ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Tommaso Sannini, 2014

Le forme più invasive di controllo sociale della modernità occidentale sono due: la giustizia penale ed il sistema di tutela della salute mentale.

Il sistema criminale ed il diritto penale si sono affidati ad una serie di principi irrinunciabili, primo fra tutti la presunzione di innocenza fino a quando la colpevolezza non sia stata dimostrata con prove oggettive, mentre nel sistema di neutralizzazione del folle questi cardini di garanzia non sono neanche aspirazioni concepibili, nel momento in cui la pericolosità viene irrimediabilmente connessa alla patologia mentale. (1) Eppure entrambi i sistemi hanno storicamente condiviso una identica conseguenza: la perdita della libertà personale e la soggezione quasi incondizionata al potere dello Stato. Cosa poteva aver condotto ad un trattamento così radicalmente diverso di una stessa situazione di assoluta soggezione al potere pubblico?

Perché l'ambiguità dello spettro della Nave dei Folli - evocato dalla crudele e dolorosa iconografia di Hyeronimus Bosch, così grottesca e irrazionale ed al contempo così dichiaratamente ispirata all'Umanesimo di Brandt, a quella forma di filantropia che usava rozzamente la follia come exemplum, come meschino zimbello da commiserare o da mettere alla berlina ed esporre ad una tra le più crudeli punizioni: al riso - continuava ad aleggiare, cambiando forme ed effetti, sullo statuto del sofferente psichico?

Perché i folli, e non solo loro, non hanno potuto fruire di un sistema di tutela e di difesa della propria libertà personale contro l'esercizio arbitrario del potere che le Carte Costituzionali di tutto l'occidente affermavano essere esteso a tutti gli uomini, nessuno escluso?

Perché, in altre parole, la modernità occidentale capace di affermare l'esistenza di diritti umani universali, quali, tra gli altri, il diritto alla libertà individuale, il diritto all'autodeterminazione, il diritto ad un giusto processo, non è riuscita ad estendere questa luce a dei soggetti che rimanevano entro un confine "totalmente altro", poiché avvolto dal cono d'ombra di un concetto eterno e sotterraneo dai confini incerti e sfuggenti come la pericolosità, la paura?

Una possibile spiegazione, che illustro nel primo capitolo, impone di tornare indietro, per trovare gli elementi fondativi della nozione di pericolosità sociale ed il momento in cui questa assunse connotati teorici formalizzati. Essa parrebbe individuare il nucleo originario di questa diversità di trattamento nella stessa scienza psichiatrica. Quando, nella seconda metà dell'800, la freniatria stabilì non solo la radicale differenza antropologica tra malato mentale e sano, postulando l'origine biologica, ereditaria della malattia mentale, ma soprattutto elaborò una chiave epistemologica, ed una griglia di classificazioni nosografiche in cui la lesione, la minorazione, la degenerazione del "carattere morale" dell'individuo assunse un ruolo centrale nella definizione e nella individuazione della malattia. Potremmo affermare che la rivendicazione della scientificità delle teorie psichiatriche si fondò e trovò la propria legittimazione su argomentazioni di tipo specificamente morale, sulla lotta alla degenerazione, che divenne il nuovo significante della malattia mentale. Questo consentì agli psichiatri stessi di assumere un ruolo centrale nel sistema di controllo sociale, che declinarono nelle forme della difesa sociale dai "Mostri anormali" (2) e nell'elaborazione di una terapia che si identificò nella neutralizzazione, in un trattamento "più duro dello stesso carcere".

Non solo, questo nuovo statuto epistemologico passerà, grazie alla Scuola positiva ed a Lombroso, dal folle al criminale, ormai diventato oggetto di osservazione e sperimentazione scientifica, sancendo definitivamente la natura oggettuale del malato mentale e del delinquente, ormai privati della qualifica di "soggetto di pensiero" e quindi anche di quella di "soggetto di diritto". Attraverso questo nuovo statuto epistemologico dell'anormalità si imporrà una ridefinizione delle categorie giuridiche penali e dei rapporti intercorrenti tra le finalità della pena, tra retribuzione e specialprevenzione, tra colpa e rieducazione, arrivando a riconcettualizzare totalmente significati e fini della punizione. A questo risultato si giunse attraverso la formalizzazione della paura, attraverso la teorizzazione del pericolo come categoria legittimante l'intervento penale, attraverso la configurazione delle misure di sicurezza. Un sistema di neutralizzazione, epigono della modernità, che si preoccupò, in primo luogo, di neutralizzare tutti coloro che avessero, "colle scuse della pazzia", evitato la pena. Assicurando a chi fosse irrimediabilmente folle e per questo irrimediabilmente immorale una neutralizzazione indeterminata, non perché irresponsabile ma perché "insensibile al castigo". (3)

Così, dopo uno dei conflitti teorici più aspri della storia del diritto moderno, quello tra Scuola positiva e Scuola classica, verranno gettate le basi della costruzione di un sottosistema giuridico autonomo. Un sottosistema che faceva crollare tutta quella serie di cardini su cui i "classici" fondavano l'intero sistema delle garanzie penali che, vista la loro relativa giovinezza, non riuscirono a reggere all'impatto di teorie che non facevano altro che riproporre le istanze repressive di tipo reattivo tradizionalmente e forse antropologicamente legate non solo al crimine, ma ad ogni tipo di devianza, ad ogni "tossina che infetti il corpo sociale". Vennero predisposti una serie di strumenti che consentivano di neutralizzare indefinitamente un soggetto, con nuove forme giuridiche, con elementi normativi estremamente efficienti ed elastici, legati al "modo di essere" del reo, attraverso l'elaborazione di quelle che Ferrajoli definisce "norme costitutive". Norme che creano jpso jure la devianza punibile, senza prescrivere o vietare specifici comportamenti, perché a nessuno può essere imposto di non essere pericoloso. (4) Il fatto poi di guardare al futuro, di scrutare l'orizzonte del poter essere, mise definitivamente al riparo questi nuovi strumenti da qualsiasi possibilità di verifica razionale dell'esercizio del potere coercitivo dello Stato. Tali teorizzazioni arrivano quindi a scardinare persino il principio più antico del liberalismo: il principio di legalità, ormai degradato a principio di tutela dell'interesse pubblico, a strumento atto a ribadire il potere assoluto e di fatto incontrollabile dello Stato nell'esercizio della politica criminale e della penalità. Trasformando la sanzione penale ormai latamente intesa in uno strumento di tutela contro la patologia e contro il pericolo, per alleviare la paura, per riaffermare il nesso tra legge e moralità pubblica.

Nel secondo capitolo analizzo quella che a me pare essere una prima parziale e provvisoria rottura di questo sistema epistemologico. Una rottura avvenuta negli Stati Uniti a partire dagli anni '60 del secolo scorso, a causa di una particolare forma di connubio tra Corti di common law e Scienze sociali, che durò fino ai primi anni '80 del 900, per poi cedere il passo a linee interpretative volte alla tutela della pubblica sicurezza. In quest'arco di tempo la giurisprudenza statunitense ha formato un paradigma epistemologico, cognitivo ed ermeneutico, totalmente antitetico rispetto ai cardini del pensiero criminologico europeo, riguardante i rapporti giuridici intercorrenti tra l'individuo e lo Stato, relativi in particolar modo alla valutazione della legittimità delle finalità statali nella pratica della restrizione della libertà personale.

Uno dei tratti tipici delle corti di common law in generale e delle Corti americane in particolare risiede nel ruolo, da loro tradizionalmente rivendicato, di protezione dei diritti individuali dall'esercizio arbitrario o improprio del potere da parte della maggioranza incarnata dall'esecutivo o dall'Autorità amministrativa. "La Corte dovrebbe preoccuparsi di ciò che la maggioranza fa alle minoranze" facendo espressamente riferimento alle leggi "dirette nei confronti delle minoranze razziali, nazionali e religiose nonché quelle viziate da pregiudizi nei confronti di quelle stesse minoranze". (5)

Nel Common law statunitense il potere di internamento del folle, il potere di privazione della sua libertà personale, deriva da due fonti tradizionalmente viste come distinte ed autonome. Da una parte vengono infatti enucleati una serie di pratiche e di poteri che ricadono sotto il genus dei Parens patriae powers, dei poteri attribuiti alla Pubblica autorità (magistratura, polizia, ma anche medici), definiti come poteri predisposti per la tutela degli interessi dei cittadini i quali non riescano "proteggere" se stessi per motivi legati all'età o all'infermità, dall'altra, nettamente separati, i Police powers, i poteri inerenti alla tutela della collettività dai soggetti potenzialmente pericolosi e volti al mantenimento della pubblica sicurezza. Mettendo da parte i fondamenti legati ai Parens patriae powers, le Corti incominciarono a considerare ed a vagliare isolatamente i Police powers, esercitati a fini terapeutici e di custodia, e ad estendere allo statuto del folle le garanzie ed i diritti imposti dal Due process of law, che si estendeva in tal modo a qualsiasi processo che importasse la limitazione della libertà personale. Le Corti garantirono al cittadino accusato di essere folle e pericoloso il diritto di rimanere in silenzio (anche davanti al medico-psichiatra), il diritto all'assistenza di un avvocato e, soprattutto, ad imporre la "prova della pericolosità ogni oltre ragionevole dubbio". (6) Per la prima volta nella storia del diritto occidentale la restrizione della libertà del folle viene equiparata per moltissimi versi alla restrizione della libertà del sano.

Lo stesso concetto di Parens patriae powers, venne rimesso in totale discussione, si ritenne quanto meno discutibile che sulla base di tali poteri non si avesse diritto alla libertà bensì alla custodia, che si ritenesse che in queste situazioni lo Stato, in realtà, non privasse un soggetto dei suoi diritti, visto che questi, una volta etichettato come incapace, non ne aveva alcuno. Prendendo atto di come l'elasticità dei procedimenti e delle forme di esecuzione dei trattamenti disposti a fin di bene fossero, di fatto, sfociati nel puro arbitrio. (7) Alcune Corti prefigurarono persino un divieto di procedere a trattamenti di psicochirurgia in quanto affermarono che fosse l'istuzionalizzazione in sé e non la malattia mentale ad alterare e ad inficiare il libero consenso del paziente (8). Venne per la prima volta affermato che la "procedura sta al diritto, come il metodo sta alle scienze" configurando un sistema razionale, non solo universale, da applicare obbligatoriamente a tutti i soggetti, sani, minori o infermi, ma anche propriamente giuridico-razionale, connesso ad un sistema epistemologico di tipo liberale - illuminista comune a tutto l'occidente nei suoi elementi fondamentali. Sulla base di questa netta distinzione le Corti incominciarono ad estendere garanzie sempre più stringenti agli internamenti, mettendo sempre più in discussione non solo la possibilità di verificare in sede probatoria la nozione di pericolosità ma anche a dubitare della validità stessa del concetto o della capacità degli psichiatri di formulare prognosi affidabili, e idonee a fornire la base per limitare la libertà personale. Un sistema di garanzie che si estenderà anche alla pericolosità criminale a fronte delle sempre maggiori evidenze della fallibilità della nozione di pericolosità.

Già nel 1966, con il caso Baxstrom, dove circa 1000 detenuti dichiarati folli socialmente pericolosi e rilasciati dopo una decisione della Corte Suprema erano tornati alla libertà praticamente senza commettere alcun reato (solo il 2% commetterà nuovamente crimini), la nozione di pericolosità sociale, ed i metodi per accertarla, avevano rivelato tutta la loro debolezza. Le Scienze Sociali riveleranno poi la reale natura delle Istituzioni Totali (9), dei trattamenti punitivi, degradanti ed inumani, teorizzeranno un vero e proprio diritto al trattamento che qualora non potesse essere soddisfatto dalle istituzioni darebbe all'internato il diritto alle immediate dimissioni indipendentemente dalla intensità e dal tipo della sua patologia (10), ad affermare che l'affidabilità del giudizio di pericolosità nei giudizi penali equivale a quello del lancio di una moneta. (11) Fanno emergere la profonda influenza del coinvolgimento emotivo, dei valori e dei pregiudizi dello psichiatra nella decisione del caso, della impossibilità di individuare alcuna correlazione significativa tra pericolosità e follia.

Le Corti non solo ascoltarono quanto le scienze sociali avevano da dire ma le citarono espressamente nelle loro sentenze. Il linguaggio giuridico "classico", incarnato nel contesto del common law, sembrava trovare una forma di dialogo possibile e proficua con le scienze sociali e con la psichiatria da una posizione di indipendenza e di autonomia, non da una posizione ancillare e subordinata alla scienza e soprattutto alla politica criminale, come era invece quella che sembra trasparire dal Programma di Marburgo di Von Liszt. Le Corti si faranno carico di verificare come "l'affermazione di esigenze terapeutiche fornisca una giustificazione per esercitare un controllo che non potrebbe in alcun modo essere predisposto attraverso le sanzioni penali ordinarie" (Sha), di come la psichiatria non sia una scienza esatta, di come essa forzi un uomo ritenuto erroneamente psicotico a passare trentaquattro anni in custodia, internato per un furto di caramelle del valore di 5 dollari (Dennison v. State of New York, 1966), o di come si possa negare per vent'anni la possibilità di rivolgersi ad un giudice (Shuster v. Herold, 1969). Negheranno qualsiasi presunzione di pericolosità per i malati mentali autori di reato (Bolton v. Harris 1967).

Tenteranno in altre parole di scardinare, attraverso il rule of law, l'esperanto di un sottosistema autonomo comune in tutto l'occidente che si forgia e si nutre di elementi quasi clinici e quasi giuridici, che creano un apparato specializzato che lascia confusi in un'ambigua commistione concetti di protezione e di punizione, di cura e di custodia, che dispone a fronte della commissione di un reato, ricoveri, per tempi indefiniti, in strutture di fatto carcerarie in virtù di una potenzialità caratteriale derivante da una patologia stabilita da un medico. Tenteranno di affermare non solo che anche l'internamento del malato mentale ha i tratti specifici di una punizione e come tale deve essere regolata, ma anche che il parametro della nozione di pericolosità è del tutto incerto ed indefinito, è appunto più un giudizio sociale che scientifico. Affermeranno che non potranno non essere applicate precise garanzie e limiti, primo tra tutti un limite massimo di internamento, visto che il valore supremo che la Costituzione intende tutelare è la dignità umana e che tale dignità viene violata da ogni tipo di privazione della libertà personale, indipendentemente dalle finalità che lo Stato si pone. (12)

Questo movimento si esaurisce nel 1982 quando la Corte Suprema torna ad affermare che la presunzione di pericolosità del malato mentale autore di reato, e che l'internamento non può essere considerato una punizione, ma solo un trattamento che fonde ed unisce inscindibilmente cura e protezione.

Nell'ordinamento italiano post costituzionale, che analizzo nel terzo capitolo anche alla luce dei modelli enucleati nel capitolo precedente, mi pare si rinvengano tutti i riflessi dell'ambiguità relativa alla reale natura delle misure di sicurezza ed ai rapporti tra queste e la pena. Mi sembra infatti che la magistratura e parte della dottrina da una parte abbiano continuato, pur definendole sanzioni criminali, a considerare le misure di sicurezza come misure non afflittive negando loro qualsiasi componente punitiva, e dall'altra non abbiano mai scorporato concettualmente, come invece avevano fatto le Corti di common law, la cura dalla custodia, a mio avviso perché influenzate dall'antica convinzione secondo la quale l'internamento sarebbe, e potrebbe continuare ad essere, modificandone i tratti in senso sanitario, ontologicamente curativo. Per questo non è necessario prevedere per queste misure un termine massimo di durata. Non sembra possibile che gli internati possano essere intimiditi dalla sofferenza della limitazione della libertà derivante dall'internamento nell'ospedale psichiatrico giudiziario, in esso si vede soltanto una forma di "coazione benigna alla cura". La pericolosità, è per i giuristi, non solo ancora un dato naturalistico, per alcuni di essi è ancora un dato della "comune esperienza". (13)

Nell'ordinamento Italiano quindi, all'opposto di quanto era successo negli Stati Uniti, saranno gli psichiatri a mettere in dubbio la natura ontologica della pericolosità, e la sua naturale connessione con la malattia mentale. Primo fra tutti Franco Basaglia. (14) Basaglia, ed il movimento dell'anti psichiatria, lungi dal negare l'esistenza della malattia mentale, e la profonda sofferenza che ne deriva, come invece una certa attuale retorica tende ad affermare, scardinerà il vecchio apparato epistemologico su cui si era fondata la psichiatria. Rifiuterà tutti i giudizi di valore e le valutazioni discriminatorie che si nascondevano dietro le diagnosi psichiatriche: tra i quali spiccava il concetto di pericolosità. L'inconsistenza della nozione di pericolosità, peraltro, era già stata messa a nudo da tempo da una gran mole di studi a livello internazionale. Era ormai universalmente noto che i malati mentali non compivano reati in misura maggiore rispetto ai sani di mente, così come era evidente l'inesistenza di parametri clinici per valutare la futura pericolosità di un individuo.

D'altronde non solo la pericolosità ma anche la scienza psichiatrica stessa era diventata "il problema epistemologico del '900", visto che l'analisi delle filosofia della scienza, ed in particolare quella di Karl Popper, negava alla psichiatria qualsiasi dignità scientifica. (15) Una dignità che alcuni versanti della psichiatria hanno tentato di riacquistare attraverso nuovi statuti nosografici come il DSM, o attraverso una rivalutazione della componente biologica della malattia, con incerti risultati.

Merito indiscusso dell'antipsichiatria sarà quello di aver contribuito a dar vita alla legge 180/1978, che ha consentito all'Italia di liberarsi dal manicomio, rendendola l'unico paese al modo in cui non è possibile un internamento coercitivo del malato mentale, riconoscendo l'antiterapeuticità degli internamenti involontari a tempo indefinito. Un risultato ottenuto soprattutto grazie alla rimozione della nozione di pericolosità dallo statuto "civile" del folle.

In ambito penale tuttavia la giurisprudenza costituzionale, in una sentenza da molti considerata "storica", la 139/1982, si limitò ad imporre l'accertamento concreto della persistenza della pericolosità sociale del folle nel momento della esecuzione, non negando invece, ma anzi affermando l'esistenza del naturale collegamento tra follia e pericolosità, che non potendo più essere legata a conferme di tipo scientifico, venne ribadita, ancora una volta, alla stregua di una communis opinio, sulla base di un pregiudizio. Sarà il legislatore a sancire nel 1986 l'insussistenza di legami tra follia e pericolosità, sancendo l'obbligo del perito ad accertare non la persistenza bensì l'esistenza della pericolosità abolendo ogni forma di presunzione di pericolosità.

La stessa Psichiatria forense, chiamata ora ad accertare la sussistenza della pericolosità del folle, sottopose la nozione a pesanti critiche, affermandone con forza la natura non scientifica, amorfa, rigida. Rifiutando il mandato di controllo sociale che le si conferiva e rivendicando il proprio compito terapeutico, che risultava del tutto estraneo ai confini semantici propri del concetto di pericolosità. Proprio la totale carenza di scientificità, affermata dalla maggior parte della psichiatria, ha, a mio avviso, inciso irrimediabilmente sulla portata della reale verificabilità del precetto stabilito dall'art. 203 c.p., sotto il profilo della possibilità di un suo riscontro concreto in sede di accertamento giurisdizionale. Una norma che, ancorandosi anche a parametri incerti quali quelli dettati dall'art. 133 c.p., si rivela carente anche sotto il profilo della determinatezza astratta, intesa qui nel senso più stretto di rispondenza al principio di precisione, di determinatezza dei confini semantici degli elementi costitutivi di una norma penale idonea a determinare la limitazione coattiva della libertà personale.

L'internamento in Opg è una sanzione criminale, post delictum, privativa in modo coattivo della libertà personale, avendo quindi una natura afflittiva, "detentiva e segregante" (16) messa ancor più in evidenza dalla circostanze che la legge 180 del 1978 prevede per il folle, ad eccezione del TSO, solo trattamenti psichiatrici in contesti extra ospedalieri e senza alcuna forma di segregazione. Per questo a mio avviso, vi è la necessità dell'estensione delle garanzie attinenti alla pena all'internamento del folle non imputabile giudicato pericoloso.

Gli aspetti della natura punitiva dell'internamento e della proporzionalità della sanzione sono stati affrontati da due sentenze della Corte Costituzionale: la 253/2003, e la 367/2004, le quali a mio modo di vedere hanno per la prima volta scomposto concettualmente l'esigenza di cura e l'esigenza di custodia, privilegiando la dimensione curativa e consentendo una forma di proporzionalità della sanzione, dando la possibilità di applicare la libertà vigilata in luogo dell'internamento quando questa si presenti idonea a contemperare le due distinte esigenze di cura e di controllo, ponendosi così in linea con una moderna visione della tutela della salute mentale del prosciolto ex L. 180/1978 e 32 Cost. Le due sentenze cercano per la prima volta di impedire quella commistione semantica tra antisocialità e patologia che consente ancora oggi la sovrapposizione e la mimetizzazione reciproca tra terapia e punizione. Una mimetizzazione che consente pratiche punitive dell'internato elastiche e sfuggenti, quali la contenzione o la cura indeterminata degli "ergastoli bianchi", derivanti dalla distorta nozione di pericolosità situazionale, possibili solo perché malattia e comportamento pericoloso continuano ad essere indebitamente fusi tra loro.

Ora, attraverso la L. 17 febbraio 2012, si assiste ad un tentativo di superamento dell'Ospedale psichiatrico giudiziario attraverso la creazione delle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), piccole strutture chiuse, provviste di solo personale sanitario e gestite dal Servizio Sanitario delle Regioni e delle Provincie Autonome. Tali strutture rischiano, in assenza di una modifica dell'impianto complessivo delle misure di sicurezza, di introdurre una mera medicalizzazione della sanzione che porterebbe nuovamente alla nuova commistione della dimensione punitiva legata alla privazione della libertà personale, e la cura dalla dimensione antisociale della patologia. Di recente la L. 30 maggio 2014 n. 81, pur avendo prorogato al 31 marzo 2015 il termine per la chiusura degli Opg, ha disposto una modifica di portata epocale alla disciplina delle misure di sicurezza detentive: la durata di tutte le misure di sicurezza detentive non potrà superare la durata massima della pena detentiva per il reato commesso. Un passo che consente quindi di mettere a nudo in modo chiaro come la misura di sicurezza abbia inevitabilmente natura afflittiva e di come, in base a questa sua natura, debbano essere estese un sistema di garanzie attinenti alla pena, alla punizione. Garanzie non sostituibili attraverso il potenziamento della medicalizzazione. Perché è - ci piacerebbe dire di per sé - evidente non solo che cura e punizione sono categorie totalmente distinte ed autonome, dalla sostanza concettuale inconciliabile, ma anche che la custodia coercitiva esercitata dall'apparato dello Stato non può che ricondursi al genus della punizione.

Note

1. Henry J Steadman, Employning Psychiatric prediction of dangerous behaviour: Policy vs. Fact, 1973 p.128 in National Criminal Justice Reference Service, US Department of Justice.

2. Cfr, Michel Foucault, Gli anormali. Corso al college de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2009.

3. Cfr. Raffaele Garofalo Alienazione mentale voce in Enciclopedia Giuridica Italiana, Vol I, Vallardi, Milano 1892.

4. Cfr. Luigi Ferrajoli, Diritto e Ragione, Laterza, Roma - Bari, 1989.

5. United States v. Carolene Products Co. (1938).

6. Lessard v Schmidt 1972.

7. In re Gault 1967.

8. Kaimovitz v. Department of mental Health 1973.

9. Cfr. Erving Goffmann, Asylums, le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza (1961). Einaudi, Torino, 2003.

10. Morton Birnbaum, The right to treatment, American Bar Association Journal, vol. 46:499-504 (may 1960).

11. B.J. Ennis e T.R. Littwack, Psychiatry and the presumption of expertise: flipping coins in the courtroom, 62 Cal L. rev. 693, 1974.

12. Jones v. United States (1982).

13. Ex multis Cfr. Sentenza Corte Costituzionale n.139/1982.

14. Cfr. Franco Basaglia (a cura di) L'istituzione negata (1968), Dalai, Milano, 2011.

15. Cfr. Karl Popper, Congetture e confutazioni (1969), Il Mulino, Bologna, 2009.

16. Sent. Corte Cost n. 324/1998.