrittivo, appare più esaustiva della prima in quanto indica puntualmente tanto le estrinsecazioni possibili della condotte (per così dire, i 'mezzi', suddivisi in limitativi o ablativi della volontà della vittima, profittativi della sua condizione e reificativi del soggetto) e le prestazioni a cui è costretta la vittima (gli 'scopi', identificabili tanto nell'elencazione casistica quanto nella clausola di chiusura relativamente alle attività in cui si sostanzia lo sfruttamento).

Infine, circa l'elemento soggettivo, per la "riduzione o mantenimento in schiavitù" vale l'analogia col fenomeno civilistico del possesso circa la configurazione del dolo; per quanto riguarda invece la "riduzione o mantenimento in servitù" si dovrà fare riferimento al dolo tipico dei reati abituali (59).

Nell'impianto normativo del 2003, sono tre le forme aggravate dei reati in questione, ovvero i casi di:

  • coinvolgimento (ovviamente, passivo) di minore degli anni diciotto;
  • rispondenza del fine principale delle condotte all'ipotesi di sfruttamento della prostituzione;
  • rispondenza del fine principale delle condotte all'ipotesi di sottoposizione della persona offesa al prelievo di organi.

L'articolo 601 del codice penale è sostituito dal seguente:

ART. 601. - (Tratta di persone). - Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all'articolo 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i delitti di cui al presente articolo sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (60).

In un'ottica di sintesi e schematizzazione dell'intervento, deve porsi in rilievo come il legislatore del 2003, nei tre articoli 600, 601 e 602 del codice penale, descriva cinque diversi delitti (1. riduzione e mantenimento in schiavitù; 2. riduzione o mantenimento in servitù [600/1]; 3. tratta di persone in schiavitù o servitù; 4. costrizione ad entrare, soggiornare o uscire dal territorio dello Stato al fine di commettere i delitti di schiavitù o servitù [601]; 5. acquisto e alienazione di schiavi [602]), accomunati: da un medesimo trattamento sanzionatorio; dalla previsione, inclusa sempre nel testo dell'ultimo comma delle singole disposizioni, delle stesse tre forme aggravate di manifestazione dei reati; ed infine, dalla circostanza aggravante speciale di cui all'articolo 416 n. 6 c.p. sulle associazioni a delinquere.

L'equiparazione sotto il profilo sanzionatorio non ha mancato di far discutere nell'ambito del principio di ragionevolezza, in particolare quando una simile operazione ha ad oggetto situazioni che sottendono una lesività nei confronti della persona e dei suoi diritti essenziali di ben diversa natura ed entità (il riferimento è soprattutto all'improbabile accostamento in questo senso fra la tratta degli esseri umani così come si manifesta nelle sue moderne e gravi forme e la generica fattispecie di cui all'articolo 602 sull'acquisto/alienazione di schiavi).

La nuova formulazione dell'articolo 601 prevede due distinte fattispecie poste a garanzia dello status libertatis: la tratta di schiavi, ravvisabile nell'atto di colui che 'commette la tratta' in danno di persona che già versi nelle condizioni di cui all'articolo 600 c.p.; la tratta o cattura a scopo schiavistico, realizzata da chi, con una serie di mezzi e di modalità espressamente indicate, costringe la vittima ad immigrare in o ad emigrare da un certo territorio nazionale o a soggiornarvi, con l'obiettivo ultimo di commettere uno dei reati di cui all'articolo 600 c.p. Anche l'articolo 601 c.p. che emerge dalla riforma del 2003 è quindi 'norma a più fattispecie', le quali peraltro sono immediatamente distinguibili nel diverso valore assunto dalla condizione o stato di schiavitù/servitù. Nel primo caso infatti, esso rappresenta un presupposto della condotta tipica, in quanto la persona offesa si trova già in una simile situazione (61); diversamente nella seconda ipotesi, dove presupposto è lo stato di libertà della vittima: in tal caso, l'apprensione schiavistica del soggetto è lo scopo della condotta, ovvero l'elemento che va ad integrare e definire un dolo specifico.

Tuttavia, neppure la nuova formulazione sembra offrire una definizione chiara e circoscritta di tratta, il che apre a due interpretazioni possibili: o si ritiene che l'intervento abbia inteso rinunciare a fornire tale definizione, accettando implicitamente la nozione di tratta che emerge complessivamente dai diversi strumenti internazionali e comunitari al riguardo (nello specifico all'epoca, dall'articolo 1 n. 2 della Convenzione di Ginevra sulla schiavitù del 25 settembre 1926, dall'articolo 3 del Protocollo Addizionale di Palermo sulla tratta e infine dalla decisione quadro 629/2002). Oppure, deve concludersi che la tratta di schiavi e la tratta o cattura a scopo schiavistico descrivono due aspetti di un identico fenomeno e perciò, di un'unica fattispecie. Quest'ultima soluzione, seppure consentirebbe di superare alcuni dubbi circa la tassatività/determinatezza della disposizione codicistica, contrasta con la ricostruzione (sopra proposta) condivisa della stessa, considerata come costituita di due fattispecie separate in rapporto di incompatibilità reciproca (62).

Siamo dunque in presenza di un reato a forma vincolata il quale, formalmente, può dar luogo a due diverse tipologie di manifestazione: la condotta del 'commettere tratta', ovvero, secondo la ricostruzione effettuabile dalle Convenzioni di Ginevra del 1926 e del 1956, comprensiva delle "attività di compravendita, commercio, cessione, trasporto di persona già in schiavitù o servitù" (63). La condotta ulteriore, consistente " a) alternativamente, nell'induzione ingannatoria (comprendente sia la determinazione, cioè il fare insorgere il proposito, sia il rafforzamento, mediante ulteriori stimoli, motivazioni, convincimenti, del preesistente proposito) o nella costrizione, violenta, abusiva, ecc.; b) a fare ingresso, a soggiornare (cioè a prolungare la permanenza) o ad uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno" (64). Vi è una parte della dottrina che, in modo non irragionevole, ha sostenuto che in realtà, sussista concretamente un'unica tipologia di condotta di cui all'articolo 601, che si divarica solo in considerazione della diversa caratterizzazione soggettiva della vittima (cioè, il soggetto passivo nel suo rapporto con la fattispecie ex articolo 600) (65).

Elemento fondamentale per poter sussumere la condotta nella fattispecie in esame è la cosiddetta abductio, ovvero il trasferimento spaziale della vittima (da notare peraltro che il legislatore non ha opportunamente richiesto il connotato della transnazionalità della medesima, aprendo così alla possibilità di applicare l'articolo 601 ai casi di tratta meramente interna). Non sono considerati rilevanti ai fini della descrizione dei fatti né la presenza di una seppur minima organizzazione imprenditoriale delle suddette attività illecite, né la plurisoggettività dei destinatari in senso passivo delle stesse (in quanto diviene configurabile al perfezionarsi anche di un'unica condotta tipizzata a danno di un unico soggetto) (66).

Il reato di tratta viene in sostanza ad atteggiarsi quale reato comune, solo eventualmente abituale e pure, eventualmente monosoggettivo (visto che l'elemento associativo è valutato separatamente dal legislatore, quale circostanza aggravante speciale di cui all'articolo 416 n. 6 del codice).

Più discussa è stata semmai la questione se il legislatore del 2003 abbia inteso o meno far salvo dalla previgenti letture della fattispecie il requisito della finalità di lucro. Se presumibilmente è vero che può teorizzarsi come implicita la sussistenza di un simile scopo nei fenomeni in discussione, non deve dimenticarsi che il perno definitorio delle condotte di tratta è, da questa riforma, pacificamente ravvisato nello sfruttamento. Ciò rileva in quanto "la nozione di sfruttamento non assume obbligatoriamente una connotazione economica, ben potendo essere di altra natura il vantaggio derivante dalla condotta di tratta" (67).

Un aspetto che distingue in modo leggermente più significativo le due presunte fattispecie dell'articolo 601 è l'elemento soggettivo del reato: un dolo (solo) eventualmente specifico nella prima ipotesi (in cui il fine è identificato alternativamente o nel fine di vendere o scambiare l'individuo asservito, o nel fine di lucro affermato dalla dottrina ante-reformatio); un dolo specifico nella seconda. Non a caso, è specificamente in ordine a questa seconda tipologia di condotte che si individua un evento duplice: da un lato, il "risultato psicologico" (Mantovani) della induzione o della costrizione provocate con certe modalità; dall'altro, le diverse forme di abductio o la permanenza sul territorio causate dalle medesime modalità di estrinsecazione del reato (68).

Sempre sotto il profilo dell'elemento soggettivo, deve essere segnalata una lacuna della novella che, più o meno consapevolmente, decide di non riproporre esplicitamente il principio di irrilevanza del consenso della vittima al trafficking, così come contenuto nel Protocollo di Palermo e nella decisione quadro del Consiglio. Parte della dottrina (69) ha sostenuto l'inutilità di un recepimento espresso in questo caso, alla luce di alcuni principi generali dell'ordinamento. In particolare, il principio di indisponibilità dei cosiddetti 'beni personalissimi', fra i quali deve ritenersi incluso lo status libertatis. Inoltre, nella fattispecie in questione, si è evidenziata la realizzazione di una condizione di induzione o coazione tramite l'utilizzo di mezzi coercitivi o di pressione, fisici e/o psichici, che di per sé escludono la libertà e validità del consenso (e dunque, l'applicabilità della scriminante di cui all'articolo 50 c.p.).

La riforma del 2003 rovescia quella che è la tradizionale configurazione dei rapporti fra tratta e schiavitù pensata dalle prime fonti internazionali. Queste ultime infatti, erano frequentemente partite dall'idea che la riduzione in schiavitù o in una condizione analoga fosse frutto di condotte di tratta (vedi da ultimo la decisione quadro 2002); il legislatore italiano invece, interviene disegnando una nuova fattispecie del delitto di tratta la quale presuppone, almeno in una delle due tipologie di condotte, un soggetto passivo già ridotto in condizione di schiavitù o servitù. I concetti di schiavitù e servitù divengono "logici presupposti della tratta" (70). Tuttavia, è importante precisare che il reato di cui all'articolo 601 non concorre mai con quello dell'articolo 600 perché: rispetto alla prima ipotesi delittuosa sulla tratta, tale status costituisce un presupposto nella struttura della fattispecie successiva, e perciò, un antefatto non punibile; nella seconda ipotesi dell'articolo 601, lo status o condizione di schiavitù/servitù rappresenta lo scopo ultimo della condotta descritta (il dolo specifico), e quindi un post factum non punibile.

L'articolo 3 della legge 228/03 ha modificato la fattispecie, confinante con quella di tratta delle persone, prevista nell'articolo seguente (602 del c.p.) (71), con il risultato di lasciare aperti diversi interrogativi o addirittura creare incertezze circa il sistema delle relazioni reciproche. Innanzitutto, deve essere precisato che si omette una descrizione più approfondita di questa figura delittuosa, in quanto pur contenendo la stessa un'espressa clausola di applicazione sussidiaria rispetto ai casi di tratta ("fuori dei casi indicati dall'articolo 601"), essa è priva di un reale ambito applicativo, effettivamente autonomo rispetto alla norma che la precede (72).

In passato, la distinzione fra i reati di cui agli articoli 601 e 602 del codice era ricavata, da un lato e sotto un profilo quantitativo, dalla diversa consistenza numerica delle vittime coinvolte (con una tratta considerata in proposito come reato necessariamente plurisoggettivo e l'articolo 602 applicabile in caso di persona offesa singola); dall'altro lato, dal diverso trattamento sanzionatorio previsto.

Con la novella del 2003, quest'ultimo elemento viene definitivamente a cadere e la maggioranza della dottrina successiva ritiene applicabile la fattispecie di tratta anche in presenza di un unico soggetto passivo. E' inevitabile perciò un ripensamento dei termini della contrapposizione circa gli ambiti delle due norme, contrapposizione che adesso viene fondata su di un elemento qualitativo (non più quantitativo): l'articolo 602 troverebbe applicazione solo in presenza delle condotte di alienazione, cessione ed acquisto della persona che si trova nelle condizioni di cui all'articolo 600, realizzate però all'infuori delle modalità tipizzate dal reato di tratta. Permangono, quali elementi distintivi chiave la abductio (decisiva per la tratta; non prevista dall'articolo 602) e l'elemento negoziale (ovvero l'atto dispositivo, a titolo oneroso o gratuito) che connota il 'commercio di schiavi' (e che è invece del tutto assente per la tratta) (73).

Date queste premesse si può osservare come:

da un punto di vista strutturale non parrebbe doversi frapporre alcun ostacolo ad un concorso materiale fra le ipotesi di cui all'articolo 601 CP e quelle degli articoli 600 CP, da un lato, e 602 CP, dall'altro, ben potendo il trafficante essere stato colui che, in precedenza, ha ridotto la vittima in schiavitù/servitù, oppure, una volta 'trasferita la vittima', raggiunga effettivamente la finalità di riduzione/mantenimento della vittima in schiavitù/servitù, e, successivamente la alieni o ceda ad altri. Tuttavia, per quanto riguarda il rapporto con l'articolo 602 CP, la clausola espressa con cui si apre tale disposizione impedisce una contestazione di tale reato al trafficante che, una volta condotta la vittima sul territorio nazionale, ne faccia oggetto di negozio. Tale condotta..[..]..sembrerebbe essere stata considerata da legislatore come un post factum non punibile. (74)

E' stata posta in dottrina la questione se possa realizzarsi un concorso fra le ipotesi di trafficking in human beings e smuggling of migrants, alla luce delle nuove norme introdotte dal legislatore e delle differenze sostanziali contenute in primis nelle fonti internazionali. In particolare, ci si è chiesti se la condotta di tratta che abbia quale soggetto passivo un cittadino extracomunitario privo di permesso di soggiorno o comunque di valido titolo per l'ingresso sul territorio nazionale, possa delineare un caso di concorso formale fra la norma in esame e l'articolo 12 del d.lgs. 286/98. La risposta tendenzialmente negativa che ne è scaturita si fonda sulla lettera di quest'ultima disposizione, che prevede una clausola cosiddetta di riserva o consunzione ("salvo che il fatto costituisca più grave reato").

In definitiva, se l'agevolazione dell'ingresso dello straniero in Italia integra anche uno dei mezzi tipici della fattispecie di tratta come prevista dall'articolo 601 c.p., si verifica l'assorbimento della prima condotta nella seconda (in quanto, più gravemente sanzionata).

Per concludere l'esame della normativa fondamentale sulla tratta, deve essere menzionata l'unica eccezione di un qualche rilievo alla regola generale per cui essa si configuri quale reato comune: tale ipotesi è prevista, in veste di fattispecie aggravata, dall'articolo 1152 del codice della navigazione. In tal caso, è reso possibile un aumento della pena fino ad un terzo se soggetto attivo sia il comandante o un ufficiale di nave nazionale o straniera che commetta o concorra (nel senso che ne agevoli la commissione) nel reato di cui all'articolo 601. L'articolo 1153 dispone similmente circa l'ipotesi in cui il soggetto attivo sia un componente dell'equipaggio di nave nazionale o straniera, introducendo peraltro un'interessante anticipazione della soglia della punibilità agli atti preparatori (in sostanza, non è necessario che sia stato compiutamente posto in essere alcun comportamento ascrivibile alla tratta o al commercio di schiavi).

II). Il sistema delle circostanze aggravanti in materia di tratta è reso piuttosto articolato dal susseguirsi di vari interventi, non sempre perfettamente chiari e coerenti fra di loro. La legge 228, semplificando i problemi di coordinamento fra le diverse figure, ha previsto che i reati di cui agli articoli 600, 601 e 602 fossero soggetti alle medesime aggravanti speciali (rispettivamente articoli 600 co. 3º, 601 co. 2º e 602 co. 2º). Le tre circostanze comuni erano individuate nella minore età della vittima oppure nella finalizzazione delle condotte ai gravi crimini dello sfruttamento della prostituzione o del prelievo degli organi delle vittime (75). Su questo quadro sono intervenute la legge 15 luglio 2009, n. 94 (in materia di pubblica sicurezza) e la legge 2 luglio 2010, n. 108 sulla ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta alla tratta siglata a Varsavia nel 2005 (76). Con l'articolo 3, comma 19º, lett. b) della legge n. 94, è introdotto l'articolo 602-bis, il quale individua le pene accessorie nei confronti dei genitori o del tutore che si siano resi responsabili di almeno uno dei crimini elencati (fra i quali, ovviamente, sono richiamati quelli previsti dai tre articoli in esame). Più significativa è la seconda recente modifica, dovuta all'articolo 3 della citata legge n. 108/10, la quale aggiunge l'articolo 602-ter al codice penale. Il modus operandi del legislatore è stavolta, quantomeno singolare: con la prima parte dell'articolo 3 sono abrogate formalmente le suddette circostanze aggravanti speciali, che nel 2003 erano state inserite nel testo di ciascuna delle tre fattispecie (comma 1, lettere a, b e c); con la lettera d) del medesimo comma, si introduce nel codice una disposizione che, in buona sostanza, ripropone tutte e tre le circostanze, con una formulazione pressoché identica e con la stessa portata applicativa. Unico vero elemento di novità è costituito dalla lettera c) dell'articolo 602-ter, il quale prevede una circostanza aggravante per i fatti di schiavitù o servitù, tratta o 'commercio di schiavi' "se dal fatto deriva un grave pericolo per la vita o l'integrità fisica o psichica della persona offesa" (l'aumento di pena è di nuovo compreso fra un terzo e la metà).

Ulteriore ed inedita circostanza aggravante è indicata dall'ultima parte della norma, in relazione alle ipotesi in cui i delitti contro la fede pubblica previsti dal titolo VII, capo III del codice sono posti in essere con l'intento di commettere o di agevolare la commissione dei delitti di cui all'articolo 600, 601 e 602.

Nell'arco di tempo che intercorre fra quelle che sono le due principali riforme trattate in questo capitolo (2003 e 2014) il legislatore è intervenuto anche su alcuni aspetti operativi più specifici della normativa in questione (77). In primo luogo, l'articolo 5 della legge n. 228/03 ha fornito una prima configurazione alla responsabilità in materia delle persone giuridiche (78), inserendo l'articolo 25-quinq. nel d.lgs. n. 231/01. Gli enti, società o associazioni si rendono responsabili dei reati previsti dagli articoli 600, 601, 602, 660-bis, 600-ter, 600-quat., se gli stessi sono commessi nel loro interesse o a loro vantaggio, da persone che rivestono determinati ruoli in seno alle persone giuridiche stesse. Se ciò si verifica, le suddette persone giuridiche sono soggette alle sanzioni amministrative di carattere pecuniario e/o interdittivo indicate nei tre commi dell'articolo 25-quinq. (si fa implicitamente salva la responsabilità penale dei singoli individui agenti).

In secondo luogo, un'importante innovazione nell'ottica di un efficace contrasto della tratta è rappresentata dall'estensione delle ipotesi di confisca speciale di cui all'articolo 600-sept. c.p. operata nel 2010. Si dispone che, nei casi di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti (ex articolo 444 del codice di procedura), in presenza di delitti contro la personalità individuale è sempre ordinata tale tipologia di confisca, prevista dall'articolo 240 c.p., oppure, se non è possibile la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, è attuabile la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo o al profitto (cosiddetto tantundem). Restano ovviamente salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e/o al risarcimento del danno.

Inoltre, è stato modificato anche l'articolo 12-sex. del d.l. n. 306/92 in maniera che, laddove ricorra un'ipotesi di associazione finalizzata alla commissione dei delitti in questione (articolo 416, comma 6º c.p.), troverà applicazione anche la peculiare forma di confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità 'in eccesso' dei quali il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui risulti essere in qualsiasi modo titolare o di cui abbia la disponibilità a qualsiasi titolo.

Non deve essere sottovalutata l'importanza di simili misure, in quanto esse soddisfano un duplice meritevole scopo: da un lato, permettono di evitare che i profitti di questo tipo di reati confluiscano nei circuiti del riciclaggio di denaro 'sporco', il quale è periodicamente reinvestito in attività lecite o illecite comunque gestite dalla criminalità. Inoltre, simili interventi permettono di finanziare il fondo per le misure antitratta istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e rivolto a finanziare i programmi di assistenza ed integrazione sociale in favore delle vittime di tratta (articoli 12 e 13, legge 228/03, modificati da ultimo nel 2014) (79).

Infine, l'articolo 604 del codice dispone che le fattispecie ricomprese nella sezione de quibus (oltre ad alcune ulteriori norme indicate) si applicano in modo incondizionato ai fatti interamente verificatisi all'estero e commessi da o contro un cittadino italiano, o da cittadino italiano in concorso con un cittadino straniero a danno di altro cittadino straniero. Per il delitto di tratta commesso da cittadino straniero in danno di altro straniero trova applicazione la disposizione generale di cui all'articolo 10, comma 2º c.p.

III). Il quadro normativo italiano in materia di tratta e, più in generale, in materia di gravi crimini contro la personalità individuale (e contro i diritti fondamentali delle vittime) ha, almeno in origine, un prevalente carattere repressivo. Tuttavia, il legislatore dimostra di non essere del tutto all'oscuro dei due ulteriori aspetti rilevanti (e valorizzati in modo crescente negli anni dalle fonti internazionali e poi da quelle comunitarie) della prevenzione e della protezione dei soggetti coinvolti (seppure gli interventi circa il primo dei due ambiti sono molto rari e generici). Questo approccio è testimoniato anche da alcune previsioni della legge 228.

Per quello che riguarda la prevenzione, l'articolo 14 della legge 228/03 ("Misure di prevenzione") si limita ad alcune enunciazioni di principio, le quali si inseriscono comunque in modo soddisfacente nelle linee guida al riguardo del Protocollo ONU antitratta e della decisione quadro 629 (nonché della Convenzione di Varsavia). In particolare, al fine di rafforzare l'azione preventiva nei confronti dei reati di cui agli articoli 600 e seguenti (e soprattutto in materia di traffici di persone) sono incaricati:

il Ministro degli Affari Esteri, al fine di predisporre politiche di cooperazione e canali di comunicazione fra i Paesi interessati dai traffici o da fenomeni schiavistici;

il suddetto Ministro, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, con il compito di promuovere incontri internazionali e campagne di informazione (anche nei Paesi d'origine o di prevalente provenienza delle vittime) con l'obiettivo di sensibilizzare l'opinione pubblica e migliorare la conoscenza della situazione delle vittime;

i Ministri dell'Interno, per le pari opportunità, della giustizia, del lavoro e delle politiche sociali, cui si chiede di collaborare per il raggiungimento delle finalità indicate, oltre ad organizzare, se possibile e ove necessario, corsi di addestramento del personale. Quest'ultima disposizione è molto generica ed allude soltanto a quelli che potrebbero essere gli eventuali destinatari di tali corsi. Inoltre, dovrebbe essere introdotto (in linea con i documenti comunitari più recenti) il riferimento ad una specifica procedura di identificazione (ed almeno alcune linee guida generali al riguardo).

La precisazione del comma successivo, per cui le misure in questione non possano implicare nuovi o maggiori oneri per le finanze pubbliche, svuota di senso pratico la norma, vanificandone ulteriormente l'effettività e la realizzabilità.

La tutela delle vittime di tratta degli esseri umani o di schiavitù ('di fatto' o 'di diritto') è una circostanza presa in considerazione dal legislatore ben prima del 2003. Infatti, già con gli articoli 18 del d.lgs. 286/98 (Testo Unico in materia di immigrazione, e modifiche successive) e 27 del corrispondente regolamento attuativo, si prevede un meccanismo innovativo e discusso di protezione, incentrato sul rilascio di uno speciale permesso di soggiorno per motivi umanitari al verificarsi di determinati presupposti. Si parlerà più diffusamente di tale strumento e dei suoi caratteri nel capitolo successivo, mettendo in evidenza i motivi di 'assistenza' e di 'integrazione sociale' che in teoria lo sostengono e gli strumenti programmatici a ciò rivolti.

Con la riforma del 2003 è introdotto invece un meccanismo che, nonostante alcune difficoltà di coordinamento, accentuatesi con la significativa riforma del 2014, sembra destinato a convivere ed operare in parallelo con l'articolo 18 e le sue implicazioni progettuali.

L'articolo 13 della legge 228 è dedicato alla "Istituzione di uno speciale programma di assistenza per le vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale" (80).

Lo "speciale programma" in questione ricomprende perciò una serie di misure a carattere esclusivamente assistenziale, temporaneo e nei limiti delle risorse disponibili in favore dei soggetti passivi delle nuove fattispecie di tratta e di schiavitù. Più precisamente, sono menzionati gli interventi volti a garantire condizioni adeguate di vitto e di alloggio e l'assistenza sanitaria di base (non sembra potersi interpretare tale elenco a titolo esemplificativo, visto che niente è detto sull'assistenza linguistica e/o giuridica, sul diritto all'informativa o riguardo a forme di assistenza psicologica). La disposizione indica quello che è previsto quale onere economico derivante dall'attuazione di simili iniziative e i modi in cui devono essere corrisposti codesti finanziamenti; tuttavia, il Ministro dell'economia è investito dall'ultimo comma di una sorta di potere di modifica e di veto sulle corrispondenti variazioni del bilancio pubblico.

Di maggiore interesse è l'elusivo secondo comma, che fa salva in questi casi l'applicazione della misura prevista dall'articolo 18 del T.U. sull'immigrazione in favore dello straniero vittima dei reati previsti dagli articoli 600 e 601. Innanzitutto, si ricava in questo contesto la volontà del legislatore di estendere la tutela di cui alla norma del T.U.I. perlomeno alle vittime di tratta e alle persone ridotte o mantenute in condizioni di schiavitù o servitù che si trovino nelle condizioni richieste dalla norma. Con l'interpretazione 'garantista' (di cui diremo) che si afferma relativamente alla disciplina dell'articolo 18, tale strumento viene a configurarsi quale mezzo in grado di offrire una tutela molto più consistente rispetto a quella offerta dall'articolo 13 della legge 228/03, subordinata però ad un più complesso e restrittivo sistema di presupposti da accertare. Ciò permette di ritenere che la norma in esame, per conseguire un'effettività dal punto di vista logico e pratico, avrebbe fatto meglio ad esordire richiamando, quale condizione generale, la sussistenza dei presupposti applicativi dell'articolo 18, piuttosto che il generico riferimento alla provenienza della vittima (in questo caso però, essa avrebbe finito col risultare ridondante, se non, superflua). In conclusione, così come formulata dal legislatore del 2003, la disciplina complessiva in esame pare comunque essere destinata a restare, nella maggioranza dei casi, assorbita nel rinvio alla più esaustiva normativa dell'articolo 18 del Testo unico.

Ai fini della elaborazione e della specificazione del programma e dei suoi contenuti, l'ultima parte del 1º comma rimanda ad un regolamento da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 1º della legge 400 del 1988. In realtà, tale intervento è operato successivamente tramite il D.P.R. 19 settembre 2005, n. 237, in qualità di Regolamento di attuazione dell'articolo 13 della legge 11 agosto 2003, n. 228, recante misure contro la tratta di persone. (Gazzetta Ufficiale - serie gen. n. 270 del 19 novembre 2005) (81).

Nel descrivere la sostanza e i principali aspetti contenutistici del programma l'articolo 1, in parte, richiama quanto già previsto dall'articolo 13, ed in parte, aggiunge alcune caratteristiche. Innanzitutto, sono individuati quali soggetti responsabili della realizzazione le regioni, gli altri enti locali e i soggetti privati appositamente convenzionati con questi ultimi (in linea con quanto previsto per l'articolo 18 dal regolamento attuativo, articoli 25 e seguenti). Inoltre, l'articolo 3, comma 1º dispone la competenza della Commissione Interministeriale per l'attuazione dell'articolo 18 del Testo unico (ridenominata "Commissione Interministeriale per il sostegno alle vittime di tratta, violenza e grave sfruttamento" dal D.P.R. 14 maggio 2007, n. 102), in una forma appositamente integrata rispetto a quella descritta dall'articolo 25, comma 2º del D.P.R. 394/1999 per le ipotesi attuative dell'articolo 18, in ordine alla valutazione dei progetti di fattibilità allo scopo di ammettere i programmi alle modalità di finanziamento.

Il secondo comma dello stesso articolo individua alcuni tipici poteri di consulenza e di vigilanza esercitati dalla Commissione stessa (anche nei casi di rilascio dei permessi per motivi umanitari che implicano l'adesione della vittima a determinati tipi di programma). La Commissione ha novanta giorni per eseguire un simile giudizio, attenendosi a quelli che sono i "criteri generali" e gli "indicatori" espressi dall'articolo successivo. Rientrano nella prima categoria (articolo 4, comma 1º, lettere a, b e c) una relazione illustrativa del tipo e della natura di interventi proposti, un'analisi costi-benefici, una eventuale scheda 'personale' del soggetto attuatore (se diverso dal soggetto proponente). Rientrano invece fra gli "indicatori" una serie di elementi logistici, strutturali, organizzativi, economici inerenti al soggetto incaricato della realizzazione ed elencati nel comma successivo (lettere da a ad f). Il programma speciale di assistenza è finanziato, in caso di esito positivo del vaglio della Commissione, nella misura dell'ottanta per cento dallo Stato (avvalendosi delle risorse messe a disposizione presso il Dipartimento delle Pari Opportunità) e nella misura del venti per cento da parte delle regioni o degli enti locali interessati (attingendo alle risorse destinate all'assistenza). I soggetti indicati nel comma 1º dell'articolo 1 devono presentare i progetti di fattibilità presso il Dipartimento per le Pari Opportunità che si trova presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nei tempi e nei modi indicati dal decreto (secondo l'articolo 5). Per le associazioni od enti privati che intendano svolgere queste attività sono richiesti una serie di presupposti, i quali sono sintetizzabili nella disciplina relativa a due articolati requisiti generali, ovvero, la convenzione con l'ente locale interessato e l'iscrizione in uno specifico registro previsto dall'articolo 52 del regolamento attuativo al T.U.I. (di entrambi si discuterà in modo approfondito nel capitolo dedicato al permesso di soggiorno ex articolo 18 del T.U. medesimo).

Circa le caratteristiche salienti dello strumento in questione, è disposto dal decreto che "i progetti attivati a norma del presente articolo hanno una durata di tre mesi e sono prorogabili per un ulteriore periodo di pari durata da parte della Commissione di cui all'articolo 3" (82).

Una previsione apparentemente innovativa su questo tema e riguardante la protezione delle vittime è quella ricompresa nel 3º comma dell'articolo 1. Infatti è prescritto che, i progetti di fattibilità, sulla base dei quali dovrebbe essere esaminato ed approvato il programma, dovrebbero prendere in considerazione le "eventuali esigenze collegate alla tipologia di vittime", oltre che alla loro "età" e al "tipo di sfruttamento subito". Sono però evidenti alcuni limiti e difetti di tale, pur valida, intuizione: in primo luogo, il verbo utilizzato ("tengono altresì conto") lascia pochi dubbi sulla precettività della disposizione; in secondo luogo, non è precisato alcun criterio per eseguire una simile valutazione, né si capisce cosa possa e cosa non possa rientrare nel concetto di 'tipologia della vittima' (soltanto l'età, oppure devono essere incluse anche considerazioni sul contesto socio-economico di provenienza, sulle caratteristiche psico-fisiche dello straniero, sulla sua condizione di vita precedente, ecc?); in terzo luogo, le misure assistenziali esplicitate sono pressoché le stesse genericamente indicate nel comma 1º dell'articolo 13 della legge 228 (con i medesimi problemi circa la sua esaustività o meno rispetto al quadro delle misure 'programmabili'); infine, permane la clausola finale di invarianza finanziaria (articolo 6) per quello che riguarda il contenimento dell'onere finanziario proveniente dall'attuazione dei programmi.

IV). E' opportuno anticipare a questa sede l'esame delle modifiche apportate all'articolo 13 dalla riforma del 2014. L'articolo 9 del d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 ("Attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI") aggiunge un comma 2-bis all'articolo 13 della legge 11 agosto 2003, n. 228. Tale integrazione, è finalizzata a rendere possibile, in futuro, l'adozione del "Piano nazionale d'azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani", attraverso la collaborazione dei Ministeri interessati, previa intesa in sede di Conferenza Unificata. Il Piano, teoricamente da emanarsi nel termine di tre mesi dall'entrata in vigore della disposizione, ha come obiettivo generale quello di costituire la base per la definizione di "strategie pluriennali di intervento" (rivolte al conseguimento delle specifiche finalità indicate, quali la repressione e prevenzione dei gravi crimini di tratta e di sfruttamento delle persone) e di "azioni" a carattere social-preventivo (83) volte a sensibilizzare la società civile su questi problemi e a facilitare l'integrazione delle vittime.

Circa quelli che sono i rapporti ipotizzabili fra l'articolo 13 e l'articolo 18 del d.lgs. 286/98 dopo la introduzione, in quest'ultima fattispecie, del comma 3-bis (da parte dell'articolo 8 del d.lgs. 24/14), si dirà nel capitolo 4.2.

Rimane da accennare al "Fondo per le misure anti-tratta" (già menzionato quale possibile destinazione dei beni e valori intercettati con la confisca che, relativamente ai reati di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p., può rafforzare e sostenere l'azione penale), introdotto dall'articolo 12 della legge 228. Il Fondo, istituito presso la Presidenza del Consiglio, è specificamente destinato al finanziamento dei programmi di assistenza e di integrazione sociale descritti dall'articolo 18 T.U.I., nonché "delle altre finalità di protezione sociale previste" dallo stesso. Il comma 3º delinea come sono assegnate le risorse che confluiscono nel Fondo e le possibili fonti d'origine. Dalla formulazione letterale del secondo comma pare inspiegabilmente escluso dall'ambito applicativo dell'articolo 12 il programma di cui all'articolo successivo della medesima legge 228 (se, come sembra, l'interpretazione della disposizione trova la sua chiave di volta nel "nonché").

Anche questo articolo è pesantemente modificato dal d.lgs. 24 del 2014: l'articolo 6, introduce infatti ben 7 nuovi commi (da 2-bis a 2-oct). L'argomento generale che il legislatore mira a valorizzare con questa sostanziosa aggiunta è il diritto di indennizzo delle vittime di tratta. E' infatti espressamente prevista l'entità dell'indennizzo da corrispondere alle vittime dei reati considerati già dalla previgente normativa (comma 2-ter), il cui importo dovrebbe essere coperto attingendo alle risorse del Fondo ex articolo 12. I commi 2-quat. e seguenti descrivono l'iter procedurale per la presentazione della domanda di accesso al Fondo, i relativi tempi e modi, i requisiti e gli adempimenti necessari ai fini dell'esercizio del diritto ad ottenere il risarcimento da parte delle vittime. I primi commenti alla riforma del 2014 hanno salutato con approvazione la disposizione del comma 2-quat., in particolare laddove essa stabilisce che la suddetta domanda di accesso sia presentata nel termine decadenziale di cinque anni, o dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna che ha riconosciuto il diritto al ristoro del danno, o dalla pronuncia della sentenza non definitiva che condanna al pagamento di una provvisionale. La disciplina è più favorevole per la vittima interessata rispetto a quella previgente, in quanto è sufficiente per quest'ultima dimostrare di non aver ricevuto il risarcimento da parte del/degli autore/i all'esito dell'azione civile precedentemente esercitata (con le relative procedure esecutive).

Il comma 2-sept. indica alcune cause di esclusione dalla possibilità di esercitare il diritto all'indennizzo tramite la presentazione della domanda di accesso al Fondo, che concernono la sottoposizione della vittima stessa a procedimento penale.

Infine, un iter particolare è seguito nell'ipotesi in cui non siano individuati gli autori dei reati o sia stata attuata infruttuosamente l'escussione dei medesimi; in questo caso, la vittima può agire nei confronti della Presidenza del Consiglio per ottenere l'accesso al Fondo, mentre "la Presidenza del Consiglio dei Ministri è surrogata, fino all'ammontare delle somme corrisposte a titolo di indennizzo a valere sul fondo, nei diritti della parte civile o dell'attore verso il soggetto condannato al risarcimento del danno" (comma 2-oct.).

3.2.4 Alcuni brevi cenni sull'impatto del d.lgs. 109/2012 sul sistema anti-tratta

Nel nostro ordinamento, gli sviluppi relativi agli strumenti ed alle disposizioni anti-tratta hanno avuto, nella stragrande maggioranza dei casi, quali apri-pista, misure rivolte a combattere la tratta degli esseri umani finalizzata allo sfruttamento sessuale. Ciò trova le sue ragioni essenzialmente in una combinazione di quello che è stato l'approccio originario delle fonti sovranazionali a questi gravi crimini, da un lato, ed in precise cause osservate nell'ambito della vittimologia, dall'altro. Se è vero infatti che le prime convenzioni ed accordi in materia di tratta si soffermano prevalentemente sulle sue derivazioni schiavistiche e para-schiavistiche, è altrettanto nota l'attenzione da sempre dedicata ai traffici di persone destinate alla prostituzione. Interesse che ha conosciuto un notevole innalzamento dei livelli di guardia, sia per ragioni 'quantitative' (ovvero, per la preoccupante estensione di questo mercato e quindi, dei traffici che vi si riconnettono) sia per risalenti ragioni 'qualitative' (giovani donne, bambini e, più in generale, soggetti cosiddetti vulnerabili sono le vittime per eccellenza e tale tendenza è tutt'altro che in diminuzione).

Si è parlato della difficoltà di ottenere e di poter discutere su dati affidabili circa questi fenomeni. Esiste però un mercato, sicuramente più vicino alla realtà quotidiana e ben più visibile nelle sue dinamiche esistenziali, anch'esso fortemente collegato (se non, massicciamente alimentato) da traffici illeciti di persone. E si fa un enorme fatica a ricostruire un quadro accettabile delle dinamiche delittuose intrinseche nello stesso. Il riferimento è al mercato del 'lavoro nero' e quindi, alla tratta degli esseri umani finalizzata allo sfruttamento lavorativo. Non è realmente possibile andare a ricercare ed esaminare in questa sede le cause più profonde che, sia sotto il profilo del diritto del lavoro e della sua considerazione dello straniero (irregolare), sia sotto il profilo della disciplina penalistica al riguardo, possono aver concorso nel delinearsi di una simile situazione (nonché, aver aggravato le difficoltà di rilevazione di cui si è detto). Tuttavia, si deve dare conto di quella che è stata la considerazione di questo tema da parte del legislatore italiano e la risposta offerta alle esigenze emerse con l'approvazione della direttiva 2009/52/CE ("norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare") (84).

Già prima del 2012, la norma di riferimento era considerata quella contenuta nell'articolo 22, comma 12 del T.U. sull'immigrazione. Essa disponeva la reclusione dai 6 mesi ai 3 anni ed una multa (il cui importo dipendeva dal numero dei soggetti coinvolti) per quei datori di lavoro che si fossero resi responsabili delle condotte sintetizzabili nell'assunzione e nell'impiego lavorativo di stranieri irregolarmente presenti sul territorio.

Questo impianto normativo è stato conservato. Ad oggi, tale fattispecie è tipicamente un reato proprio, imputabile al solo datore di lavoro, mentre altri soggetti partecipanti possono al più rispondere di concorso di persone nel reato del datore, ai sensi degli articoli 110 e ss. c.p. (a meno che le loro condotte non integrino altre fattispecie, quali il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina ex articolo 12 del T.U.I. o l'intermediazione illecita recentemente introdotta).

E' importante precisare fin da subito che la figura criminosa in questione è integrata per il solo fatto di ricorrere al lavoro di stranieri non in regola con il permesso di soggiorno ed a prescindere da quali siano le mansioni a cui sono destinati. Questo è spiegabile col fatto che la ratio della norma, non è tanto la salvaguardia dei diritti del lavoratore immigrato, quanto piuttosto il rafforzamento del quadro disciplinare amministrativo in materia (posto a garanzia della regolarità occupazionale del soggetto impiegato) con un sanzione penale. Inoltre, ciò costituisce riprova del fatto che la disposizione non è necessariamente rivolta a situazioni che implicano lo sfruttamento del dipendente (circostanza che verrà in rilievo successivamente, con l'intervento del 2012, quale aggravante della fattispecie).

L'articolo 22, comma 12º, può essere considerato quindi in linea con quanto dispone poi l'articolo 9 della direttiva 2009/52/CE - descrittivo degli elementi essenziali che dovrebbe prevedere la "Fattispecie di reato" in questione, lettere da a) ad e) - anche se risalta l'assenza di considerazione per le ipotesi di "particolare sfruttamento" del lavoratore (locuzione alquanto foriera di dubbi). Tale lacuna, unita ad una maggiore (seppur ancora parziale) consapevolezza circa le dimensioni e la natura del fenomeno e le preoccupanti condizioni delle vittime sottopostevi, ha indotto il legislatore (con un anno di ritardo) ad intervenire nuovamente. E' così emanato il decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109 (cosiddetta "legge Rosarno"), attuativo della direttiva 52/09 (detta anche "direttiva sanzioni").

Innanzitutto, se traspare in modo piuttosto evidente la finalità dell'atto di andare a rinforzare il quadro repressivo nei confronti dei datori di lavoro scorretti (rendendo la commissione di questi illeciti maggiormente rischiosa), emerge ben presto anche un secondo obiettivo concreto. Leggendo la relazione tecnica di accompagnamento al decreto si intuisce l'urgenza di rendere effettivi gli strumenti e le misure di protezione ed assistenza nei confronti delle vittime di tratta e grave sfruttamento lavorativo, compresa la possibilità di rilasciare alle stesse speciali titoli di permanenza (il modello esplicitamente richiamato è quello del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell'articolo 5, comma 6º del T.U.I.).

Volendo schematizzare le linee essenziali d'intervento, il d.lgs. 109/12 va a modificare gli articoli 22 ("Lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato", già riformato nel 2002, commi 5º, 7º e 12º) e 24 del d.lgs. 286/98. Per quello che riguarda le argomentazioni rilevanti ai fini del presente scritto, al suddetto articolo 22 sono aggiunti alcuni commi dopo il dodicesimo (da 12-bis a 12-quinq.). In particolare, è con il comma 12-bis che il legislatore integra la fattispecie principale di cui al comma precedente con delle nuove fattispecie aggravanti, le quali vanno a considerare i casi di occupazione di lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti caratterizzate da modalità vessatorie di impiego o da sfruttamento. Le circostanze in questione, definite dal comma 12-quat. "di particolare sfruttamento" (lavorativo), determinano un aumento da un terzo alla metà della pena prevista, e sono: a) il caso in cui i lavoratori impiegati (in simili condizioni) sono più di tre; b) il caso in cui vengano scoperti lavoratori occupati che sono in realtà minori in età non lavorativa; c) l'ipotesi in cui i lavoratori occupati sono soggetti a "condizioni lavorative di particolare sfruttamento". E' interessante notare come, invece di tentare di elaborare una nozione esplicativa di tali condizioni - di cui al punto c) - il legislatore del 2012 abbia scelto di operare una definizione delle stesse 'per rinvio' a una norma del codice penale (introdotta nel 2011): la norma di cui si discute è il comma 3º del articolo 603-bis, dedicato alle circostanze aggravanti ad effetto speciale relative al nuovo reato di "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro" (85).

Posto che le lettere a) e b) del comma 12-bis corrispondono alle circostanze n. 1) e 2) del comma 3º, l'unica ipotesi aggravata che deve essere aggiunta in forza del richiamo, è quella in cui il datore abbia esposto il lavoratore clandestino ad una generica "situazione di pericolo" nello svolgimento delle mansioni affidategli (comma 3º, n. 3, dell'articolo 603-bis).

Prima dell'introduzione di questo insieme di circostanze si riteneva che, l'elemento dello sfruttamento, in quest'ambito, determinasse l'applicazione dell'articolo 12 comma 5º del Testo unico sull'immigrazione, ovvero il delitto di favoreggiamento della permanenza clandestina dello straniero irregolare "al fine di trarne un ingiusto profitto". L'articolo 22 invece, riguardava come detto i soli casi di impiego di tale individuo, a prescindere dal modus. Con la novella, viene a decadere tale criterio distintivo degli ambiti applicativi delle due fattispecie: perciò, ad oggi, l'utilizzo a fini lavorativi di stranieri non in regola con il soggiorno è sempre riconducibile all'articolo 22 T.U.I. Se ricorrono poi modalità d'impiego vessatorie, particolarmente gravose e/o discriminatorie, troveranno spazio le ipotesi di cui al comma 12-bis dello stesso articolo, più gravemente sanzionate (anche rispetto al semplice reato di favoreggiamento della permanenza).

Qualora sussistano le situazioni di particolare sfruttamento lavorativo (86), così come definite dal combinato disposto delle due norme citate, il comma 12-quat. dell'articolo 22 (87) (anch'esso frutto della riforma del 2012) prevede che il questore, su proposta o con il parere favorevole del Procuratore della Repubblica, possa provvedere al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell'articolo 5, comma 6º, in favore di quello straniero che abbia presentato denuncia e collabori nel procedimento istaurato nei confronti del datore di lavoro. Il comma 12-quinq. in proposito recita: "il permesso di soggiorno di cui al comma 12-quat. ha la durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno o per il maggior periodo occorrente alla definizione del procedimento penale. Il permesso è revocato in caso di condotta incompatibile con le finalità dello stesso..[..]". Con il decreto 109/12 il legislatore ha perciò provveduto a conformarsi agli standard comunitari di tutela indicati dalla direttiva del 2009, scegliendo tuttavia di non avvalersi della clausola prevista dall'articolo 15 della direttiva europea che, relativamente alla possibilità indicata dall'articolo 13 comma 4º di concedere permessi di soggiorno agli stranieri in questione, fa salva la possibilità degli Stati membri di "adottare o mantenere" misure più favorevoli nei confronti delle vittime (88). Considerando il nostro ordinamento sotto il profilo della disciplina anti-tratta, risalta in modo palese l'illogicità di questa operazione, soprattutto se si interpreta quel "mantenere" di cui all'articolo 15 avendo riguardo dell'articolo 18 del d.lgs. 286/98 (e 27 del reg. att.). Non si capisce infatti la ragione per cui alle vittime di tratta sottoposte a grave sfruttamento lavorativo debba essere rilasciato un permesso di soggiorno ex articolo 6, comma 5º, a carattere temporaneo, di natura 'premiale' (in quanto subordinato alla denuncia o alla cooperazione del soggetto passivo nel procedimento penale istaurato) e la cui durata è agganciata alle esigenze dell'azione penale, quando è presente da tempo e collaudato uno strumento come il permesso di soggiorno (anch'esso per motivi umanitari) finalizzato all'assistenza e ad all'integrazione sociale anche delle vittime di tratta. Il permesso ex articolo 18 T.U.I. è decisamente più garantista, in quanto legato in modo assai marginale alla collaborazione giudiziaria dello straniero ed è convertibile, a conclusione di uno specifico iter, in un permesso a lungo termine: pare così configurarsi un'irragionevole discriminazione in materia di tutele per le vittime del reato previsto dall'articolo 22, comma 12º del T.U.I.

E' bene comunque sottolineare che questa incoerenza è superata, a livello interpretativo e per alcune circostanze, da una parte della dottrina (89), la quale sostiene che dovrebbe trovare sempre applicazione il più completo e garantista strumento contenuto nell'articolo 18, quando:

  • lo sfruttamento del lavoratore (straniero, irregolare) è particolarmente grave e degradante;
  • il lavoratore è tenuto in una condizione di vera e propria schiavitù o servitù, di cui all'articolo 600 c.p.;
  • il lavoratore è comunque vittima di tratta di persone in base al codice penale (articolo 601).

Inoltre, le ultime due ipotesi, in seguito alla riforma delle relative fattispecie con conseguente aggravio della risposta sanzionatoria, sono incluse nell'ambito applicativo dell'articolo 18 tramite il richiamo effettuato dallo stesso ai reati di cui all'articolo 380 c.p.p. (ragionamento non estensibile però al reato di cui all'articolo 603-bis del c.p. sul 'caporalato' e l'intermediazione illecita). Ovviamente, devono sussistere in tali casi tutti i presupposti applicativi dell'articolo 18 medesimo.

Nel complesso, la riforma non è stata perciò esente da critiche, le quali si sono concentrate principalmente sulla formulazione del comma 12-bis dell'articolo 22, sull'interpretazione teorica e pratica che dovrebbe caratterizzare il meccanismo di cui all'articolo 12-quat. ed infine, nei riguardi dell'ennesima sanatoria proposta in materia e ricompresa nella disposizione transitoria del decreto.

Sono state espresse perplessità (90) sull'opportunità di ricostruire il concetto di "particolare sfruttamento lavorativo" nei termini in cui lo descrive il comma 12-bis, introdotto dal decreto 109/12. Si è infatti già visto come i primi due indici proposti dalla norma sostanzialmente ricalchino i due criteri che sono previsti, ai medesimi fini, dal comma 3º dell'articolo 603-bis c.p. Tale disposizione, fa inoltre espresso rimando al terzo indice introdotto dalla riforma, rendendo la definizione ripetitiva e limitata dal punto di vista applicativo. A tale difetto è riconducibile poi una precisa lacuna, in quanto pare arduo sostenere che il comma in esame sia riuscito, tramite la suddetta ricostruzione delle condotte di "particolare sfruttamento", a traslare in modo soddisfacente l'ampia fattispecie ricavabile dagli articoli 9 e 13 della direttiva europea nel diritto interno. La direttiva n. 52/2009 individua come connotate dal "particolare sfruttamento" quelle "condizioni lavorative, incluse quelle risultanti da discriminazione di genere e di altro tipo, in cui vi è una palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori assunti legalmente, che incide, ad esempio, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori ed è contraria alla dignità umana" (91).

Altro problema circa la struttura di questo comma 12-bis (peraltro direttamente legato alla discrasia di formulazioni appena evidenziata) è rintracciabile nella insensata esclusione del comma 2º del nuovo articolo 603-bis (92) ai fini ricostruttivi delle ipotesi in questione. Tale disposizione, prevede infatti una serie di ulteriori, significativi nonché più specifici indicatori di sfruttamento lavorativo, riguardanti: l'entità della retribuzione, la sua proporzionalità alle prestazioni svolte e la sua adeguatezza rispetto ai contratti nazionali (1); la presenza di violazioni sistematiche della normativa sui diritti essenziali del lavoratore (2); la sussistenza di rischi gravi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti da trasgressioni delle normative lavoristiche che regolano tali aspetti (3); la lesione della dignità del lavoratore proveniente dalle condizioni di lavoro, di alloggio o dai metodi di sorveglianza cui è sottoposto (4). Appare perciò inspiegabile l'atteggiamento del legislatore, a causa del quale nessun richiamo (nemmeno implicito) è configurabile (proprio per la specificazione operata relativamente al 3º comma dell'articolo 603-bis), e dunque, in ragione del quale nessuna rilevanza rivestono questi criteri nella descrizione delle serie situazioni di disagio in cui, di frequente, si possono trovare i lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno e vittime di tratta.

Un secondo ordine di problematiche è riferibile al meccanismo che presiede alla concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari (ai sensi dell'articolo 6, comma 5º del T.U.I.) e contenuto nel comma 12-quat. dell'articolo 22. Innanzitutto, sulla scia dell'analisi del primo tipo di problematiche, risulta abbastanza intuitivo che, essendo il rilascio del permesso in questione subordinato, fra le altre cose, alla sussistenza delle peculiari condizioni indicate dal comma 12-bis, saranno esclusi a priori dalla misura i lavoratori che non rientrano nella definizione proposta (compresi quelli che si trovano unicamente in una delle situazioni descritte dal 2º comma dell'articolo 603-bis). Si è già in parte accennato alle caratteristiche salienti del permesso di soggiorno in questione ed alla opinabile scelta del riformatore di conferirgli un deciso carattere premiale. Così come invece, si è sottolineata l'opportunità teorica e pratica di espedienti (non previsti dal legislatore) volti a rendere applicabili (anche cumulativamente col permesso in esame) le soluzioni di cui agli articoli 18 del T.U e 13 della legge 228/03 (ad esempio, sarebbe bastato che l'articolo 22, comma 12-bis, avesse previsto, nell'elenco delle fattispecie aggravate, un rinvio alle norme penali in materia di schiavitù/servitù e tratta per potersi riconoscere l'applicabilità del più garantista permesso per motivi di protezione sociale).

Dovendosi tuttavia fare i conti con la discutibile formulazione del comma 12-quat., è intanto auspicabile che sia adottata un'interpretazione elastica del concetto di "collaborazione della vittima nel procedimento penale", per non vanificare del tutto quella che abbiamo detto essere la rilevante ratio di effettività della tutela della vittima e dei suoi diritti (che caratterizza tanto la direttiva europea, quanto il decreto 109). Inoltre, circa le possibilità di denuncia proveniente dal lavoratore, viene clamorosamente a mancare qualsiasi riferimento alla creazione di strumenti destinati ad assistere e quindi agevolare le vittime in questo compito. Ciò in potenza può costituire un limite importante all'effettiva applicazione pratica di questo comma, soprattutto alla luce dell'introduzione del reato di cui all'articolo 10-bis del T.U. sull'immigrazione con il cosiddetto 'pacchetto sicurezza' (legge n. 94/09). Questa disposizione disegna infatti un sistema caratterizzato dalla criminalizzazione del lavoratore straniero irregolarmente soggiornante sul territorio dello Stato: una soluzione di questo tipo, non può quindi avere altro effetto in proposito, se non quello di disincentivare le denunce e dunque, rendere più difficoltosa l'emersione del fenomeno.

Per le stesse esigenze, dovrebbe evitarsi di ricorrere a letture eccessivamente restrittive del rinvio effettuato al nuovo articolo 603-bis del codice penale: la Cassazione (93), ha sottolineato come una interpretazione di questo tipo finirebbe sì per mettere in risalto le finalità di prevenzione della tratta e di repressione dei reati propri dei datori di lavoro, ma a scapito dell'attività di sostegno ed assistenza alle vittime coinvolte.

Un accenno deve infine essere riservato alla "disposizione transitoria", prevista all'articolo 5 del decreto legislativo n. 109/12 di recepimento della direttiva europea. Essa introduce una "procedura di emersione" che permette ai datori di lavoro, entro un termine indicato di 30 giorni dall'entrata in vigore della nuova disciplina, di effettuare una dichiarazione relativamente all'impiego di stranieri non regolarmente soggiornati. I datori possono in questo modo evitare di incorrere nelle sanzioni previste dalla legge, a patto che essi provvedano al pagamento di una somma di mille euro, corredata dal riconoscimento delle somme dovute a livello contributivo, per ciascun lavoratore irregolare occupato. Si sospendono inoltre, tutti i procedimenti penali e/o amministrativi pendenti, tanto per il datore quanto per i lavoratori. Questo intervento, ascrivibile all'ormai sistematica prassi di periodiche sanatorie in materia di immigrazione, ha avuto scarsissimo seguito rispetto ai precedenti. Codesto calo pare imputabile, in primis, alla consistenza dell'importo richiesto per ciascun individuo da regolarizzare, ma soprattutto, è probabilmente in questo senso decisivo "lo scarsissimo potere dissuasivo dell'astratta possibilità di denuncia del lavoratore sfruttato, che viene riservata dal legislatore delegato alle sole ipotesi si sfruttamento lavorativo particolare di cui al comma 12-bis..[..]" (94).

Volendo fare un bilancio su quello che può essere considerato il reale impatto di questa riforma del 2012 sul quadro della disciplina giuridica di contrasto alla tratta, devono essere rimarcate due gravi lacune che possono risultare decisive. Da un lato, si segnala la carenza di un "sistema integrato" volto all'effettiva assistenza ed al sostegno di tutti i migranti oggetto di particolare sfruttamento lavorativo, anche all'infuori dei parametri indicati dagli articoli 600 e 601 del codice penale o dei presupposti richiesti dall'articolo 18 T.U.I. Ciò, implica a sua volta un serie di discussioni sulla natura premiale del corrispondente permesso, sulla sua durata, sull'assenza di iniziative programmatiche improntate alle esigenze primarie di assistenza, ma anche di integrazione sociale di persone già presenti ed operanti sul territorio.

D'altro canto, si registra una certa ritrosia delle vittime di questi crimini ad esporsi allo scopo di mettere a conoscenza le autorità pubbliche competenti (anche per mezzo di soggetti od enti privati che si occupano di questi temi) circa le loro situazioni di disagio, a causa della scarsa attenzione del legislatore a meccanismi che siano realmente in grado di agevolare le denunce come richiesto dall'articolo 13 della direttiva 52/09.

Ulteriori complici nell'aggravarsi di una simile tendenza, sono alcuni strumenti e/o fattispecie (una su tutte, l'articolo 10-bis citato), frutto di politiche ed interventi scriteriati e con effetti devastanti sulle già remote possibilità di emersione 'spontanea' dei fenomeni in questione. In ogni caso, le difficoltà che si registrano in proposito, così come la richiesta da parte della direttiva di "meccanismi efficaci" di denuncia, rappresentano forse i semi dai quali, in un futuro (si spera) prossimo, possa germogliare, in questo ambito come in altri vicini, la consapevolezza della imprescindibilità di un'onesta e leale collaborazione con i soggetti trafficati e sfruttati ai fini della individuazione dei crimini e della punizione dei responsabili.

Se diversamente, non si interviene con l'obiettivo di adeguare le misure introdotte al più ampio dettato degli obblighi comunitari, la tutela spettante ai soggetti che rientrano nell'ambito applicativo dei commi 12-bis e seguenti (dell'articolo 22 T.U.I.) non pare in grado di realizzare l'inversione di tendenza di cui si è detto esservi bisogno. Né qui, né altrove.

Per ragioni di completezza, è opportuno non lasciar fuori da questo discorso una breve trattazione sulla nuova fattispecie sulla "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro" (95). La disposizione in questione è appunto l'articolo 603-bis del codice penale, introdotto dal decreto legge n. 138/2011 e convertito in legge n. 148/2011, la quale è specificamente pensata con l'intento di arginare il fenomeno del cosiddetto 'caporalato', purtroppo ancora piuttosto diffuso in alcuni settori produttivi (quali edilizia o agricoltura) in determinate zone d'Italia (soprattutto nel Meridione). In passato, questi delitti erano direttamente presi in considerazione da una legge, la n. 1369/1960 (oggi abrogata), la quale stabiliva il "divieto di interposizione ed intermediazione nelle prestazioni di lavoro". Pur non essendo più in vigore, tale legge conserva un suo significato, in quanto la fattispecie attuale, nella sua evidente struttura articolata, manca di una definizione di 'intermediazione', la quale è perciò ricavata in buona parte dal lavoro della giurisprudenza e della dottrina sulla vecchia fattispecie.

E' bene chiarire subito che sono diversi i profili di collegamento fra il nuovo reato di cui all'articolo 603-bis e la tratta: ad esempio, le frequenti connessioni che sussistono fra queste attività illecite ed organizzazioni criminali dedite ad entrambe le tipologie di reato; lo sfruttamento 'grave' di soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità (di cui il migrante irregolarmente soggiornante e nullatenente può costituire un validissimo esempio teorico e pratico); la sostanziale circoscrizione, forzosa e non di rado violenta, di questi soggetti nel mercato del 'lavoro nero' e della precarietà socio-lavorativa. Inoltre, se si considera l'inciso iniziale della norma "salvo che il fatto costituisca più grave reato" e si tiene conto del trattamento sanzionatorio considerevolmente più consistente per i casi di tratta (anche nel nuovo testo adottato nel 2014), si può interpretare tale incipit quale clausola che fa salva la punibilità della fattispecie più gravemente sanzionata (96).Tuttavia, ed irragionevolmente, tale fattispecie non costituisce presupposto legislativo ai fini dell'acceso, sia per quanto riguarda il permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all'articolo 22, comma 12-quat. del T.U. sull'immigrazione, sia per quanto concerne il permesso per motivi di protezione sociale di cui al medesimo T.U.

La norma punisce chiunque (reato comune) svolga, in modo imprenditoriale o para-imprenditoriale, clandestinamente o meno, attività organizzata di intermediazione caratterizzata dallo sfruttamento dei lavoratori, facendo uso di violenza, minaccia o intimidazione, o ancora, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori. Come anticipato, non è introdotta una definizione precisa di 'intermediazione' illecita, ma si stabilisce, con una formulazione decisamente infelice, che tale condotta si realizza con il 'reclutamento' (attraverso uno dei mezzi indicati) della manodopera destinata allo sfruttamento lavorativo o tramite l'organizzazione dell'attività lavorativa della medesima. Le maggiori difficoltà interpretative derivano proprio da tale elemento disgiuntivo. Infatti, le condotte tipiche ascrivibili al fenomeno del 'caporalato' parrebbero essere le prime due: il soggetto attivo in questione 'recluta o reperisce' la manodopera nei modi illeciti descritti e la garantisce all'impresa utilizzatrice. Egli si 'interpone' poi illecitamente fra l'utilizzatore delle prestazioni e i fornitori (sfruttati) delle stesse, accordandosi direttamente con l'impresa e ricevendo personalmente le somme pattuite (che poi distribuirà ai lavoratori, trattenendone una parte variabile). In alcune ipotesi può accadere che il 'caporale', dopo la fase del reclutamento/intermediazione, si dedichi anche ad 'organizzare, dirigere e sorvegliare' l'attività degli operai, spesso ricorrendo nuovamente a metodi e tecniche violenti o comunque illeciti (nei termini indicati dall'articolo 603-bis). Ecco dunque esplicitata la problematicità insita nel ricorso ad una simile formulazione: l'utilizzo della "o" con valore disgiuntivo provoca un'estensione non ragionevole della portata della fattispecie, la quale finisce per ricomprendere condotte che nulla hanno a che vedere col 'caporalato'. Inoltre, il riferimento disgiunto all'aspetto organizzativo, se letto in questi termini, finirebbe per rendere perseguibile tramite la norma in esame il fatto dell'imprenditore (o suo preposto) che ricorre al servizio del 'caporale'(soluzione che non pare sostenibile se comparata con la ratio dell'603-bis).

Elemento costitutivo essenziale della fattispecie (nonché interessante spunto di collegamento con le ipotesi di tratta) è lo "sfruttamento lavorativo" dei soggetti. Si è già avuto modo di vedere in precedenza, parlando delle modifiche apportate all'articolo 22 del T.U.I. dal decreto 109/12, come il 2º comma dell'articolo 603-bis cerchi di dare una maggiore concretezza anche contenutistica al concetto, tramite l'elencazione di alcuni 'indici di sfruttamento'. Tali 'indici', in apparenza costituiscono dei criteri guida che il legislatore fornisce al giudice al fine di accertare se effettivamente, l'attività lavorativa cui l'intermediazione è rivolta, sia connotata o meno da un trattamento particolarmente sfavorevole e gravoso dei lavoratori (perciò, non è detto che siano gli unici criteri utilizzabili). Non deve però essere trascurato l'incipit della disposizione ("ai fini del primo comma"), il quale sembra restringere il valore di tali parametri nell'ottica della applicazione dell'articolo in questione, piuttosto che riferirlo alla legge penale in generale.

Devono essere considerati quali ulteriori elementi imprescindibili ai fini della sussistenza della fattispecie di reato in questione anche i mezzi cui il 'caporale' ricorre e che caratterizzano le condotte tipiche. Tant'è che è stato sostenuto che "l'attività illecita di "caporalato", pur in presenza di elementi tipici dello "sfruttamento", ma svolta senza il ricorso alla violenza o alla minaccia, non rientra nella fattispecie del reato in esame, come nel caso di un "caporale" che reclutasse operai sottopagati ma "consenzienti" senza bisogno di ricorrere all'intimidazione" (97).

Ciò vale dunque per la violenza e la minaccia, ormai definite da tempo ed in modo assai elaborato e completo nel diritto penale; lo stesso si può dire dell'approfittamento dello stato di bisogno o di necessità' dei lavoratori, nel quale possono ravvisarsi i tratti della 'posizione di vulnerabilità' quale introdotta nell'ordinamento comunitario dalla decisone quadro 629/2002/CE (la coincidenza è riconosciuta dalla giurisprudenza soprattutto in riferimento allo 'stato di bisogno' (98)).

Secondo alcuni, tale aspetto dell'approfittamento, andrebbe per di più ad individuare un dolo specifico per il reato di intermediazione descritto dall'articolo 603-bis.

Nuovamente si rinvia a quanto detto precedentemente, circa le fattispecie aggravate di cui al comma 3º della disposizione.

Le pene previste sono la reclusione compresa fra i 5 e gli 8 anni ed una multa che va dai 1000 ai 2000 euro per ciascun prestatore di lavoro impiegato.

E' complessa la circostanza sul se ed in che termini il reato di cui all'articolo 603-bis possa concorrere con i delitti che fanno parte della medesima sezione del codice penale. In mancanza di una posizione nettamente condivisa, dovrebbe comunque riconoscersi come astrattamente possibile il concorso con i reati di cui agli articoli 600 e 601 c.p. (in special modo se si ha riguardo per le fattispecie in questione così come riformulate rispettivamente nel 2003 e nel 2014) (99). Si vedrà come ciò possa concretizzarsi nel secondo caso, esaminando la nuova fattispecie di tratta introdotta di recente dal legislatore.

3.2.5 La riforma contenuta nel d.lgs. 24 marzo 2014, n. 24, di recepimento della fondamentale direttiva anti-tratta 2011/36/UE

La direttiva 2011/36/UE del 5 aprile, ha rappresentato un significativo passo in avanti dal punto di vista delle fonti giuridiche anti-tratta a carattere sovranazionale. Con essa si introducono una serie di definizioni, principi e strumenti che, come detto, rappresentano una buona sintesi, ma anche, un superamento di tutte le innovazioni precedenti, anche a livello internazionale. Per quanto riguarda l'ordinamento italiano, data la sostanziale inconsistenza delle modifiche apportate in materia dalle leggi n. 146/06 e n. 108/10 (di recepimento rispettivamente dei Protocolli addizionali alla Convenzione di Palermo del 2000 e della Convenzione di Varsavia del 2005) e vista la settorialità della disciplina riferibile al d.lgs. n. 109/12, si è avvertita con maggiore intensità l'esigenza di un affinamento dei principi e di un potenziamento degli strumenti ormai elaborati dieci anni prima in un diverso contesto. Ciò sicuramente può aver avuto un riscontro positivo anche nella rinnovata centralità politica e giuridica dei temi dell'immigrazione e nella preoccupante diffusione dei traffici di persone destinate prevalentemente allo sfruttamento sessuale e lavorativo; tuttavia, deve essere subito evidenziato come la risposta del legislatore non può considerarsi soddisfacente. Tale giudizio è imputabile essenzialmente a due fattori: la tardività dell'intervento recettivo; la sua parzialità, o meglio, la sua non-esaustività rispetto agli indirizzi dettati con la direttiva europea.

Il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 13 marzo ed in vigore dal 28 dello stesso mese, è intitolato "Attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione ed alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisone quadro 2002/629/GAI" (100). Dopo l'enunciazione di alcuni principi generali, la prima parte del documento introduce alcune modifiche al codice penale e al codice di procedura penale; la seconda parte, individua alcune misure riguardanti aspetti più specificamente attinenti alla normativa anti-tratta, sia in riferimento ai soggetti chiamati a porvi un argine (in tema perciò di obblighi di formazione del personale interessato o coinvolto e riguardo ai relatori o meccanismi equivalenti), sia in riferimento alle vittime dei traffici (in particolare sui minori non accompagnati vittime di tratta e sul risarcimento del danno in favore delle vittime in generale); l'ultima parte, contiene infine norme che intervengono direttamente sulla legge 228/03 (articoli 12 e 13) e sulla misura di cui all'articolo 18 del d.lgs. 286/98 (101) (oltre a ricomprendere una serie di disposizioni di rinvio e la clausola di invarianza finanziaria).

L'articolo 1 individua innanzitutto due principi generalissimi rilevanti: il principio per cui l'attuazione del decreto legislativo in discussione non può in alcun modo pregiudicare i diritti ed i doveri che gravano sullo Stato e sui singoli alla luce del diritto internazionale (con riferimento in particolare alle Convenzioni ed ai Protocolli d'intesa in materia di status dei rifugiati, come indicati nel 2º comma); il principio di necessaria valutazione della situazione personale della vittima di trafficking, unito alla esigenza di garantire, attraverso appositi espedienti, che si tenga effettivamente conto dei risultati ottenuti nell'attuazione delle specifiche misure. Circa questo secondo principio, una delle finalità essenziali della riforma è quella di rafforzare la protezione in favore delle cosiddette 'persone vulnerabili', categoria nella quale la norma inquadra "i minori, i minori non accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne, in particolare se in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere" (102). E' evidente come la formulazione in questione risenta del concetto di 'vulnerabilità' quale elaborato dal diritto comunitario ed indicato nel considerando 12º e nell'articolo 2 della direttiva 2011. Altro spunto, può essere rinvenuto nei criteri definitori agganciati alla nozione di 'persone vulnerabili' come prevista dall'articolo 5, lettera d), della legge di delegazione europea n. 96/13 (103).

Se, dal punto di vista della completezza e della esaustività rispetto ai parametri comunitari, la definizione può dirsi valida, non può sostenersi altrettanto sul piano attuativo. Infatti, in primo luogo, se si tiene conto del suddetto principio espresso dal comma 1º, si può notare come il legislatore non introduca significativi nuovi meccanismi di accertamento delle condizioni in cui versano le vittime, né strumenti per facilitarne l'emersione. Tantomeno, si è provveduto a rendere concretizzabili i risultati di tali accertamenti negli strumenti e nelle misure di contrasto al fenomeno. Basti pensare che i citati considerando 12º e articolo 2, comma 2º della direttiva europea n. 36/11 fanno espresso riferimento alle 'persone vulnerabili' ed alle 'posizioni di vulnerabilità' con l'obiettivo precipuo di promuovere un incremento delle sanzioni per le condotte che ricadono in questo ambito (104). Il decreto legislativo non prevede invece nulla a riguardo, limitandosi ad un'enunciazione di principio o, se si preferisce, ad una definizione apparentemente fine a se stessa. Sarebbe stato perciò opportuno, sotto il profilo operativo, un richiamo generico all'aumento di pena provocato dalla commissione dei crimini in questione nei confronti di soggetti in condizione di vulnerabilità, previsto all'interno del comma 1º dell'articolo 1 del decreto; e, secondariamente, l'introduzione negli articoli 600, 601 e 602 c.p. di specifiche fattispecie aggravate applicabili contestualmente alla presenza di un soggetto passivo 'vulnerabile'.

Le modifiche al codice penale, riguardanti gli articoli 600 e 601, hanno tentato, rispettivamente, di arricchire ed attualizzare la definizione del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù e di riformulare, in senso conforme alla direttiva, la scarna fattispecie previgente di tratta degli esseri umani (articolo 2 del d.lgs. n. 24/14).

Circa la prima ipotesi, in linea con l'articolo 2 della direttiva, si è provveduto ad effettuare delle aggiunte mirate al primo comma della norma, introducendo nella fattispecie le due figure criminose della costrizione della vittima "al compimento di attività illecite" che ne implichino lo sfruttamento e la costrizione della stessa "a sottoporsi al prelievo di organi". Al secondo comma dell'articolo 600 c.p., nell'ambito delle diverse modalità riconosciute quali mezzi di riduzione e mantenimento dell'individuo nello stato di soggezione, la modifica vi ricomprende anche l'approfittamento di una situazione "di vulnerabilità (la quale rinvia, quanto al suo referente normativo comunitario, all'articolo 2, par. 3º (105)).

L'articolo 2 del decreto legislativo riformula poi la norma di cui all'articolo 601 c.p. in materia di tratta di persone: andando a modificare profondamente e ad attualizzare la struttura della fattispecie; andando a specificare i modi con cui la tratta può essere commessa; ed infine non riproponendo la vecchia circostanza aggravata ad effetto speciale (la quale considerava le tre distinte situazioni relative al coinvolgimento di minori, allo sfruttamento sessuale e della prostituzione ed alla sottoposizione dell'offeso al prelievo degli organi). Il nuovo articolo (106), ancora una volta piuttosto complesso, è suddiviso in due commi, i quali, a seconda dell'interpretazione accolta, prevedono due o tre distinte fattispecie, tutte soggette alla medesima pena della reclusione dagli otto ai venti anni. Il comma 1º risente di una natura ambigua, divisa fra una formulazione in parte debitrice del previgente articolo 601 (elaborato dalla legge n. 228/03) ed in parte del recepimento della nozione di cui all'articolo 2, par. 1 della direttiva n. 36/11. In ogni caso, risulta abbastanza chiaramente come il suo significato si giochi prevalentemente sulla lettura e sul valore attribuibile di conseguenza all'ovvero che separa le condotte.

Innanzitutto, si può notare come la prima parte della disposizione riproponga, seppure in un ordine leggermente variato, le medesime condotte che sono individuate dalla direttiva: per la prima volta perciò, gli operatori giuridici dispongono di una definizione adeguata della tratta, conforme al principio di tassatività/determinatezza delle fattispecie penali e aggiornata ai più recenti atti e documenti internazionali ed europei. Inoltre, l'utilizzo dei verbi e le relative costruzioni sintattiche proposte, quali il generico 'trasportare' o 'reclutare', oppure il 'trasferire, anche al di fuori del territorio dello Stato', permettono di riferire indistintamente la norma ai fenomeni di tratta transnazionale o meramente interna.

Si è in presenza di un reato comune che può avere indifferentemente, quali soggetti passivi, una singola persona o una pluralità di individui, i quali si trovino in condizione di schiavitù o servitù ex articolo 600 (107). Può creare confusione il fatto che ciò sia specificato più di una volta nel testo ed in riferimento a singole condotte, circostanza che potrebbe quindi far pensare ad una riferibilità selettiva della plurisoggettività solo nei casi in cui ciò è espressamente detto. Tuttavia, l'incipit della seconda parte del comma ("ovvero, realizza le stesse condotte su una o più persone") pare avere una portata di più ampio respiro, riferibile alla fattispecie in esame nel suo complesso.

L'articolo 3 della direttiva 2011/36/UE impone agli Stati membri di intervenire al fine di rendere punibili una seconda tipologia di condotte in materia di trafficking in human beings, ovvero l'istigazione, il favoreggiamento, il concorso nel reato ed il tentativo. Il testo riformato non specifica alcunché al riguardo: dovranno quindi risolversi le singole questioni alla luce della collocazione sistematica della tratta nel codice ed in base alle norme generali che prevedono queste quattro diverse figure.

Il nuovo articolo 601 reinterpreta la partizione classica (ed ormai collaudata nelle fonti sovranazionali) delle fattispecie di tratta in fatti/condotte, mezzi e fini. Considerando separatamente l'elencazione adottata dal legislatore del 2014 circa i mezzi con cui sono posti in essere i comportamenti tipici, si può constatare, salvo qualche omissione (come la frode o il rapimento, oppure il generico 'uso o minaccia d'uso della forza'), come anch'essa recepisca in modo soddisfacente quelle che sono le indicazioni della direttiva (inoltre, l'elenco è praticamente identico a quello contenuto nell'articolo 600, 2º comma c.p.).

I problemi iniziano a porsi laddove, partendo dal significato attribuibile all'ovvero, ci si chieda se la nuova previsione (al pari di quella precedente) possa essere inquadrata fra le norme a più fattispecie o se, diversamente, ci si debba sforzare di interpretare la fattispecie come unica (in conformità all'articolo 2 dirett.) e vi sia dunque un difetto di formulazione imputabile agli strascichi lasciati dalla riforma del 2003. Infatti, la definizione di tratta proposta di recente dalla direttiva è costituita dalla presenza simultanea dei tre tipi di elementi costitutivi della fattispecie criminosa (atti, mezzi, fini), mentre non riconosce la tratta delle persone in condizione di schiavitù. Questa ultima figura, diviene perciò una singolarità del nostro ordinamento che rischia di creare confusione rispetto quella che è la linearità e semplicità della nuova nozione proposta dal diritto europeo (con inevitabili riflessi negativi sul già difficoltoso profilo applicativo). In definitiva, il punto è che, mantenendo la stessa chiave di lettura dell'articolo 601 antecedente, alla luce della direttiva 2001/36/UE, appare ancora più dubbia l'opportunità di far coesistere siffatte norme (anche per l'inadeguatezza dei criteri distintivi, prima incentrati sul numero dei soggetti coinvolti, poi sulle diverse modalità di commissione). La mancanza di chiarezza e semplicità sotto questo aspetto potrebbe vanificare le innovazioni apportate con la riforma attuale e quindi ricondurre nell'oblio (dal punto di vista applicativo) l'articolo 601 (108).

Premesso ciò, volendo interpretare l'articolo 601, comma 1º, in senso conforme all'articolo 2, par. 1 della direttiva, sarebbe sufficiente limitarsi alla soluzione di una fattispecie unica, semplificando così notevolmente la questione, senza peraltro incorrere in violazioni del dettato comunitario. La fattispecie di tratta verrebbe perciò a realizzarsi quando siano poste in essere le condotte tipiche previste nella prima parte del comma 1º, con il contestuale ricorso ai mezzi (anch'essi tipizzati) ricompresi nella seconda parte del comma e per i fini indicati dallo stesso.

Se invece si volesse seguire la via suggerita dall'interpretazione 'storico-letterale', nonché sistematica, si potrebbe anche ipotizzare che il legislatore, con la riforma in esame, abbia inteso andare oltre l'intervento comunitario, disegnando una fattispecie bipartita e ben più ampia di quella delineata nell'articolo 2 della direttiva. Se così fosse, le condotte consistenti nel reclutare, introdurre nel o trasferire al di fuori del territorio dello Stato, trasportare, cedere l'autorità sulla persona, accogliere od ospitare le persone sottoposte alle condizioni di cui all'articolo 600, sarebbero oggetto di considerazione autonoma nell'ordinamento penale, a prescindere dai mezzi con cui sono perpetrate. O, più precisamente, sarebbero punibili anche se poste in essere con mezzi diversi da quelli elencati dallo stesso articolo 601, 1º comma (seconda parte). La sussistenza di tali mezzi andrebbe invece ad integrare la fattispecie tipizzata nella seconda parte del comma, costituita dalle medesime condotte e rivolta ad assoggettare e sfruttare le prestazioni fornite dai soggetti trafficati.

Un'interpretazione di questo tipo richiederebbe forse di essere armonizzata e contestualizzata all'interno della logica e degli equilibri giuridici della fattispecie unica e complessa individuata dal diritto comunitario. Al di là di questo, essa non sembra comunque essere in contrasto con l'articolo 2, comma 1º della direttiva n. 36/11.

E' tuttavia dubbio e dovrebbe comunque verificarsi in senso pratico se, ed in che termini, una simile visione possa effettivamente determinare un significativo ampliamento dell'ambito applicativo (109).

Alcune obiezioni a questa seconda lettura potrebbero trovare una conferma positiva nella terza tipologia di elemento costitutivo del reato di tratta, i fini, i quali sembrano ricondurre ad univocità le fattispecie, restituendo praticità e chiarezza logica alla formulazione (110). Il fine generale, segnalato dal "comunque" che spicca nell'ultima parte del 1º comma, è dato dal destinare la vittima o le vittime "al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento". Anche nella nuova disposizione perciò, lo sfruttamento conserva una rilevanza centrale nella struttura. Viene specificato tuttavia che i soggetti passivi potranno essere 'costretti', oppure, 'indotti' alla realizzazione delle prestazioni lavorative o sessuali (si noti come invece la direttiva, nella norma che definisce la tratta, sia sotto questo aspetto molto più lapidaria (111)). In ogni caso, non si ripresenta adesso la problematica circa la sussistenza e gli eventuali rapporti fra fattispecie diverse: bensì, complessivamente la nuova fattispecie pare perfezionarsi con la messa in atto di una delle condotte tipizzate; mentre, la 'induzione o costrizione' alle prestazioni illecite, con qualsiasi mezzo avvengano, o non avvengano affatto in concreto, si caratterizzano per una natura finalistica e vengono dunque in considerazione in quanto post-factum delle condotte rilevanti. Inoltre, dalla collocazione 'esterna' e disgiunta della figura della 'sottoposizione della vittima al prelievo degli organi' rispetto al primo blocco di fini, sembra potersene ricavare un valore di categoria autonoma. E' comunque palese che una delle conseguenze principali della presenza di questi elementi nella architettura della norma è quella di connotare di un dolo a carattere specifico l'elemento soggettivo che descrive il fatto dell'agente.

Il comma 2º dispone:

alla stessa pena soggiace chiunque, anche al di fuori delle modalità di cui al primo comma, realizza le condotte ivi previste, nei confronti di persona minore di età.

Fino al 2010, la commissione del delitto di tratta di persone ai danni del minore era preso in considerazione dall'ultimo comma del vecchio articolo 601, in un'apposita fattispecie aggravata. Abrogata tale circostanza da parte delle legge n. 108/10, viene a configurarsi una gravissima lacuna dell'ordinamento penalistico e della disciplina anti-tratta (dato che infatti un identico intervento riguarda gli articoli 600 e 602). Il d.lgs. n. 24/14 reintroduce opportunamente nel testo dell'articolo 601 una considerazione espressa di queste ipotesi. In conformità all'articolo 2, paragrafi 5 e 6 della direttiva 2001/36/UE, si stabilisce il principio di irrilevanza dei mezzi con cui è effettivamente compiuto il delitto se vittime sono minori di anni diciotto: troverà comunque applicazione la nuova fattispecie, a prescindere dalle modalità tipiche o atipiche che caratterizzano le condotte.

Vìola invece clamorosamente gli obblighi comunitari l'incipit della norma, il quale dispone per queste situazioni il medesimo trattamento sanzionatorio previsto per i casi di cui al primo comma. L'identità sanzionatoria si pone in aperto contrasto con il diritto comunitario, ed in particolare, con il combinato disposto fra l'articolo 4, par. 2, lett. a), ed il considerando (12) della direttiva europea. Quest'ultimo in particolare, pur senza la dovuta precettività, chiarisce che "i livelli delle pene nella presente direttiva riflettono la preoccupazione crescente negli Stati membri in relazione allo sviluppo del fenomeno della tratta di esseri umani", ritenendo dunque necessario, "quando il reato è commesso in determinate circostanze, per esempio se la vittima è particolarmente vulnerabile, disporre che la pena dovrebbe essere più severa" (112). E' sempre il medesimo considerando a indicare come "nel contesto della presente direttiva, fra le persone vulnerabili dovrebbero essere compresi almeno i minori". Il punto di attrito è abbastanza evidente: non è contestata (né contestabile) in questo senso una violazione da parte del legislatore italiano dei termini edittali indicati dalla norma comunitaria che sanziona le ipotesi di commissione del reato di tratta in danno di minori. E' invece inopportuna la definizione del trattamento sanzionatorio per tali casi tramite il rinvio sistematico alla fattispecie generale. Una soluzione in linea con i principi indicati dalla direttiva dovrebbe, previo un adeguamento dei livelli di cui al primo comma ed un successivo coordinamento col medesimo, indicare in modo specifico una pena più pesante per i casi in questione. Il rischio è altrimenti che l'efficacia repressiva, ma anche l'efficacia general-preventiva e special-preventiva del secondo comma dell'articolo 601 risultino considerevolmente limitate dalla formulazione adottata.

Circa i complessi rapporti reciproci fra la fattispecie in questione e quelle ricomprese nella medesima sezione del codice a tutela della personalità individuale, in parte si è già detto sopra (articolo 600) (113), anche se appare decisivo al riguardo il tipo di ricostruzione dell'articolo 601 che si privilegia. Soprattutto rispetto alla convivenza con la disposizione dell'articolo 602 del codice, se si adotta il punto di vista istauratosi con la riforma della legge n. 228/03 (e con le modifiche successive) si può concludere che anche su questo tema non vi sono novità sostanziali.

Volendo trarre un bilancio conclusivo delle modifiche al codice penale introdotte dall'articolo 2 del d.lgs. 24/14, devono essere segnalate due ulteriori lacune che possono condizionarne, seppure in modo non determinate, l'efficacia e l'impatto sul sistema anti-tratta.

In primo luogo, entrambe le nuove fattispecie di cui agli articoli 600 e 601 contengono per la prima volta un espresso riferimento all'approfittamento delle situazioni di vulnerabilità delle vittime, quale possibile modus operandi del trafficante che pone in essere le condotte. Non è corrispondentemente elaborata una nozione di 'posizione di vulnerabilità' sul modello dell'articolo 2, paragrafo 2, della direttiva; è quindi auspicabile l'introduzione di un simile concetto e/o una sua individuazione da parte della dottrina e della giurisprudenza, anche se ciò appare non-immediatamente decisivo ai fini della proficua applicazione della norma.

In secondo luogo, non è recepito dalla riforma il principio dell'irrilevanza del consenso del soggetto passivo in presenza del ricorso ai mezzi tipici previsti dalla fattispecie (articolo 2, par. 4 della direttiva). Si è comunque già ricordato come una parte della dottrina non ritenga fondamentale tale previsione, in ragione del fatto che tale eventuale consenso sarebbe in ogni caso viziato in simili ipotesi.

Nel complesso soddisfacente rispetto al diritto comunitario è invece la definizione generale di 'sfruttamento' che si accoglie, seppure sia omesso il riferimento esplicito ai casi di sfruttamento della prostituzione e reati connessi. Non sarebbe irragionevole in questa sede un riferimento agli indici di sfruttamento lavorativo previsti dal recente articolo 603-bis del codice, anche se tale elemento ha un diverso valore nelle due fattispecie.

L'articolo 4 del decreto legislativo considera la peculiare situazione dei "minori non accompagnati vittime di tratta" (114). Tale aspetto è preso in esame dagli articoli 13 e 16 della direttiva europea, i quali prevedono al riguardo una serie di regole e principi di primaria importanza (anche se l'intervento comunitario su questo punto pecca forse di genericità e di carenza di strumenti e meccanismi più specifici). L'articolo 13, comma 2º della direttiva, introduce una presunzione fondamentale secondo cui, quando risulti incerta l'età della vittima di tratta di esseri umani e sussistano valide ragioni per ritenere che possa trattarsi di un minore, l'individuo è automaticamente considerato tale e beneficia così di un accesso immediato alle misure di assistenza e sostegno extra-procedimentale (articolo 14 dirett.) e procedimentale (articolo 15 dirett.).

L'articolo 4 del d.lgs. n. 24/14, superando in parte alcune incertezze che erano state messe in evidenza nello schema di decreto legislativo dai primi commentatori (115), dà attuazione concreta a tale regola, inquadrandola in un preciso meccanismo rivolto all'identificazione ed al trattamento del minore non accompagnato oggetto di trafficking. In particolare, il legislatore riformula i due presupposti richiesti dalla direttiva in queste ipotesi, disponendo che laddove sussistano "fondati dubbi sulla minore età della vittima", nonché, il fatto che l'età "non sia accertabile da documenti identificativi", si dovrà procedere all'accertamento dell'età del soggetto, nel rispetto del superiore interesse del minore, "anche" ricorrendo ad una "procedura multidisciplinare di determinazione dell'età". Questa previsione è corredata di due regole ulteriori, senza le quali non potrebbe dirsi compiutamente attuato il dettato comunitario. E' stabilito che nelle more delle procedure identificative la vittima sia comunque considerata minore, in modo da ottenere immediato accesso "all'assistenza, al sostegno ed alla protezione". In secondo luogo e con la medesima ratio, è altresì presunta la minore età dello straniero se le procedure identificative (o la procedura multidisciplinare) non consentano di stabilire con sicurezza l'età dello stesso.

I meccanismi di accertamento dell'età, così come la procedura multidisciplinare di determinazione, dovranno essere definiti, nel termine di sei mesi dall'entrata in vigore della norma, tramite un decreto del Presidente del Consiglio di concerto con i Ministeri interessati. Nell'attesa di tale intervento, l'articolo 4 in discussione pare porre al centro di questa tipologia di procedimenti proprio quello multidisciplinare. Il fondamento di tale procedura è da ricercarsi nei criteri di delega previsti dalla legge 6 agosto 2013, n. 96 "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione Europea. - Legge di delegazione europea 2013", il cui articolo 5, comma 1º, lettera c), impone al Governo, ai fini dell'attuazione della direttiva 2011/36/UE, di "definire meccanismi affinché i minori non accompagnati vittime di tratta siano prontamente identificati, se strettamente necessario, anche attraverso una procedura multidisciplinare di determinazione dell'età, condotta da personale specializzato e secondo procedure appropriate".

In buona sostanza perciò, l'utilizzo in via ordinaria della procedura multidisciplinare (che traspare dal testo dell'articolo 4) viola i criteri di delegazione europea. Inoltre, la disciplina del meccanismo identificativo in questione, e dunque le "procedure appropriate", (si presume) scientificamente, per questo genere di controlli, sarebbero state da adottarsi nel decreto legislativo stesso (e non rinviando ad un successivo decreto interministeriale) in ragione delle diverse riserve di legge presenti: in materia di condizione dello straniero (articolo 10, comma 2º della Costituzione), in materia di provvedimenti limitativi della libertà personale (articolo 13 Cost.), in materia di libertà di circolazione e soggiorno (articolo 16 Cost.), di trattamenti sanitari obbligatori (articolo 32 Cost.) o di prestazioni personali (articolo 23 Cost.), o ancora in materia di procedimenti e autorità giudiziarie.

In sintesi, la legittimità e l'efficacia di questo intervento recettivo sono quindi subordinante: da un lato, all'adozione di una disciplina legislativa della procedura (multidisciplinare) di determinazione dell'età conforme alla legge di delegazione europea n. 96/13 ed ai principi costituzionali vigenti su questi temi, nonché fondata su parametri scientificamente attendibili; dall'altro, alla individuazione, ormai tramite il decreto interministeriale, di meccanismi identificativi più snelli e rapidi da applicarsi in via ordinaria. Per entrambe le tipologie di procedimento, deve essere ribadito con forza il necessario rispetto del superiore interesse del minore, il quale si traduce nella sottoposizione dello stesso alle procedure meno invasive possibili, contestualmente alla presenza del più alto livello di garanzie e tutele previste dall'ordinamento. In proposito, il comma 1º dell'articolo 4 dispone infatti che i minori in questione vittime di tratta devono essere adeguatamente informati sui loro diritti (anche se sarebbe stato opportuno ribadire l'esigenza di tempestività di tale informativa), fra i quali è incluso il diritto a poter accedere ai canali della protezione internazionale.

Il tema della prevenzione dei traffici illeciti di persone non è sufficientemente sviluppato dalla riforma del 2014. L'articolo 5 del decreto legislativo (116) si occupa di una soltanto di quelle che possono essere le diverse applicazioni pratiche e misure adottabili "ad esempio nel settore dell'istruzione e della formazione, per scoraggiare e ridurre la domanda, fonte di tutte le forme di sfruttamento correlate alla tratta di esseri umani" (117): gli obblighi formativi riguardanti coloro che possono venire in contatto con le vittime (effettive o presunte tali) dei reati.

E' sicuramente condivisibile l'indicazione alle Amministrazioni competenti dell'esigenza di predisporre "specifici moduli formativi", di cui debbano avvalersi i "pubblici ufficiali interessati", anche ai fini di una futura regolamentazione condivisa delle pratiche preventive. Tuttavia, al di là della generica indicazione dei moduli, l'invito pare destinato a cadere nel vuoto in quanto non vi è niente che gli conferisca una seppur minima doverosità; ma anzi, esso è indirizzato nell'ambito del potere di autonomia organizzativa dell'amministrazione.

Secondariamente, quantomeno per avvicinare il contenuto dell'articolo 5 a quello ben più ampio dell'articolo 18 della direttiva, sarebbe opportuno fornire un'elencazione più precisa dei destinatari degli obblighi formativi (così come prevista dal considerando 25º della direttiva), oltre a rendere possibile il coinvolgimento in quest'ambito delle associazioni maggiormente rappresentative che si occupano di tutela ed assistenza alle vittime (considerando 6º).

L'articolo 7 investe il Dipartimento per le Pari Opportunità del ruolo di 'relatore nazionale o meccanismo equivalente', attribuendogli i compiti che sono previsti dal legislatore europeo agli articoli 19 e 20 della direttiva 2011/36/UE. Tali competenze consistono, riassuntivamente:

nei doveri di indirizzo e coordinamento degli interventi di prevenzione sociale in materia di tratta, nell'assistenza delle vittime e nei compiti di gestione ed organizzazione delle risorse da destinare al finanziamento dei programmi di assistenza e di integrazione sociale (118);

nel dovere di monitoraggio delle tendenze e degli andamenti dei fenomeni di traffico degli esseri umani, avvalendosi della collaborazione degli enti pubblici e delle associazioni private, e nel connesso compito di valutazione e diffusione dei risultati;

nella presentazione della relazione biennale al coordinatore europeo anti-tratta sulle indagini e le ricerche svolte, sui dati ottenuti, nonché sui risultati degli interventi proposti.

L'attuazione pratica della disposizione in questione è legata all'adozione di uno o più decreti del Presidente del Consiglio. Si rileva inoltre, come in alcuni Paesi europei il recepimento della direttiva su questo punto ha previsto, in modo opportuno, l'affidamento delle funzioni tipiche di cui alle norme sul 'meccanismo equivalente' ad organismi od enti indipendenti.

Deve infine considerarsi quale inadempienza piuttosto grave da parte del legislatore della riforma, la mancata introduzione della clausola prevista dall'articolo 8 della direttiva europea ("Mancato esercizio dell'azione penale o mancata applicazione di sanzioni penali alle vittime"), che esclude la punibilità di quei fatti che le vittime abbiano commesso esclusivamente a causa della sottoposizione agli atti di cui agli articoli 600 e 601.

Note

1. Espressione tratta da F. Salerno, Conclusioni, contributo in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013.

2. Vedi amplius C. Bernasconi, paragrafo succ.

3. Sul significato della dignità nel quadro dell'ordinamento costituzionale italiano vedi in modo esteso G. M. Flick, La tutela della dignità nella Costituzione italiana, intervento tenuto presso la Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno, 11 dicembre 2006.

4. Sulle implicazioni, circa la lesione di tali principi, nell'ordinamento penale interno vedi F. MANTOVANI, Delitti contro la persona, Assago, CEDAM, 2013, pp. 273-274 e F. Mazzacuva, La disciplina penale della prostituzione e i delitti collegati, contributo in A. CADOPPI, Delitti sessuali, delitti di osceno, disciplina penale della prostituzione, delitti di pedopornografia, stalking, e altri delitti contro la libertà morale, Padova, CEDAM, 2014, pp. 141 e ss.

5. Su queste riflessioni, ed in particolare sull'articolo 5 ed i vari permessi per ragioni umanitarie vedi V. MARENGONI., Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, "Diritto immigrazione e cittadinanza", 14 (2012), 4, pp. 60 e ss.

6. Sugli interventi più significativi al riguardo da parte della Cassazione vedi V. MARENGONI, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, cit., pp. 68 più note e più specificamente M. BENVENUTI (a cura di), La protezione internazionale degli stranieri in Italia: uno studio integrato sull'applicazione dei decreti di recepimento delle direttive europee sull'accoglienza, sulle qualifiche e le procedure, Napoli, Jovene, 2011, pp. 565.

7. La direttiva di riferimento per l'ordinamento comunitario in tema di protezione internazionale è stata per molto tempo la dirett. 2004/83/CE.

8. Vedi al riguardo M. BENVENUTI (a cura di), La protezione internazionale degli stranieri in Italia: uno studio integrato sull'applicazione dei decreti di recepimento delle direttive europee sull'accoglienza, sulle qualifiche e le procedure, cit.

9. Da ultimo, la stessa Assemblea generale dell'ONU ha precisato in alcune sedute come tale principio sia ormai da annoverare fra le norme di jus cogens (vedi ris. 61/153, 19.12.2006 e ris. 62/148, 18.12.2007, confermate anche dalle decisioni di alcuni tribunali penali internazionali) e la Corte Europea ha riconosciuto come il carattere inderogabile del medesimo lo sottragga al bilanciamento con valori quali quelli tutelati dall'articolo 3 CEDU o parimenti significativi (ad es., in Nassim Saadi v. Italy, 28.2.2008, par. 120-122.

10. L'articolo 33 di tale Convenzione contiene la nozione tradizionale di 'non refoulement': "non refoulement is a concept which prohibits States from returning a refugee or asylum seeker to territories where there is a risk that his or her life or freedom would be threatened on account of race, religion, nationality, membership of a particular social group, or political opinion".

11. V. MARENGONI, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, cit., pp. 61.

12. Per una ricostruzione più accurata di questa tematica, nonché per l'indicazione puntuale degli interventi della dottrina e del dibattito giurisprudenziale seguiti si veda ancora V. MARENGONI, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, cit., pp. 60-63.

13. MARENGONI, Ibid., pp. 64 e ss.

14. Sul quale esiste una vasta letteratura; per alcuni riferimenti contestuali si veda sempre MARENGONI, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, cit., pp. 65-66 (note).

15. V. MARENGONI, ivi.

16. C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, e F. Salerno, Conclusioni, contributi in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013.

17. F. Salerno, op. cit., pp. 123 e ss.

18. Ivi.

19. Ivi.

20. Vedi B. Nascimbene A. Di Pascale, Riflessioni sul contrasto al traffico di persone nel diritto internazionale, comunitario e nazionale, contributo in G. PALMISANO (a cura di), Il contrasto al traffico di migranti: nel diritto internazionale, comunitario e interno, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 42 e ss.

21. C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, e M. Ferrero G. Barbariol, Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, contributi in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013.

22. VALLINI A., Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), "La legislazione penale" (UTET giuridica), n. 4 (2004), 78, pp. 623-624.

23. Pubblicata in G.U. n. 195 del 23 agosto 2003.

24. Pubblicata in G.U. n. 85 dell'11 aprile 2006 - supplemento ordinario n. 91.

25. Vigente al 3.4.2014.

26. C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, pp. 70 e ss. e M. Ferrero G. Barbariol, Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, pp. 91 e ss., contributi in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013.

27. Un esempio di adozione di simili soluzioni nel nostro ordinamento è quello che riguarda il reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all'articolo 74 del d.P.R. n. 309/90.

28. C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, cit., pp. 71.

29. Praticamente tutte le fonti internazionali e sovranazionali, recenti e non, in materia di lotta alla tratta indicano fra le finalità di base quantomeno un rafforzamento del quadro repressivo-sanzionatorio interno nei confronti dei trafficanti di persone.

30. Vedi C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, cit., pp. 72 e ss. e F. Salerno, Conclusioni, contributi in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013, pp. 121 e ss.

31. Articolo 3 della legge n. 146/06, (Definizione di reato transnazionale): " 1. Ai fini della presente legge si considera reato transnazionale il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché: a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato, c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato".

32. Infatti, il comma secondo richiama la disciplina specifica delle aggravanti in materia di associazione mafiosa, le quali sono sottratte per legge a qualsiasi forma di concorso con possibili attenuanti.

33. F. Salerno, ivi.

34. Vedi sopra Capitolo 2.

35. F. Salerno, ibid., pp. 122.

36. Espressione tratta da C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, cit., pp. 73 (e ss.). Vedi anche F. Mazzacuva, La disciplina penale della prostituzione e i delitti collegati, contributo in A. CADOPPI P. VENEZIANI, Elementi di diritto penale. Parte speciale. I reati contro la persona (vol. 2, tomo 1). Delitti sessuali, delitti di osceno, disciplina penale della prostituzione, delitti di pedopornografia, stalking, e altri delitti contro la libertà morale, Padova, CEDAM, 2014.

37. Su questo punto sono da considerare anche F. MANTOVANI, Delitti contro la persona, Assago, CEDAM, 2013, pp. 273-274 e A. VALLINI, Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), "La legislazione penale" (UTET giuridica), n. 4 (2004), 78, introduzione.

38. Mantovani, ivi., corsivo mio.

39. Ivi.

40. G. MAZZI, Commento all'articolo 600 c.p., in Codice penale (a cura di T. Padovani), Milano, 2011, pp. 4142.

41. F. MANTOVANI, Delitti contro la persona, cit., pp. 274. Mantovani sostiene che in realtà la distinzione fra schiavitù e plagio non può trovare il suo elemento chiave esclusivamente nel riconoscimento giuridico o meno delle pratiche in questione da parte degli ordinamenti. Ciò rende la disposizione anacronistica, e la priva di ogni efficacia pratica apprezzabile. Le "più profonde ragioni" indicate da Mantovani a sostegno di questa contrapposizione fanno riferimento alle modalità concrete con cui il liberticidio è perpetrato: se esso è attuato tramite "condotte esterne, giuridiche o materiali", troverà applicazione la fattispecie della schiavitù, di diritto o di fatto; se il liberticidio è "attuato per vie interne", in modo da compromettere la "integrità psichica" della vittima, allora si parlerà di plagio. Tant'è che Mantovani individua come questione centrale e decisiva non la soppressione del reato di plagio, ma una sua riformulazione secondo le innovazioni e i principi apportati dalle recenti scienze psicologiche.

42. A questi aspetti si accennerà nel prossimo paragrafo.

43. Parte della dottrina (per tutti vedi, Mantovani, cit.) ha ravvisato una difficoltosa convivenza fra la fattispecie generale del favoreggiamento (nella sua generica formulazione legislativa) e il principio di determinatezza. Inoltre, sono stati messi in evidenza alcuni punti di attrito con il principio di offensività in ragione dell'incertezza riscontrata proprio nell'individuazione del "vero bene giuridico tutelato" nelle diverse ipotesi. Entrambi questi problemi sono confluiti all'interno della riflessione sui profili di illegittimità costituzionale della repressione del favoreggiamento. In proposito, confronta anche con Cadoppi-Veneziani, cit., pp. 155.

44. Cadoppi-Veneziani, cit., pp. 143.

45. C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, cit., pp. 74.

46. L'art. 600 del codice penale Rocco è così formulato in origine: «Chiunque riduce una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni».

47. Articolo 601, "Tratta e commercio di schiavi. Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da cinque a venti anni".

48. BERNARDIS M., Riforma dei delitti di riduzione in schiavitu' e di tratta di persone e primi interventi giurisprudenziali, pubblicato in Diritto penale il 19/04/2007, Diritto & Diritti.

49. Ivi.

50. L'articolo 1, n. 2 della Convenzione di Ginevra enuncia: "La tratta comprende ogni atto di cattura, acquisto o cessione di individuo per ridurlo in schiavitù; ogni atto di acquisto di uno schiavo per venderlo o scambiarlo; ogni atto di cessione per vendita o scambio di uno schiavo acquistato, per essere venduto o scambiato; come pure, in genere, ogni atto di commercio o trasporto di schiavi".

51. C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, pp. 75 e ss. e M. Ferrero G. Barbariol, Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, pp. 91 e ss., contributi in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013. A. CALLAIOLI, Art. 2 - Modifica dell'articolo 601 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), "La legislazione penale" (UTET giuridica), n. 4 (2004), 78, pp. 648 e ss. A. VALLINI, Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), "La legislazione penale" (UTET giuridica), n. 4 (2004), 78, introduzione, pp. 623 e ss.

52. A. VALLINI, Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., pp. 624-628 e A. CALLAIOLI, Art. 2 - Modifica dell'articolo 601 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., pp. 653.

53. Vedi note precedenti.

54. Vallini, op. cit., pp. 626. L'autore, partendo da un accurato esame della Convenzione di Ginevra, sostiene innanzitutto che lo specifico disvalore insito nel realizzarsi della riduzione in "schiavitù" di un individuo è innegabilmente la reificazione dello stesso, ovvero la sua trasformazione da soggetto ad oggetto di diritti e rapporti giuridici ed economici. Sulla base di questo, Vallini rivendica con forza la dimensione lato sensu normativa (o a limite anche consuetudinaria) del reato in questione, nel senso che la suddetta trasformazione deve necessariamente inserirsi "all'interno di un sistema di norme-anche se non scritte" o quantomeno in un "contesto sociale favorevole", altrimenti costituisce un "assurdo storico ed antropologico".

55. "L'articolo 600 è sostituito dal seguente:
ART. 600. - (Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) - Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfitta mento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diritti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo degli organi".

56. Vallini, op. cit., pp. 645: l'autore ritiene preferibile, sulla base di un'interpretazione teleologicamente orientata, tale visione rispetto all'alternativa di considerare il nuovo articolo 600 come "disposizione a più norme". Ciò soprattutto anche per le divergenze strutturali e denominative fra le due parti della norma.

57. C. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, pp. 75 e ss., F. MANTOVANI, Delitti contro la persona, cit., pp. 273 e ss.

58. Vallini ritiene opportuno inoltre, ai fini di garantirne una maggiore efficacia repressiva, inquadrare la fattispecie di schiavitù fra i reati a carattere eventualmente abituale (in modo da configurare un'interpretazione estensiva della norma che permetta di ricomprendere anche condotte isolate che manifestino comunque la titolarità di un diritto reale sulla persona). Data la maggiore specificità della seconda parte dell'articolo 600, che descrive la servitù quale "costrizione orientata allo sfruttamento" quale fine "perpetuo, ciclico" delle condotte, tali ipotesi dovranno essere ascritte alla tipologia di reati necessariamente abituali.

59. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 524.

60. Articolo 2, legge 228 del 2003, (Modifica dell'articolo 601 del codice penale); vedi al riguardo: Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, par. 5 e M. Ferrero G. Barbariol, Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, pp. 91 e ss., contributi in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013. A. CALLAIOLI, Art. 2 - Modifica dell'articolo 601 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), "La legislazione penale" (UTET giuridica), n. 4 (2004), 78, pp. 648 e ss. MANTOVANI, Delitti contro la persona, cit., pp. 273 e ss e pp. 286 e ss.

61. Si deve ritenere perciò che se l'agente è responsabile della riduzione in schiavitù/servitù della persona, egli risponderà del solo reato di cui all'articolo 600 e non sulla base della norma in questione.

62. Mantovani, (op. cit.) ravvisa un'incompatibilità non legata alla condotta, ma specificamente attribuita alla diversa rilevanza dell'elemento della schiavitù/servitù nelle due fattispecie.

63. MANTOVANI, Delitti contro la persona, cit., pp. 287.

64. Ibid., pp. 289.

65. Per tale ricostruzione e le relative fonti vedi A. CALLAIOLI, Art. 2 - Modifica dell'articolo 601 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., pp. 654-655 più note.

66. Quest'ultima caratteristica segna la fine di un'annosa diatriba vigente con la vecchia formulazione della norma, che vedeva prevalere coloro che sostenevano la necessità della presenza di una pluralità di persone coinvolte nell'attività criminosa.

67. CALLAIOLI, op. cit., pp. 657.

68. Se si considera autonomamente la prima fattispecie, essa avrà i caratteri del reato di mera condotta, con eventuale dolo specifico.

69. In proposito, A. CALLAIOLI, Art. 2 - Modifica dell'articolo 601 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., pp. 658 e A. VALLINI, Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., par. 7 più note.

70. Bernasconi, op. cit., pp. 75.

71. Articolo 3: "L'articolo 602 del codice penale è sostituito dal seguente:
ART. 602. - (Acquisto e alienazione di schiavi). - Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 601, acquista o aliena o cede una persona che si trova in una delle condizioni di cui all'articolo 600 è punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diritti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo degli organi".

72. Per gli elementi costitutivi della fattispecie si veda MANTOVANI, Delitti contro la persona, cit., pp. 290 e ss.

73. E' opportuno precisare che una parte della dottrina non condivide integralmente la suddetta ricostruzione teorica dell'articolo 601 e dei suoi rapporti con la alienazione o acquisto di schiavi. E' proposta una ricostruzione in parte difforme, che trova fondamento in un presunto carattere di 'fenomeno complesso' della tratta degli esseri umani. Essa sarebbe cioè caratterizzata, secondo tale dottrina, da una seppur minima "organizzazione commerciale" e da una "tendenziale continuità nell'attività illecita". La applicazione dell'articolo 601 ai casi di 'compravendita' di un individuo singolo sarebbe perciò configurabile solo in presenza di condotte connotate da una "dimensione lato sensu imprenditoriale" e facenti parte di un "meccanismo commerciale più ampio" ed articolato. In assenza di simili presupposti, dovrebbe quindi essere applicabile il solo articolo 602 c.p.

74. A. CALLAIOLI, Art. 2 - Modifica dell'articolo 601 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., pp. 658 e A. VALLINI, Art. 1 - Modifica dell'articolo 600 del codice penale. L. 11.8.2003 - Misure contro la tratta di persone (Commenti articolo per articolo), cit., pp. 660.

75. Già si è ricordato come sia dovuto al legislatore del 2003 (articolo 4 della legge 228) anche la previsione del comma 6º dell'articolo 416, sull'associazione a delinquere aggravata dalla commissione di uno dei delitti che ledono la libertà e la personalità individuali (la cui formulazione definitiva è peraltro risultato dell'intervento di cui all'articolo 1, comma 5º, della legge 15 luglio 2009, n. 94).

76. Questa legge di recepimento si dimostra abbastanza insoddisfacente se confrontata, nella sua sinteticità, con l'articolato testo della Convenzione. Numerose sono le lacune, anche sotto il profilo delle disposizioni generali. Nello specifico, sarebbe stata opportuna l'introduzione di un norma che, similmente alla Convenzione, rendesse punibile le condotte di colui che, consapevolmente, ricorre ai servizi di uno o più individui sfruttati, come conseguenza dell'essere stati vittime di tratta degli esseri umani. Tale inadempienza è apparentemente inspiegabile se confrontata con previsioni quali l'articolo 600-bis c.p. (sullo sfruttamento della prostituzione minorile) che si basa invece su un meccanismo di questo tipo.

77. Bernasconi, La repressione penale della tratta di esseri umani nell'ordinamento italiano, cit., pp. 84 e ss.

78. In proposito, si consideri anche l'articolo 10 della legge 146/06 ("Responsabilità amministrativa degli enti").

79. Vedi anche le modifiche apportate con l'articolo 11 della legge 146/06 ("Ipotesi di confisca obbligatoria e confisca per equivalente").

80. Il testo dell'articolo è il seguente: "1. Fuori dei casi previsti dall'articolo 16-bis del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni, per le vittime dei reati previsti agli articoli 600 e 601 del codice penale, come sostituiti, rispettivamente, dagli articoli 1 e 2 della presente legge, è istituito, nei limiti delle risorse di cui al comma 3, uno speciale programma di assistenza che garantisce, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria. Il programma è definito con regolamento da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro per le pari opportunità di concerto con il Ministro dell'interno e con il Ministro della giustizia. 2. Qualora la vittima del reato di cui ai citati articoli 600 e 601 del codice penale sia persona straniera restano comunque salve le disposizioni dell'articolo 18 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 286 del 1998. 3. All'onere derivante dall'attuazione del presente articolo, determinato in 2.5 milioni di euro annui a decorrere dal 2003, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2003-2005, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente "Fondo speciale" dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2003, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo allo stesso Ministero. 4. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con i proprio decreti, le occorrenti variazioni di bilancio".

81. La struttura del documento è così composta: Articolo 1 (Programma di assistenza per le vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale; art. 2 (Disposizioni finanziarie); art. 3 (Valutazione dei progetti); art. 4 (Indicatori per la valutazione dei progetti di fattibilità); art. 5 (Termini e modalità per la presentazione dei progetti); art. 6 (Norma finale).

82. Articolo 1, comma 4º.

83. Pur costituendo una mera enunciazione di principio, questa specifica previsione, se sviluppata, potrebbe avere un impatto significativo se si considera il difetto, precedentemente segnalato soprattutto riguardo alle fonti comunitarie ed anche internazionali, ad un'attenzione pressoché univoca per le misure preventive cosiddette a carattere situazionale. Si è detto infatti come questo tipo di misure, al di là dei risultati, non prendano in considerazione quelle che sono le cause ed i fattori sociali dietro a questi temi (e che sembrano invece sottintesi in questo comma 2-bis, prima parte), così che le soluzioni proposte non possono avere un'efficacia soddisfacente sul lungo periodo, in quanto ignorano le radici del problema.

84. Vedi in proposito M. Ferrero G. Barbariol, Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, pp. 91 e ss., contributi in S. FORLATI (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013, pp. 103 e ss. e A. VALLINI, Sintesi per ANCI, 2014.

85. ARTICOLO 603 BIS Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un'attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del primo comma, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze:

  1. la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  2. la sistematica violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  3. la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità personale;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l'aumento della pena da un terzo alla metà:

  1. il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
  2. il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
  3. l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro. (1)

-----

(1) Il presente articolo è stato inserito dall'art. 12, D.L. 13.08.2011, n. 138, con decorrenza dal 13.08.2011.

86. Vallini: l'ipotesi aggravata del particolare sfruttamento di cui al comma 12-bis costituisce "presupposto specifico e necessario" per la concessione del permesso di soggiorno a favore dello straniero sottopostovi che collabora con la giustizia.

87. Tale comma risulta ispirato all'articolo 13 comma 4º della direttiva n. 2009/52/CE.

88. Del resto, l'articolo 13 dirett. è significativamente intitolato "Agevolazione delle denunce".

89. Vedi in proposito, A. VALLINI, Sintesi per ANCI, 2014.

90. M. Ferrero G. Barbariol, Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, cit., pp. 107 e ss.

91. Articolo 2, par. 1º, lett. i) della dirett. n. 52/2009.

92. Per il testo dello stesso, si veda nota 85 sp.

93. Cass. Pen., sez. I, 13 luglio 2012, n. 27997. Si vedano inoltre le relazioni della Corte di Cassazione Novità legislative: D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (Gazz. Uff. n. 188 del 13 agosto 2011), Roma, 5 settembre 2011, e Novità legislative: L. 14 settembre 2011, n. 148 (Gazz. Uff. n. 216 del 16 settembre 2011), Roma, 20 settembre 2011.

94. M. Ferrero G. Barbariol, Prime note sulla normativa italiana per la protezione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento dopo l'attuazione della direttiva 2009/52/CE, cit., pp. 106-107, corsivo mio.

95. Per il testo dell'articolo 603-bis c.p. vedi ancora nota 85. Circa invece le prime analisi giuridiche della nuova fattispecie e, più in generale, circa le riflessioni sul possibile impatto della nuova disciplina vedi M. PALA, Il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, sez. "articoli", pubblicato il 24.9.2011, Altalex, consultato in ottobre 2014, T. PADOVANI (a cura di), Codice penale (nuova ed.), Giuffrè, 2014, pp. 3378 e ss. e A. VALLINI, Sintesi per ANCI, 2014.

96. Sembrerebbe in questo modo tendenzialmente esclusa la possibilità di concorso fra i reati in questione, ma, come si dirà più avanti, non c'è accordo in giurisprudenza su questo punto.

97. M. PALA, Il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cit., pp. 3.

98. Vedi in proposito Cass. Pen., sez. III, 6 maggio 2010, n. 21630 e Cass. Pen., sez. III, 26 ottobre 2006, n. 2841.

99. Si ricordi però anche quanto detto circa il possibile valore dell'incipit della norma.

100. Vedi in generale in riferimento a questo paragrafo: M. MONTANARI, L'attuazione della direttiva 2011/36/UE: una nuova mini-riforma dei delitti di riduzione in schiavitù e di tratta di persone. D.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, novità legislative, Diritto penale contemporaneo, consultato in settembre 2014; ASGI, Osservazioni allo schema di decreto legislativo recante attuazione alla Direttiva 2011/36/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la Decisione Quadro del Consiglio 2002/629/GAI, ASGI (in "materiali"), 2014, consultato in marzo 2014; ASGI, Proposta di parere sullo schema di decreto legislativo recante l'attuazione della Direttiva 2011/36/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la Decisione Quadro del Consiglio 2002/629/GAI, ASGI (in "materiali"), 2014, consultato in marzo 2014. Vedi inoltre circa le prime riflessioni sulle nuove fattispecie, ed in particolare, sul nuovo articolo 601 in materia di tratta: T. PADOVANI (a cura di), Codice penale (nuova ed.), Giuffrè, 2014, pp. 3360 e ss. e VALLINI A., Sintesi per ANCI, 2014.

101. Si può notare, osservando in particolare la struttura e la formulazione di questa ultima parte del decreto legislativo, come il legislatore del 2014 abbia comunque inteso predisporre un sistema nazionale di contrasto al fenomeno della tratta che trova, da un lato, nella legge 228 del 2003 (art. 12 e 13) e nel T.U.I. (o meglio, nell'articolo 18 del medesimo) le sue colonne portanti in materia di protezione ed assistenza delle vittime. Dall'altro lato, sotto il profilo della prevenzione e repressione dei reati, lo strumento penale resta decisivo (tant'è che si cerca di migliorare ed adeguare al diritto comunitario ed al diritto internazionale le due fattispecie di punta dell'art. 600 e, soprattutto, dell'art. 601 c.p.). Sull'aggiunta di un comma 3-bis al citato art. 18 si dirà nel capitolo appositamente dedicato a questo argomento.

102. Articolo 1, comma 1º del d.lgs. n. 24/14.

103. "[..]..la definizione di 'persone vulnerabili' tenga conto di aspetti quali l'età, il genere, le condizioni di salute, le disabilità, anche mentali, la condizione di vittima di tortura, stupro o altre forme di violenza sessuale, e altre forme di violenza di genere".

104. Ricordiamo che il considerando 12º recita: "I livelli delle pene nella presente direttiva riflettono la preoccupazione crescente negli Stati membri in relazione allo sviluppo del fenomeno della tratta di esseri umani. [..] Quando il reato è commesso in determinate circostanze, per esempio se la vittima è particolarmente vulnerabile, la pena dovrebbe essere più severa". In corrispondenza di questa enunciazione, l'articolo 2, comma 2º, riconosce che, quando la tratta ha ad oggetto persone particolarmente vulnerabili, gli Stati membri dovrebbero predisporre livelli edittali più consistenti. E' da notare che la direttiva, da un lato, sembra suggerire ai legislatori la configurazione di autonome fattispecie aggravate in relazione alle ipotesi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 2º. Ciò darebbe maggior senso alla lettera del comma 3º, il quale prevede che sia considerato "circostanza aggravante" (senza alcuna precisazione sui livelli edittali) il fatto commesso dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni. Tuttavia, la previsione di questo caso in un comma separato e la sua natura di reato proprio nel diritto interno, potrebbero portare ad una conclusione opposta: andare cioè a beneficio dell'autonoma considerazione di questa ipotesi quale delitto di tratta aggravato.

105. Si deve ricordare che la norma in questione, identifica a sua volta tale concetto con la "situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima".

106. Articolo 601 c.p. ("Tratta di persone"): 1) E' punito con la reclusione da otto a venti anni chiunque recluta, introduce nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l'autorità sulla persona, ospita una o più persone che si trovano nelle condizioni di cui all'articolo 600, ovvero, realizza le stesse condotte su una o più persone, mediante inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica, o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità al fine di indurle o costringerle a prestazioni lavorative, sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi. 2) Alla stessa pena soggiace chiunque, anche al di fuori delle modalità di cui al primo comma, realizza le condotte ivi previste nei confronti di persona minore di età".

107. Se, nei termini in cui si dirà fra breve, si adottasse la soluzione di considerare il 1º comma del nuovo art. 601 quale norma a più fattispecie, il mancato richiamo delle condizioni di cui all'articolo 600 nella seconda parte della disposizione ("ovvero, realizza le stesse condotte su una o più persone, ... al fine di") determinerebbe un ritorno ai rapporti fra le due norme così come configurato dalla precedente formulazione. Ovvero, nel primo caso le condizioni ex articolo 600 c.p. sarebbero ante-fatto non punibile e nel secondo costituirebbero post-fatto non punibile.

108. T. PADOVANI (a cura di), Codice penale (nuova ed.), cit. pp. 3366; A. VALLINI, Sintesi per ANCI, cit., pp. 5.

109. T. PADOVANI, ibid., pp. 3363 e ss.; A. VALLINI, ivi.

110. Ivi.

111. L'articolo 2, comma 1º della direttiva, fa riferimento a generici "fini di sfruttamento", mentre il successivo comma 3º dà una definizione 'per elencazione' dello sfruttamento, specificando le tipologie di prestazioni in cui possa concretizzarsi. Tuttavia, non è nemmeno tentato un generico inquadramento a livello comunitario di cosa possa consistere lo sfruttamento ex se. Non forniscono indicazioni utili in proposito nemmeno i considerando in materia, in particolare l'11º.

112. Corsivo mio.

113. Confronta anche con M. MONTANARI, L'attuazione della direttiva 2011/36/UE: una nuova mini-riforma dei delitti di riduzione in schiavitù e di tratta di persone. D.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, novità legislative, Diritto penale contemporaneo, consultato in settembre 2014.

114. Da questo punto in poi, per l'analisi delle ulteriori norme del decreto legislativo n. 24/14 si farà riferimento principalmente a ASGI, Osservazioni allo schema di decreto legislativo recante attuazione alla Direttiva 2011/36/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la Decisione Quadro del Consiglio 2002/629/GAI, ASGI (in "materiali"), 2014, consultato in marzo 2014; ASGI, Proposta di parere sullo schema di decreto legislativo recante l'attuazione della Direttiva 2011/36/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la Decisione Quadro del Consiglio 2002/629/GAI, ASGI (in "materiali"), 2014, consultato in marzo 2014.

115. Ibid., pp. 3 e ss.

116. Ibid., pp. 7 e ss.

117. Articolo 18 della direttiva 2011/36/UE.

118. E' bene notare che questi compiti ricalcano quelle che sono le competenze che storicamente spettano anche alla Commissione per il sostegno alle vittime di tratta, violenza e grave sfruttamento. Si prospetta così una problematica convivenza fra i due enti, dovuta ad una parziale sovrapposizione dei rispettivi ambiti di intervento. In ogni caso, non sembra sostenibile né opportuno leggere fra le righe di questa misura una tacita soppressione della Commissione, la quale è comunque un organismo interno al Dipartimento e con una competenza specifica rispetto ad esso.