ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
L'evoluzione dell'ordinamento italiano in tema di pericolosità dal 1948 ad oggi

Tommaso Sannini, 2014

1) La pericolosità sociale e la Costituzione: la costituzionalizzazione delle misure di sicurezza

La sconfitta del regime fascista e l'affermazione dell'ordinamento democratico non sembrano, in un primo momento, cambiare le sorti del reo folle.

L'art 25 della Costituzione non fece altro che recepire quanto stabilito nel codice Rocco, riservando alle misure di sicurezza una sintetica disciplina. Nettamente distinta da quella delle pene: “Nessuno può essere sottoposto a misura di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge” (art 25, terzo comma).

Una distinzione che poggiava sul presupposto (ancora oggi condiviso nel pensiero di parte della dottrina penalistica e costituzionale) che pene e misure di sicurezza avessero fini assolutamente eterogenei: tese alla retribuzione le une, volte alla difesa sociale ed al riadattamento dell'individuo le altre. (1) Presupposto che si basava (nel caso del trattamento del folle pericoloso) anche sull'assunto, condiviso in tutto l'occidente, che il manicomio criminale potesse effettivamente curare, anzi che l'unica cura possibile per il malato di mente potesse consistere solo nella segregazione senza che questa potesse essere configurata giuridicamente come una punizione.

Un altra norma costituzionale, però, creerà problemi di coordinamento nuovi, e determinerà una crisi di equilibrio nei rapporti tra pena e misura di sicurezza: è l'art 27 terzo comma.

Questa norma, infatti, detta l'unico fine esplicito cui deve tendere la pena, non ve ne sono altri cristallizzati in modo così evidente all'interno del testo Costituzionale: “Le pene [...] devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una disposizione che, in via teorica, avrebbe potuto far venir meno la diversità di funzioni che legittimava la creazione del doppio binario, inducendo a mettere in dubbio la legittimità di uno spazio residuo di esistenza delle misure di sicurezza detentive. (2)

L'originaria ambiguità dogmatica sulla natura e sui rapporti tra pena e misura di sicurezza, sulla scomposizione funzionale tra prevenzione generale e prevenzione speciale, l'incertezza semantica del concetto di retribuzione, sospeso tra il suo significato etico filosofico di punizione per il male commesso ed il suo significato giuridico di imposizione di un vincolo invalicabile al potere punitivo dello stato sembrano riverberare i loro riflessi sulla Costituzione.

E' comunque indubbio che il Costituente assoggetti anche le misure di sicurezza ai vincoli stabiliti dall'articolo 13, il quale afferma che le restrizioni alla libertà personale sono ammesse solo per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Si stabilisce, in tal modo, una riserva di giurisdizione: solo il giudice potrà concretamente applicare i provvedimenti che limitano la libertà personale, dopo un accertamento coperto da precise garanzie processuali, (3) disponendo, inoltre, una riserva assoluta di legge, che esclude qualsiasi forma di regolamentazione da parte di fonti secondarie e da parte delle leggi regionali, che impedisce il conferimento di un potere troppo ampio al giudice nella determinazione dei casi e dei modi.

Nei “casi” in cui la legge autorizza la restrizione della libertà personale rientrano quindi sia i reati, sia i presupposti di applicazione delle misure di sicurezza, (4) tra i quali spicca la pericolosità.

Il reato però sembra godere di un trattamento giuridico “privilegiato” da parte del Costituente.

Visto il differente tenore letterale dei due commi dell'art 25 (che al secondo comma stabilisce: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”) ci fu chi ritenne che le misure di sicurezza fossero coperte solo dal principio della riserva di legge ma non dal principio di stretta legalità, dal divieto di analogia, e dal principio di determinatezza che sembrerebbe ancorato al termine “fatto” e quindi riservato unicamente alla disciplina della pena dall'art. 25 secondo comma, ed anche il principio di irretroattività sembrava essere estraneo alla disciplina della misura di sicurezza. (5)

Nessun problema destava l'art. 32 che sanciva l'impegno della nascente Repubblica a tutelare la salute come “fondamentale diritto dell'individuo”, visto che notoriamente il manicomio non solo era luogo dove si curava, era anche terapia in se stesso, contenzione e cura collimavano perfettamente. Questi problemi, però, rimasero su un piano puramente astratto per molti anni, gli anni della ricostruzione post bellica imponevano altre priorità.

Inoltre la Corte Costituzionale, unico organo costituzionale che poteva farsi carico del coordinamento di queste norme, incominciò a funzionare solo a partire dal 1956, a causa della forte resistenza da parte della Democrazia Cristiana ad accettare che tra i componenti della Corte potessero entrare esponenti del PCI considerato un “partito antisistema”. (6)

Nei primi anni del suo funzionamento pochissime norme furono considerate in contrasto con la Costituzione. (7)

Il fatto poi che le forze politiche non provvedessero ad una riforma del codice penale e del codice di procedura penale, al fine di creare un sistema coerente di garanzie, venne a determinare la nota situazione paradossale del perdurare di un codice ad impronta fortemente autoritaria in un sistema costituzionale democratico. (8)

Anche l'opinione dominante della dottrina era favorevole al sostanziale mantenimento del sistema delle misure di sicurezza, limitandosi a contestare il cumulo della pena e della casa di cura e custodia per i seminfermi di mente. (9)

La Corte di Cassazione, non senza oscillazioni, aveva affrontato solo il problema della fungibilità. Stabilendo la fungibilità della carcerazione preventiva sofferta sine titulo e la misura di sicurezza detentiva per gli imputabili. Per arrivare a questo risultato affermò, per la prima volta, che pena e misura di sicurezza erano “sanzioni criminali aventi la stessa natura giurisdizionale”. (10)

Tuttavia le misure di sicurezza si configuravano come delle sanzioni criminali del tutto particolari, visto che, in ossequio alla loro originaria struttura amministrativa, rimanevano del tutto svincolate dalle garanzie strettamente penalistiche dettate dalla Costituzione, a partire ovviamente dal primo comma dell'art. 27, condicio sine qua non della punizione, che, seppure negli ordinamenti liberali si pone in un rapporto di totale sinonimia con la limitazione coattiva della libertà personale, (11) non veniva estesa al concetto di misura di sicurezza. Una sanzione criminale che, non richiedendo la colpa, ed essendo totalmente preventiva, poteva estendersi oltre il fatto tipico offensivo per abbracciare nel suo campo applicativo fatti che reati non sono, fatti non lesivi di alcun bene giuridico, atti intrinsecamente ed originariamente inidonei a produrre un qualsiasi evento dannoso o pericoloso, in senso assoluto come i reati impossibili. (12)

Non era ancora maturata l'idea, ora diffusa in parte della dottrina che, per evitare che la funzione di sicurezza si identifichi di fatto con la funzione di polizia, le garanzie debbano essere imposte non tanto dalla funzione della sanzione, dallo scopo che lo Stato si propone nell'esercizio della sua potestà coercitiva, quanto, al contrario, dalla sua concreta natura afflittiva e dalla gravità della compressione dei diritti di libertà degli individui ad essa sottoposti. (13)

Solo la giurisprudenza di merito, dopo il 1960, incominciò a sollevare questioni di legittimità costituzionale relativamente alle presunzioni di pericolosità previste dall'art. 204 c.p., in virtù di un affermato contrasto con la riserva di giurisdizione stabilita dall'art. 13 della Costituzione. Secondo la magistratura (in particolare la Corte d'appello di Genova), infatti, le presunzioni precludevano l'accertamento dei presupposti che in concreto dovevano essere valutati per procedere alla restrizione della libertà personale. (14)

La Corte con la sentenza 19 del 3 marzo 1966, dichiarò l'infondatezza della questione, basando la propria decisione su uno specifico fatto: “la presunzione si risolve nell'utilizzazione delle comuni esperienze”, (15) la comune esperienza, una serie di certezze prese come ovvie, un'esigenza pratica.

Negli anni '60 del secolo scorso il connubio tra follia e pericolosità per i giuristi non è più una certezza positivista, né un dato della “miglior scienza ed esperienza”, ma una communis opinio, una rappresentazione irriflessa, talmente condivisa da diventare un criterio operativo dato, questo basta per evitare ogni accertamento. Il fatto che il giudice accerti la sussistenza delle condizioni stabilite dal vecchio codice penale soddisfa il precetto stabilito dall'art. 13 della Costituzione. La riserva di giurisdizione ha, in questo caso, una dimensione esclusivamente nominale, il giudice ha compiti di mera esecuzione di categorie normative prestabilite, senza la possibilità di “approssimarsi ad una giusta soluzione del caso concreto”, (16) senza alcuna possibilità di garanzia per l'imputato. La pericolosità è ancora una condizione “che non esige particolari accertamenti del giudice”. La presunzione non fa altro che dettare una regola di giudizio vincolante “per garantire un uguaglianza di trattamento”. (17)

Nel 1967 la Corte, invece, verrà ancora chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle presunzioni di pericolosità, per il moltiplicarsi delle ordinanze di rimessione da parte della magistratura, che lamentavano sempre l'impossibilità per il giudice di poter valutare non solo o non tanto la pericolosità di individuo, ma anche se questi potesse ancora essere considerato folle. Potere che invece veniva accordato ad un organo del potere esecutivo: il Ministro di grazia e giustizia (ordinanze della sezione istruttoria della corte d' Appello di Genova 15 luglio e 16 novembre 1965).

Altre ordinanze lamentavano anche un contrasto degli articoli 204 e 222 c.p. con l'art. 32 Cost., ritenendo che la possibilità, prevista dall'ordinamento, di rinchiudere in un manicomio giudiziario una persona sana di mente al momento dell'esecuzione della misura fosse palesemente contrario al principio del rispetto della persona umana che la norma costituzionale imponeva ai trattamenti sanitari obbligatori, come limite invalicabile. Ma è soprattutto il contrasto con l'art. 27 terzo comma della Costituzione che attira gli strali delle Ordinanze dei giudici a quo. Essi ritengono che tale articolo debba estendersi anche alle misure di sicurezza, visto che sin dalla loro genesi hanno avuto una finalità rieducativa. L'applicazione indiscriminata della misura si tradurrebbe in un trattamento contrario al senso di umanità e contrasterebbe col fine della rieducazione del ricoverato (ordinanza 9 novembre 1965 del giudice istruttore del Tribunale di Siena).

La Corte, invece, non farà che ribadire le proprie posizioni, rinviando alla sua sentenza del 1966. Le presunzioni assolute, poggiano su dati di comune esperienza, che non richiedono particolari accertamenti giurisdizionali. (18) Anzi l'internamento minimo stabilito dalla legge “si risolve [...] in un minimo di osservazione sullo stato sanitario del soggetto; quella osservazione che il giudice dovrebbe disporre prima di escludere la pericolosità, se, nell'ipotesi, egli avesse una discrezionalità”. (19) La Corte arriva ad affermare che “L'art. 32 non ha connessione con l'argomento, perché l'internamento essendo disposto a fine di cura e, prima ancora, di controllo dello stato sanitario del soggetto, non può essere ritenuto in antitesi all'esigenza di tutela della salute dello stesso” (20). Sembra quasi che la Corte eluda la questione dell'applicazione del ricovero senza un reale bisogno, ma in realtà sostiene che: “Né è esatto che la misura viene disposta a persona sana; la legge la prescrive sulla base di situazioni emerse durante il processo”, per cui l'accertamento processuale del vizio di mente al momento del fatto rende legittime le presunzioni che stabiliscono la sua persistenza al momento della esecuzione dell'internamento ed alla magistratura è impedita qualsiasi valutazione nel merito. La Corte rifiuta anche qualsiasi possibilità di estensione dell'art. 27, terzo comma, dal momento che questo “si riferisce solo alla pena” in quanto le misure di sicurezza “ex se tendono ad un risultato che eguaglia quella rieducazione cui deve tendere la pena”, (21) giungendo ad una vera e propria contraddizione dogmatica e riconfermando la mistificazione ottocentesca secondo la quale il manicomio giudiziario sarebbe ontologicamente rieducativo.

La giustificazione della presunzione di pericolosità, il ritenere normale, opinione comune, il binomio pericolosità follia, la convinzione che le misure si applichino solo a persone malate e quindi pericolose, il ritenere che il periodo minimo di ricovero sia necessario anche ai soli fini di una osservazione, creerà una nuova frattura tra psichiatri e giuristi. Ormai il binomio pericolosità follia sta diventando un dato esclusivamente giuridico. Già negli anni '50 Enrico Altavilla, un giurista che si riconosceva negli insegnamenti della Scuola positiva, un ricercatore delle cause endogene della criminalità, aveva notato questo mutamento di significato:

I giuristi hanno creato dei folli di maniera, incapaci di essere intimiditi dalla sofferenza della limitazione di libertà ed hanno sancito la più iniqua delle norme che crea stupore negli stranieri: per l'art. 222 c.p., nel caso in cui una persona ricoverata in un manicomio giudiziario debba espiare una pena restrittiva della libertà personale, l'esecuzione di questa è differita fino a che perduri il ricovero in manicomio giudiziario. Bisognerebbe assistere al dramma di sventurati che sono rimasti lungamente in un manicomio giudiziario, superando i termini stabiliti dalla sentenza, e hanno la ribellione di chi si sente vittima di una ingiustizia, quando sanno che raggiunto il termine fissato dalla sentenza inflitta per la pena debbono ritornare in carcere ... per espiare! Io credo che mai un legislatore si sia macchiato di una così inutile crudeltà. (22)

Il significato della pericolosità, il significato dell'internamento sembrano mostrarsi sempre più ambigui. Il manicomio criminale rimane sospeso tra una pena ed una cura. Non gli si riconoscono le caratteristiche e le garanzie della prima, mentre si sfaldano progressivamente le basi teoriche che consentono la sua riconducibilità alla seconda. Questo “Giano bifronte” mostra la sua realtà: una scelta di politica criminale che in breve tempo non avrà più l'appoggio di una psichiatria che da molto tempo sta modificando i propri orizzonti.

La tensione dialettica avrà polarità invertite.

2) Lo svuotamento del concetto di pericolosità sociale

2.1) Il percorso verso la liberazione dei malati di mente

Perché prima quelli che erano qui pregavano di morire (...)

Come una pianta quando è arsa perché non piove e le foglie appassiscono, così era qui la gente

(A., ricoverato nel Manicomio di Gorizia.)
Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano “la révolution surréaliste”, indirizzato ai direttori dei manicomi, così concludeva: “Domattina, all'ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza”. (Franco Basaglia, La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione)

L'eco di un mutamento concettuale che investe tutto il mondo occidentale comincia a farsi sentire anche in Italia. E' nel 1968 che, con la pubblicazione de L'istituzione negata a cura di Franco Basaglia, l'impianto violento e repressivo nascosto sotto la coltre delle terapie della malattia mentale viene messo totalmente a nudo.

Si nega il manicomio.

Si nega tutto l'apparato epistemologico fondante la scienza psichiatrica.

Si nega la visione dell'irrecuperabilità della malattia mentale.

Si nega il ruolo dello psichiatra inteso esclusivamente come portatore di un mandato di controllo sociale.

Tuttavia non si nega la malattia, non si nega il significante della follia, si cerca di recuperarne il rapporto con l'individualità del sofferente psichico, prescindendo dall'etichetta che il termine “malattia mentale” comporta, dai pregiudizi che la definivano da oltre un secolo.

Nel momento in cui dico: questo è uno schizofrenico (con tutto ciò che per ragioni culturali, è implicito in questo termine) io mi rapporto con lui in modo particolare, sapendo appunto che la schizofrenia è una malattia per la quale non c'è niente da fare: il mio rapporto sarà solo quello di colui che si aspetta soltanto della schizofrenicità dal suo interlocutore. (23)

La scelta di Basaglia sembra essere quasi obbligata, se si tiene presente quale fosse lo statuto della scienza che egli era chiamato ad esercitare. Una scienza intrisa, costituita da giudizi di valore, eretta su impalcature di categorie morali, che imprigionava, nella ragnatela della sua pretesa oggettività e neutralità, interi gruppi di soggetti considerati da sempre inferiori.

[...] Per questo è necessario avvicinarsi a lui (il malato) mettendo fra parentesi la malattia mentale perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento che va oltre il significato reale della malattia stessa. La diagnosi ha il valore di un giudizio discriminante, senza che con ciò si neghi che il malato sia in qualche modo malato. Questo è il senso della nostra messa fra parentesi della malattia, che è messa fra parentesi della definizione e dell'etichettamento. (24)

Non vi è alcuna negazione della sofferenza nelle parole di Basaglia: in questo senso la follia è, e rimane, una malattia, quello che si rifiuta è la minorazione dell'umanità del folle, della sua individualità, del suo rapporto con la realtà sociale, della sua responsabilità. La terapia non può più avere carattere punitivo, perché la salute implica necessariamente il recupero dei diritti dell'individuo malato. (25) Il recupero di questi diritti nega, quindi, ogni residua possibilità di sopravvivenza del manicomio, istituzione totale per eccellenza, con la sua funzione di mero controllo sociale, di strumento di segregazione violenta. Solo una comunità terapeutica (sull'esempio di quella istituita da Maxwell Jones in Inghilterra) (26) che metta apertamente in luce le dinamiche di questa violenza e di questa esclusione potrà avere, per Basaglia, una valenza terapeutica. (27)

Il nodo centrale, ai fini della nostra ricerca, è il nesso indissolubile che vi è nel pensiero di Basaglia e, più in generale, nella nuova psichiatria italiana degli anni '70, tra recupero dei diritti civili e cura, gli uni sono pregiudiziali all'altra. In questo recupero non vi è il conferimento di una dignità “altra” rispetto al malato, di una concessione, ma vi è un riconoscimento, questo sì terapeutico, della piena dignità umana del sofferente psichico: egli non è solo lo schizofrenico, lo psicotico, il bipolare, egli è un individuo, titolare di diritti e doveri all'interno e nei confronti di un gruppo sociale. Solo come soggetto di diritto potrà trovare una sua terapia.

Il medico non può più concepire il malato in termini esclusivamente oggettivi, anche perché questo approccio influisce in modo determinante sul concetto di sé del paziente, il quale, vedendosi attraverso gli occhi dell'istituzione e del medico non potrà vedersi che come res, come corpo malato. Ogni suo atto troverà una descrizione ed un limite invalicabile nella malattia. (28)

Deve cessare il paradosso secondo il quale il malato di mente “è l'unico malato che non ha diritto di curarsi perché è definito pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo”. (29) Devono cessare “i reparti chiusi, il camice grigio, i capelli rapati a zero”, le cinghie di cuoio. (30)

Del resto:

negli ospedali psichiatrici è d'uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire, nemmeno per andare al gabinetto. In caso di necessità l'infermiere sorvegliante interno suona il campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni. La cerimonia è cosi lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto. Questa risposta del paziente ad una regola disumana, viene interpretata come un dispetto nei confronti del personale curante, o come espressione del livello di incontinenza del malato, strettamente dipendente dalla malattia.

In un ospedale psichiatrico due persone giacciono immobili nello stesso letto. In mancanza di spazio, si approfitta del fatto che i catatonici non si danno reciprocamente fastidio per sistemarne due per letto.

In un ospedale psichiatrico viene applicata la strozzina [...] è un sistema molto rudimentale di far perdere coscienza al malato, soffocando. Gli viene buttato sulla testa un lenzuolo, spesso bagnato - così da non permettergli di respirare - che si avvita strettamente all'altezza del collo: la perdita di coscienza è immediata. (31)

Il manicomio distrugge il malato mentale. (32)

Il ricovero comporta l'iscrizione nel casellario giudiziale, la perdita dei diritti fondamentali, la preclusione all'accesso di un impiego pubblico. (33) Anche i legami familiari vengono troncati di netto, il sofferente psichico non può per definizione essere un buon genitore, per questo l'ordinamento, oltre ad internarlo, lo priva anche della potestà familiare. Una tale regolamentazione giuridica della pratica terapeutica, fondata sulla coazione e sull'emarginazione si “risolve in una continua profanazione del ruolo soggettivo” che l'individuo si è formato e “fa venir meno quella base di sicurezza che è indispensabile per un minimo di equilibrio psichico”. (34)

Il tecnicismo psichiatrico, in questo contesto, non fa altro che mistificare la violenza istituzionale senza modificarne la natura, non è che un modo per far accettare al recluso la sua condizione di inferiorità morale e sociale che trova la sua origine, ancora una volta, in una supposta diversità biologica. (35) Scrive Basaglia:

La diagnosi ha ormai assunto il valore di un etichettamento che codifica una passività data come irreversibile. Ma questa passività può essere di natura diversa e non solo o non sempre malata (36) [...] Il livello di degradazione, oggettivazione, annientamento totale in cui si presenta (il malato), non è l'espressione pura di uno stato morboso, quanto piuttosto il prodotto dell'azione distruttiva dell'istituto, la cui finalità era la tutela dei sani contro la follia. (37) [...] Del resto il malato, proprio in quanto malato mentale, si adeguerà tanto più facilmente a questo tipo di rapporto oggettuale e problematico, quanto più vorrà sfuggire la problematicità della realtà cui non sa far fronte. Troverà, dunque, proprio nel rapporto con lo psichiatra, l'avallo della sua oggettivazione e de-responsabilizzazione, attraverso un tipo di approccio che ne alimenterà e cristallizzerà il livello di regressione. (38)

In realtà le parole di Basaglia, non sono del tutto nuove, egli infatti è profondamente influenzato da Karl Jaspers, e dalla Fenomenologia, che si opponeva al riduzionismo del modello biologico, ed alle griglie nosografiche basate sul modello delle classificazioni botaniche ponendo, invece, al centro dell'indagine psichiatrica l'esperienza esistenziale dei pazienti ed il loro vissuto. Sarà proprio Jaspers, nella sua opera Psicopatologia generale, del 1913, ad affermare, ricollegandosi alla fenomenologia di Husserl, che il processo cognitivo da utilizzare per arrivare alla comprensione del disturbo psichico consista nell'epoché, nella sospensione del giudizio sul soggetto, nella messa fra parentesi del mondo, rifiutando qualsiasi oggetivazione dell'altro. (39) E' necessario quindi un nuovo atto di liberazione degli internati, dopo quello di Pinel (40), visto che il primo passo verso una cura non poteva che essere il ritorno a quella libertà, che la psichiatra positivista aveva loro negato, senza neppure riuscire a comprendere, come si era prefissata, attraverso il reticolo delle sue classificazioni nosografiche, la natura della malattia mentale e la sua eziologia.

Il movimento anti-istituzionale, inoltre non voleva neppure affermare che il sapere psichiatrico e la sua organizzazione in termini custodialistici fosse da ritenere come totalmente aderente, omogeneo e funzionale alla classe dominante, poiché questa visione avrebbe in qualche modo esaurito il problema della malattia mentale appiattendolo nelle sole contraddizioni della struttura sociale ed avrebbe operato una riduzione che avrebbe portato a ritenere il potere un sistema granitico e coerente privo al suo interno di contraddizioni, “identificabile in prima persona nel capitale o nei piani razionali di una elite di neocapitalisti. In realtà è necessario considerare che le istituzioni psichiatriche siano in ritardo o diverse nei confronti delle esigenze istituzionali e della società in generale, cioè abbiano malgrado tutto una propria storia e una loro specificità”. (41)

Basaglia non nega neppure l'utilità dei farmaci nel trattamento degli internati, perché anche se attraverso l'azione sedativa di essi il malato resta fissato in un ruolo passivo, essi agiscono sul malato attenuando la percezione della distanza che lo separa dall'altro. (42)

L'ordinamento giuridico tuttavia realizza ancora la protezione del malato mentale attraverso la sua emarginazione pensando esclusivamente a creare status personali “dotati di certezza per i terzi e di stabilità per l'incapace” (43) che si concretizzano quasi esclusivamente nell'interdizione o nell'internamento in manicomio: nella privazione di una qualsivoglia soggettività giuridica.

La Corte Costituzionale, il ceto dei giuristi, proprio nel 1968, non farà che ribadire questa concezione. Chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge manicomiale del 1904, il quale consentiva l'accertamento dell'alienazione mentale senza garanzie di contraddittorio, di difesa giuridica e tecnica e di impugnabilità (artt. 2, 3, 24 e 32 Cost.), esauriva la questione delle garanzie e della tutela del malato di mente nell'estensione del diritto di difesa dell'infermo nel procedimento che si svolgeva innanzi al Tribunale per l'emanazione del decreto di ricovero definitivo, che quindi non avrebbe più potuto svolgersi in totale assenza di contraddittorio e stabiliva, inoltre, l'illegittimità dell'art. 2 limitatamente alla parte in cui disponeva che l'autorità di pubblica sicurezza potesse, in caso d'urgenza, ordinare il ricovero in via provvisoria con l'obbligo di riferirne alla Procura entro un mese e non entro i quattro giorni previsti dalla legge nelle ipotesi di carcerazione preventiva. Arrivava così a paragonare, ad abbinare in un parallelismo procedimentale, il ricovero in manicomio e l'ingresso in carcere, limitava il suo intervento alle più palesi violazioni del diritto di difesa che, come sosteneva l'ordinanza del giudice a quo (il Tribunale di Ferrara), violavano anche:

i limiti imposti dal rispetto della persona umana che per colui che è sospettato di alienazione mentale, è posta in condizione deteriore, nel confronto alla condizione dell'interdicendo del proposto per misure di prevenzione e dell'imputato per reato. I provvedimenti previsti (dalla legge del 1904) possono, dal punto di vista pratico, rivestire importanza pari o superiore a quella dell'irrogazione di un ergastolo, potendo eliminare la capacità d'agire e la stessa capacità giuridica.

Per la Corte però non vi è alcuna lesione della dignità umana né del diritto alla salute, così come sancito dall'art. 32 della Costituzione, poiché il giudice a quo non indicherebbe “alcuna norma dalla quale si desuma che l'autorità predetta possa agire in disprezzo della persona dell'infermo”. Riconoscendo ancora una volta allo status quo manicomiale piena dignità terapeutica. L'internamento è sempre disposto a protezione della salute e dell'integrità fisica, anche se si sancisce la parità di trattamento con gli imputati di reato ex art. 13 Cost., dichiarando non fondate le questioni di legittimità dell'art. 2 della Legge n. 36/1904 in riferimento agli artt. 2, 3, 32 della Costituzione.

Il legislatore, invece, spinto anche dal sempre più largo consenso delle posizioni di Basaglia e della suo gruppo in vasti strati sociali, non rimarrà sordo ai richiami di una nuova concezione dei rapporti con la malattia mentale, e, nello stesso 1968, con la legge 431 sulle Provvidenze per l'assistenza psichiatrica, introduce il ricovero volontario, inserendo la psichiatria nel sistema sanitario, e dando inizio al superamento della concezione custodialistica che troverà il suo culmine nella legge 180 del 1978. (44)

Fu il primo passo per evidenziare l'illiceità, nel quadro dell'art. 32 Cost., di ogni forma di limitazione della libertà personale od altre compressioni delle libertà fondamentali, quali il diritto alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione che non fosse strettamente finalizzata alla tutela della salute mentale. (45) Inoltre con il ricovero volontario si svincola la necessità di terapia psichiatrica dall'automatica negazione della capacità di agire o persino giuridica del malato, si ammette, anche da un punto di vista giuridico, che vi sono soggetti che hanno la piena consapevolezza del loro status, anche se solo al fine di chiedere il ricovero in una struttura psichiatrica. Il paziente avrebbe potuto andarsene, almeno ipoteticamente, quando lo avesse desiderato.

La riforma sembra quindi seguire un prassi terapeutica intrapresa dall'Ospedale Psichiatrico di Gorizia: Basaglia infatti aveva inventato lo status di “ospite” cioè del ricoverato volontario che, dimesso dall'ospedale psichiatrico, restava comunque al suo interno in spazi precedentemente riservati ai dipendenti dell'ospedale. La figura dell'ospite consentiva da una parte il pieno recupero della soggettività del malato, che con una scelta consapevole si assumeva la responsabilità di rimanere temporaneamente all'interno della comunità psichiatrica, dall'altra impediva che un rientro troppo immediato nel mondo ordinario creasse traumi troppo forti ad un individuo depersonalizzato a causa dell'internamento in un istituzione totale, permettendo inoltre a queste figure intermedie, di raccordo tra l'interno e l'esterno del manicomio, di creare un ponte con la popolazione che cambiasse in modo graduale e progressivo l'opinione pubblica sulla malattia mentale. (46)

Questo cambiamento culturale e legislativo avrà immediate ripercussioni concrete: i ricoveri coatti legati alla pericolosità od al pubblico scandalo scompariranno quasi del tutto, e le nuove ammissioni saranno per lo più volontarie, questo causerà una drastica diminuzione degli internati presenti in manicomio: i ricoverati nei manicomi nel 1964 erano 1.114, nel 1968 saranno 835, nel 1969 si arriverà a 791, un calo di circa il 30% degli internamenti. (47)

Ma la cultura psichiatrica avvertiva sempre di più la necessita che il mutamento radicale del suo paradigma epistemico si traducesse in una definitiva abrogazione della legge del 1904. Nel 1976 l'A.M.O.P.I, l'associazione medici ospedali psichiatrici, in un convegno tenuto a Roma invocherà espressamente l'abrogazione della vecchia legge manicomiale del 1904 proprio perché aveva determinato la segregazione e l'emarginazione di persone in base ad un concetto aleatorio ed arbitrario come la pericolosità sociale, ed aveva “permesso che una pericolosità occasionale sancisse la necessità di un ricovero durato poi decenni o tutta la vita”. Era quindi necessario che la protezione del malato di mente non si basasse più sulla “costruzione di enormi reclusori per i quali sia i politici, sia gli stessi operatori psichiatrici, sia l'opinione pubblica generale non hanno esitato negli ultimi anni a trovare la definizione di lager”. Anche in virtù del fatto che “la procedura del ricovero coatto, ha reso custodialistico e quindi fondamentalmente antiterapeutico e assurdo ogni tentativo di cura”. (48)

Sarà quindi la cultura scientifica “antipsichiatrica” a scuotere il torpore dei giuristi, ancora fermi a valutare la compatibilità del manicomio con i limiti e le garanzie dettati dall'art. 13 Cost. in tema di limitazione della libertà personale, ed a spezzare l'indifferenza del legislatore imponendo non solo di dare attuazione all'art. 32 della Costituzione, ma anche ridefinendo direttamente i contorni del suo contenuto precettivo.

2.2) La Legge 180 del 1978

Anche se minoritaria all'interno del mondo accademico, ancora chiuso in una visione organicista della malattia mentale, improntato ad un modello esclusivamente neurologico ed ancora rivendicante il mandato di controllo sociale che si era arrogato nell'800, la rivoluzione psichiatrica iniziata da Basaglia, dopo aver avuto molti seguaci sul piano operativo, nel mondo delle istituzioni psichiatriche, (49) ebbe un vasto appoggio da parte dell'opinione pubblica ormai persuasa da un consistente movimento culturale, che si era formato intorno alle prime esperienze anti-istituzionali, dell'insostenibilità dell'istituzione manicomiale, vista come obsoleta e disumana. (50)

Dopo l'eco internazionale delle scoperte di Lombroso, la psichiatria italiana uscirà di nuovo dal cono d'ombra del suo provincialismo, dalla sua posizione ancillare e retrograda, in virtù di una teoria volta a negare ed a cancellare proprio quello a cui il Positivismo aveva dato vita. (51)

L'Oms dichiarerà Trieste zona pilota per la psichiatria nel 1973, consacrando a livello internazionale l'opera di Basaglia. (52)

Trieste - unica al mondo - chiuderà definitivamente il proprio manicomio per riformulare in modo definitivo la spazio terapeutico ed il rapporto tra terapeuta e folle.

Uno spazio terapeutico che non può più contemplare neppure il collegamento che c'è tra manicomio civile e manicomio criminale, un nesso dato dalla pericolosità che è il presupposto per entrambe le forme di internamento. In definitiva manicomio civile e manicomio criminale fino all'avvento delle correnti antipsichiatriche erano, ancora negli anni '70 del '900, perfettamente sovrapponibili tanto che, a fronte di un reato bagatellare che superasse però i limiti edittali dell'art 222, era invalsa la prassi da parte dell'autorità di pubblica sicurezza di non proseguire l'azione penale qualora il reo fosse disponibile all'internamento in un manicomio civile. (53) Questo collegamento fu ribadito nel 1975 quando si mise mano alla riforma dell'Ordinamento penitenziario, il quale all'art 100 prevedeva espressamente che le amministrazioni penitenziarie potessero stipulare convenzioni con gli ospedali psichiatrici civili per il ricovero di soggetti destinati agli ospedali psichiatrici giudiziari, come erano stati rinominati dalla stessa riforma. L'unico effetto che il clima culturale di quegli anni ebbe sul trattamento penale del reo malato di mente fu, quindi, quello di togliere il nome “manicomio” ad una struttura che per il resto sarebbe rimasta immutata. (54)

La riforma psichiatrica toccherà solo il settore civile e non avrebbe potuto essere altrimenti visto che se si fosse estesa agli Ospedali psichiatrici giudiziari avrebbe dovuto essere scardinato tutto il sistema delle misure di sicurezza che la dottrina penalistica italiana considerava un elemento centrale del sistema penale pur ammettendo la necessità di qualche ammorbidimento per un improbabile tentativo di adeguamento costituzionale.

In questo contesto l'entrata in vigore della legge 180 segnò un vero e proprio confine sul piano giuridico normativo, uno spartiacque tra la cura della malattia mentale e la sua configurazione come problema di ordine pubblico. Il legislatore abbandona la concezione di un diritto che fonda la sua legittimazione esclusivamente sull'esercizio della forza e su una generica e pervasiva connotazione securitaria, ed abbraccia una tutela che invece mette al centro della sua potestà normativa la dignità umana, la dimensione terapeutica ed il diritto alla salute, che venivano annichiliti dall'istituzione manicomiale e cancellati dal perdurante parallelismo, consolidato anche in giurisprudenza, tra follia e pericolosità.

Fino ad allora la questione del coordinamento dell'art. 32 della Costituzione con il diritto alla salute mentale era stato trattato molto superficialmente sia dalla dottrina dominante che in qualche caso aveva addirittura ritenuto che ai trattamenti obbligatori previsti dall'art. 32 non si applicassero i limiti dell'Habeas corpus sanciti dall'art. 13 della Costituzione in virtù del criterio interpretativo di specialità, (55) sia dalla Corte Costituzionale che si era limitata, analizzando la questione manicomiale, ad una interpretazione meramente procedurale dell'art. 13 della Costituzione seguendo la teoria dominante del vuoto dei fini, trascurando invece il limite imposto dalla dignità umana ai trattamenti sanitari obbligatori imposti dall'art. 32 Cost., legittimando in tal modo una violenza istituzionale ormai ampiamente nota. (56)

Con l'imponente e variegato movimento culturale che porterà alla legge 180, per la prima volta, dopo trent'anni dall'entrata in vigore della carta Costituzionale si darà piena attuazione ed un nuovo e più ricco significato al diritto costituzionale alla salute sancito dalla normativa costituzionale: la malattia mentale verrà per la prima volta considerata come tutte le altre malattie e la competenza di tutta l'attività di assistenza psichiatrica verrà trasferita dalle province alle regioni, entrando a pieno titolo nella sanità pubblica. (57)

Il manicomio cessa di esistere, da ora in poi gli accertamenti ed i trattamenti sanitari devono essere di norma volontari, il trattamento sanitario obbligatorio potrà essere previsto solo per la fase acuta della malattia e dovrà essere considerato una extrema ratio, da intraprendere solo se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. Tale trattamento verrà effettuato con il ricovero presso specifici reparti di ospedali Generali. (58) Lo scopo del TSO è quindi solo terapeutico, non ha alcuna finalità di ordine pubblico, ne consegue che la mancata accettazione di un trattamento psichiatrico non potrà essere considerata un indicatore di pericolosità sociale ma solo di un particolare stato di sofferenza che impone particolari responsabilità terapeutiche agli operatori sanitari o “magari come spesso l'esperienza ha dimostrato e come era riconosciuto dalla stessa relazione di presentazione della 180 in parlamento, indicatore di una storicamente fondata paura del manicomio e dei suoi effetti di stigmatizzazione”. (59)

Un'ulteriore conseguenza è data dalla più completa separazione tra la funzione di cura e la funzione di controllo. Il trattamento sanitario obbligatorio comprime temporaneamente i diritti del paziente ma per tutelarne altri considerati in quel momento prioritari che appartengono sempre alla sua sfera soggettiva, il bilanciamento avviene all'interno di un gruppo omogeneo di diritti individuali di cui il malato è unico titolare. La pericolosità sociale, la sua neutralizzazione riguarderà non più la psichiatria ma solo la pubblica sicurezza ed il diritto penale. “Quando sia il caso, può competere al servizio psichiatrico e alla polizia di intervenire insieme nella stessa situazione, ma ciascun potere sulla base del proprio specifico mandato” (60) che nel caso del medico consiste nuovamente nel principio del non nuocere.

Si dispone anche che gli eventuali accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori debbano essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato, e, finalmente, la legge sancisce che i trattamenti dovranno essere disposti non solo nel rispetto dei limiti formali dell'art. 13 della Costituzione ma anche nel rispetto della dignità della persona, dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura, in conformità a quanto stabilito dall'art. 32 Cost. Una attuazione più compiuta dei principi fondamentali della Costituzione, mai però invocata, fino a quel momento se non da una minoranza di giuristi.

La legge, inoltre, sancisce il blocco definitivo di nuove ammissioni negli ospedali psichiatrici ed il divieto di costruire nuovi istituti. Tutta la nuova assistenza psichiatrica viene affidata ai Dipartimenti di salute mentale organizzati su base territoriale. (61)

Il consenso, o perlomeno il tentativo di ottenere il consenso del sofferente psichico permea tutta la nuova normativa cosi come la sua coazione permeava la legge del 1904. Si cerca una partecipazione del paziente che è volta a valorizzare quella quota di responsabilità, di consapevolezza e di autodeterminazione che sono centrali sia nel nuovo paradigma dell'atto terapeutico, della cura sia nell'assetto normativo Costituzionale del nostro Ordinamento, ma che fino a quel momento erano riservati a coloro che erano considerati sani di mente. (62)

Questa attenzione alla tutela della salute diviene possibile, secondo lo stesso Basaglia, solo grazie alla principale innovazione della legge 180: la scomparsa del concetto giuridico di pericolosità, il cui unico corollario non poteva che essere la repressione, la custodia inoltre era essa stessa un fattore patogeno, come dimostravano le esperienze di liberazione dei reparti. (63)

Dalla negazione giuridica della pericolosità sociale discendono due principi che, in qualche modo superano il confine della questione manicomiale: il primo che riguarda il rapporto tra diritti sociali, che consistono nel diritto ad ottenere assistenza e prestazioni dagli Organi pubblici, e diritti di libertà, che al contrario si concretizzano nell'esercizio di facoltà libere nel fine e che possono entrare in conflitto con le esigenze e gli interessi degli organismi pubblici stessi. (64) Nel caso della legge 180 l'affermazione dei diritti individuali di libertà degli internati, il consequenziale riconoscimento di quote di responsabilità dei malati mentali, la negazione dello stigma della pericolosità sociale, sancita per motivi di ordine pubblico, sono anche direttamente strumentali a garantire l'effettività del diritto alla salute mentale inteso anche come diritto sociale, come diritto ad una prestazione sanitaria. Il legame tra riconoscimento dei diritti civili e fruizione dei diritti sociali è in questo caso talmente forte da far sì che il riconoscimento dei primi sia conditio sine qua non per l'erogazione dei secondi, e che, di conseguenza, l'unica modalità possibile di cura della salute mentale, e di garanzia del più ampio diritto costituzionale alla salute, sia incompatibile in modo assoluto con qualsivoglia esigenza di ordine pubblico che si proponga di comprimere tali diritti.

La salute si configura come bene strumentale allo sviluppo della personalità, ed il riconoscimento del diritto alla salute impone allo Stato la predisposizione di una serie di strumenti e di attività che impediscano alla malattia di ostacolare od impedire il pieno sviluppo della dignità e della personalità. (65)

Il secondo principio strettamente correlato al primo consiste nella negazione di ogni tipo di Istituzione totale a funzione mista che si proponga sia la tutela del soggetto internato, come la promozione della sua salute o di altri suoi specifici diritti o interessi, sia la sua custodia: “l'ospedale psichiatrico giudiziario (luogo di esecuzione della misura di sicurezza che al contempo dovrebbe curare e correggere la pericolosità sociale); il centro di permanenza temporanea (che accoglie, ma al contempo respinge, dissuadendo dall'accesso ai confini il soggetto migrante preludendo poi all'accompagnamento coattivo alla frontiera o all'espulsione)”. (66)

E' evidente ormai che la segregazione non può che avere una ratio intrinsecamente punitiva, e che solo per punire si potrà limitare per un lungo periodo la libertà personale. La struttura della custodia disgrega la personalità, ogni tentativo di esperire una terapia, un trattamento in una situazione soggettiva di totale coercizione è, prima che ingiusta, inutile poiché il contesto asilare è esso stesso irrimediabilmente patogeno. In altre parole cura e custodia non sono strutturalmente compatibili in un ordinamento liberale, cura e custodia non possono, e non debbono essere coniugate. (67)

3) La ridefinizione della pericolosità sociale in campo penale e gli interventi della Corte Costituzionale

3.1) Pericolosità sociale tra senso comune e archetipo

Una delle critiche mosse più frequentemente alla legge 180 sarà quella di non essersi interessata al ospedale psichiatrico giudiziario, di non aver esteso la negazione delle istituzioni manicomiali al campo penale. Questo disinteresse sembra però avere una sua ragione logica.

Rimuovere l'internamento manicomiale dall'orizzonte del diritto penale avrebbe dovuto comportare il totale ripensamento di un impianto giuridico, come quello dell'istituto delle misure di sicurezza, ormai troppo strutturato ed autonomo. Un tentativo così ambizioso avrebbe comportato il rischio del totale naufragio della riforma dello statuto della follia nel campo civile e sanitario.

La pericolosità rappresentava infatti il concetto fondante sia della Criminologia clinica, sia di tutto il sottosistema penale preventivo che riguardava non solo i folli, ma tutta una serie di figure marginali quali alcolisti, tossicodipendenti, delinquenti abituali e per tendenza. Alla crisi teorica della pericolosità corrispondeva, e corrisponde ancora oggi, un utilizzo massiccio, un vero e proprio successo, di questa nozione sul piano operazionale e criminologico. (68)

Una nozione che, secondo Philippe Robert, proprio perché ha dimostrato l'impossibilità di essere definita scientificamente, sottraendosi sistematicamente alla verifica di una reale strutturazione concettuale, deve necessariamente appoggiarsi sul senso comune. Su uno stereotipo sociale che trasformi un concetto amorfo e sospetto in un efficiente concetto operazionale. Una nozione mossa dal solo fine pratico di orientare un preciso comportamento sanzionatorio e neutralizzativo.

Basandosi sul senso comune la pericolosità sociale mostra tutta la propria forza, in quanto entra a far parte di un universo simbolico più largamente condiviso rispetto alle altre categorie del diritto penale, l'unica, forse, che può contenderle il primato è la colpevolezza ma solo se declinata nella vendetta, in una legge del taglione che le categorie del diritto penale classico tentano invece di filtrare, limitare e rimodellare sulla base di una morfologia razionale.

L'archetipo della vendetta trova espressione nell'immaginario giuridico evocato da Eschilo, in uno spazio ed un tempo di “pura ed immediata giustizia”, primigenio e sotterraneo che precede l'invenzione razionale del diritto, un diritto, spesso soffocato o sovrasto dal “ritorno alla natura”, un diritto che impedisce al mondo di andar da se, per un suo corso istintivo, che impone il dubbio ed accetta la persuasione, che costringe un universo teologico - cosmico ma anche animale e fisiologico a spiegare se stesso, che assume che l'ordine giusto non possa essere dedotto da un ordine delle cose dato e naturale ma si costituisce in maniera pratica e logica all'interno di un'attività intersoggettiva. (69)

L'immagine della vendetta, così originaria ed insieme attuale, così profonda ed impulsiva, è incarnata e rappresentata dalle Erinni (Tesifone, la punitrice, Megera, l'odio, Alletto, il turbamento) divinità primordiali e notturne, sempre presenti nell'esigere il sangue del colpevole ma disprezzate dai nuovi dei solari, da Apollo, l'ἀλεξίκακος, colui che “scaccia il male” che così le apostrofa:

Non potete avvicinarvi a queste case,
ma dove ci sono sentenze che tagliano la testa e
strappano gli occhi
sgozzamenti e troncamenti di seme,
dove si distrugge la virilità dei ragazzi e (si fanno)
mutilazioni e lapidazioni
ed emettono lunghi lamenti quelli che sono conficcati per la schiena.
State ascoltando di quali feste avete desiderio?
Perciò siete detestate dagli dei.
Lo mostra ogni tratto della vostra figura:
l'antro di un leone che inghiotte
sangue è lecito che abitiate, non che
spargiate la sozzura vicino a questo tempio.
Andate via a pascolare senza pastore
nessun dio può essere benevolo con un simile
gregge. (70)

La pericolosità, ed i suoi esiti, vengono invece sintetizzati da Sade: “Paragonate, signore, tutti i mali che il crimine può produrre sulla terra con il male esiguo dell'esecuzione di una dozzina di disgraziati a titolo preventivo”. (71)

La dimensione surreale ed insensata dei meccanismi preventivi di repressione viene tratteggiata da Lewis Carroll:

‘Quali cose ricordate meglio?’ si arrischiò a chiedere Alice. ‘Oh le cose che sono accadute la settimana dopo la prossima’, rispose la Regina con noncuranza. ‘Per esempio adesso’, continuò [...] ‘c'è il messaggero del Re. Egli è ora in prigione, a scontare la pena e il processo non si terrà prima di mercoledì prossimo: e naturalmente il crimine verrà dopo’. ‘E se lui non commettesse il crimine?’ disse Alice. ‘Tanto meglio no? disse la Regina’ [...] Alice sentì che non poteva contrariarla. (72)

In qualche modo la mancanza di razionalità consente alla pericolosità di entrare a far parte con maggior vigore di un immaginario che costituisce l'identità del gruppo sociale. (73) La pericolosità da concetto scientifico, si trasforma in qualcosa di contiguo ma “altro”, degrada ad una rappresentazione sociale di una idea scientifica che in realtà non esiste. Passa ad un universo simbolico totalmente diverso, ma da questo passaggio trae la sua forza in quanto dimostra di rappresentare un elemento davvero irrinunziabile, perché esistenziale, per il corpo sociale.

La sua forza nasce anche dal fatto che trasformandosi in senso comune, in rappresentazione sociale essa diventa anche sapere inconsapevole. Le rappresentazioni sociali “non sono immediatamente visibili all'individuo che le usa quasi senza accorgersene. In quanto egli appartiene a un gruppo sociale viene modellato da questa appartenenza cosi egli vede il mondo con gli occhi del gruppo al quale appartiene pensando che quello sia il suo modo di vedere e il modo giusto di vederlo”. (74) La sua natura simbolica gli consente di sfuggire al vaglio critico razionale che la decostruisce. Essa diventa più reale del razionale, perché immersa in una zona più profonda. In un territorio più antico. E' proprio questa sua arcaicità a consentirle di investire la totalità del soggetto che ne è il destinatario passivo. Il soggetto non commette atti pericolosi, egli è pericoloso. La sua identità viene permeata da uno status sancito dalla collettività che lo costituisce totalmente anche nel diritto penale contemporaneo. Proprio per questo la “criminologia si interessa solamente all'uomo socialmente atipico”, “scivola silenziosamente ma rapidamente dal crimine al criminale”. (75)

Tuttavia la definizione di pericolosità come “etichetta scientifica per uno stereotipo morale” (76) coglie solo parzialmente la natura della nozione in quanto sottovaluta la sua forza profonda e collettiva, diffusa ed incancellabile.

Cosi come non può essere condivisa l'idea di Debuist che definisce lo statuto del concetto in relazione ad un certo ordine sociale, ad un certo ordine di relazioni, ma poi identifica questo ordine di relazioni esclusivamente con il potere, con la pressione esercitata da un certo gruppo dominante. Per cui la pericolosità verrebbe definita in relazione al senso di minaccia del gruppo che detiene il potere. La nozione di pericolosità farebbe esclusivamente riferimento ad una soluzione disciplinare o normalizzante che utilizza in questo caso il ragionamento scientifico per imporre un elemento non scientifico ma repressivo come la pericolosità: (77) “La dangerosité n'est pas simplement identifiée à la probabilité de commettre une infraction, mais bien de commettre certaines infractions susceptibles de créer dans le groupe ou pouvoir en place un sentiment de danger ou de menace”. (78)

Questa teoria prova troppo ed elude un conflitto più diffuso, concependo un potere persona che detta le regole dall'alto, stabilendo giusto ed ingiusto, trascura una realtà concreta fatta di conflitti reali tra persone prive di potere ma portatrici di saperi simbolici e culturali difformi. La conflittualità esiste e non viene definita solo dal potere. Il folle con i suoi comportamenti infastidisce, spesso invade la sfera personale altrui, a volte compie atti che comportano una richiesta di risarcimento, di riparazione, perché violenti, aggressivi in se, non solo perché socialmente eversivi. E' da questo microcosmo che si deve partire. Partire invece da una astratta visione di un potere razionale che, indipendentemente da ogni realtà, definisca giusto ed ingiusto sulla base delle proprie convenienze semplifica la complessità dei rapporti tra corpo sociale e follia, tra malato e sano, rischia di ridurre la critica della pericolosità ad una rivendicazione politica che presto o tardi relegherà la critica stessa alla contingenza storica, all'oblio. La pericolosità trova invece il proprio elemento costitutivo nelle radici del gruppo sociale, il potere le riceve e le codifica razionalizzandole, non ne è solo artefice, esso (egli) soprattutto ne è strumento. Ne è strumento poiché il potere stesso è costituito nelle sue fondamenta su proiezioni simboliche di uguale natura, le gestisce ma ne è impadronito. Sono queste proiezioni il mito fondante, il nesso profondo che lega intimamente il Leviatano al gruppo sociale.

4) Gli effetti (morbosi) della istituzionalizzazione cronica tra cura e rieducazione; gli Opg ed il loro ruolo di supplenza impropria dopo la 180

Il verme, calpestato, si rattrappisce. E questo è intelligente. Diminuisce così la possibilità di venir calpestato nuovamente. Nel linguaggio della morale: umiltà. (Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli)

Gli effetti della legge 180 sull'Opg in un primo momento furono opposte a quelle sperate.

L'ospedale psichiatrico giudiziario venne usato come contenitore suppletivo di una gran massa di individui che i servizi sanitari non riuscivano a gestire. Se negli anni immediatamente precedenti la legge 180 gli internati nell'Ospedale psichiatrico si attestavano mediamente attorno alle mille unità, nel 1982 si arrivo ad un aumento del 50%, arrivando a registrare 1499 internati. Questo derivò anche da un allargamento delle categorie di malati cui attribuire il difetto di imputabilità nel momento della commissione di un fatto criminoso che, pur se non teorizzata e disposta dalla giurisprudenza di legittimità, veniva comunque seguita nella prassi delle corti penali. Una prassi che dimostrava come l'elasticità della fattispecie dell'imputabilità e l'allargamento delle maglie del proscioglimento per infermità mentale potesse trovare un ancoraggio non solo per sollevare da una “colpa” ma anche per coniugarsi ad una richiesta di neutralizzazione che il civile e l'amministrativo non erano più in grado di assicurare.

Castiglioni riporta la storia di Mario C., un ragazzo che “non è un vero e proprio malato di mente ma che rivelandosi ingestibile dalle autorità sanitarie civili perché, essendo stato internato nel 1964 all'età di sei anni, aveva sviluppato un rapporto di collegamento morboso prima con il manicomio poi con la sezione psichiatrica degli ospedali di Milano. Un rapporto che si era rivelato insostenibile per il personale medico e paramedico. Al momento del suo ingresso in manicomio civile si annota sul libretto: ‘Il bambino è solo proviene dalla guardia psichiatrica con ordine di ricovero e con diagnosi di anomalie del comportamento in cerebropatico’”. (79) Pare che ad un anno si fosse ammalato di meningite e per questo ricoverato in orfanotrofio per qualche tempo. Uno zio affermerà che negli otto mesi precedenti al suo internamento il bambino si era dimostrato irrequieto e indisciplinato, girando per ristoranti ed osterie a chiedere da mangiare nonostante in casa gli “venisse dato tutto il necessario ed anche di più”. (80) I disturbi comportamentali e l'irrequietezza verranno ricondotti ad una leggerissima forma di oligofrenia. “Tutto qui. Con questo il Mario si fa otto anni e mezzo filati al manicomio”. (81)

Nella sua cartella clinica si scrive che è “clamoroso, dispettoso, attaccabrighe, teatrale, rivendicativo”. Altre volte si rinviene “A Molteno (...) ha rotto tre vetri ed ha tenuto un contegno un po' disturbante” Di conseguenza “si aggiusta la terapia”.

Il ragazzo ha già 12 anni. Alla stessa età i suoi insegnanti, i suoi educatori, quelli che lo dovevano condurre ad un esistenza autosufficiente affermano che il rendimento scolastico di Mario è “nullo”, “non dovrebbe più continuare la frequenza scolastica” (giugno 1970). La legge impone la scuola dell'obbligo fino ai quattordici anni di età.

Nel giugno del 1972 si annota ‘contegno nel complesso buono. Il p. presenta rari episodi di aggressività e clamorosità ma solo in occasione di frustrazioni ambientali. Dipendente dall'adulto ha bisogno d'appoggio e d'aiuto’ (libretto dieci giugno 1972). Osservazione appropriata di cui non si tiene e non si terrà conto. (82)

La sua storia successiva è intessuta di trasferimenti in vari istituti di accoglienza di varia natura ma l'imprinting manicomiale segna Mario per sempre. Nell'81 le tensioni tra lui e l'ospedale che frequenta informalmente diventano per il personale medico insopportabili, un infermiere presenterà un esposto alla Procura della Repubblica perché Mario afferma che lo ha ingiustamente incolpato di un furto che non ha commesso, lo insulta e minaccia di “tagliargli la faccia”. (83) La proverbiale lentezza della giustizia sembra scontentare tutti. Scontenta Mario che afferma di voler andare in carcere al più presto e scontenta gli operatori sociali che si prendono cura di lui. L'assistente sociale dell'Amministrazione Provinciale afferma in una sua Relazione: “(...) Questo ritardo mette a disagio per primo l'interessato che sembra desiderare un provvedimento drastico, limitativo della sua attuale e dissennata libertà d'azione”. (84)

Mario stesso si presenterà dal giudice istruttore incaricato del caso, ci litigherà, l'arresteranno immediatamente e dopo pochi giorni verrà trasferito all'Opg di Reggio Emilia.

L'imprinting manicomiale e l'atteggiamento del personale hanno fatto il loro corso, hanno adempiuto ai loro compiti formando, educando e curando “il Mariolino”, per questo il ragazzo, dall'Opg, invierà loro una cartolina con scritto “Cordiali saluti da chi non può dimenticarvi mai”. (85)

4.1) La Traviata ed i Calzini dell'Upim

La giurisprudenza in alcuni casi cercò di aggirare il rigido sistema delle presunzioni di pericolosità associate all'infermità mentale attraverso alcune forzature ermeneutiche delle norme sulla colpevolezza, in particolare utilizzando una non usuale modalità interpretativa della suitas, regolata dall'art 42 c.p. al fine non dichiarato di eludere l'art. 222. Si avvertiva che l'equazione malattia e pericolosità non poteva più reggere dopo la sua totale negazione sul piano civile, erano inoltre note la totale incapacità degli ospedali psichiatrici giudiziari di svolgere qualsiasi attività terapeutica (nel 1982 nei 6 Opg esistenti vi erano solo 26 medici nei ruoli organici a fronte di una presenza di 2000 unita, comprendendo i detenuti in osservazione. La maggior parte dei medici poi non aveva alcuna specializzazione psichiatrica ed era utilizzata solo per la malattie “comuni”). La natura disciplinare ed afflittiva delle misure di sicurezza e l'aumento degli internamenti a seguito della 180, forzava la giurisprudenza a trovare vie traverse per fronteggiare una situazione sentita come non più sostenibile. Era dunque la colpevolezza a fornire un valido aiuto a quei magistrati che volevano evitare lunghi internamenti di natura sostanzialmente detentiva a fronte di reati bagatellari. L'art. 42 c.p. recita testualmente al primo comma: “Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l'ha commessa con coscienza e volontà”. Secondo la dottrina la norma afferma che la condotta deve appartenere psicologicamente al soggetto che la compie e mira ad escludere la responsabilità in tutti quei casi in cui un soggetto imputabile, pur realizzando la condotta richiesta dalla legge, ne è privo di qualsiasi consapevolezza in modo incolpevole come nei casi di “incoscienza involontaria, di forza maggiore, o di costringimento fisico” fattori diversi dalla malattia mentale e per questo non passibili di applicazione di una misura di sicurezza. La Pretura di Padova si trovò di fronte al caso di Antonella Vitocco che “il 19 novembre 1981 si impossessò di calzini del valore di lire 4500 (quattromilacinquecento) non pagandoli alla cassa dei magazzini UPIM di Padova”. (86) Le considerazioni della corte fatte per arrivare ad una decisione “clemenziale” sono una combinazione di garantismo giuridico e di descrizione sociale.

Un piccolo racconto di provincia che dipinge una donna “di buona estrazione sociale (che) ebbe la sventura di sposarsi con un individuo successivamente imputato in processi di banda armata e cospirazione politica”. (87) Gli anni 80 stavano segnando la fine degli anni di piombo, il terrorismo era quasi del tutto sconfitto ma il trauma del ricordo era ancora vivo. Proprio a pochi chilometri da quella pretura, tra Verona e la stessa città di Padova, il terrorismo aveva dato il suo colpo di coda ed esalato il suo ultimo respiro politico con il sequestro del generale Dozier tra il dicembre del 1981 ed il gennaio dell'82.

“La donna fu plagiata dal marito e coinvolta anche ideologicamente (...) l'imputata rimase gravemente traumatizzata dagli eventi”. (88)

La prova di questo trauma viene fornita da un soggetto percepito come importante all'interno della piccola comunità Padovana. “Esiste allegato al processo un particolareggiato certificato del prof. Gozzetti noto psichiatra padovano” che la descrive come soggetto non affetto da malattia mentale ma “neurolabile ed eristico, con possibilità di transeunti incoscienze e con risposte sproporzionate agli stimoli”. (89)

Inoltre l'imputata “ha scritto nella lettera inviata a questo ufficio [...] che, allorché il fatto fu commesso, essa trovavasi in uno stato confusionale. Tale affermazione è perfettamente compatibile con la predetta certificazione medica. [...] Pertanto nel caso di specie ricorre l'ipotesi dell'art. 42 c.p., per cui si opta per il proscioglimento con formula piena per l'esclusione del dolo e del furto”.

Secondo la psichiatria (per lo meno per le conoscenze degli anni '80) la mancanza coscienza intesa come consapevolezza di sé e delle proprie attività in relazione all'ambiente che prende in considerazione la norma penale coincide con fenomeni di coscienza soppressa e non di coscienza ottusa o coscienza ristretta tipica degli stati confusionali. (90) In sostanza gli stati confusionali dovrebbero essere ricondotta all'infermità psichica disciplinata dall'art. 88 e 89 c.p. Sulla base dei parametri di psicologia e psichiatria quindi il caso non poteva assolutamente essere ricondotto alle fattispecie applicata dalla pretura padovana. “Sul piano tecnico medico legale non sembra esservi dubbio che nel caso di specie si doveva prosciogliere previa perizia per vizio totale di mente”. (91)

5) Perché solo la 139? La trilogia di sentenze della Corte Costituzionale del 27 Luglio 1982

Quando le mie azioni rivelassero apertamente gli autentici sentimenti e la natura del mio cuore, allora non esiterei ad indossare il mio cuore sulla manica perché i corvi lo becchino. Io non sono quello che sono. (William Shakespeare, Otello, I, 1)

5.1) La sentenza 27 Luglio 1982 N.139. Presunzione di esistenza e presunzione di persistenza

Con la sentenza n. 139 del 1982 la Corte Costituzionale, dopo essere stata sommersa da ben 22 ordinanze di rimessione aventi ad oggetto la legittimità costituzionale della presunzione di pericolosità degli infermi di mente, a riprova di un sistema avvertito come intollerabile dalla coscienza degli operatori del diritto, (92) cercherà di apportare una modifica di tipo “liberale” alla normativa sugli Ospedali psichiatrici Giudiziari. Essa affermerà che l'internamento dell'imputato prosciolto per infermità mentale in Opg deve essere subordinato al previo accertamento da parte del giudice di cognizione o dell'esecuzione della persistente pericolosità sociale derivante dall'infermità medesima.

La sentenza tuttavia solleverà impressioni discordanti nella dottrina penalistica. Enzo Musco e Giuliano Vassalli sono i due più importanti esponenti di questo contrasto.

Vassalli, pur affermando che l'intervanto della Corte Costituzionale passa attraverso “la cruna dell'ago”, ritiene che la sentenza abbia intaccato definitivamente la struttura della pericolosità presunta per l'infermo di mente, mentre Musco si chiederà se dopo questa sentenza abbia ancora un senso coniugare costituzionalità e razionalità.

Riportiamo sinteticamente alcune argomentazioni della corte:

La misura di sicurezza del ricovero obbligatorio in ospedale psichiatrico giudiziario costituisce la risposta alla pericolosità del soggetto; risposta modellata sulla specifica ragione (causa) di questa ritenuta pericolosità vale a dire l'infermità psichica quale si estrinseca nel delitto commesso.[..]

La struttura presuntiva della fattispecie (art 222c.p.) rivela contenere una presunzione duplice: innanzitutto quella che ricollega infermità e pericolosità e che è quella che la Corte in precedenti pronunce ha già ritenuto non in contrasto con i criteri di comune esperienza. Ma l'applicazione della misura a distanza di tempo dal fatto [...] poggia su una presunzione ulteriore, concernente il perdurare (non della sola pericolosità ma) della stessa infermità psichica senza mutamenti significativi dal momento del delitto al momento del giudizio. Una simile presunzione assoluta di durata dell'infermità psichica [...] finisce per allontanare la disciplina normativa dalle sue basi razionali. (93)

Le disposizioni di legge denunziate sarebbero indenni da vizi di costituzionalità se l'infermità fosse inalterata nel tempo. Il principio di uguaglianza, ex art 3 primo comma Cost., postulava per la Corte una razionalità del rapporto tra la presunzione di pericolosità e la durata e la persistenza dell'infermità.

Vassalli, giustamente, saluterà la scomparsa definitiva delle presunzione di pericolosità degli infermi di mente dal nostro ordinamento visto che l'attualizzazione del giudizio di pericolosità sociale toccava il punto essenziale della disciplina: il momento dell'esecuzione. (94)

Punto già intaccato dalla concessione della revoca anticipata della misura e dalla attribuzione al giudice di sorveglianza del relativo potere in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n.110 del 1974.

Musco, invece, sottoporrà la sentenza ad un attacco serrato per quello che lui giudica un atteggiamento di forte chiusura della Corte Costituzionale al problema delle presunzioni. Afferma che il problema viene affrontato con notevole ritardo rispetto alla sua maturazione scientifica. Non riesce ad accettare come la Corte possa ritenere ancora operante la prima presunzione citata: quella tra pericolosità e malattia mentale. Che è “dal punto di vista scientifico inconsistente ed arbitraria”. (95) Afferma che la pretesa violazione dell'art. 3 della costituzione appare inconsistente a fronte della palese violazione dei principi informatori della materia penalistica che dovrebbero essere il primo parametro per valutare la legittimità costituzionale delle misure di sicurezza. Primo fra tutti l'art 27 della Costituzione, che la Corte insiste a non applicare alle misure di sicurezza. (96) Ma quello che ci pare essenziale è che Musco sottolinea che la Corte con la sua ambiguità sfugge al vaglio critico della natura e dell'oggetto del giudizio prognostico, la follia o la pericolosità?

“Oggi nell'ambito di questo settore di ricerca dominano piuttosto la delusione e la stagnazione l'attuale prognosi criminale non ha ancora superato il suo stadio sperimentale e continua a dimostrare grosse lacune”. (97) E soprattutto muove una critica non contestabile: la critica alla comune esperienza come elemento base di una costruzione giuridica che porta ad una sanzione, ad una limitazione della libertà personale:

Non è certo un caso e nemmeno un astuzia della ragione il fatto che le presunzioni di pericolosità- come scrive la Corte e non solo nella sentenza oggetto di queste note - siano stabilite dal legislatore sulla base di “presupposti razionalmente idonei a fondarle” e che questi presupposti siano poi identificati “con i criteri di comune esperienza”. In queste formulazioni la genericità estrema della regola di giudizio evoca nella sua massima espansione l'aberrazione di una qualifica ottenuta sempre per categorie normative: l'aberrazione di un giudizio ideologico, lecito, e, se si vuole auspicabile in un regime di stampo autoritario, ma soltanto esecrabile in uno Stato di diritto. (98)

Con la sentenza n. 249 del 1983 si estenderà, a fortiori, l'illegittimità della presunzione di persistenza ai seminfermi, prevista dall'art. 219 commi 1 e 2, c.p. (99)

5.2.) Le Sentenze 27 Luglio 1982, n. 140 e n. 141: la configurazione di un sottosistema

Anche se Vassalli aveva ragione nel sostenere che l'intervento della Corte avrebbe certamente demolito l'impianto presuntivo predisposto da Rocco per i prosciolti per infermità mentale, Musco aveva colto con precisione il fatto che la Corte voleva confermare la configurazione giuridica di un sottosistema autonomo, che ripeteva le sue caratteristiche quasi in tutti i sistemi giuridici occidentali. La stessa Corte Suprema degli Stati uniti avrebbe basato infatti l'impianto sanzionatorio destinato ai malati mentali sulle stesse costanti, tra le quali spiccavano la non punibilità dell'infermo di mente e la comune esperienza come fonte di conoscenza del rapporto di identità tra pericolosità e malattia mentale, salvate dalla sentenza n. 139 attraverso la distinzione tra presunzione di esistenza e presunzione di persistenza della malattia mentale e l'assenza di colpevolezza come presupposto per l'applicazione di un rigido sistema neutralizzativo.

La sentenza n.139 richiamandosi alle precedenti sentenze, al criterio dell'id quod plerumque accidit, o ad un necessario intervento del legislatore aveva infatti eluso:

  • Il problema delle modalità di cura dell'internato, in particolare se esse dovessero sottostare ai limiti dettati dal necessario rispetto della persona umana ex art. 32 Cost. In particolare: “il rispetto della persona umana, ed i limiti che esso impone, possono ricondursi all'esigenza fondamentale e primaria consistente nella necessità che il soggetto sia in ogni caso riguardato e trattato come un valore in sé, e non degradato a mezzo per perseguire finalità estranee, secondo il principio che è alla base del nostro ordinamento costituzionale (art. 2 Cost.). Trasferendo tali esigenze al trattamento sanitario obbligatorio, non è difficile scorgere che il primo limite, imposto dal rispetto della persona umana, consiste nella necessità che sia assicurato un accertamento medico tecnicamente corretto dei presupposti del trattamento, perché soltanto questa condizione assicura che la limitazione imposta alla libertà del soggetto corrisponde ad una sua effettiva necessità terapeutica, senza la quale il trattamento stesso costituirebbe un mezzo realizzato per fini diversi dalla cura, e quindi, estranei alla persona che lo subisce” (ordinanza G.I. Pisa, 18 febbraio 1978).
  • Il fatto che vi fosse una distorsione della funzione di risocializzazione nei casi in cui la malattia fosse stata curabile ambulatorialmente attraverso l'utilizzo di una misura di sicurezza meno restrittiva come la libertà vigilata mentre la norma prevedeva esclusivamente la misura dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, fondata sulle preminenti finalità di difesa sociale (ordinanza Trib. Sorv. Roma, 20 maggio 78).
  • La questione della preminente se non esclusiva funzione securitaria dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, dove il trattamento dell'internato si riduceva ad un internamento carcerario ed afflittivo, che portava ad una grave disparità di trattamento tra malati di mente “civili” e “folli rei” (ordinanza Sez. Sorv. Bologna, 7 dicembre 1978 ma un argomentazione simile anche in ordinanza Trib. Como, 16 novembre 1979 e Trib. Milano, 4 febbraio 1980).
  • Il carattere inumano e degradante del trattamento in manicomio giudiziario che comporterebbe la violazione dell'art 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e quindi del principio di cui all'art 10, primo comma Cost. (ord. Trib. Milano, 4 febbraio 1978).
  • Il fatto che la durata minima dell'internamento fosse ricollegata al solo parametro della pena comminata in astratto. E, in particolare, come precisato dalla giurisprudenza, ricollegata alla pena massima irrogabile (computando le aggravanti e non le attenuanti), impedendo ogni possibilità di valutazione differenziata dei singoli casi concreti (ord. Trib Milano, 4 febbraio 1978); sfuggendo in tal modo al collegamento che dovrebbe esservi tra pericolosità e fatto concreto e quindi in violazione dell'art 3 Cost (ord. Trib Pisa 23 febbraio 1980), soprattutto nel caso in cui venissero addebitati reati in astratto gravi ma in concreto di lieve entità per le particolari modalità di commissione del fatto (ord. G.I. Grosseto 20 maggio 1981). In questo caso la Corte aveva utilizzato un altro argomento costante funzionale al mantenimento di un sottosistema penale: il far riferimento al massimo della pena edittale, e non alla pena concretamente irrogabile tenendo conto di eventuali attenuanti, discendeva in modo coerente dal presupposto che l'applicazione della misura dipende da una sentenza di proscioglimento e non di condanna e garantiva l'applicazione della misura in tutte le situazioni normativamente descritte con pieno rispetto del principio di uguaglianza. L'assenza di colpevolezza si traduceva quindi, nella maggior parte dei casi presentati, in un aggravamento della misura afflittiva, la mancanza di colpevolezza aumentava in concreto la sanzione.

Dalle ordinanze di rimessione, che pur colpivano quasi esclusivamente le presunzioni di pericolosità dettate dall'art. 222, trapela il desiderio di rimettere in discussione l'intero sistema della misure di sicurezza, i giuristi sentivano come il sistema fosse obsoleto ed essendo mutato il clima culturale e gli orientamenti relativi al rapporto tra violenza e follia credevano di poter trovare una sponda nella Corte Costituzionale, affinché si potesse trovare il modo, attraverso le norme costituzionali, di vincolare a più stringenti garanzie la basi granitiche e rigide di un sistema poi sviluppatosi in modo elastico e sfuggente.

I diversi sentimenti della Corte Costituzionale emergono però con maggior vigore in altre due sentenze depositate nello stesso giorno della 139: il 27 luglio. Due pronunce che mostrano il chiaro intento di fissare in modo preciso i cardini cui il sistema delle misure di sicurezza debbono ispirarsi. Con la necessità di descrivere un sistema.

Nella sentenza 141 la Corte affermava la legittimità costituzionale dell'art 88 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, primo comma e 27, secondo comma, Cost., nella parte in cui disponeva il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario nei casi di sospensione del procedimento penale per infermità psichica sopravvenuta. In quanto l'imputato, anche in stato di libertà, doveva considerarsi pericoloso per se o per altri, non sulla base della fattispecie di pericolosità sociale stabilità dall'art 203, connessa all'art 206 riguardante l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, bensì in quello corrispondente “all'accezione comune del termine adottato dall'abrogata legge sui manicomi e gli alienati”. La legge del 1904. Una legge scomparsa dall'ordinamento da quattro anni ma utilizzata ancora dalla Corte Costituzionale come criterio ermeneutico, perché “accezione comune”; non norma ma massima di comune esperienza; non vincolo giuridico ma principio assiologico con cui piegare e disapplicare la legge 180, il diritto vigente; il senso comune, smentito dalla stessa scienza, trasformato in diritto naturale. La pericolosità dimostrava ancora tutta la sua forza.

Anche la persona sotto processo a piede libero, veniva sottratta dalla disciplina dettata dalla 180 per essere internata all'interno di un Opg a tempo indefinito senza essere stato condannato, né assolto per infermità mentale. Per la Corte ciò era possibile anche perché in questo caso l'internamento non aveva natura sanzionatoria ma “di prevenzione sociale”. La mera sottoposizione al processo penale legittimava questa disparità di trattamento. L'ipotesi prospettata dal giudice a quo di un trattamento farmacologico in stato di libertà era per la Corte inaccettabile. Lo statuto penale e costituzionale della follia è ancora una volta peggiorativo, degradante anche senza il bisogno di arrivare ad una decisione giurisdizionale che stabilisca innocenza o colpevolezza.

Vassalli, seguendo un criterio nominale, concorderà con la Corte nell'affermare che l'internamento ex art 88 c.p.p. non rientrava nel campo delle misure di sicurezza in quanto queste risponderebbero a fini di prevenzione speciale legate alla pericolosità criminale. L'internamento previsto dall'art. 88 c.p.p., invece, mirerebbe a contenere la pericolosità degli infermi di mente, (100) riproponendo una naturale correlazione tra malattia mentale e pericolosità, superata scientificamente e giuridicamente ma evidentemente ancora presente nello statuto teorico penale costruito attorno all'infermo di mente.

Manacorda, invece, censurerà la decisione ricordando che “E' accaduto in più di un'occasione che imputati per reati di varia natura ed entità siano stati ricoverati in Opg per tempi assurdamente lunghi (perfino 50 anni) a procedimento sospeso”, (101) e come l'internamento sia dal punto di vista psichiatrico un potente fattore di regressione “sociale, relazionale, esistenziale e quindi psichica”; (102) che molti casi giunti anche alla cronaca hanno mostrato come proprio gli internati ex art. 88 c.p.p. mostrassero i segni di un vistoso peggioramento della loro salute psichica. (103) Sottolinea come la decisione implichi una scelta regressiva rispetto alla disciplina della 180. L'affermazione della funzione curativa dell'Opg è, per Manacorda, in totale contrasto con le acquisizioni scientifiche in tema di salute mentale. “Non si capisce come la detenzione in Opg (perché di detenzione si tratta) possa per l'imputato rivelarsi più vantaggiosa della detenzione in carcere visto che essa è moto più vessatoria e induttrice di regressione di quella carceraria”. (104) Ma quello che è più contestabile, meno condivisibile, è, per Manacorda, proprio il riferimento alla nozione di pericolosità di una norma abrogata e per giunta nata 78 anni prima della decisione, ormai superata giuridicamente e scientificamente. Proprio la sua obsolescenza avrebbe dovuto far capire alla Corte l'inconsistenza del suo valore. (105)

Con l'ulteriore sentenza 140 del 27 luglio 1982 la Corte dimostrerà di voler comunque mantenere in vita il sistema presuntivo in materia di misure di sicurezza dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 25 comma 3 Cost., dell'art. 102 c.p. che stabiliva la presunzione di pericolosità del delinquente abituale. Affermando che il sistema delle misure di sicurezza era un sistema misto fondato in parte sulla pericolosità concretamente accertata e in parte sulle pericolosità presunta. Mentre l'art. 25, invocato dal giudice a quo, presupponeva esclusivamente che vi fosse una determinazione legale sufficientemente precisa dei presupposti delle misure di sicurezza.

Questa Corte ha più volte, ed anche recentemente (sentenza n. 139/82) riconosciuto la legittimità in via di principio, nel campo delle misure di sicurezza, del ricorso a presunzioni legali di pericolosità, cioè a tecniche normative di tipizzazione di “fattispecie di pericolosità” cui collegare l'applicazione obbligatoria ed automatica di determinate misure, indipendentemente da ogni altra considerazione e da eventuali ulteriori accertamenti. Ha precisato inoltre, che qualora tali presunzioni siano razionalmente fondate su “comuni esperienze” (cioè sull'id quod plerumque accidit), esse, lungi dal contrastare col principio di legalità contenuto nell'art. 25, ultimo comma, Cost., ne costituiscono una diretta e naturale applicazione, essendo insita in tale principio “l'esigenza di una determinazione legale sufficientemente precisa dei presupposti delle misure di sicurezza” (sent. n. 139/82). La riserva di legge sancita nell'art. 25, ultimo comma, Cost., in altri termini, demanda alla competenza esclusiva del legislatore la determinazione degli elementi costitutivi delle fattispecie condizionanti l'applicazione delle misure: sicché rientra nella discrezionalità del legislatore stesso anche lo stabilire se e quali spazi sia opportuno riservare all'accertamento ed alla valutazione discrezionale del giudice in relazione al singolo caso concreto.

Sulla base di tali considerazioni è agevole riconoscere il fondamento razionale della qualificata presunzione di pericolosità criminale che si esprime nell'abitualità nel delitto.

Anche se la decisione toccava soggetti imputabili la dottrina ne traeva conseguenze di natura generale. In particolare riteneva che la scelta della Corte di mantenere la presunzione di pericolosità una scelta di tipo politico, nata per contrastare la tendenza della giurisprudenza di merito a dichiarare sempre più raramente l'abitualità presunta e la professionalità. Se la sentenza avesse dichiarato l'illegittimità della presunzione la figura del delinquente abituale rischiava di essere soppressa dalla giurisprudenza, cosi come era già successo per il delinquente professionale e per il delinquente per tendenza.

La posizione complessiva che possiamo ricavare dalle tre sentenze è quindi quella di una apertura molto cauta a delle esigenze di garanzia che erano improrogabili, sia per i mutamenti impressi dalla L. 180, sia per la situazione specifica della normativa sulle presunzioni di pericolosità, di per se intollerabile. La Corte tuttavia nell'abolire le presunzioni ribadirà la legittimità di tutti gli elementi costitutivi la limitazione della libertà personale attraverso un procedimento di medicalizzazione della pena. E ribadirà la piena condivisione del suo mito fondativo.

La legge n. 663 del 1986 (c.d. Legge Gozzini) taglierà il nodo di Gordio delle presunzioni abrogando l'art. 204 c.p. subordinando l'applicazione di tutte le misure di sicurezza al previo accertamento concreto della esistenza della pericolosità sociale, attribuendo al giudice di sorveglianza la competenza funzionale esclusiva della concreta applicazione delle misure di sicurezza.

6) Un concetto in crisi ed il suo accertamento

Non esistono affatto fenomeni morali, ma soltanto una interpretazione morale dei fenomeni. (Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male)

6.1) La crisi Epistemologica

Con la riforma avviata dalla 139/1982 si ampliavano quindi i poteri della magistratura, in particolare della magistratura di sorveglianza, nella valutazione della pericolosità sociale. la magistratura usò il suo amplissimo potere in senso conforme alle nuove evidenze scientifiche che negavano ogni automatismo tra follia e pericolosità. Uno degli effetti principali della riforma fu infatti quello di una immediata riduzione degli internamenti negli Opg. (106)

Il problema maggiore era, però, dato dal fatto che si chiedeva l'accertamento scientifico di un concetto la cui stessa scientificità era oggetto di aspre discussioni nel mondo psichiatrico forense.

La crisi della pericolosità non riguardava solo la reale esistenza della nozione ma anche la possibilità di una sua verificabilità, una volta che questa fosse accettata come reale, come dato controllabile. La crisi quindi investiva due piani. Un piano ontologico ed un piano metodologico. Il secondo, poi, influiva sullo stesso problema ontologico visto che la struttura scientifica del concetto richiedeva una sua continua conferma sul piano empirico. Era quindi difficile trovare una legge scientifica che confermasse il dato normativo sancito dall'art 203. Una legge che potesse essere considerata vera in quanto in grado di confermare l'ipotesi sull'andamento e l'esistenza di un fenomeno attraverso una sua misurazione quantitativa, sottoponibile a tentativi non solo di verifica empirica ma anche di falsificazione. (107) Anzi proprio il fatto che i più diversi (e talvolta confliggenti) comportamenti umani potessero essere visti dagli psichiatri come verifica, come conferma delle loro teorie, che si dimostravano quindi talmente ampie (o vaghe) da essere omnicomprensive, era la dimostrazione della debolezza epistemologica di tale scienza. (108)

La stesso “principio di falsificazione”, teorizzato da Karl Popper, in sostituzione del principio neopositivista di verificabilità, afferma che una teoria, per poter essere qualificata come scientifica, deve essere astrattamente configurata in modo tale da poter essere suscettibile di essere smentita dall'esperienza ed impone che sia possibile formulare un asserto teorico in contrasto logico con essa (in questo senso ogni teoria deve essere qualificata come congettura o ipotesi). Il principio stabilisce in tal modo un netto criterio di demarcazione tra scienza (confutabile) e pseudoscienza (inconfutabile e suscettibile di essere verificata anche da dati disomogenei e talvolta in aperto conflitto), che se applicato alla pericolosità psichiatrica la smentisce in senso quasi assoluto, riducendola ad un asserto pseudoscientifico e metafisico. (109)

Sarà proprio Popper a stabilire il parallelo tra teorie psichiatriche ed astrologia:

Rendendo le loro interpretazioni e profezie abbastanza vaghe erano in grado di eliminare tutto ciò che avrebbe potuto costituire una confutazione della teoria, se quest'ultima e le profezie fossero state più precise. Per evitare la falsificazione delle loro teorie, essi ne distrussero la controllabilità. E' un tipico trucco degli indovini predire gli eventi in modo così vago che difficilmente le predizioni possono risultare false, ed esse diventano per ciò inconfutabili. (110)

La psichiatria, anche alla luce di questo nuovo paradigma epistemologico difficilmente avrebbe potuto rientrare nella categoria di scienza empirica, configurandosi invece, ancora una volta, come una scienza ermeneutica, e ciò anche per due ulteriori ordini di ragioni: in primo luogo il suo oggetto: “la mente umana malata, non è obiettivamente visibile, così come i vissuti, le emozioni, gli affetti non sono visibili, e la patologia mentale appare solo attraverso forme mediate dalla relazione terapeutica, dalla comunicazione di vissuti o attraverso taluni comportamenti”.

Il secondo ordine di ragioni derivava dall'incertezza dei nessi causali tra mente e malattia:

La psichiatria ignora inoltre le cause di quasi tutte le malattie mentali, si limita a classificarle in base a criteri convenzionali di scarsa attendibilità e validità. Sul versante della scientificità abbiamo insomma un quadro sconfortante, che non impedisce comunque alla psichiatria di funzionare come disciplina valida sul piano clinico, benché non altrettanto soddisfacente sul piano forense. (111)

Anche il metodo verificazionista, strettamente induttivo, proprio dell'approccio epistemologico dell'empirismo logico neopositivista, ritiene idoneo formulare asserzioni generali derivanti dall'osservazione empirica, aventi ad oggetto nessi probabilistici e non strettamente causali, solo sulla base di indici direttamente verificabili, e alla presenza di un numero definito di variabili. La nozione di pericolosità, ormai ambigua e multiforme, non sembra quindi più soddisfare neppure tali criteri. Limitandosi ad una valutazione clinico probabilistica della pericolosità, la stessa regola di Bayes, uno dei parametri fondamentali sia della logica induttiva, sia del metodo clinico, di quella che viene definita EBM (112) (Evidence Based Medicine) che ci consente di stabilire la validità attribuita a priori ad una ipotesi iniziale alla luce di una nuova evidenza (per cui la probabilità effettiva di un evento, ad. es. la malattia o la pericolosità, si ricava dal rapporto tra probabilità a priori di questo e la probabilità a posteriori dettata dall'evidenza. Con la precisazione che i due tipi di probabilità hanno pari peso nella determinazione della probabilità concreta dell'evento) (113) difficilmente potrà trovare una valida applicazione su un elemento multiforme come la pericolosità, e di fatto darà risultati talmente confliggenti da essere giudicati inattendibili logicamente prima che metodologicamente.

Se si vuol quindi inquadrare in una sorta di griglia epistemologica scientifica la nozione di pericolosità lo si potrà fare solo tenendo conto di quanto sostenuto da un oppositore delle teorie popperiane come Feyerabend. Avendo presente quindi che non si possano isolare fatti nudi fuori dal contesto teorico che li seleziona. Poiché è il “quadro mentale” che isola e rende rilevante il fatto ad indurre a scorgere ed a creare gli elementi rilevanti del fatto stesso. In altre parole i fatti che dovrebbero confutare una teoria poggiano a loro volta su altre teorie. In questo senso non è condivisibile per Feyerabend la distinzione neopositivista e popperiana tra termini teorici e termini di osservazione. Quindi nessuna nozione scientifica (e non solo quelle propriamente storico ermeneutiche) potrà mai essere considerata neutrale, universale, oggettiva poiché il significato di una definizione è connessa irrimediabilmente all'orizzonte teorico su cui essa si staglia. (114) “L'origine storica di una cosmologia può anche dipendere da pregiudizi di classe, passioni, idiosincrasie personali e questioni di stile”. (115) Da ciò deducendo la natura ideologica e dogmatica della stessa scienza, che quindi, come tale, deve avere una influenza limitata sullo Stato e sulle tecniche del controllo sociale.

La sovrapposizione tra gli elementi normativi e gli elementi clinico-scientifici che costituiscono il concetto di pericolosità eludono una sintassi ed una grammatica idonea a leggere oggettivamente ogni suo eventuale significante. “Come due nuotatori stremati che l'uno s'aggrappa all'altro e l'arte loro s'affoga”. (116) La giustizia e la psichiatria, in relazione al concetto di pericolosità, lungi dall'avere ciascuno una propria riserva di caccia, (117) come invece dovrebbe richiedere una corretta chiave epistemologica, si trovano necessariamente a coabitare ed ad operare una indebita commistione degli elementi costitutivi dei loro paradigmi epistemologici dal punto di vista fenomenologico, quindi se per effettuare un giudizio di pericolosità si avrà sempre bisogno del clinico, la rilevanza giuridica e la cornice applicativa della nozione sarà sempre dettata da questioni di politica criminale, confondendone sostanza concettuale e proprietà identificative (ammesso che questi due elementi siano logicamente separabili).

La stessa psicanalisi freudiana, nonostante fosse pesantemente criticata da molti giuristi, trovava più o meno surrettiziamente applicazione nei tribunali. Tuttavia essa stessa si metteva in discussione quando doveva essere investita di questioni giuridiche. “Tanto è diversa la logica del diritto da quella della psicologia (accertare-giudicare verso conoscere- accettare) che non è detto che ciò che sia accertato e giudicato sia anche conosciuto dal soggetto e viceversa; in altre parole la capacità giuridica non coincide con la capacità di vivere il proprio inconscio”. (118) In sostanza l'interazione tra sistemi di imputazione e di castigo appaiono cosi radicalmente diversi da risultare agli occhi di molti illegittima. Secondo lo stesso Freud se il complesso di Edipo, con le sue inevitabili distorsioni è universale, se esso appartiene a tutti non potrà in alcun modo fornire la base di una condanna né di una assoluzione giudiziaria.

Per l'epistemologia Freudiana è importante non l'esecuzione del delitto, quanto il suo desiderio, il fatto di accogliere con piacere il crimine indipendentemente dalla sua commissione. Per essa tutti i fratelli Karamazov sono colpevoli. (119) “L'unica relazione possibile tra il sistema imputativo punitivo dell'inconscio e quello del Diritto appartiene al soggetto cittadino come habeas (non si potrebbe parlare di habeas psiche oltreché di habeas corpo?)”. (120) Gli impianti concettuali dei due sistemi assumono un significato solo se rimangono entro i reciproci confini. L'unica forma possibile di unificazione di lessici così diversi potrà avvenire all'interno del soggetto, attraverso alchimie formali e sostanziali uniche e diverse da persona a persona. (121) “Nessuno in nome di un altro possa sommare o sottrarre secondo una ratio volgare ed abusiva: sintomi, diagnosi, anni di carcere, opere di bene, delazioni, pater ave gloria. Questo diritto ad aversi a disposizione (habeas corpus ad subiciendum) è l'habeas psiche”. (122) Così da mantenere intanto il diritto alla cura di ognuno.

Alla psichiatria non deve interessare l'ermeneutica del delitto attraverso il linguaggio psicanalitico, ad essa non è concesso scoprire il colpevole, le devono invece interessare i luoghi della pena, affinché la teoria non nasconda una prassi di violenza morale e materiale totalmente contrastante con le esigenze terapeutiche che le sono proprie.

La Psicoanalisi non ricostruisce una storia bensì la costruisce, la riscrive attraverso le sue peculiari categorie ed alla luce del presente del paziente. E' una memoria concettualizzata, rielaborata e di conseguenza modificata, attualizzata ed esclusivamente immanente al rapporto terapeuta paziente.

6.1.1) Nuove evoluzioni della psichiatria: la rivalutazione della componente biologica e le neuroscienze

Il tentativo più recente di dare una forma epistemica credibile alla nozione di pericolosità si è invece mosso nella direzione di inquadrare i giudizi di pericolosità sociale nella cornice della politica della “riduzione del rischio”. Questa nuova definizione dello statuto della nozione di pericolosità, che evoca la suggestione di una sua oggettiva calcolabilità, in conformità ad una espansione incontrollata della funzione di sicurezza e preventiva del diritto penale con valenze più simboliche che reali, (123) risulta essere ancora una volta insoddisfacente.

A partire dagli anni '80 del novecento infatti sono tornate in auge le teorie che legano a spiegazioni della patologia e della criminalità di natura biologica, la sociobiologia arriva anche ad affermare nuovamente che tutta la vita sociale, comprese le diseguaglianze sono biologicamente determinate. (124)

Le neuroscienze hanno invece proposto un modello che identifica la condotta umana con la funzioni biologico-celebrali, (125) negando il dualismo, in realtà già considerato da molti superato sin da Jaspers, tra mente e cervello, fondendo res cogitans e res extensa, rifiutando (più o meno esplicitamente) la distinzione tra scienze naturali e scienze sociali (in favore delle scienze naturali) e tra fatti e valori (di fatto tentando di incorporare i valori nei fatti), negando come già aveva fatto la Scuola positiva il libero arbitrio, (126) (tuttavia ponendosi con questa asserzione in una posizione di tipo inevitabilmente metafisico). (127)

Le più recenti ricerche neuroscientifiche stabiliscono una correlazione tra disfunzioni del lobo frontale o del lobo temporale del cervello e comportamenti violenti od antisociali. Ad esempio alcuni studi neuroscientifici evidenzierebbero come chi soffra del Disturbo Antisociale di Personalità, un disturbo psicopatologico caratterizzato da un quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri avrebbe una minore quantità di materia grigia e una minore attività autonoma nelle aree prefrontali del cervello (quelle deputate all'ideazione astratta ed alla pianificazione ed al controllo del comportamento ed in grado di filtrare e di ridurre le scariche emotive generate dall'amigdala e dal sistema limbico) o che sussisterebbe una relazione tra comportamento antisociale ed un gene responsabile di un enzima, il Monoamminaossidasi-A (MAO-A) che danneggia la serotonina (un neurotrasmettitore capace di influire sul tono dell'umore e sull'aggressività). (128)

Proprio in virtù di questa specifica “vulnerabilità genetica” individuata a seguito indagini neuroscientifiche, il Tribunale di Trieste, il 18 settembre 2009 ha assolto per infermità mentale e poi giudicato socialmente pericoloso un imputato che aveva inferto ripetutamente ferite ad un uomo con un coltello causandone la morte. (129)

Il Tribunale di Como nel 2011 ha concesso la semi infermità mentale ad una donna che aveva ucciso la sorella e tentato di uccidere i genitori poiché i periti hanno riscontrato, con le tecniche di neuroimaging, una riduzione del cingolo anteriore del cervello ed è risultata portatrice di una variante di tre geni relativi alla serotonina, alla Monoamminaossidasi e al metabolismo delle catecolamine, tutti connessi ad un aumento del comportamento violento, è da rilevare che la perizia non ha cercato di individuare la presenza di fattori ambientali che in correlazione ai dati genetici fossero in grado di giustificare e corroborare la malattia affermata. (130)

Anche in questa cornice epistemologica, fermi restando i limiti intrinseci di ogni chiave epistemologica riduzionista e tendenzialmente monistica (131) che si manifesta quantomeno nella “traduzione” del linguaggio neuroscientifico fatta a volte dai giuristi, la pericolosità sociale viene però vissuta da alcuni in modo problematico. L'idea che una lesione del lobo prefrontale o una alterazione dell'amigdala o altre lesioni di aree del cervello, accertate attraverso tecniche di neuroimaging (132), possano essere inequivocabilmente individuati come specifici fattori di predisposizione al comportamento antisociale si è formata in un contesto che si muove ancora in un campo pionieristico e speculativo.

Nessuna evidenza è in grado poi di dirci quale sia lo specifico fattore di incidenza di queste lesioni, salva l'ipotesi di lesioni estesissime, vista anche la mancanza di gruppi di controllo e l'impossibilità di quantificare la percentuale di individui che potrebbero avere queste disfunzioni pur senza manifestare comportamenti violenti. (133) Manca in altre parole la precisa indicazione di quelle che dovrebbero essere le misure anatomiche celebrali che dovrebbero considerarsi normali valutate sulla base di un ampio campione di individui magari differenziato per caratteristiche individuali (ma anche in questo caso i meccanismi di selezione non potrebbero che risultare soggettivi).

Basandosi su un paradigma epistemologico interamente naturalistico, identificando in alcuni casi la psicologia con la causalità fisica, le neuroscienze si espongono alla contestazione di rifiuto della complessità del suo oggetto di studio, per cui una struttura complessa come la mente difficilmente potrà trovare una spiegazione oggettivamente esaustiva appigliandosi esclusivamente ad un modello computazionale. (134)

Le neuroscienze in quanto espressione delle cosiddette “Hard Sciences” - cioè di una forma di conoscenza di un sistema fisicamente osservabile e descrivibile qual è il cervello umano - necessitano di un supplemento epistemologico che ne assicuri l'utilizzabilità come strumento per la comprensione dei processi mentali. (135)

Uno studio che si focalizzi esclusivamente sugli scambi neuronali tra le diverse aree celebrali non può in assenza di congetture inevitabilmente dotate di un ampio margine di soggettività fornire alcuna conclusione in ordine ai comportamenti ed alle dinamiche mentali ad esse collegate, ed è per questo che ancora il dibattito più serio e più complesso delle neuroscienze si muove su temi quasi metafisici, quali il libero arbitrio, le sede biologica del Se, le interrelazioni tra aree cognitive ed aree emotive del cervello nella formazione della coscienza e dell'esperienza del mondo o la possibilità della concreta esistenza del subconscio sfuggendo, nella maggior parte dei casi, ad ogni seduzione di immediata concretizzazione o volgarizzazione delle sue conclusioni. Consapevole delle diversità di metodo e di discorso tra scienza e diritto, e dei rischi di fraintendimento in ordine alle questioni fondamentali. (136)

Con particolare riferimento al nostro ordinamento penale quando si parla di previsioni di pericolosità sociale di determinati soggetti[...] le problematiche (delle neuroscienze) sono senz'altro simili a quelle di prevedere futuri comportamenti criminosi sulla base del patrimonio genetico di una persona. Ma proprio la possibilità di ricorrere all'indagine genetica al fine di prevedere determinati comportamenti ci insegna che:

  1. in primo luogo è la stessa possibilità di prevedere comportamenti su base genetica ad essere messa in discussione. Molte associazioni fatte in passato tra le variazioni genetiche e le malattie sono poi miseramente fallite e, non a caso, due di tali clamorosi fallimenti hanno riguardato malattie mentali come la schizofrenia e il disordine bipolare;
  2. in secondo luogo, la forza della previsione può variare enormemente da caso a caso;
  3. infine, l'utilizzo di previsioni basate sulla genetica ha dato luogo a pratiche controverse.

[...] Riflettere sul rapporto tra neuroscienze e diritto penale è allora riflettere sui limiti del diritto (libero arbitrio) e sul presupposto della punibilità. (137)

Sul suo essere e non sulla sua funzione. L'idea che si possano individuare dei “geni cattivi” o di una specifica neurochimica dell'aggressività viene considerata da Balaban una illazione illogica. Ma anche gli scienziati che ritengono invece scientificamente attendibile un legame tra genetica, neurochimica e comportamento antisociale affermano che tali conclusioni non dovrebbero incidere sulla giustizia penale. (138) Michael Gazzaniga afferma che le Neuroscienze non saranno mai in grado di trovare una correlazione tra il cervello e la responsabilità penale in quanto il problema della responsabilità è connesso ad una scelta sociale che non esiste nelle strutture neuronali del cervello, (139) senza in alcun modo pretendere un adeguamento dei principi normativi alle scoperte neuroscientifiche, proposte invece da qualche giurista. Anche Stephen Morse ha evidenziato come le categorie scientifiche sviluppate dalle neuroscienze sono e debbano rimanere distinte da quelle del diritto penale. Poiché esse non potranno mai dire chi debba essere considerato responsabile e chi no, così come il diritto non sarà mai in grado di rispondere agli interrogativi scientifici. Morse afferma ironicamente che chi tende a sopravvalutare l'influenza biologica del cervello sul comportamento antisociale e sul crimine è affetto da BOS, Brain overclaim Syndrome. (140) Tuttavia è innegabile che le neuroscienze, ponendosi come specifico obiettivo la possibilità di individuare ed anche prevedere i processi mentali attraverso lo studio dei correlati biologici celebrali non possono che assumere rilevanza nel diritto penale, dove infatti viene alla ribalta la nuova branca disciplinare denominata “Neuroscienze Forensi”. (141)

Il problema fondamentale legato al rapporto di necessità tra fisiologia e comportamento deviante rimane comunque connesso ai riflessi che le eventuali semplificazioni di queste teorie potrebbero avere sul principio rieducativo o naturalmente sulla impossibilità di una cura effettiva della malattia mentale. Se attraverso una semplificazione delle ricerche neuroscientifiche venisse riproposta la retorica secondo la quale è lo stesso patrimonio genetico a rendere inevitabilmente deviante o malato, la politica di gestione del rischio non potrebbe che sfociare nella neutralizzazione e nel diritto penale d'autore. Poiché come sostiene Nikolas Rose, analizzando il progressivo spostamento della politica criminale statunitense verso la difesa sociale a scapito di una attenuazione della responsabilità del malato mentale,

“in questo contesto è probabile che gli argomenti della biologia siano destinati ad aver il maggior impatto non attraverso la mano degli avvocati difensori ma attraverso la definizione della sentenza. Se infatti la condotta antisociale è indelebilmente iscritta nel corpo del delinquente, ciò che si richiede non è mitigare la pena, bensì mettere l'individuo irredimibile in condizione di non nuocere per lungo tempo, in nome della sicurezza pubblica, anche se ciò significa rinunciare a molti principi informatori della riflessione giuridica, come quelli relativi alla proporzionalità tra crimine e punizione [...] attenuanti come la predisposizione genetica sono quindi armi a doppio taglio, che se possono rendere il crimine meno riprovevole segnalano nello stesso tempo la probabilità che il criminale possa essere pericoloso in futuro [...] A ciò si può aggiungere l'aumento delle richieste di carcerazione preventiva per ‘psicopatici’, ‘pedofili’ e altri individui mostruosi che si ritiene siano costitutivamente incorreggibili e rappresentino una minaccia permanente per il pubblico”. (142)

A questo punto il dubbio che pone l'asserzione della certa connessione causale tra alterazioni genetiche o lesioni celebrali e comportamento violento è “se siamo in grado di tollerare l'ipotesi che ciascun essere umano, nessuno escluso, possa deliberatamente compiere atti malvagi”, se siamo in grado di sostenerne la responsabilità collettiva che questo comporta. (143) Come già sostenuto la psichiatria forense, in realtà, non ha ad oggetto situazioni e fenomeni in condizioni di rischio. Condizioni in cui le variabili incidenti sul fenomeno da valutare siano note, e in cui la probabilità degli esiti legati alle variabili siano quantificabili attraverso un calcolo ex ante. La psichiatria forense agisce nell'incertezza, ed ignorando l'intensità delle incidenza delle variabili sui fenomeni ignora la probabilità di un evento. (144)

Partendo da queste premesse appare del tutto naturale la presenza di modelli differenti di sapere psichiatrico coesistenti in uno stesso momento storico, senza che nessuno di questi sia in grado realmente di dare conto della natura della malattia mentale e che possono, in quanto saperi non compiutamente verificabili o, viceversa, tutti dotati di una intrinseca validità, potersi integrare in un modello composito quale quello bio-psico-sociale. (145)

Da questa multiformità epistemologica alcuni hanno dedotto che non si potrebbe in alcun modo ritenere giuridicamente ammissibile una perizia che segua un unico paradigma scientifico, poiché deciderebbe a priori quali dati raccogliere trascurandone altri che invece potrebbero rivelarsi decisivi alla luce di un'altro paradigma. I comportamenti psicopatologici (o sarebbe meglio dire gli statuti che li codificano ed in parte li costituiscono?) sono troppo variegati per essere decodificati, diagnosticati e trattati sulla base di un unico modello interpretativo. (146)

6.1.2) Il Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali: un approccio eziologicamente ateoretico, il tentativo di eliminare la soggettività della diagnosi

Da questa profonda crisi epistemologica, non solo della categoria della pericolosità ma dell'intero sapere psichiatrico, consegue il superamento della vecchia nosografia psichiatrica con la nascita del DSM, (147) un nuovo apparato diagnostico, induttivo per eccellenza, che per Canepa, “nasce dall'esperienza descrittiva del quotidiano operare”, (148) che costituisce il nuovo modello linguistico-decodificatorio comune in cui la causa della malattia psichica viene ridotta a “rumore di fondo”. Anche la giurisprudenza, attribuisce (riconosce) ampio credito al sistema di classificazione categoriale del manuale diagnostico statistico.

Le Sezioni Unite della Cassazione nella decisiva sentenza “Raso” (8.3.2005 n.9163) sanciscono definitivamente che i disturbi della personalità sono cause idonee ad escludere o limitare l'imputabilità. In tale sentenza si afferma che il DSM rappresenta “una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione”. In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM - IV, o l'ICPC o l'ICD - 10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici.

Pur ricordando come il DSM sia stato sottoposto a numerose critiche da parte della comunità scientifica conclude:

però, anche la dottrina psichiatrico-forense appare concordare, ormai, sulla circostanza, che, essendo questo il sistema diagnostico più diffuso, ad esso occorra fare riferimento per la riconducibilità classificatoria del disturbo; (149) e, per altro verso, nessun dubbio - come pure si riconosce in dottrina - dovrebbe oggi permanere sulla circostanza che anche ai disturbi della personalità possa essere riconosciuta la natura di “infermità”, e quindi una loro potenziale attitudine ad incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente, alla stregua delle ultime e generalmente condivise acquisizioni del sapere psichiatrico, anche sussunte nella ricognizione nosografica contenuta nel citato DSM. Vero è, poi, che tale catalogazione si fonda su basi sindromiche e non eziologiche, ma (così proponendosi un modello classificatorio di natura sostanzialmente pragmatica, verso il quale, per vero, appare condivisibilmente orientata la attuale scienza psichiatrica), per un verso (come ancora si annota in dottrina), è presente nella psichiatria forense “un consenso quasi unanime circa la improponibilità oggi di una spiegazione monoeziologica della malattia mentale” o, per altro verso, è ricorrente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, come si è visto, l'affermazione che rilevino al riguardo anche “disturbi clinicamente non definibili che tuttavia abbiano inciso significativamente sul funzionamento dei meccanismi intellettivi o volitivi del soggetto”. La non definibilità clinica del disturbo può anche derivare dalla (o comportare la) non accertabilità eziologica dello stesso, in un campo poi, quello della mente umana, ancora avvolto da cospicue connotazioni di “dubbio e mistero” e da incoglibile esoterismo patogenetico. E nel campo medico pure si parla di “malattie funzionali”: termine usato per indicare le malattie in cui non vi sono segni dimostrabili di alterazioni di organi particolari, sebbene le prestazioni di essi siano ridotte.

Anche il DSM, dunque, così privo di “esoterismo”, indifferente alle eziologie, chiaro, lineare, si presta al fine di allargare lo spettro delle categorie giuridiche del difetto di imputabilità, e risulta tanto più utile in quanto presenta anche una sindrome cha ha una natura residuale, che raggruppa i sintomi non riconducibili a quelle note, come il “disturbo di personalità non altrimenti specificato”. (150)

Affinché le diverse scuole psichiatriche arrivino a ritrovare una linea comune si depura la classificazione delle malattie da teorie ed eziologie. Il DSM si presenta esplicitamente come “ateoretico”, la sua presunta ateoreticità viene raggiunta attraverso una impostazione meramente operazionista (151) secondo la quale il fatto che più clinici possano trovarsi d'accordo in ordine ad una certa diagnosi, derivante dalla natura meramente descrittiva e statistica delle categorie psicopatologiche enucleate nel manuale, aumenterebbe l'attendibilità e quindi la validità scientifica della diagnosi stessa, riducendo la realtà all'esperienza immediata (concettualizzazione su base statistica). (152)

Il DSM quindi si adagerebbe sulla impostazione epistemica del “funzionalismo operazionistico radicale”, corrispondente al “riduzionismo più estremo”, (153) secondo il quale “il significato di un concetto scientifico consiste unicamente in un determinato insieme di operazioni”. Il concetto non è altro che il sinonimo delle operazioni che lo individuano. (154)

L'unico modello di conoscenza riconosciuto come oggettivo e scientifico viene quindi identificato con le tecniche psicometriche e con il metodo statistico. In altre parole, nonostante si affermi la struttura “convenzionale” (155) del manuale, esso aderisce in parte all'impostazione epistemologica del Positivismo logico, del realismo estremo, una impostazione che ammette solo concetti empirici, rilevabili attraverso l'osservazione, l'operazionismo si differenzia tuttavia dal positivismo logico in quanto questo da alle definizioni analitiche ed alla configurazione dei concetti un peso ed un ruolo di pari importanza rispetto alle proposizioni empiriche, conoscitive (156) mentre l'operazionismo declina ogni proposizione teorica ai minimi termini, intendendo per concetto solo ed esclusivamente un determinato gruppo di operazioni.

Nel campo scientifico questa impostazione teorica si conforma a quelle che seguono il criterio empirico di “significanza” secondo il quale una proposizione potrà avere un significato solo se sia verificabile empiricamente. (157) Riconducendo quindi il Manuale ad una gnoseologia puramente fenomenica ed induttiva, nella convinzione di poter di sfuggire alla “metafisica”, all'“esoterismo” della deduzione. (158)

La conoscenza sarà quindi vera se ed in quanto aderente alla realtà e la natura della realtà sarà perfettamente intellegibile attraverso le strutture della conoscenza. Questo tipo di rapporto consentirebbe quindi di rivendicare nuovamente l'oggettività e la neutralità non solo della conoscenza ma anche dei metodi per raggiungerla. (159)

L'empirismo realista proprio dell'operazionismo, tuttavia, postula solo descrizioni e predizioni. Le predizioni, consentono di comprendere i fenomeni entro leggi generali (benché non universali) ed esauriscono ogni possibile spiegazione del settore di mondo oggetto delle operazioni.

Alla luce di queste premesse l'ateoreticità può in casi estremi escludere qualsiasi spiegazione od interpretazione, qualsiasi ermeneutica dei fenomeni: in questo senso si esclude l'episteme della teoria; ma il risultato viene raggiunto eliminando il “soggetto interiore” che costituisce la base della conoscenza psicologica e che non è definibile attraverso segni o sintomi, ne spiegabile attraverso quadri analitici da entomologi, obiettivi, neutrali, asettici. (160)

Si inseguono o si presuppongono dei metacriteri idonei a sindacare i criteri di verità della psichiatria o delle scienze umane, non riconoscendo che la psichiatria stessa ha in se non solo componenti descrittive ma anche componenti prescrittive idonee a plasmare e ad etichettare i fenomeni che ne costituiscono l'oggetto, (161) come invece sostiene l'episteme ermeneutica.

L'ateoreticità dunque mira a raggiungere quello che non le è dato raggiungere: l'oggettività (sotto le spoglie della probabilità o del calcolo del rischio), o quantomeno una solida strutturazione dei processi mentali che è invece propria da sempre dell'attività teoretica e deduttiva, per la quale partendo da determinate premesse si arriverà necessariamente a determinate conclusioni perché esse sono in qualche misura implicite nelle stesse premesse.

Nel DSM la nozione di Disturbo sostituisce ogni vecchia classificazione nosografica. Esso viene definito come l'alterazione dell'adattamento dell'organismo e/o delle sensazioni di benessere.

Nella psicopatologia classica il disturbo, così definito, era privo di una autonoma rilevanza clinica, esso assumeva il valore di sintomo indicatore di una malattia che doveva essere diagnosticata.

(Ad es. era impossibile configurare una malattia come il disturbo da deficit da attenzione in cui la patologia consiste sic et simpliciter in un eccesso di motilità, iperattività, impulsività o disattenzione che può concretizzarsi in errori di distrazione a scuola o sul lavoro). (162) Declinato nel contesto del manuale diagnostico statistico, invece, “la nozione di Disturbo rischia per di essere fuorviante perché induce a stabilire, addirittura una relazione di causa e di effetto tra l'attacco di panico ed il disturbo quasi questo fosse causato da quello, che, invece ne è la specificazione sul piano puramente descrittivo”. (163) Il DSM opera una commistione, quasi una operazione di identificazione tra segni e malattia, non permessa in alcun altro campo della medicina:

A nessun clinico di medicina generale viene concesso di definire una febbre, una dispnea o una paraparesi come una malattia: si tratta in realtà, di disfunzioni che possono valere come sintomi su cui si dovrà indagare per diagnosticare la causa patogena e l'alterazione strutturale dell'organismo cioè la reale malattia. (164)

Con il DSM il problema è ormai superato. il manuale, infatti, astrae dal contesto psicopatologico che da origine a dei sintomi, erigendo i sintomi stessi a categorie che alcuni ritengono “pseudonosografiche”, diagnosi cliniche artificiali. (165) E' proprio questo uso distorto ad essere l'indicatore di una precisa scelta teorico-epistemologica, una scelta che coerentemente all'impostazione dell'operazionismo, identifica alterazione funzionale con l'essenza della malattia e di conseguenza con la diagnosi. (166)

Inoltre, visto che le categorie diagnostiche sono poste dal DSM sullo stesso piano diventa possibile che si possano trovare più malattie in uno stesso soggetto (c.d. Comorbilità) (167) D'altra parte è lo stesso manuale a mettere in guardia da un suo utilizzo troppo disinvolto nelle aule di giustizia. (168)

Quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM IV vengono utilizzate a fini forensi, sono molti i rischi che le informazioni diagnostiche vengano utilizzate o interpretate in modo scorretto. Questo a causa dell'imperfetto accordo tra le questioni di interesse fondamentale della legge e le informazioni contenute in una diagnosi clinica. (169)

Ciò non toglie che da più parti si lamenti un meccanico utilizzo di uno strumento che rischia di minare ancora di più la credibilità delle perizie psichiatriche, e dei periti che nel loro voler spiegare qualsiasi comportamento in termini psichiatrici al di fuori di vere malattie o patologizzando ogni comportamento deviante li trasformi in “una sorta di oracoli di serie B”. (170) In ambito forense, l'utilizzo sempre più massiccio del DSM sia in ambito peritale, sia in ambito penitenziario, ha ridotto l'autore di reato a “un mero oggetto di ricerca di sintomi”. Perdendo la dimensione ermeneuticamente complessa, ricca ma anche consapevole da parte dello psichiatra di pregiudizi e di precomprensioni. (171)

Anche a livello internazionale alcuni autori sottolineano come lo stesso DSM rifletta nelle sue categorie nosografiche il ritorno ad una commistione tra malattia mentale e violenza, tra patologia e pericolosità che deriva però non da connessioni causali (probabilistiche o meno) ma da semplici correlazioni statistiche, che viene ricostruita tuttavia su un modello di fatto causale che pone come cause la malattia mentale e come effetto la violenza e la pericolosità, come nella categoria nosografica del Disturbo antisociale della personalità. (172)

Un Disturbo che per Fornari rappresenta un tentativo da parte della psichiatria di riappropriarsi di materie sottratte al suo tradizionale controllo, perché la diagnosi di un tale disturbo si riduce alla registrazione di un comportamento deviante ed è quindi priva di significato clinico. Un disturbo di tal genere non farebbe altro che riproporre sotto mentite spoglie le vecchie monomanie, la follia morale. In altri termini non è possibile affermare che mentire, rubare, non andare a scuola, ubriacarsi ripetutamente, abusare di sostanze stupefacenti, avere spesso rapporti sessuali occasionali siano sintomi inequivocabili di patologie psichiatriche. (173) Seguendo una simile impostazione la maggior parte dei delinquenti non potrebbe che essere affetta da un disturbo mentale.

Anche in questo caso proprio l'impostazione ateoretica del DSM riduce ad un rapporto di circolarità il nesso tra violenza e malattia: se si hanno certi comportamenti si è malati e si è malati se si hanno certi comportamenti.

Il DSM non è riuscito poi a raggiungere il suo obiettivo: raggiungere l'affidabilità, eliminare il problema del contrasto delle diagnosi su uno stesso soggetto in tempi diversi.

La classificazione contenuta nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che fin dal suo esordio tutto cataloga riducendo ogni manifestazione della libertà umana a codici e numeri, anche ciò che non si può altrimenti classificare e specificare (Disturbo mentale non altrimenti specificato o Disturbo N.A.S.) tende ad ingabbiare e soffocare in una qualche formula diagnostica emozioni azioni atti involontari e impulsi. Sotto altre dizioni ricompaiono anche le malattie della volontà (Disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove a conferma che nozioni e concetti che ritenevamo desueti sono tutt'altro che morti. (174)

“Giustificata appare allora l'affermazione che i modelli diagnostici attuali manifestano” - invece che ricomporre - “la crisi dell'attendibilità della nosografia, che tende a rivelarsi sempre più come dimensione ‘economica’ piuttosto che scientifica” (175) per la sua debolezza sul piano clinico interpretativo. Il DSM non sarebbe altro che un “modello puramente operativo privo di radici epistemologiche, la cui trasposizione pura e semplice nel mondo del diritto rende problematica la collaborazione fra scienze giuridiche e scienze empirico-sociali”. (176) Per questo il DSM (o l'ICD) non potrebbero porsi come chiave interpretativa delle categorie penali legate o conseguenti all'infermità, (177) sebbene la prassi indichi il contrario.

6.2) La crisi ontologica

I problemi si presentano anche sul piano pratico, sul piano processuale, visto che le discussioni sulla pericolosità, spesso portano gli stessi psichiatri a rifiutare il loro ruolo di giudice suppletivo. (178) Inoltre la prova della pericolosità, della probabilità della futura recidiva difficilmente potrebbe essere correttamente accertata con il metodo scientifico poiché non solo è stato irrimediabilmente negato qualsiasi nesso causale tra follia e pericolosità ma è anche stata messa in discussione la sua stessa probabilità statistica. Diventa così controverso applicare al campo della pericolosità anche il principio processuale per cui si ammette che nella prova scientifica spetti al perito il valutare la pericolosità statistica ma poi spetti di fatto al giudice stabilire la probabilità logica del singolo accadimento al fine di determinare la sussistenza non solo della causalità generale (probabilistica) ma anche della causalità individuale, spettando in via esclusiva al giudice l'accertamento penale. (179) Proprio perché la pericolosità ormai si presenta come un processo di negoziazione i cui elementi caratteristici sfociano in una sistematica tendenza alla sopravvalutazione della recidiva ed alla “costruzione di una ipotesi clinico-giuridica ben lontana sia dai valori di rigore scientifico e di tutela dei diritti del periziando, propri della medicina legale, sia dalle stesse attese di certezza scientifica che il diritto si ripropone dal parere peritale” (180) Un ruolo ampliato dal fatto che la legge che porta a sancire la pericolosità non riesce più a configurare se stessa come una legge di natura che governa il mondo dell'essere ma appartiene solo ad un dover essere giuridico come testimonia il fatto di poter essere definita compiutamente esclusivamente all'interno dello spazio normativo dell'art. 203 del codice penale. (181)

La variabilità della sostanza concettuale della pericolosità in relazione alle diverse tendenze psichiatrico scientifiche indica per molti psichiatri la sua inconsistenza, sfugge continuamente alla sua verifica scientifica grazie ancora alla sua incertezza semantica. Le sue accezioni contrastanti le consentono di assumere qualsiasi contenuto, la sua ibridazione scientifica-normativa le consente di assumere significati originali e diversi a seconda delle esigenze contingenti. Questa sua variabilità è la diretta conseguenza del fatto che la pericolosità sociale psichiatrica è del tutto priva di contenuto scientifico, se intesa nel sua accezione fondamentale di prognosi clinica. (182) Proprio per questo anche in Italia come in tutto l'occidente c'è comunque un utilizzo massiccio della pericolosità, come dimostrano i numeri pressoché costanti degli internamenti in Opg, tuttavia non vi sarà una teorizzazione alternativa. “Anche gli psichiatri che affermano le possibilità di procedere a valutazioni valide ed affidabili di pericolosità sono incapaci di definire con precisione i criteri che utilizzano (...) I periti spesso utilizzano criteri predittivi che, con eguale probabilità di successo, potrebbero essere utilizzati dal magistrato. Con il che l'accertamento tecnico non avrebbe più senso”. (183)

Per Manacorda vi sono due precisi elementi che impediscono all'accertamento della pericolosità di poter essere considerato atto medico il primo è dato dal fatto che il passaggio dalla diagnosi alla prognosi, perché possa essere considerato corretto, dovrebbe permettere al perito di poter predisporre un programma di trattamento mentre gli viene espressamente precluso, impedendogli quindi un atto curativo ed imponendogli un mandato di custodia che non dovrebbe appartenergli, non solo sul piano deontologico professionale ma anche sul piano giuridico alla luce della riforma dell'ordinamento a seguito della legge 180/1978. Sotto altro aspetto perché è strutturalmente impossibile al metodo clinico lo stabilire la futura recidiva del reo malato di mente (184)

Fornari invece evidenzia la natura rigida e statica della nozione, una rigidità che sarebbe essa stessa fattore di ostacolo a qualsiasi prospettiva di recupero del malato stesso, una nozione priva di significato clinico, densa di elementi quali i precedenti penali o giudiziari. (185) Questo per Bertolino comporta che si venga a contrabbandare come una risposta fondata su conoscenze tecniche extragiuridiche “una risposta che di extragiuriudico ha ben poco e proveniente per di più da un tecnico”. (186)

Bandini arriverà a definire l'attività clinica volta a dare la prognosi di pericolosità una pratica “eticamente discutibile e del tutto priva di validità scientifica” (187) visto che “tutte le ricerche sistematiche condotte con metodi statistici adeguati concordano nel rilevare che la delinquenza dei malati di mente (...) non è superiore in termini percentuali, a quella del resto della popolazione”. (188)

Le ricerche sul recidivismo criminale dei delinquenti mentalmente disturbati svolte negli Opg italiani sembrano confermare i risultati degli studi statistici internazionali: avendo allargato il campo della loro indagine ai fattori psicosociali e familiari, oltre che a quelli nosografici e biologici, mettono in luce come la recidiva criminale venga ad essere correlata alla bassa qualificazione professionale, alla disoccupazione, all'assenza di legami coniugali e soprattutto sono strettamente correlate all'istituzionalizzazione precoce, che si rivelava essere uno dei principali fattori criminogeni, rafforzando il sentimento di identità negativa e facilitando il “passaggio da forme di devianza occasionale a forme più marcate di recidivismo”. (189)

Insieme all'istituzionalizzazione precoce anche l'abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti risulta essere un potente fattore di recidiva criminale. Al contrario l'incidenza di malattie mentali nelle famiglie dei recidivi risulta essere nettamente inferiore rispetto a quelle riscontrate negli ascendenti dei delinquenti primari, le psicosi endogene a genesi ereditaria quindi non sembrano essere correlabili ad un aumento della probabilità di future recidive. (190)

L'attendibilità delle prognosi giudiziarie costituiscono in qualche misura il parametro su cui misurare la legittimità della risposta penale, del suo complesso di effetti concreti e reali, e quindi la legittimità e l'efficacia della prassi, in particolar modo a partire dal momento in cui la dimensione preventiva della reazione penale non riguarda solo il trattamento dei non imputabili pericolosi ma si estende a tutti i rei, attraverso l'osservazione scientifica della personalità nella fase di esecuzione della pena, e quindi quando viene configurata come una risposta istituzionale alla devianza nel suo complesso, risposta che, abbandonando la dimensione strettamente giuridico-retributiva della sanzione penale, si sposta verso forme di diritto penale sempre più orientate all'autore. (191)

Anche per questo la crisi epistemologica ed ontologica del concetto di pericolosità avrà come conseguenza non tanto una sua riduzione, una restrizione, quanto una sua frantumazione ed al contempo una moltiplicazione di significati ed anche dei metodi usati per accertarla.

6.2.1) Pericolosità sociale: la molteplicità di un concetto

Dalla crisi della pericolosità sociale deriverà una separazione tendenzialmente dicotomica nel campo della psichiatria forense. Da un lato troviamo psichiatri, come Canepa, che ancorandosi ad un concetto propriamente normativo criminologico di pericolosità diffuso in campo internazionale, e inteso come concetto universale, riscontrabile in ogni ordinamento, ma relativo e variabile nei suoi contenuti in relazione al contesto storico, (192) da una parte ne auspicano il superamento formale, ma al contempo ne sostengono la sostanziale utilità criminologica, ne affermano la piena legittimità scientifica nel caso in cui la nozione di pericolosità venga declinata nella formula della “prognosi criminologica” finalizzata alla programmazione del trattamento, ed auspicano l'adozione e l'utilizzo della perizia criminologica in funzione di un più ampio trattamento della devianza. (193)

Per questo filone la crisi del rapporto follia-pericolosità, comporta non una riduzione del campo applicativo della pericolosità bensì una sua estensione illimitata, comporta il costante intervento del terapeuta nel processo penale. Gatti sostiene, paradossalmente, che limitare l'accertamento della pericolosità sociale al non imputabile sarebbe un retaggio delle influenze delle obsolete teorie ottocentesche. “Pertanto riteniamo che il giudice abbia ragione di domandare nella formulazione del quesito che si valuti la pericolosità sociale del soggetto, ma non ci sono motivi per cui la ricerchi nel solo caso di malattia di mente”. (194)

L'accertamento clinico diventa quindi pervasivo ed inoltre si ritengono pienamente utilizzabili i metodi della psicanalisi, della psicologia del profondo. Si vuole che il “peso dell'inconscio” faccia il suo definitivo ingresso nel processo penale attraverso la perizia criminologica. (195) Si vuole che Edipo venga giudicato. Ed i giuristi si prestano ad un tale giudizio; così la Cassazione: “E' possibile ravvisare nel delitto commesso da uno psicopatico la risoluzione di un conflitto edipico non superato, e in tale ragione occulta individuare il vero movente dell'azione criminosa con cui il reo mira a placare il profondo senso di colpa da cui si sente afflitto”. (196)

Secondo questa tesi la perizia dovrebbe prevedere che “vengano analizzate tutte le componenti che hanno agito sulla personalità del soggetto, influenzandone il comportamento per cui si procede e chiedere sulla attuale pericolosità del soggetto” in ogni caso. “In questo modo possiamo giungere al concetto ed alla formazione di un giudizio di pericolosità sociale non del malato di mente, bensì come la cronaca prepotentemente evidenzia, del soggetto cosiddetto normale”. (197)

In conformità a questa linea teorica si rinvengono nella prassi peritale non solo concetti appartenenti alla psicanalisi ma anche concetti considerati desueti quali: tratti costituzionali, disposizioni degenerative, tare ereditarie psicopatologiche, delinquenza tra gli ascendenti che contengono in loro il presupposto della incurabilità e dello stigma che lega criminalità e patologia mentale. Questo filone è implicitamente fautore di una commistione tra psichiatria e criminologia che consenta l'attribuzione del fatto reato in relazione allo studio della psicopatologia o della tipologia caratteriale del soggetto studiato, consentendo in sostanza che il perito assuma un ruolo primario nella decisione giudiziale, tendenza che risulta essere aumentata dall'utilizzo del DSM come manuale clinico e non invece come manuale statistico. (198) Manuale ritenuto dallo stesso Canepa pienamente utilizzabile anche la dove le valutazioni implichino concetti normativi, purché tali elementi non vengano eliminati ma abbiano “l'espressa finalità di una approfondita comprensione della dinamica dell'atto criminale e della elaborazione di concreti programmi di trattamento”. (199)

Psichiatria e giustizia, quindi, devono stringere una nuova alleanza, in cui ancora una volta si implichi la scienza come matrice istituzionale della politica criminale, in cui ancora una volta i rapporti tra argomenti morali ed evidenze scientifiche, tra cognitivo e normativo, tra vero, bene e natura, tornino irrimediabilmente ad unirsi in una ambigua vicinanza. Ancora una volta le evidenze scientifiche poste a base delle scelte politiche affievoliscono la dimensione propriamente ideologica di queste e estendono il raggio del controllo sociale di tipo preventivo o incentrato sullo status soggettivo. (200)

Questo filone è quello che meglio si sposa con quella che a livello internazionale viene definita la “seconda generazione” di ricerche sulla predizione del comportamento violento che si basa su una ricerca di tipo attuariale o strutturata, attraverso strumenti che combinano indicatori di tipo statistico ed indicatori di tipo clinico come l'HCR 20, The Historical Clinical Risk Management, e che cerca di individuare la correlazione tra fattori demografici, statici e storici ed il futuro comportamento violento. In mancanza di una nuova concettualizzazione della pericolosità la ricerca si è spostata su un piano strettamente empirico, e la più importante forma di concettualizzazione operativa è emersa con forza a partire dagli anni '90 del '900 con studi epidemiologici su larga scala, gli approfondimenti dello studio sulla personalità psicopatica condotta soprattutto da Robert Hare. (201) e sul disturbo antisociale della personalità. L'enfatizzazione dei metodi statistici ha consentito poi di affermare la maggiore oggettività, di poter sfuggire al soggettivismo del giudizio esclusivamente clinico, e quindi di rivendicare una maggiore affidabilità predittiva. Pur muovendosi ancora in un ambito formale di tipo clinico.

Nonostante questa nuova pretesa di oggettività molti sottolineano la difficoltà di adattare grandezze aggregate di tipo statistico a giudizi individuali. Smuzker ha dimostrato attraverso un modello di tipo matematico come il basso tasso di un fenomeno riduca l'utilità concreta di strumenti attuariali che si siano dimostrati tecnicamente affidabili. Dimostrando che anche se il tasso di affidabilità tecnica di uno strumento fosse del 76% (0.76AUC) qualora venisse chiamato a valutare un fenomeno con un ipotetico tasso di incidenza del 20%, si avrebbe un calo del potere predittivo dello strumento in questione allo 0.37, pertanto arriverebbe a sbagliare in 6 casi su 10. Quindi se la base percentuale di violenza connessa alla malattia mentale si aggira intorno all'1% il tasso di errore degli strumenti si assesta al 97%. (202) Vi è poi l'ulteriore problema metodologico per cui tutti gli studi sul rapporto tra follia e violenza stabiliscono rapporti statistici di correlazione ma nessuno è ovviamente in grado di stabilire relazioni causali, anche nelle ipotesi in cui, come nel caso della dipendenza da sostanze stupefacenti dell'alcolismo e della sindrome paranoica, il legame tra patologia e violenza è più evidente e scientificamente condiviso. L'ambiente sociale connesso al mercato delle sostanze, o gli effetti diretti delle sostanze, prescindendo dai sintomi psicopatologici o la bassa istruzione rimangono fattori altrettanto idonei a determinare la violenza. “Nessuna delle attuali metodologie è in grado di analizzare questi fattori in modo sperimentale”. (203)

Viene evidenziata anche la inevitabile componente circolare derivante dall'individuare la pericolosità attraverso i tratti stessi che determinerebbero la diagnosi di disturbo antisociale di personalità e di psicopatia, il che comporta un ritorno alla vecchia ontologia della follia morale. Le nuove strategie del contenimento del rischio non farebbero altro che dissolvere la nozione di soggetto in una serie di fattori che non fanno che rimandare al soggetto stesso ed ad un giudizio di valore sul suo passato che però viene ad essere reso tanto astratto da sembrare scientifico.

In questo tipo di concettualizzazioni e di ricerche la nozione di rischio e di disturbo che sottendono alla pericolosità si trasformano ancora una volta in un “discorso misto”, morale, emotivo, politico e calcolatorio che porta sempre a riproporre forme di internamento preventivo. La politica penale si muove quindi in due direzioni opposte e collegate, una direzione innovativa ed una direzione nostalgica: combina tecniche di contenimento del rischio iper-moderne con un atteggiamento pre-moderno di configurazione del pericolo. (204) L'aspetto innovativo consente di rimuovere la dimensione conflittuale della nozione di pericolosità atomizzandola in una serie di indicatori attuariali asettici e neutrali che non hanno bisogno di tener conto del trattamento clinico, che infatti viene totalmente trascurato se non omesso, consentendo la separazione definitiva della diagnosi dal trattamento per connetterla ad una semplice attività di gestione del rischio. (205) In altri termini la politica della gestione del rischio non si pone la questione degli obiettivi di riabilitazione e di cura del soggetto pericoloso ma solo del contenimento dell'incognita valutata. L'aspetto pre-moderno consente di identificare gli indicatori della patologia con elementi di tipo marcatamente connotativo se non morale. La stessa PCL-R, lo strumento diagnostico utilizzato per valutare la psicopatia ha rivelato, in 11 studi di controllo, un tasso di falsi positivi oscillante tra il 50 ed il 75%, tanto che alcuni hanno ritenuto impossibile un suo utilizzo in ambito forense nel caso in cui sia in gioco la restrizione della libertà personale. (206)

Anche a livello internazionale si evidenzia comunque il fatto che anche gli studi di seconda generazione non riescano a dare risultati univoci ma debbano essere anzi suddivisi in tre categorie di consistenza omogenea: la prima che raggruppa studi che affermano nuovamente un netto collegamento tra violenza e malattia mentale; la seconda che raggruppa gli studi che invece negano un tale legame, la terza che raggruppa studi che dimostrano l'importanza, in relazione al comportamento violento, delle variabili distinte dalla malattia mentale: quali genere, status socio economico, età, istruzione. Riaffermando che, anche attualmente le variabili di tipo clinico non sono in grado di dimostrare una connessione diretta tra violenza e malattia mentale, a meno che non si considerino le rabbia e le fantasie aggressive come sintomi clinici.

Fornari e Coda hanno evidenziato come nel Disturbo antisociale di personalità vi siano tratti specifici ben chiari che però non sono riconducibili a categorie psicopatologiche ma a generiche caratteristiche del comportamento, portando a confondere disturbo psichico, analisi del comportamento e giudizio etico. (207) Merzagora Bestos definisce criticamente i sintomi del Disturbo antisociale di personalità delineati dal DSM “il ritratto del delinquente di professione criminologicamente inteso”. (208) Per cui la diagnosi torna ad essere una forma di etichettamento che deve essere definita e compresa attraverso il contesto culturale e sociale più che scientifico.

Così si esprime Robert Hare, uno dei maggiori esponenti della teorizzazione della personalità psicopatica e del disturbo antisociale della personalità, nel dare “nuova” concretezza alla pericolosità dello psicopatico:

Questi predatori, sia uomini che donne, tormentano la nostra vita quotidiana ogni giorno (...) sono tipi di individui sempre esistiti (...) Tutti li hanno incontrati, sono stati ingannati e manipolati da loro, e sono stati costretti a riparare o a vivere con i danni che loro hanno causato. Questi individui spesso affascinanti - ma sempre mortali - hanno un nome clinico: psicopatici. La loro caratteristica è la sbalorditiva mancanza di coscienza, il loro gioco consiste nell'autogratificazione a spese dell'altro. Molti passano del tempo in prigione, ma molti no. Tutti prendono molto di più di quanto non diano. La più ovvia espressione della psicopatia - ma non l'unica - implica la flagrante violazione delle regole della società. Non sorprendentemente molti psicopatici sono criminali, ma molti altri tentano di rimanere fuori di prigione usando il loro fascino ed il loro atteggiamento camaleontico per attraversare la società lasciando un seguito di vite rovinate dietro di loro. (209)

Altri tornano ad affermare che vi sia una significativa correlazione tra crimine violento e psicopatologia dell'Asse I del DSM, in particolare la schizofrenia. (210) Se a questo tipo di valutazioni aggiungiamo poi alcuni studi statunitensi di impronta neuroscientifica che affermano che, come ricordato, le lesioni al lobo frontale o prefrontale della corteccia celebrale danneggiano sempre la capacità di controllare gli impulsi aggressivi od il giudizio morale e che gli psicopatici e coloro che hanno comportamenti violenti presentano sempre anomalie strutturali e funzionali del cervello derivanti secondo alcuni non da fattori ambientali ma per il 90% dai geni, (211) che tuttavia non incidono sulla responsabilità penale, risulta del tutto naturale da una parte che si giunga ancora una volta alla commistione del duplice aspetto reattivo riservato al deviante: vendetta ed espulsione dal branco e dall'altra che si proponga un modello penale improntato su una neutralizzazione di tipo ottocentesco, destinata in assenza di una cura (212) ad essere di fatto perpetua. Adam Lamparello, un giurista statunitense, propone per tutti coloro che sono stati condannati per un reato e che presentano lesioni celebrali al lobo prefrontale o disturbi all'amigdala o al sistema limbico, un internamento a tempo indeterminato successivo all'espiazione della condanna. L'internamento dovrà protrarsi per tutto il tempo in cui il soggetto continui ad essere un pericolo per la comunità in virtù di tali lesioni, e, quindi, sarà probabilmente perpetuo se legato ad un danno irreversibile. Secondo Lamparello un tale tipo di internamento non avrebbe natura punitiva e per questo non sarebbe in contrasto con il Quattordicesimo Emendamento. (213) Una tale proposta sembra rievocare lo spettro evocato da quel filone critico secondo il quale in late modernity, authorities move from institutional incarceration to political intervention to pre-empt undesired events within a hygienist utopia that induces a delirium of rationality. (214)

Dall'altro lato troviamo, invece, un filone della psichiatria forense che si riallaccia a quelle correnti scientifiche internazionali che negano qualsiasi valenza medica al concetto di pericolosità, che la ritengono un giudizio di valore, dal significato più simile al termine “brutto” che ad un termine medico come “anemico”. (215) La pericolosità non è una condizione medica, non ha una esistenza definibile attraverso criteri di tipo clinico, la Scuola positiva e Lombroso l'hanno elevata al rango di una condizione patologica, sbagliando, costringendo a definire in termini medici qualcosa totalmente privo di scientificità. Tuttavia il fatto che istituzionalmente venga richiesto un simile giudizio impone la necessità di una teorizzazione di questa pratica. Queste correnti avvertono anche la necessità di operare una distinzione tra la nozione di pericolosità psichiatrica, per sua natura temporanea legata alla propensione a causare seri danni fisici o psichici dalla più ampia nozione di pericolosità sociale o “legale”:

Despite the frequency with which the term dangerousness is used within psychiatric practice, there are few clear definitions of the precise behaviours it encompasses (...) It is important to distinguish between legal dangerousness and clinical dangerousness. From a legal perspective, dangerousness is viewed as a relatively enduring characteristic of the individual. However, scientist now recognise that most human behaviour is determined by complex interactions between the individual and his/her environment. The main problem with the legal concept lies in it's simplicity- under legal scheme, certain aspect of the individual behaviour are defined as dangerous and the individual himself comes to be viewed and labelled as dangerous. (216)

Ed il problema della definizione giuridica di pericolosità sta nella indicazione di una probabilità, di una propensione all'atto criminale che implica caratteristiche permanenti e costantemente manifestate di una caratteristica socialmente ubiqua, onnipresente ed ordinaria quale la violenza che invece viene limitata a certi particolari soggetti individuati in quanto malati, esponendo di fatto il giudizio clinico ad una strutturale tendenza a generare falsi positivi. (217)

Vi sono, quindi, autori come Ponti, Bandini e Merzagora Bestos che vogliono non solo annullare la pericolosità ma, ritenendo l'automatismo tra follia ed incapacità di intendere e volere uno stereotipo culturale e partendo dal presupposto che la scienze psichiatriche e psicologiche tendono sempre di più ad una maggiore responsabilizzazione del malato mentale, ritengono possibile anche una possibile compatibilità tra piena imputabilità e psicosi. Il mutamento dello statuto scientifico del folle e la riforma dettata dalla L.180/1978 presuppongono, infatti, il riconoscimento della piena dignità del sofferente psichico, dignità che implica necessariamente una maggiore responsabilità nel caso in cui l'Io del malato mentale non sia totalmente destrutturato. L'attribuzione della piena responsabilità penale in questo caso sarebbe funzionale al recupero della parte integra dell'Io cui ascrivere il fatto di reato, avendo quindi una valenza terapeutica. (218) “Se uno psicotico è capace di comprendere il significato della sanzione punitiva ed il valore deterrente della pena non si comprende perché mai egli debba, tra l'altro, essere assegnato al manicomio giudiziario come incapace”. (219) La pena riafferma la soggettività dell'individuo ribadendo che la malattia non esaurisce il suo campo di esistenza ed impedisce alla diagnosi psichiatrica di esprimere una valore totalizzante sul complesso dell'esistenza sociale ed individuale della persona, il modo più efficace per ristabilire la salute mentale implica la valorizzazione della soggettività del malato. (220) E' quindi un'attribuzione di responsabilità volta non tanto alla repressione, alla neutralizzazione quanto invece alla ricollocazione del malato mentale nel contesto sociale, ed alla riconciliazione tra i nuovi criteri epistemologici e normativi della psichiatria “post 180” ed il diritto penale, (221) che suggerisce di restringere a casi rarissimi e gravissimi la dichiarazione del vizio totale di mente ed ad inserire i disturbi psicopatologici tra le circostanze di attenuazione della pena al pari di altri fattori di ordine sociale, ambientale, situazionale. (222)

Il malato di mente - è lapalissiano - non è uguale al sano così come il povero non è uguale al ricco, come le donne non sono uguali agli uomini, i neri ai bianchi. Non lo è, cioè, nel senso che le sue possibilità di partecipazione sociale e di realizzazione personale sono minori, che si trova in una situazione di minorata contrattualità sociale, che non ha quella stessa pienezza della libertà nella scelta, che la sua libertà è condizionata da un handicap particolare. E la giustizia consiste appunto nel trattare differentemente situazioni diverse, o si corre il ben noto rischio del summum ius summa iniuria. Ma, con la nuova visione della malattia mentale come non più così alienante, invasiva, inappellabile, può ancora dirsi che il malato di mente è radicalmente diverso dal sano? Ha senso, cioè, un trattamento penale qualitativamente diverso? Dove sta scritto che la malattia mentale sia una forza più cogente che non il condizionamento sociale, familiare, ambientale, del carattere, magari della passione e dell'emozione, o della suggestione della folla in tumulto? (...) Una proposta - ed è quella a cui siamo particolarmente affezionati (...) - potrebbe quindi essere quella di riservare alla malattia mentale lo stesso peso che si attribuisce ad altre situazioni che attenuano quantitativamente la responsabilità per il delitto e quindi la pena. (223)

La mediazione tra Ragione e Follia, svolta dalla psichiatria non si deve tradurre quindi in una espulsione della “Sragione” dal modo della “Razionalità Sociale”, rappresentata tradizionalmente dall'internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario. L'atto del folle dovrà quindi essere giudicato ed egli condannato, ma in virtù di una condanna che tenendo conto della storia del soggetto, preveda misure che consentano una cura, una riabilitazione ed una reintegrazione sociale. Arrivando ad una reale ed efficace sintesi tra il bisogno rituale e simbolico della retribuzione richiesto da sempre dal corpo sociale ed il recupero della salute mentale di un soggetto visto come parte integrante della comunità, non emarginabile attraverso statuti giuridici differenziati. (224) La liberta di scelta attribuita al reo malato di mente è in questo senso conforme anche alla concezione normativa della libertà giuridica, che si configura non come dato naturalistico, ontologico ma si pone come un “principio regolativo di tipo giuridico che pone limiti al potere statuale e garantisce la libertà”. (225) La libertà e la responsabilità non più intese secondo un assunto filosofico o una necessaria dimostrazione naturalistica o psicologica, assumerebbe un ruolo di garanzia teleologica, consentirebbe ad ogni individuo di essere trattato come libero e responsabile, con tutte le limitazioni (connesse al concetto giuridico di dignità umana) al potere punitivo che questa implicazione ha storicamente comportato. “Il principio di libertà del volere si trasforma così da presupposto indimostrabile e necessario di fondazione e giustificazione del rimprovero di colpevolezza, e conseguentemente della pena in funzione retributiva, nel suo contrario e cioè in quello di limite garantistico posto a tutela dell'individuo”. (226)

In questo senso si opererebbe la massima restrizione possibile al campo applicativo della fattispecie della pericolosità poiché “evidentemente una persona non può essere dichiarata pericolosa sulla base di un giudizio medico se non è invalidata in quanto soggetto responsabile”.

La maggior parte della psichiatria forense italiana assume, invece, una posizione per così dire più moderata e distante dalle due posizioni estreme menzionate. Essa infatti considera la pericolosità criminale normativa inutile e dannosa non solo per il malato mentale ma in tutti i campi essa venga utilizzata, poiché indurrebbe, indipendentemente dalle tecniche utilizzate, ad errori e distorsioni ed ad una sostanziale strumentalizzazione della medicina, snaturando il ruolo dello psichiatra estendendo al di fuori della psicopatologia l'indagine della personalità dell'individuo per coglierne tendenze criminose e pericolosità (227).

In questo senso la nozione di pericolosità sociale assume un ruolo doppiamente stigmatizzante in quanto concettualmente continua a contaminare ed a confondere malattia mentale e criminalità, (228) comportando inoltre una confusione tra terapia e neutralizzazione, in cui la difesa sociale assume necessariamente un ruolo prevalente ed inaccettabile dal punto di vista medico.

La stessa natura della nozione di pericolosità ormai universalmente riconosciuta come astratta e normativa porta a confondere un trattamento curativo sottoposto alla valutazione del perito e lo status giuridico di pericolosità sociale la cui valutazione sarebbe compito esclusivo del giudice. (229) In questo caso l'uso improprio della categoria della pericolosità potrà anche essere conseguente al compito effettivo svolto dal giudice nel processo, dal suo ruolo di regolatore di conflitti non solo individuali ma anche implicitamente collettivi, ed essendo protagonista attivo della dimensione sociale, soggetto politico in senso lato, dovrà prendere decisioni che gli appaiano non solo giuste ma anche accettabili socialmente, espressione del sentire comune, in sostanza egli dovrà produrre decisioni non solo o non tanto razionali o scientifiche quanto gradite o accettabili dalla comunità. Dovrà in altri termini seguire la regola del consenso sociale. Questo atteggiamento si riflette in primo luogo sulla scelta dell'utilizzo della perizia psichiatrica solo in particolari reati, o non imponendo la perizia d'ufficio, o disattendendola nel caso in cui conformandosi a questa si possa arrivare ad una soluzione che neghi la domanda punitiva della collettività identificata con una sentenza di condanna. (230) Ad ulteriore dimostrazione di questa tendenza la legge del 1986 abolendo la presunzione di pericolosità non ha prodotto quanto previsto da Pulitanò: l'Opg non è stato depurato dalla sua logica punitiva, la pena manicomiale non ha subito un “naturale deperimento”, non è sorto un problema di netta dicotomia trattamentale tra imputabili e non imputabili. (231)

In base a questi presupposti c'è chi come Bandini chiede l'espressa abolizione di ogni forma di valutazione clinica della pericolosità sociale, vista la totale indisponibilità di parametri clinici che possano fornire una predizione sulla probabile recidiva del sofferente psichico. Cosi come viene rifiutata ogni valutazione clinica che tenti effettuare una prognosi di probabile recidiva o generica pericolosità del sano di mente legata alle caratteristiche psichiche individuali, alla “tendenza a delinquere” alla “capacità a delinquere”. (232) La pericolosità in altre parole “non è traducibile in termini clinici” e non può neppure declinabile in valutazioni criminologiche che vogliano definirsi scientifiche. (233)

Si chiede una separazione dei linguaggi e di interpreti. Il dato normativo non può più trovare una sua traduzione nel linguaggio clinico, il medico non può che limitarsi ad accertare se vi è un disturbo psicopatologico, se ha inciso nella comprensione del significato del fatto e se i disturbi persistano quali sia il trattamento terapeutico più idoneo, (234) senza che vi sia alcuna sovrapposizione con la funzione giurisdizionale. “La diagnosi e la prognosi di malattia spetta al medico, così come l'attribuzione del reato e la previsione di recidiva spetta al giudice”. (235)

Fornari, invece, ritiene in primo luogo necessario limitare i danni di una eccessiva patologizzazione dei comportamenti criminali connessi alle dichiarazioni di pericolosità sociale innanzitutto attraverso una restrizione delle categorie diagnostiche. L'autore, quindi, riconsidera il concetto psichiatrico forense di “valore di malattia”, per evitare che da diagnosi troppo ampie ed equivoche discendano prognosi altrettanto equivoche di pericolosità sociale. (236)

Fornari, in secondo luogo, ritiene necessario ancorare la dichiarazione di pericolosità sociale entro parametri stringenti composti da indicatori “interni” ed indicatori “esterni”.

Gli indicatori interni sono rappresentatati da:

  • presenza e persistenza di una sintomatologia psicotica florida e riccamente partecipata a livello emotivo alla luce del quale il reato ha assunto “valore di malattia”; concorrenza di comorbidità; doppia diagnosi;
  • insufficiente o assente consapevolezza della malattia (insight);
  • scarsa o nulla aderenza alle prescrizioni sanitarie (adherence);
  • mancata o inadeguata risposta a quelle praticate, purché adeguate sotto il profilo qualitativo e al range terapeutico ed effettivamente somministrate (compliance);
  • presenza di segni di disorganizzazione cognitiva e di impoverimento ideo-affettivo e psico-motorio (sensibile riduzione delle capacità sociali e delle risorse premorbose) che impediscano un compenso accettabile e affidabile.

Gli indicatori “esterni” sono invece rappresentati da:

  • Caratteristiche dell'ambiente familiare o sociale di appartenenza (accettazione, conglobamento, rifiuto, indifferenza);
  • possibilità di reinserimento lavorativo o di soluzioni alternative;
  • tipo, livello e grado di accettazione del rientro del soggetto nell'ambiente in cui viveva prima del fatto-reato;
  • opportunità alternative di sistemazione logistica;
  • Esistenza ed adeguatezza dei servizi psichiatrici di zona, disponibilità e capacità di formulare progetti terapeutici da parte degli stessi.

E' evidente che l'ultimo di questi indicatori, la capacità dei Servizi Sanitari di svolgere il ruolo terapeutico loro affidato, dato del tutto indipendente dalle qualità personali del reo folle e dal fatto- di reato e quindi totalmente estraneo all'Ordinamento penale, ed estremamente variabile a seconda dei modelli culturali ed organizzativi seguiti nelle singole regioni e nei singoli Servizi psichiatrici avrà un peso determinante in ordine alla restrizione della libertà personale dei soggetti interessati ed alla compressione dei loro diritti, creando un fenomeno del tutto peculiare e totalmente incontrollabile dagli organi giurisdizionali di garanzia.

Lo stesso Fornari, cosi come Coda, Catanesi e Cartabellese auspicano poi di sostituire definitivamente il concetto di pericolosità con l'individuazione di strategie terapeutiche-non necessariamente custodiali per i soggetti bisognosi di trattamento. (237) Visto che attualmente l'attività del perito chiamato a pronunciarsi sulla pericolosità sociale si ferma alle porte dell'Opg senza alcuna possibilità di verifica della diagnosi e senza possibilità di intervento terapeutico. Inoltre, coerentemente a tutti i giudizi prognostici di tipo medico, la prognosi sarà valida solo se riferita ad un arco di tempo breve, gli eventuali provvedimenti a lungo termine presi su tali tipo di valutazioni sarebbero quindi terapeuticamente inopportuni. (238)

6.3) La crisi metodologica: perizia psichiatrica e perizia criminologica

The large body of research in this area indicates that, even under the best conditions, psychiatric predictions on future dangerousness are wrong in at least two out of every three cases. APA American Psychiatric Association (Brief as Amicus Curiae at 8-9 Barefoot v. Estelle)

Il contrasto esistente in psichiatria circa l'opportunità della valutazione della pericolosità sociale nel processo penale e la sempre maggiore presenza nella letteratura scientifica di disturbi della personalità quali il “Disturbo da comportamento dirompente”, il “Disturbo oppositivo provocatorio”, il “Disturbo antisociale” che indicano la presenza di un disagio personale e forse anche il bisogno di un trattamento clinico, ma che si presentano anche come indicatori di rischio criminogenetico, perché presentano come sintomi “l'impulsiva aggressività”, “la natura aggressiva e sospettosa”, “la rabbia che cova e il risentimento” ma anche “la mancanza di amici”, “la freddezza emotiva” o “l'estremo distacco dai comuni sentimenti”, finiscono con l'interessare sempre di più la criminologia, cercano di ridefinire in termini meramente tecnici e clinici la devianza, e spiegano i loro effetti anche sul metodo di accertamento, sulla perizia. (239) Una commistione tra malattia e crimine sottolineata da alcuni studi scientifici che affermano che almeno il 50% dei detenuti soffrirebbe di disturbi della personalità. (240) Altri che addirittura individuano proprio nel comportamento violento una caratteristica tipica sia del Disturbo Borderline di personalità, sia del Disturbo antisociale e che affermano che tratti ostili siano caratteristiche stabili di ben otto disturbi del DSM (paranoide, antisociale, istrionico, passivo-aggressivo, schizotipico, ossessivo, compulsivo), (241) anche se “esistono poche dimostrazioni che confermino queste possibilità o indichino fino a che punto queste caratteristiche diagnostiche individuali influenzino le azioni le motivazioni, la scelta della vittima, o le caratteristiche associate all'atto criminale”. (242) Peraltro la definizione dei Disturbi della personalità li indica come costanti, inflessibili, pervasivi, stabili, di lunga durata. Addirittura i soggetti “disturbati” presentano “per tutta la vita modalità di sentire e agire peculiari ed abnormi” (243) che sembrerebbero indicare l'impossibilità di un trattamento che non contempli una neutralizzazione (per l'imputabile attraverso, ad esempio, il meccanismo della recidiva e per il non imputabile attraverso l'internamento fino al venir meno della pericolosità).

Come è noto l'art 220 c.p.p. al secondo comma afferma: “Salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”. (244) Si vieta, quindi, in sede di cognizione, la cosiddetta perizia psicologica o criminologica, già vietata nel vecchio codice di rito. Una perizia che valuti l'intera personalità dell'imputato, ed esamini le anomalie della sua personalità, del suo carattere anche quelle non strettamente patologiche.

Il predicato “criminologico” poi vuole evidenziare una aspirazione interdisciplinare in cui possano intervenire diverse figure professionali, e sottolineare anche la dimensione clinica della scienza criminologica, la sua capacità di fare una diagnosi, di effettuare una prognosi e di indicare un trattamento seguendo paradigmi e metodi che tuttavia rimandano ad un patrimonio culturale dai contorni irregolari, non chiari. “Un poliedro a più facce non regolari” stimolato “da continue spinte epistemologiche che rispondono a necessità operative che si rapportano alla realtà contingente”. (245) Alcuni settori della giurisprudenza di merito tuttavia la ritengono necessaria per attuare pienamente la finalità special preventiva, rieducativa della pena, per adattare la sanzione al carattere ed alla personalità dell'imputato, ed anche la Corte Costituzionale, pur dichiarando non fondate le eccezioni di incostituzionalità del divieto in questione, riteneva auspicabile una maggiore apertura del legislatore nei confronti degli “studi moderni sulla psiche”. (246)

Ed è proprio su questa stessa esigenza di trattamento e di individualizzazione -considerato “nuovo”- che si fece leva per introdurre la perizia criminologica in sede di esecuzione della pena e della misura di sicurezza con la L. n.34 del 1975 sull'Ordinamento penitenziario. (247)

Una individualizzazione che avrebbe dovuto comportare una apertura non solo alla psichiatria ma anche alla psicologia clinica e sociale ed alla criminologia, apertura già richiesta da anni anche da alcune correnti della psichiatria nella fase di cognizione, o per meglio dire nelle varie fasi dell'indagine giudiziaria (248), in omaggio anche all'idea secondo la quale “il concetto di personalità criminale ha carattere naturalistico e non già normativo”, quindi impone conoscenze psicologiche, biologiche e sociologiche (249).

Tuttavia in questa indagine esperita (in linea teorica) da un gran numero di educatori, criminologi, psicologi e psichiatri in fase di esecuzione, il pericolo assume un ruolo centrale. L'oggetto principale dello studio degli esperti è volto a ricercare infatti il rischio della recidiva del detenuto, la sua pericolosità. Nel fornire al giudice dell'esecuzione gli elementi necessari per decidere in ordine alla concessione delle misure alternative la funzione di sicurezza degli esperti assume concretamente un ruolo preminente. (250)

Anche sul piano della cognizione si riafferma, per gli imputabili, la contiguità e la continua interazione tra le categorie normative dell'abitualità, della professionalità e della tendenza a delinquere con la psicopatia, con la debolezza mentale e con altri disturbi patologici che, pur se non incidenti sulla imputabilità, incidono sulla più lata antisocialità assumendo interesse criminologico.

Gli esperti, quindi, vogliono estendere il campo del loro giudizio per evitare decisioni erronee del giudice e trattamenti controproducenti alla prevenzione. Alcuni affermano esplicitamente che l'indagine ed il giudizio sull'intera personalità del soggetto è “il cardine della politica criminale che si ispira alla difesa sociale” (251). Altri, invece, aspirano ad un trattamento risocializzativo scientifico e capillare, anche se non necessariamente carcerario. (252) Attraverso la perizia criminologica si ritiene si possa far meglio luce sulle condizioni ambientali in cui il soggetto, “malato” o “normale” che sia, vive o ha agito. (253)

Anche lo stesso diritto positivo può richiedere, secondo alcuni, l'opera ermeneutica dello psichiatra dello psicologo o del criminologo. Gli indici dettati dall'art 133 -la vera novità del codice Rocco, il raccordo tra pena e misura di sicurezza- sia se colti nella loro funzione retrospettiva, cioè come capacità morale di compiere il reato commesso, sia se colti nella loro funzione prognostico preventiva, cioè come elementi finalizzati ad accertare l'attitudine a commettere nuovi reati (254) possono avere un “rilievo psicologico”. L'indagine psicologica può agevolmente focalizzarsi sull'“intensità del dolo”, sui “motivi del Delitto” e, naturalmente, sul “carattere del reo”.

La pericolosità è, in sostanza, diagnosticabile con i medesimi parametri per l'infermo e per il normale. (255)

Inoltre lo stesso lessico utilizzato da alcune norme penali, quale il “genere di vita” del delinquente abituale o professionale (art. 103-105 c.p.) o “l'indole particolarmente malvagia” del delinquente per tendenza (art. 108 c.p.), e più in generale ogni qual volta la dottrina e la giurisprudenza faranno riferimento al “valore sintomatico del reato”, rendendolo così elemento rivelatore di uno status od una inclinazione soggettiva, sembreranno legittimare indagini e valutazioni particolarmente invasive declinate sul soggetto prima ancora che sul fatto. Alcuni arriveranno a sostenere che “il processo non è caratterizzato dalla fattispecie di reato, ma piuttosto dalla persona dell'imputato”. (256)

In altre parole si aspira alla introduzione di un'indagine su tutta “la personalità biopsichica dell'imputato nella fase di cognizione” (257)

Per altri versi questa indagine totalizzante, estesa molto al di fuori della dimensione psicopatologica, viene considerata in modo estremamente negativo. Per la sua ambiguità, per il rischio di fornire una sorta di copertura scientifica a valutazioni che scientifiche non sono, per la tendenza ad assumere parametri estranei alle reali funzioni della psicologia, l'indagine non risponde tanto ai bisogni terapeutici o trattamentali dei soggetti interessati quanto ad esigenze di sicurezza collettive ed istituzionali. (258) Soprattutto nel momento in cui pare assodata la evidente fragilità del costrutto scientifico di queste discipline.

Come sostengono Catanesi e Martino: “Ciò che spesso è carente è la riflessione circa la trasferibilità al contesto giudiziario di un modello clinico orientato al trattamento, sulla differenza che passa fra l'abituale esercizio speculativo al fine di 'curare' con quel particolare percorso che in ambito forense è destinato alla formulazione di un parere scientifico motivato e di come spesso quel modello venga presentato, ed accettato, quasi prova fosse” e non come strumento di prova che non può vicariare l'attività giurisdizionale. (259)

Tutta una serie di prassi diffuse renderebbe sconsigliabile un allargamento del campo operativo della perizia. L'impossibilità di avere un metodo scientifico condiviso, la possibilità di stabilire arbitrariamente quale peso dare ai vari test diagnostici, la convinzione che la ricerca esclusiva di verifiche della propria ipotesi di partenza possa assumere valenza di certezza scientifica, inducono a ritenere impossibile che il “comprendere” psicologico possa sostituire la verificazione/falsificazione dei fatti. (260) Se ci si vuole affidare alla psicologia sociale, alla fenomenologia, alla psicanalisi si dovrà tener conto che essa postula un modello di realtà costruttivista ed ipotetico, che mette in discussione ogni possibilità di conoscenza “oggettiva” ed è quindi incompatibile con il modello cognitivo e normativo di certezza della prova penale, anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo e della capacità a delinquere ex art 133 c.p.:

In assenza di malattia o del sospetto di essa il perito non deve far altro che tacere [...] se usciamo dal campo della salute mentale per delle considerazioni euristiche e strumentali va bene ma, se pretendiamo che questa sia una descrizione del reale cadiamo nell'eresia [...] il soggettivismo che ben conosciamo dal nostro lavoro clinico collide, come un'altra lingua ed un diverso codice, con la necessità di certezza del sistema penale. (261)

La stessa possibilità di anticipare il giudizio sull'intera personalità dell'imputato rispetto all'attribuzione del fatto rischia di stravolgere la struttura del processo penale e dello stesso diritto penale sostanziale, che risulta essere sempre più orientato al binomio capacità a delinquere/pericolosità sociale, all'“essere stato” o al “poter essere” (262) possono avere un “rilievo psicologico”. Anticipando il giudizio sulla personalità pericolose e/o criminale del reo o del non imputabile, rispetto all'attribuzione del fatto si corre infatti il forte rischio di creare dei pregiudizi contra reum e contra insanum, trasformando quello che dovrebbe essere un processo su un fatto in un processo sul poter essere, (263) trascinando inevitabilmente il processo penale verso una nuova sovrapposizione tra delinquenza e patologia individuale. (264) Una sovrapposizione che consente una commistione tra specialprevenzione e neutralizzazione, totalmente aderente allo stato dell'arte delle attuali pratiche trattamentali all'interno delle carceri e degli Opg.

E' pur vero che giudizi sommari sulla personalità e sui disturbi di un qualsiasi imputato possono già attualmente passare nel fascicolo del dibattimento attraverso, ad esempio, documenti provenienti dai servizi sociali o dal dipartimento di salute mentale attraverso il combinato disposto dell'art 236 e 431 comma 1 lett. g) c.p.p., (265) acquisiti al fine specifico di valutare la personalità, le qualità morali dell'imputato (ed anche della persona offesa), che saranno utilizzabili sia in “favor rei” sia “contra reum” (ad es. per le circostanze attenuanti od aggravanti). Tuttavia la particolare sacralità della perizia, il suo supposto statuto di verità, il suo potere di formare un'idea inevitabilmente globale sulla natura dell'imputato ne impongono una disciplina differenziata. Si tenga anche presente che attraverso i colloqui finalizzati alla realizzazione della perizia, a seguito della ambigua posizione dello psicologo o del criminologo clinico, al contempo terapeuta ed investigatore, amico e nemico, si rischia di violare il principio processuale del nemo tenetur a se detegere, il diritto al silenzio dell'imputato stabilito dal combinato disposto degli artt. 64 e 188 c.p.p.

Questa ambiguità, questa duplice “veste” della criminologia clinica è pacificamente accettata nel momento della esecuzione, del trattamento e della risocializzazione (ex art 80 L 354/197), dove secondo quanto afferma Merzagora, il criminologo clinico riveste sia il ruolo di “fornitore di un servizio su richiesta del reo per soddisfare suoi bisogni di sostegno psicologico, di chiarificazione interiore, di programmazione o revisione dei progetti di vita, di consiglio [...]” sia “il ruolo di osservazione, valutazione e prognosi su mandato dell'autorità carceraria o giudiziaria, e definibile quindi anche come ruolo tecnico-istituzionale”. (266)

Per di più, già nella fase di cognizione, come già sostenuto, il perito nello svolgimento della sua perizia rischia di essere fortemente condizionato dal contesto processuale tanto dall'adeguare le sue conclusioni alle aspettative dell'autorità giudiziaria. In tale prospettiva la gravità del reato e l'allarme sociale da esso suscitato non potranno certo non condizionare il perito che, per lo più inconsapevolmente ha inforcato gli occhiali del giurista nella lettura del caso a lui sottoposto. (267) Per questo il perito dovrebbe limitare la sua indagine alla sola diagnosi della malattia.

Inoltre una perizia maggiormente invasiva non implica una sua maggiore oggettività. Anzi inevitabilmente un analisi più estesa sull'interiorità di una persona implica necessariamente un maggiore soggettivismo dell'indagine psicologica, data l'impossibilità di una verifica oggettiva delle teorie poste a base della perizia.

Tuttavia, contrariamente a quanto affermato dal dato positivo, nella prassi Il giudice della cognizione spesso richiede allo psichiatra la ricostruzione criminodinamica e criminogenetica dei fatti, ovverosia la ricostruzione della storia, del “discorso criminale”, secondo una chiave interpretativa psicologica, e criminologica andando molto al di la di una diagnosi sulla possibile psicopatologia del soggetto. Con uno spostamento del centro focale concreto dell'attenzione psichiatrica dal momento diagnostico clinico al momento normativo criminologico sempre maggiore, soprattutto nei casi ai confini tra infermità mentale e anomalie del carattere, in particolare nel caso delle perversioni sessuali. Si passa in altri termini dal valutare l'esistenza della malattia e la sua influenza sul comportamento dell'imputato al tentare di comprendere il percorso mentale che lo ha portato alla commissione di un reato anche quando la malattia non si vede, quando non vi sono elementi per richiedere una perizia psichiatrica. (268) Valutando indistintamente attraverso la lente della capacità a delinquere sia la pericolosità, sia l'elemento soggettivo, la colpevolezza, quasi fondendoli insieme in una soggettività totalizzante, in una anatomia della potenziale crudeltà.

In definitiva, quindi, sempre più diffusamente la perizia prende in considerazione ogni anomalia del carattere, i dati dell'affettività, le contrarie tendenze alla psicopatia, diventando surrettiziamente una perizia criminologico - psicologica, rischiando una nuova commistione tra patologia e devianza. Possiamo quindi concludere che il divieto di perizia criminologica sancito dall'art. 220 c.p.p., secondo comma, venga ormai di fatto disapplicato dalla giurisprudenza e che la perizia psichiatrica sia stata assorbita dalla perizia criminologica, tanto più dopo la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione n. 9163/2005 che ha definitivamente allargato il concetto di infermità fino a ricomprendere i disturbi della personalità. (269)

7) I riflessi normativi della crisi della nozione di pericolosità

Laonde, se nel diritto pubblico sien poste le pietre angolari della personalità umana civile indistruttibile, della eguaglianza politica di tutti i cittadini, della libertà individuale, della separazione dei poteri, eccetera, non sarà troppo agevole, parmi, farvi abbarbicare norme istituti, che, col pretesto della salute pubblica, sovvertano quella franchigie che il popolo si è conquistato con tanti e secolari sforzi e sacrificî. [...] i signori “positivisti”... non tarderanno a persuadersi che con la collera, col terrore, coi giudizî sommarî, con le aberrazioni penali, con la forca e col bastone né si governano le plebi né si debellano i malfattori. (L. Lucchini, I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale)
Vivere onestamente... Rispettare le leggi... Non dare ragione di sospetti (Art 5 comma 3 l. 1423 del 1956 sulle Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità)

7.1) Il problema della determinabilità del precetto: i requisiti dell'art 203 c.p.

Se, come sottolinea Bartoli, rispetto al sistema sanzionatorio per i non imputabili la questione di fondo si snoda attraverso il legame che deve sussistere tra giudizio di pericolosità e applicazione del trattamento da una parte e fatto di reato dall'altro, (270) la necessità di una precisa definizione della sostanza concettuale e dei limiti di estensione di questi tre aspetti diventa ineludibile.

La difficoltà di dare un preciso contenuto scientifico alla nozione di pericolosità non può non incidere sul precetto dell'art 203 c.p. In particolare si pone un vero e proprio problema di determinatezza della stessa formulazione fattispecie astratta di pericolosità sociale. Alla luce della difficoltà epistemologica ed ontologica di individuazione del pericolo psicopatologico, il contenuto giuridico della nozione pericolosità viene irrimediabilmente compromesso.

Pulitanò afferma che: “Pericolosità è un concetto pericoloso, che si presta a veicolare significati di stigmatizzazione e a motivare misure coercitive su presupposti che fuoriescono dal paradigma dell'accertamento di fatti”.

Fiandaca e Musco affermano che:

quale nozione nella sostanza vicina al senso comune, la pericolosità si presta infatti a fungere da comoda etichetta che canalizza un bisogno emotivo di rassicurazione[...] Cosi stando le cose non deve sorprendere troppo se il giudizio di pericolosità spesso risulta, oltre che intuitivo, soggettivamente arbitrario e perciò assai poco affidabile.

Esponenti della magistratura di Sorveglianza, l'organo chiamato all'applicazione delle misure di sicurezza, che ha il polso dei casi concreti e reali, affermano:

Analisi multivariate dimostrano che le malattie mentali gravi, da sole non sono predittive di violenza futura. Questa è associata invece, ad altri fattori: biografici (violenze subite in passato, carcerazione giovanile, abusi fisici, ricordi di arresti familiari) clinici (abusi di sostanze, minacce percepite), relativi ad altre caratteristiche della persona (età, sesso, reddito) o del contesto (disoccupazione, vittimizzazione)

In sostanza risulterebbe non dimostrabile che la pericolosità sia il naturale effetto di una patologia.

D'altra parte proprio da questo tipo di giudizio scaturisce la misura di sicurezza dell'OPG, che segna il destino di una persona, che nella maggior parte dei casi risulterà senza speranza e senza riabilitazione. (271)

La norma diventa non più intellegibile in quanto la nozione cui fa riferimento non può trovare confini certi ed univoci. (272) Con un inevitabile pregiudizio del favor libertatis cui dovrebbe essere ispirato l'intero sistema penale. (273) La pericolosità diventa una clausola generalissima, che apre la strada all'arbitrium judicis che di fatto si trasforma in arbitrium periti. Facendo venir meno l'eguaglianza giuridica dell'imputato a parità di condizione personale. (274)

Sotto il profilo processuale si rischia invece una pesante lesione del diritto di difesa, in virtù della incidenza dell'ambiguità del precetto sulla motivazione che si traduce in “formule stereotipe, incongrue, contraddittorie” e sul relativo potere di impugnazione, inevitabilmente compromessi a favore di esigenze specialpreventive e di difesa sociale. (275) Compromissione che aumenta in fase di esecuzione dove si registra al momento del giudizio di revisione una marcata tendenza allo svolgimento routinario della perizia che spesso si limita al mero riferimento alla prognosi iniziale di pericolosità che viene confermata in modo acritico, almeno fino a quando non sia trascorso un lasso di tempo convenzionale in condizione di internamento. (276)

Questo crea un contrasto con il paradigma epistemologico su cui poggia il garantismo penale, che impone come condizioni necessarie del processo penale sia la verificabilità o la falsificabilità delle ipotesi accusatorie - perché, a mio avviso, la pericolosità del non imputabile è un “accusa penale” come dimostra il fatto che essa debba essere contestata pena la nullità del procedimento per violazione dei diritti della difesa (277)-, sia la prova empirica di essa in base a metodi che ne consentano sia la verificazione sia la falsificazione. (278)

La natura penale delle misure di sicurezza, la constatazione che esse non sono solo cura ma anche custodia e di conseguenza punizione - provvedimento privativo della libertà personale, afflittivo, post delictum - non può che comportare una interpretazione del terzo comma dell'art. 25 Cost. alla luce dei vincoli di garanzia imposti dal primo comma destinato alla pena, che implica non solo il principio di riserva di legge e di irretroattività, (279) ma anche, come correlato logico, quello di stretta tassatività/determinatezza. In altri termini la necessità di una chiara formulazione degli enunciati linguistici di una norma non dovrebbero essere tanto riconducibili ad una pretesa conoscibilità da parte dei destinatari, quanto ad un limite epistemologico invalicabile da parte dello Stato, che deve conferire alle proposizioni linguistiche che abbiano anche la proprietà di limitare la libertà personale - in questo caso a tempo indeterminato - un significato precisamente identificabile e verificabile. Significato che non può dirsi indicato con sufficiente determinatezza dai criteri dettati per l'accertamento della pericolosità dall'art 133 c.p. (280) In questo senso non assume rilevanza tanto la conoscibilità del precetto bensì la limitabilità e la precisa definizione dei presupposti idonei alla limitazione coattiva della libertà personale. Coerentemente a quanto affermato dalla stessa Corte Costituzionale che, nella Sentenza n. 96 del 1981, afferma che la base del principio di determinatezza consiste proprio nell'intento di evitare arbitri relativi al “bene sommo ed inviolabile della libertà personale”. (281) Per cui diventa uno specifico onere della legge penale determinare la fattispecie astratta con connotati precisi tali che l'“interprete possa esprimere una valutazione di corrispondenza ad una fattispecie concreta sorretto da un fondamento controllabile”.

La determinatezza quindi investe, sotto questo aspetto, un duplice profilo: uno astratto, normativo, concernente la compiuta descrizione della fattispecie astratta, per evitare opzioni aprioristiche ed arbitrarie da parte di coloro che sono chiamati ad applicarla, ed uno fenomenologico e concreto, relativo al fatto che il “fenomeno ipotizzato dal legislatore sia effettivamente accertabile dall'interprete in base a criteri razionalmente ammissibili allo stato della scienza ed esperienza attuale”. (282) La disciplina penalistica legata ad una nozione indefinita come la pericolosità sociale, con il rinvio agli indici dell'art. 133 c.p., rischia quindi di non realizzare la tassatività del giudizio prognostico. Questo non comporta solo una violazione dell'art. 25 Cost. ma anche del principio di uguaglianza formale dettato dall'art. 3 primo comma Cost. poiché la norma stabilisce una distinzione tra soggetti pericolosi e non pericolosi come criterio discriminatorio per l'applicazione delle misure di sicurezza che si rivela essere non conforme al principio di ragionevolezza. (283)

Una diversa interpretazione porterebbe inevitabilmente a configurare il principio sancito dall'art 25, terzo comma come un principio di mera legalità, un principio generale di diritto pubblico che enuncia sic et simpliciter le condizioni di esistenza e vigore della norma legale che nulla indica in ordine alla tassatività dei contenuti della norma e della conseguente possibilità di verificazione/falsificazione giurisdizionale degli elementi di fatto in sede di applicazione della norma, aprendosi all'onnipotenza del legislatore. Ferrajoli evidenzia come le forme di sostanzialismo giuridico tendano a passare attualmente proprio attraverso un giuspositivismo che si configura come legalismo etico, come riconoscimento del diritto positivo come valore etico in se, che comporta la legittimazione politico giuridica di qualunque legge vigente, la cui indeterminatezza consente applicazioni di tipo sostanzialistico e decisionistico. Per cui il principio di legalità si trasforma in principio assiologico (e non più teorico) capace di dare valore a qualsiasi contenuto normativo svincolato da limiti di rispetto dei diritti individuali e dalle garanzie teoriche di determinatezza/ tassatività/irretroattività. (284) Sappiamo comunque che per la dottrina e per costante giurisprudenza le due funzioni fondamentali del principio tassatività/determinatezza sono: 1) evitare che il giudice assuma “un ruolo creativo, individuando in luogo del legislatore, i confini tra lecito ed illecito”; 2) “garantire la libera autodeterminazione individuale permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta” (cosi Corte Costituzionale Sent n. 327/2008). Inoltre in tema di pericolosità sociale del non imputabile la nota sentenza 139/1982 aveva affermato l'esigenza di una sufficiente precisione dei presupposti per l'applicazione delle misure di sicurezza. La dottrina dominante ritenne però che il principio di determinatezza dovesse essere interpretato in modo meno stringente rispetto a quello della pena in senso stretto in virtù delle caratteristiche strutturali dei presupposti stessi. (285)

Seguendo ancora il percorso indicato dalle riflessioni di Bartoli si deve analizzare come anche il secondo requisito richiesto dall'art 203 c.p., il fatto di reato rimanga l'oggetto imprescindibile su cui basare sia il giudizio di pericolosità sia il trattamento per non trasformare le misure di sicurezza in una misura di prevenzione. (286)

In questo senso il fatto potrebbe porsi come argine alla difficoltà strutturale dell'accertamento della pericolosità, imponendo che tale giudizio risulti limitato a fatti dello stesso tipo rispetto a quello commesso, impedendo che al soggetto venga attribuita un pericolosità maggiore rispetto a quella indicata dalla commissione del fatto. (287)

Sotto questo profilo il problema della indeterminatezza della fattispecie risulta aggravato dalla circostanza che l'art 203 c.p. rimandando all'art. 202 c.p. estende la nozione di pericolosità e l'applicabilità delle misure non solo ai reati contro la persona ma a qualsiasi reato, naturale o artificiale, grave o non grave, enfatizzando fino all'esasperazione - cosi come la mancata precisazione del grado di probabilità del giudizio prognostico.- la dimensione di difesa sociale delle finalità preventive della disciplina. (288) L'“euforia preventiva” propria delle ormai consolidate posizioni teoriche sulla pena non consente invece una estensione alle misure di sicurezza dei principi fondamentali di garanzia, primo tra tutte il principio di proporzionalità, o di misura delle conseguenze penali rispetto al fatto. (289)

L'accertamento, del giudice o per meglio dire del perito, (290) della corrispondenza tra fattispecie astratta e caso concreto, che piaccia o meno alla dottrina giuridica ed alla scienza psichiatrica e criminologica, quindi dovrà affidarsi necessariamente al criticatissimo metodo intuitivo, poiché esso si configura come l'unico metodo realmente utilizzabile, funzionale ed in ultima analisi, razionalmente possibile nella cornice normativa e concettuale della disciplina penale della cura e del controllo dei malati di mente. (291)

C'è anche chi non ha mancato di sottolineare come il concetto giuridico di sussistenza della pericolosità sociale connesso all'infermità al momento dell'applicazione della misura consenta di configurare un concetto di pericolosità che in qualche modo si separa dalla nozione enucleata nell'art 203 c.p., poiché, allontanandosi progressivamente dal presupposto della commissione del fatto tenderebbe ad identificarsi con la pericolosità generica del concetto “pericoloso per se o per altri”, aprendo ancora una volta a forme di diritto penale orientate all'autore. (292)

La stessa giurisprudenza sottolinea ancora come la pericolosità sia, di per se, una qualità, un modo di essere del soggetto dalla quale si deduce la probabile recidiva. (293) Anche se poi si afferma che gli indici dell'art 133 utilizzati per individuare questo modo di essere debbano essere valutati tenendo conto della dimensione situazionale, della situazione obiettiva in cui il soggetto verrebbe a vivere e quindi della presenza e della affidabilità o meno dei presidi territoriali socio-sanitari, in funzione tuttavia delle ineludibili esigenze di difesa sociale e di prevenzione cui sono tese le misure di sicurezza. (294)

Alcuni hanno proposto di sostituire alla nozione di pericolosità la nozione di bisogno di terapia o bisogno di trattamento, (295) tuttavia se essa rimane incardinata in una struttura normativa securitaria e tendenzialmente neutralizzativa, in quanto disancorata dal principio di proporzionalità legato al fatto di reato, una nozione di questo tipo rischia di imprimere i connotati di una mera medicalizzazione -quale folle non ha bisogno di una cura?- priva di un impianto di garanzia che tuteli i soggetti alla sanzione.

Si tenga anche conto che già Arturo Rocco distingueva la pena dalla misura di sicurezza in base agli “scopi di custodia, cura, educazione, di istruzione, per le quali sono disposte” (le misure di sicurezza) (296) poiché ispirate alla “rigenerazione morale e sociale” degli internati, (297) quindi la novità della definizione risulta essere solo apparente se svincolata da una riconduzione a tutti i principi costituzionali in materia penale riservati alla pena ed esclusi per le sanzioni afflittive (rectius punitive) previste per i non imputabili.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 114 del 1998, ha affermato la piena sindacabilità delle norme penali, quando si contesti la sussistenza stessa della basi scientifiche poste a base di una norma penale sia per manifesta irragionevolezza, sia per altri parametri desumibili dalla Costituzione. Tuttavia affinché si arrivi ad una declaratoria di incostituzionalità è necessario che “i dati scientifici su cui la legge riposa siano incontrovertibilmente erronei o raggiungano un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice”. (298)

Appare quindi non realistico, vista la discordanza dei pareri scientifici in tema di pericolosità, ritenere la norma costituzionalmente illegittima, sarebbe comunque auspicabile, de jure condendo, un profondo contenimento della portata applicativa, della estensione della fattispecie di pericolosità, (o del bisogno di terapia) prevedendone l'applicazione solo nel caso di reati contro la vita, l'incolumità personale o comunque caratterizzato da violenza contro le persone non di lieve entità, con la conseguenza di escludere dalla definizione di pericolosità quelle fattispecie di reato che possono modellarsi sui comportamenti molesti, ma non necessariamente criminali, tipici delle fasi acute di scompenso psicopatologico (schiamazzi, oltraggio, resistenza a pubblico ufficiale, ingiurie etc),- anche per evitare potenziali esiti tragici in fase di esecuzione provvisoria della misura di sicurezza, già accaduti in passato (299)- e prevedendo un termine massimo inderogabile di durata della stessa, come correlato logico necessario alla ratio garantista di collegamento tra pericolosità e fatto di reato. (300) Si deve tuttavia notare come la maggior parte della Dottrina sia contraria a ritenere l'internamento in Opg un sanzione di carattere punitivo. Palazzo sintetizza al meglio tale posizione contraria operando una netta distinzione tra colpevolezza - intesa come giudizio di valore, di rimprovero per il male commesso - e pericolosità - intesa come giudizio scientifico naturalistico sulla personalità finalizzato ad accertare la futura probabile recidiva -. Palazzo opera inoltre la classica distinzione funzionale tra pena e misura di sicurezza, sottolineando come la seconda non abbia carattere punitivo bensì curativo. In relazione a questa finalità esclusivamente terapeutica non potrà essere previsto un limite massimo di durata. In quest'ottica il fatto reato sarà semplicemente indizio di pericolosità, il che spiega come mai sarà applicabile una misura di sicurezza come la libertà vigilata anche alle ipotesi di quasi reato. tuttavia anche secondo questa ipotesi, ed aderendo alla teoria tripartita del reato che postula un fatto tipico ed antigiuridico, dovrà essere accertato il dolo e la colpa del non imputabile, perché questi sono necessari per creare un collegamento tra fatto ed autore. Il dolo e la colpa però assumeranno caratteri psichicamente semplificati rispetto a quelli dell'imputabile. Si fa l'esempio dello psicotico in fase acuta con perdita del senso di realtà, al quale potrà comunque essere attribuita l'intenzionalità del comportamento aggressivo pur disgiunta dalla consapevolezza della realtà che lo circonda. Palazzo comunque sottolinea come per i semi-imputabili il cumulo pena-misura di sicurezza sia estremamente discutibile, vista la tendenza della pena ad assumere connotati sempre più rieducativi e riabilitativi. (301)

7.2) Sanzione o trattamento? Il problema della durata delle misure di sicurezza. Il principio di proporzionalità della durata della misura di sicurezza

La progettazione dei templi si basa sulla simmetria, il cui metodo deve essere scrupolosamente osservato dagli architetti. La simmetria nasce dalla proporzione, che in greco viene definita analoghìa. La proporzione consiste nella commisurabilità delle singole parti di tutta l'opera, sia fra loro sia con l'insieme. Questa commisurabilità si basa sull'adozione di un modulo fisso e consente di applicare il metodo della simmetria. Nessun tempio potrebbe avere progettazione razionale senza simmetria e senza proporzione, senza cioè avere un esatto rapporto proporzionale con le membra di un ben formato corpo umano (Vitruvio, De Architectura. III libro.)

Un volta assunto che la sostanza concettuale delle misure di sicurezza per i non imputabili si fonda, così come quella della pena, su una mitologia, per così dire, feroce e reattiva che il “logos” del diritto penale tenta di metabolizzare razionalmente senza poterne mai annullare la violenza originaria si dovrà dedurre la necessità assiologica di legare agli stessi vincoli entrambe le sanzioni. Il carattere unicamente specialpreventivo delle misure di sicurezza, svincolato da una concezione polifunzionale che abbracci ogni tipo di sanzione criminale, ha comportato invece la totale indeterminatezza della durata massima delle misure detentive che potranno essere revocate solo se sia venuto meno il requisito della pericolosità ex art 207 c.p.

In questo senso la particolare durezza con cui viene giudicato il principio retributivo (302) dalla recente dottrina appare fuori quadro se si tiene conto che è proprio la prevenzione speciale, così come cristallizzata nel nostro ordinamento, a mostrare chiari intenti neutralizzativi. Essendo del tutto svincolata dal fatto e dalla colpevolezza, perché artificiosamente priva della dimensione della rimproverabilità ma non del dolo o della colpa, diventa impossibile che le esigenze di cura o rieducative che ne compongono la sostanza concettuale “rompano verso il basso il rapporto di proporzione tra pena e reato”, come invece avviene nella disciplina delle misure alternative alla detenzione.

Anche sotto questo aspetto, infatti, la disciplina delle misure di sicurezza appare in evidente contrasto con il principio di determinatezza con quello di proporzione delle pene e più latamente della sanzione criminale. (303) Essendo priva di una durata massima, la configurazione teorica della sanzione criminale dell'internamento, anche in una struttura totalmente sanitaria, oltre a violare il principio positivo di determinatezza e di proporzione della pena - intesa nel senso più ampio di sanzione criminale - risponde necessariamente ad un paradigma eticizzante e naturalistico della devianza che legittima il legislatore ad utilizzare la misura come deterrente, volto a reprimere i sintomi di una personalità pericolosa, sia essa patologica o meno.

La natura criminale, più ontologicamente punitiva che terapeutica, delle misure di sicurezza per i non imputabili - con la conseguente esigenza improrogabile di una completa estensione delle garanzie fondamentali in materia penale - viene poi prepotentemente messa in evidenza se si tiene conto che, oltre a trovare la propria causa nel fatto di reato, colto nei suoi elementi oggettivi, l'art 222 cp prevede che il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario possa essere disposto solo a fronte di un delitto doloso e che la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il dolo del non imputabile abbia una struttura identica a quella dell'imputabile, postulando che vi sia stata rappresentazione e volizione di tutti gli elementi del fatto. (304)

Si pone quindi la necessità di effettuare un contemperamento tra l'interesse pubblico alla sicurezza e l'interesse individuale alla libertà, fissando un tetto massimo oltre il quale non si possa limitare la libertà personale. Superato questo tetto il folle reo potrebbe essere indirizzato soltanto verso forme di terapia extra murarie che possano tentare una cura del folle reo che si realizzi attraverso il reinserimento sociale, (305) evitando inoltre che la funzione specialpreventiva della misura possa assumere una valenza puramente neutralizzativa. La stessa connessione della fattispecie legittimante l'applicazione al fatto di reato non potrà esplicare il suo affermato ruolo di garanzia se la sanzione prevista potrà spiegare i suoi effetti per tempi estremamente lunghi in risposta ad un fatto di lieve entità, se non bagatellare. (306)

La rieducazione o la cura devono aumentare le possibilità di reinserirsi nella società libera. Delle sanzioni indeterminate, comminate anche per reati minimi, non possono che frustrare questa finalità, cosi come violano il principio di sussidiarietà che impone che una sanzione limitativa della libertà personale debba essere utilizzata solo come extrema ratio. (307)

Il principio di proporzionalità della sanzione, inoltre, tende ad assumere nell'ordinamento una progressiva importanza anche in quanto esso viene ora riconnesso anche ad una prospettiva funzionalista legata alla finalità rieducativa della pena (308). In tal modo il principio di proporzionalità della sanzione si trasforma in requisito interno della funzione rieducativa dell'art 27 comma 3 della Costituzione che impone appunto un trattamento sanzionatorio proporzionato all'effettivo disvalore del fatto, perché solo una pena avvertita come giusta può esercitare una funzione rieducativa, e quindi impone la determinazione di un equilibrio interno alla struttura della norma, tra precetto e sanzione indipendentemente dalla necessità di un Tertium comparationis imposto dall'art 3 Cost., il principio così declinato viene esteso anche alle sanzioni amministrative in conformità alla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia in relazione all'art 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che stabilisce che “L'intensità delle pene non deve essere sproporzionata rispetto al reato”. (309)

Il principio di proporzionalità della sanzione viene inteso classicamente come espressione del principio di ragionevolezza/uguaglianza sancito dal principio di uguaglianza formale stabilito dall'art. 3, primo comma Cost. Tale principio non investe solo il profilo sanzionatorio stricto sensu ma si estende al trattamento giuridico complessivamente considerato. (310) Il principio di ragionevolezza si pone anche come argine agli eccessi repressivi dello Stato, spesso imposti dalla Ragione politica. (311)

E' attraverso il principio di ragionevolezza che la corte di Cassazione, con la sentenza n. 5001 del 2009, ha ritenuto pienamente applicabile l'indennità connessa alla riparazione da ingiusta detenzione ex art 314 e 315 c.p.p., per l'internamento in via provvisoria in un Ospedale psichiatrico giudiziario a fronte di un omessa valutazione dell'attualità della pericolosità, e quindi in assenza dei presupposti applicativi, (per altro espressamente estesi all'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza dall'art 313 c.p.p.). La Corte ha inoltre precisato:

il fatto che l'internamento in Opg abbia anche finalità curative non contrasta con tale diritto perché il trattamento sanitario obbligatorio richiede ben altre condizioni e ha una disciplina tutta diversa. La cura prestata nel caso di specie è stata determinata invece dalla relazione con il fatto reato e poteva essere disposta solo in ragione del corretto giudizio della pericolosità.

Con questa sentenza la Corte ha stretto sempre di più la misura di sicurezza detentiva nelle maglie non solo della sanzione criminale in senso lato ma anche della dimensione punitiva in senso stretto, con tutte le sue limitazioni e conseguenze, smentendo così la decisione della Corte d'Appello di Genova che non estendeva all'internamento provvisorio il diritto all'indennità anche sulla base del presupposto che “l'Ospedale psichiatrico giudiziario pur essendo definito dalla norma come ‘detenzione’ integra un tipo di ricovero che mira alla cura (...) per cui non è ipotizzabile una riparazione che trova la sua fonte in un provvedimento fondato su ragioni di cura dell'interessato”.

Il limite della tradizionale connessione tra proporzione ed intensità soggettiva della colpa, della volontà manifestata nel fatto potrebbe essere trasceso non solo dalla constatazione della psichiatria di una pacifica possibilità e terapeuticità dell'attribuzione di ampie quote di responsabilità al sofferente psichico ma anche dalla considerazione di Palazzo, secondo il quale “la portata e la vitalità del principio di proporzione sono andate molto oltre i limiti segnati dalla premessa retributiva, potendo oggi affermare che quello di proporzione è un principio generale dell'ordinamento, che si è imposto indipendentemente dall'adesione o meno all'idea retributiva”. (312) Per cui “ancorché privata di qualunque riferimento ai postulati metafisici di leggi morali universali la proporzione assurge ad autonomo principio garantista diretto ad impedire che la finalità utilitaristica della tutela della società possa innescare un'inarrestabile tendenza all'intensificazione della risposta punitiva”. (313)

La stessa distinzione funzionale tra pena e misure di sicurezza sembra attenuarsi se non sparire nella Sentenza della Corte Costituzionale n.313 del 90 che assegna anche alla pena un contenuto ontologicamente rieducativo poiché “se la finalità rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogni qual volta specie e durata della sanzione non fossero calibrate (né in sede normativa, né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto”.

E' appena il caso di notare che più si assegnano a livello teorico contenuti rieducativi alla pena, più i concreti tassi di carcerazione ed i massimi edittali sembrano aumentare, indipendentemente dai fini del giudice costituzionale.

Marinucci e Dolcini affermano che la diversità tra pena e misura di sicurezza dovrebbe fondarsi su una diversità di contenuti. Se la misura di sicurezza detentiva è una mera variante nominalistica della pena e si riduce a strumento per aggirare i principi di garanzia propri delle pene (il principio di legalità in relazione alla durata della pena, il principio di colpevolezza per le misure di sicurezza riservate agli imputabili e il principio di irretroattività) come tali dovrebbero essere considerate incompatibili con la Costituzione, in quanto nella sostanza non sarebbe altro che una pena detentiva mascherata, oltretutto indeterminata nel quantum. (314)

Questa riflessione può a mio avviso essere estesa non solo alla misure di sicurezza riguardanti i soggetti imputabili ma anche quelle previste per i non imputabili, anche dopo l'abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari, se riteniamo che l'elemento essenziale dell'afflittività della sanzione penale consista nella privazione della libertà personale a fronte di un fatto di reato di un soggetto, anche non imputabile, dotato di capacità penale. Ovvero che “La funzione punitiva è, in altri più specifici termini, la potestà di limitare il bene, costituzionalmente qualificato e protetto, 'libertà personale', quale che sia il 'campo', l'ambito materiale di esperienza comune in cui tale libertà si manifesta”. (315) Per cui non sarebbe Costituzionalmente ammissibile - anche in quanto fondato esclusivamente su una nozione amorfa di pericolosità totalmente in contrasto anche con la 180/1978 - un trattamento coercitivo, non volontario e fortemente restrittivo, carcerario o sanitario che sia, per un periodo indefinito. Si deve, quindi, in buona sostanza dedurre dall'impianto Costituzionale in tema di sanzioni criminali l'obbligo generale di imposizione di un limite massimo di durata non prorogabile per esigenze special preventive.

Su un piano di fatto la predeterminazione di un limite massimo alla durata dell'internamento o della medicalizzazione eviterebbe:

l'insorgere di quegli atteggiamenti di rassegnazione e perdita di prospettive diffusi in chi non intravede un termine allo stato di costrizione- che sfociando a seconda della personalità in contegni ora abulici, ora aggressivi, contribuiscono comunque a protrarre la permanenza presso l'Istituto. Il rischio è che in tal modo l'impotenza dell'internato, unita al noto “nichilismo terapeutico” di certe istituzioni chiuse, facciano sbiadire il legame del ricovero con il fatto commesso e con quelli temuti fino al superamento dei limiti corrispondenti alle esigenze di adeguatezza tra offesa e conseguenze sanzionatorie. (316)

Il rischio dell'inefficacia dei trattamenti (fatto probabile se si estende il difetto di imputabilità ai disturbi della personalità) ed il rischio di un errore nella diagnosi non può essere scaricato indeterminatamente sugli internati se non rinunciando agli scopi effettivamente terapeutici continuamente affermati da dottrina e giurisprudenza.

In altre parole il diritto penale non può avere compiti di supplire od addirittura vicariare le istituzioni terapeutiche. Il problema dell'abbandono del malato mentale deve trovare una soluzione più articolata e complessa rispetto alla prospettiva di una coercizione effettuata a fin di bene, in cui la sanzione penale viene vista non come extrema ratio ma come una sorta di ultima spes, illusoria e paternalisticamente distorta. (317)

Tuttavia si registra nella prassi giurisprudenziale e nella legislazione penale il percorso opposto: una sempre più marcata commistione tra due concetti teoricamente antitetici quali pericolosità e colpevolezza, proprio in virtù dell'enfasi della dimensione specialpreventiva della pena. Enfasi che, come sottolinea Palazzo, ha comportato non tanto una più razionale configurazione della dimensione rieducativa quanto “una sempre maggiore valorizzazione della pericolosità soggettiva quale criterio determinante del trattamento punitivo sia in fase di commisurazione giudiziale sia in fase penitenziaria”. (318) Si arriva quindi all'esito opposto di una erosione progressiva, nel complesso del sistema penale, del principio di colpevolezza a scapito del principio di pericolosità, declinato spesso in termini di pura neutralizzazione, che intacca irrimediabilmente i principi del diritto penale del fatto più aderenti all'impianto garantista normativo Costituzionale. La pena ha assunto sempre di più le caratteristiche più deleterie della misura di sicurezza. In entrambe le sanzioni, poi, rimane l'elemento comune dell'infliggere e del produrre artificialmente sofferenza, degradazione sociale e umana, umiliazione. Possiamo quindi chiederci, così come ha fatto William Brennan, se sia costituzionalmente legittimo che una persona venga medicalizzata dallo Stato, per un periodo indeterminato di tempo, contro la sua volontà, (magari per un fatto per cui un imputabile non verrebbe neppure imprigionato). Posto che è la “mera” privazione della libertà personale a spogliare l'individuo della sua dignità e quindi tale privazione dovrà essere vincolata a precise garanzie e limiti.

7.3) La prova della pericolosità sociale tra scienza e diritto

La necessità di razionalizzare la disciplina delle misure di sicurezza si rende ancor più urgente se si tiene conto che lo standard probatorio richiesto per l'accertamento della pericolosità sociale ex art 203 c.p. - con la conseguente applicazione sanzione criminale dell'Opg - è in pratica totalmente rimesso al criterio soggettivo del libero convincimento, al dualismo perito-giudice. Non è certo vincolato dal criterio sancito dalla regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio ex art 533 c.p.p. riservato esclusivamente al reato. (319) E, naturalmente, non si è mai registrato nessun caso in cui il giudice abbia ritenuto non applicabile la misura dell'Opg in quanto la prova della pericolosità sociale del non imputabile era insufficiente o contraddittoria ex art 530, secondo comma c.p.p., poiché la norma copre solo la sussistenza, la commissione o la natura di reato del fatto e l'imputabilità, la sola dimensione assolutoria della sentenza non la parte amministrativo/criminale della disposizione delle misure di sicurezza che, lo ripetiamo, inoltre non passa mai in giudicato. (320)

Sotto il profilo dell'ammissione della prova scientifica si deve ricordare come il codice di rito non indichi alcun criterio esplicito o diverso rispetto ai criteri ordinari di ammissibilità comuni a tutti i mezzi di prova stabiliti dagli artt. 187 e 190 c.p.p. (pertinenza, rilevanza, non sovrabbondanza e liceità). (321) Le Sezioni Unite, nell'allargare il campo del difetto di imputabilità ai disturbi di personalità, sembrano aver introdotto come criterio generale per valutare la validità scientifica di una prova “psichiatrica”, quello della generale accettazione e condivisione che tuttavia, a mio parere, oltre ad offrire un parametro circolare ed incerto, si rivela essere, al più, un criterio epistemologico a priori, per altro di tipo puramente quantitativo, che vincola la validità formale di un enunciato e non può quindi essere adottato come criterio di verifica a posteriori della verità dell'enunciato stesso. L'unica possibile verifica o falsificazione di un asserto relativo ad una potenzialità od una probabilità, al futuro, consiste infatti o nella concreta verificazione dell'evento o nella di fatto impossibile individuazione del tasso di affidabilità delle singole previsioni passate da parte dello stesso clinico/giudice. Non considerando inoltre che la validità scientifica di uno specifico accertamento per uno scopo non implica la stessa validità per altri scopi. Per cui la stessa diagnosi psichiatrica “può essere generalmente accettata per scopi terapeutici ma non per finalità forensi”. (322) Limitandosi al grado di adesione che verte su un oggetto del tutto interno e soggettivo, per questo di fatto inconoscibile ed incommensurabile, come la potenzialità interiore relativa alla commissione di reati, anche senza vittime:

il criterio rischia di tradursi in una forma di deferenza a determinati settori professionali e l'ammissibilità diventa questione corporativa. Nel processo penale in cui sono coinvolti i valori di immensa portata dell'imputato, non si può correre il rischio che il giudice faccia affidamento su teorie, tecniche test che seppure comunemente utilizzati nella prassi scientifica (in funzione degli scopi di quest'ultima) non siano poi in grado di offrire riscontri di affidabilità e di validità funzionali alla decisione giuridica e al superamento dello standard dell'oltre ogni ragionevole dubbio. (323)

Parte della dottrina ha proposto, attraverso una integrazione analogica dei criteri dettati dall'art. 189 c.p.p., (324) di utilizzare i criteri elaborati dalla Corte Suprema degli Stati uniti per l'ammissione della prova scientifica elaborate nel caso Daubert nel 1993 (ed ulteriormente allargati alle “soft sciences” nel caso Joiner 1997 e in particolare alle testimonianze di psichiatri e psicologi nel caso Khumo1999). La posizione è stata ora accolta dalla Cassazione con la sentenza n. 43786 del 2010. Nella Sentenza Daubert la Corte Suprema, partendo dal presupposto che la scienza non possa offrire certezze ma solo teorie provvisorie, superabili da metodi nuovi e in qualche modo “minoritari” che non possono trovare un'eco nel processo qualora si segua esclusivamente il criterio della “general acceptance”, afferma che la prova scientifica non solo debba essere largamente condivisa ma anche, affidabile, credibile. (325) Il giudice avrà quindi il ruolo, non più di peritus peritorum ma di gatekeeper, (326) di custode del metodo, senza entrare nel merito delle conclusioni del perito, dovrà valutare l'affidabilità della prova scientifica basandosi su criteri quali: il fatto che una teoria od un metodo siano stati testati; che la teoria o il metodo siano stati oggetto di pubblicazione ed oggetto di peer review; il loro tasso di errore potenziale, ed il grado di adesione della comunità scientifica alla teoria o al metodo. (327)

Alcuni giuristi statunitensi hanno applicato questi criteri alla pericolosità sociale psichiatrica arrivando alle seguenti conclusioni:

  1. La validità delle dichiarazioni di pericolosità sociale sono state testate?

    Si; ed i test hanno dimostrato che tali previsioni si rivelano errate nei due terzi dei casi (questa è la posizione assunta ufficialmente dall'Apa).

  2. La teoria della pericolosità sociale psichiatrica ed i metodi per accertarla sono state sottoposte a peer review e pubblicate?

    Si, e la maggior parte degli studi le considera inaffidabili, amorfe, inconsistenti.

  3. Qual è il tasso di errore?

    Dal 60% al 90% (comunque del 50% nel migliore dei casi), si veda anche punto 1.

  4. La teoria della pericolosità psichiatrica e della reale possibilità di un suo accertamento è generalmente accettata dalla comunità scientifica?

    No, la maggior parte della comunità scientifica psichiatrica l'ha rifiutata.

Se sottoposta ai criteri Daubert la nozione giuridica di pericolosità dovrebbe teoricamente essere espunta dall'ordinamento. Ancora una volta, invece, la prassi dimostra -anche negli stati Uniti- un andamento contrario. (328)

La prova della pericolosità sembra quindi, nei fatti, rivelarsi sempre più ancorata ad un principio di autorità che si auto afferma come principio di verità. Sulla base di un apparente residuo inquisitorio del processo penale, (sebbene edulcorata dalla presenza dei consulenti tecnici i parte). Si continua a supporre cioè una verità naturalistica che si fonda sostanzialmente sull'ipse dixit. E su un sistema in cui i criteri di ammissibilità ex ante, di assunzione e di valutazione ex post della prova finiscono per coincidere ed essere necessariamente vaghi ed elastici, non solo sul piano della formulazione della fattispecie astratta, ma anche sul piano della soglia di riscontro probatorio in sede processuale. (329)

7.3.1) Ancora sul trattamento. Le Sentenze della Corte Costituzionale n. 253 del 2003 e n. 367 del 2004, forme alternative di proporzionalità della sanzione e rilevanza della componente terapeutica

L'esigenza di adeguare ad una forma particolare del criterio di proporzionalità la risposta sanzionatoria nei confronti dei non imputabili viene affrontata non dal legislatore ma dalla Corte Costituzionale in due fondamentali sentenze: la 253 del 2003 e la 367 del 2004.

Già da tempo la Corte aveva incominciato ad avanzare pesanti critiche agli ospedali psichiatrici giudiziari e, più in generale, alla disciplina che prevedeva un trattamento custodiale che sviliva la cura della salute mentale imposta dall'art 32 della Costituzione, avvertendo ormai uno scarto incolmabile tra l'istituto stesso dell'ospedale psichiatrico giudiziario ed i mutamenti introdotti sin dagli anni 70 del 900 con la legge 180, e la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, (330) pur continuando ad affermare che una revisione complessiva della disciplina dei non imputabili doveva passare necessariamente attraverso il legislatore.

Una delle critiche più forti mosse in passato dalla psichiatria forense al sistema delle misure di sicurezza si concentrava sulla scelta secca e binaria che la legge imponeva al perito, una scelta in cui entrambe le opzioni non contemplavano la salute mentale dell'individuo. La liberazione senza condizioni o l'internamento in Opg. (331)

Il “nuovo” codice di procedura penale si era invece fatto carico delle esigenze cliniche degli imputati e degli indagati affetti da una malattia mentale prevedendo la possibilità di adottare in sede cautelare le misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario delle malattie mentali od il ricovero provvisorio in una struttura del servizio psichiatrico ospedaliero (artt. 73 e 286 c.p.p.), aumentando ancora di più l'incongruenza della disciplina sostanziale. Se il canone ordinario previsto per la cura del malato mentale nel nostro ordinamento è totalmente volta a contrastare qualsiasi forma di internamento, considerato ex se antiterapeutico, gli Opg si presentano invece come gli ultimi monolitici residui di un trattamento che fa della neutralizzazione la sua unica reale risorsa.

Già con la sentenza n. 324 del 1998 la Corte aveva sancito l'illegittimità Costituzionale dell'art 222 I e II comma nonché degli artt. 222 comma IV e 206 c.p., nella parte in cui disponeva l'applicazione della misura dell'Ospedale psichiatrico giudiziario anche ai minori sulla base della constatazione che tale misura era di natura “detentiva e segregante” e non rispondente alle esigenze di cura che dovrebbero essere proprie di tale istituto.

Tanto più dopo che il legislatore, recependo le acquisizioni più recenti della scienza e della coscienza sociale, ha riconosciuto come la cura della malattia mentale non debba attuarsi se non eccezionalmente in condizioni di degenza ospedaliera, bensì di norma attraverso servizi e presidi psichiatrici extra-ospedalieri, e comunque non attraverso la segregazione dei malati in strutture chiuse come le preesistenti istituzioni manicomiali (artt. 2, 6 e 8 della legge 13 maggio 1978, n. 180). Né, più in generale, è senza significato che il legislatore del nuovo codice di procedura penale, allorquando ha inteso disciplinare l'adozione di provvedimenti cautelari restrittivi nei confronti di persone inferme di mente, abbia previsto il ricovero provvisorio non già in ospedale psichiatrico giudiziario, ma in “idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero” (art. 286, comma 1; e cfr. anche art. 73).

Parte della dottrina ritenne che lo stesso principio avrebbe potuto estendersi anche ai non imputabili maggiorenni. (332)

Con la fondamentale sentenza 253/2003 la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 222 del codice penale nella parte in cui non consente al giudice di adottare in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.

Per la prima volta la Corte infrange il rigido sistema sanzionatorio riservato a tutti i non imputabili, aprendo la strada a trattamenti che non contemplino una struttura punitiva e segregante come l'Opg e maggiormente conformi alle moderne risposte terapeutiche alla sofferenza psichica. (333)

Partendo dal presupposto che in un ordinamento ispirato al principio personalista come sancito dall'art. 2 Cost. le misure di sicurezza nei confronti degli infermi di mente possono essere legittime solo se al contenimento della pericolosità sociale sia collegata inscindibilmente la cura adeguata della malattia mentale, si conclude che una misura che privilegiasse una funzione a scapito dell'altra non sarebbe costituzionalmente ammissibile. Precisando inoltre che la tutela della salute si configura come un diritto fondamentale dell'uomo per cui una misura che arrivasse ad una lesione di un bene così fondamentale non potrebbe trovare alcuna giustificazione razionale anche se si fondasse sull'esigenza della salvaguardia della collettività. Per cui una norma che imponga al giudice di comminare la reclusione in un ospedale psichiatrico giudiziario e non preveda la possibilità di applicare misure meno afflittive come la libertà vigilata, quando questa sia in concreto maggiormente idonea ad assicurare la cura ed al contempo a fronteggiare la pericolosità sociale, non può che essere in contrasto con l'art 32 della Costituzione. Presentando anche una duplice irragionevolezza: una legata al fatto che la norma impone un trattamento uniforme a situazioni diversissime legate alle molteplici forme e manifestazioni della malattia mentale (molteplicità aumentata anche dal definitivo ingresso nel campo del difetto di imputabilità dei disturbi della personalità). Ed una sistemica, legata al rigida imposizione dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, senza alcuna alternativa, a fronte dell'accertamento della sussistenza della pericolosità. (334) Una tale rigidità del sistema sanzionatorio lede una particolare declinazione, per cosi dire “interna”, del principio di proporzionalità: l'equilibrio necessario tra dimensione medico terapeutica e dimensione securitaria e neutralizzativa.

Un'istituzione totale come il manicomio giudiziario, sia esso ospedale o casa di cura e di custodia, così drammaticamente proteso verso la pura funzione neutralizzativa si rivela persino capace di ledere, talvolta irrimediabilmente, il diritto alla salute, sancito dall'art 32 della Costituzione ed oggetto cui dovrebbe tendere il trattamento implicitamente sotteso alla disposizione dell'art 222 c.p. Il diritto alla salute, la sua concreta tutela, passa quindi dal ruolo formale di limite al contenuto e alle modalità di trattamento al ruolo centrale di vero e proprio scopo principale del trattamento giuridico. Il trattamento dovrà quindi essere astrattamente funzionale e concretamente adeguato alla tutela della salute mentale del prosciolto. Si afferma per la prima volta in modo chiaro, netto, il primato del diritto alla salute rispetto alle istanze di difesa sociale. Gli Opg, come qualunque altra struttura chiusa e segregante, anche totalmente sanitaria, potranno (o dovrebbero) essere utilizzati solo come extrema ratio, solo per i casi ed i tempi strettamente necessari. (335)

Anche perché per la Corte, secondo una visiona forse troppo astratta ed idealizzata rispetto alle risposte istituzionali nei confronti del reo folle:

i soggetti gravemente infermi di mente non sono in alcun modo penalmente responsabili e dunque non possono essere destinatari di misure avente un contenuto anche solo parzialmente punitivo, La loro qualità di infermi richiede misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici. (336)

Viene attenuato quindi il rigore di una norma che impone “sotto le vesti di una misura di sicurezza le spoglie” di una vera e propria “pena manicomiale”. (337)

Una pena manicomiale che comunque continua ad esistere.

Il merito della sentenza risiede nell'aver scorporato e nettamente separato, per la prima volta nel panorama dogmatico penale, i concetti di cura e di custodia, nell'averli per cosi dire isolati prima di affermarli connessi, impedendone quella commistione che era stata il nucleo originario dell'impalcatura non solo della struttura manicomiale ma dell'intero sistema delle misure di sicurezza sin dalla loro genesi. La Corte ne afferma la connessione ma nel far questo li separa. Sancisce, ripetendo quanto affermato nella 139/1982, l'inscindibilità delle due esigenze, delle due finalità suggerendone tuttavia una netta distinzione. Vi sono due dati esistenti e reali da prendere in esame: la malattia (o sofferenza) mentale; la reazione della collettività di fronte al delitto. Esistono poi due correlati concetti normativi: il diritto alla salute; la pericolosità. Il primo si inserisce armonicamente nella struttura logica dell'ordinamento, il secondo, se declinato ancora nel senso attuale, rivela ancora tutta la sua irrazionalità. Una irrazionalità non legata solo all'ombra ingombrante del manicomio giudiziario, alla concretezza dell'istituzione totale, ma estesa a tutto il reticolo astratto della sua configurazione, dagli elementi che la costituiscono, ai metodi per accertarla, agli effetti che ne derivano. La continua rimozione del contenuto punitivo connesso alla difesa della collettività consente la totale elusione di ogni ordinario diritto di garanzia dei soggetti sottoponibili alla sanzione. Il poter, ora, non solo affermare il primato del diritto alla salute, ma anche individuare separatamente il correlato delle istanze di sicurezza connesso alla commissione di un reato potrebbe consentire una seria riflessione circa il ripensamento della dimensione punitiva delle misure, impedendo le consuete mimetizzazioni dietro le affermate esigenze specialpreventive della cura.

Vi è stato chi, pur accogliendo favorevolmente la decisione ha sostenuto che attraverso di essa si arrivi ad un vero e proprio snaturamento dell'istituto della libertà vigilata, poiché essa si fonda sul presupposto della capacità di autodeterminazione del soggetto destinatario, come dimostrato dagli artt. 190 disp. att. c.p.p., 212, comma 4, c.p. e 231 c.p. che presuppongono la capacità di autodeterminazione, di scelta e di movimento del destinatario della misura. Snaturamento che viene comunque accettato in quanto conforme ad una interpretazione evolutiva costituzionalmente orientata delle norme in questione e dal fatto che da anni ormai, è dato acquisito che le terapie psichiatriche siano più efficaci se fornite in situazioni aperte. (338)

A me pare che tale posizione possa essere messa in discussione anche nei suoi presupposti. Da un punto di vista giuridico normativo si può obiettare infatti: 1) che la libertà vigilata è già astrattamente applicabile al non imputabile nei casi di reato impossibile; 2) che la mancanza di autodeterminazione è circoscritta dall'art. 85 c.p. al momento della commissione del fatto non esistendo alcuna presunzione di persistenza di tale incapacità nell'ordinamento; 3) che già l'art. 55 dell'Ordinamento penitenziario prevede che i Servizi Sociali debbano svolgere una attività di supporto sostegno ed assistenza nei confronti di coloro che sono sottoposti alla libertà vigilata e che tale previsione possa agevolmente essere estesa ai Servizi Sanitari (anche in una attività in concerto fra i due servizi, vista l'ampliamento della nozione di pericolosità ai fattori genericamente situazionali). 4) che anche dal punto di vista civile gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione sono superati dalla previsione normativa dell'amministratore di sostegno che presuppone la non totale privazione della capacità d'agire del malato mentale.

Da un punto di vista psichiatrico si può invece affermare, non solo la maggior efficacia del trattamento in libertà, ma anche la sostanziale antiterapeuticità dell'internamento se non la sua valenza patologica. Si può poi affermare che la capacità di autodeterminazione non può essere aprioristicamente negata clinicamente sulla base della malattia mentale, salvo casi rarissimi, anzi il riconoscimento dell'autodeterminazione del sofferente psichico è il paradigma centrale di una psichiatria che non voglia strumentalizzare il paziente, come dimostra anche l'iter che ha portato alla 180 del 1978.

Inoltre con questa decisione si supera tendenzialmente una incoerenza creatasi nell'ordinamento che prevedeva per il sofferente psichico autore di reato, per il quale non fosse stata stabilita la mancanza di imputabilità, la possibilità di fruire un trattamento ambulatoriale o il ricovero in una struttura psichiatrica “civile” sulla base degli artt. 73 e 286 c.p.p. per poi dover essere necessariamente internato in un Opg qualora venisse assolto e dichiarato pericoloso. (339) Situazione ancor più irrazionale se si prende in considerazione il fatto che è impossibile stabilire una relazione causale tra malattia mentale e crimini violenti. (340)

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n 253, si fa carico di questa incongruenza affermando l'opportunità di una integrale riforma del sistema delle misure di sicurezza da parte del legislatore. “In particolare di quelle destinate ai sofferenti psichici fagocitati dagli ingranaggi del sistema penale”. (341) Il meccanismo scelto dalla Corte per arrivare ad una valorizzazione della componente terapeutica delle misure riservate ai non imputabili consiste nell'ampliare il ruolo del giudice, nell'aumentare la sua discrezionalità, estendendola alla “determinazione in concreto della misura”. Bilanciando in tal modo la discrezionalità amministrativa e securitaria della dichiarazione di pericolosità, con una discrezionalità in funzione di garanzia, di protezione del diritto individuale alla salute ex art. 32 Cost. Una discrezionalità vista come espressione dell'esigenza di un bilanciamento concreto tra diversi e spesso confliggenti valori costituzionali e come garanzia di certi diritti fondamentali nei confronti dei quali il Parlamento si rivela incapace di porsi come esclusivo garante. (342)

L'introduzione della libertà vigilata ex art. 228 c.p. apre un ventaglio di percorsi terapeutici che consente un trattamento progressivo e differenziato, (343) in questo senso possiamo parlare di proporzionalità della sanzione giuridica in senso lato.

Di fatto la sentenza ha consentito che la magistratura - anche di sorveglianza - garantisca, attraverso la concessione della libertà vigilata in luogo dell'internamento in Opg, che non si interrompano quei rapporti spesso intercorrenti tra reo-malato e servizi psichiatrici, per la continuazione di un programma terapeutico, sovente in atto, che invece sarebbe troncato di netto a seguito del ricovero in Opg, vista la concreta mancanza di coordinamento tra Servizi psichiatrici territoriali ed Opg stessi e stante la possibilità di venire internati in strutture fuori dalla regione di appartenenza. Per far questo la magistratura ha incluso nella misura della libertà vigilata prescrizioni accessorie quali:

“l'obbligo di mantenere i contatti con il Centro di servizio sociale per adulti territorialmente competente secondo la frequenza che sarà stabilita dal Centro stesso e comunque non meno di una volta al mese” e “l'obbligo di mantenere costanti contatti con il servizio psichiatrico pubblico competente per territorio secondo la frequenza indicata dai relativi operatori e di seguire scrupolosamente le indicazioni terapeutiche dei medesimi operatori” (344)

Si deve sottolineare come parte della magistratura di sorveglianza seguisse già da molto tempo un indirizzo interpretativo sulla base del quale si provvedeva alla immediata sostituzione della misura detentiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (o della casa di cura e di custodia) con la libertà vigilata con prescrizioni terapeutiche se questa fosse stata più adatta alle esigenze terapeutiche del sofferente psichico.

L'art 207 c.p., infatti, conferisce al giudice di sorveglianza il potere di revoca delle misure di sicurezza personali. La norma è stata interpretata dagli stessi magistrati nel senso che l'ampio potere di revoca contenga in se anche il meno ampio potere di trasformazione o di sostituzione con una misura meno afflittiva. Rendendo l'internamento in Opg disposto in sede di cognizione già modificabile in sede di accertamento ex art 679 c.p.p. (345)

Si deve registrare una certa timidezza da parte dei giudici di cognizione nel recepire la decisione della Consulta disponendo molto spesso in luogo dell'internamento in Opg il ricovero in casa di cura e di custodia ex art. 219 c.p., vista come misura intermedia nonostante il fatto che in realtà le case di cura e di custodia per cosi dire autonome e distinte dall'ospedale psichiatrico giudiziario non esistono, essendo delle Sezioni specializzate all'interno degli stessi Opg, riducendo ad un espediente nominalista l'affermata mitigazione della sanzione (cfr. art. 62 Ord. Pen.). (346)

Un altro orientamento giurisprudenziale ha invece tentato una via intermedia disponendo la libertà vigilata in luogo dell'internamento in OPG da scontare tuttavia in una “comunità terapeutica protetta e chiusa” con “l'obbligo di risiedere e di non allontanarsi dal luogo di cura”. La Cassazione ha però spesso annullato tali decisioni, perché non ritenute conformi a quanto disposto dalla Consulta con la sentenza 253/2003 ed in quanto contrastanti con il principio di legalità poiché produttivi di una misura di sicurezza non prevista dalla legge. (347)

Con la ulteriore sentenza n. 367 del 2004 la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 206 c.p. nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge, idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate e a contenere la sua pericolosità sociale. Ammettendo, in tal modo, anche in sede di applicazione provvisoria la possibilità di fruire di una misura meno afflittiva.

Il discrimine che segna l'applicazione dell'art. 206 in luogo delle norme relative alla misura cautelare dettate dall'art. 286 c.p.p. poggia ancora su una differente nozione di pericolosità. Se si ha una malattia mentale e si sia imputati in un processo penale si può essere “trattati civilmente” secondo quanto stabilito dall'art. 286 c.p.p. solo se, secondo il giudice che ha la disponibilità del procedimento, la pericolosità sia specifica, conforme a quella stabilità dalla lettera c dell'art. 274 c.p.p. o vi siano le altre esigenze cautelari previste dalla norma.

Se invece il giudice ritenga vi sia una generica pericolosità psichiatrica applicherà l'art 206. (348) Entrambi i provvedimenti sono assunti, sulla base di una richiesta del Pubblico Ministero con ordinanza, la cui efficacia è subordinata all'interrogatorio nel termine di cinque giorni dell'indagato/imputato per la verifica della sussistenza delle condizioni che hanno giustificato il provvedimento ex art. 294 c.p.p.

La Corte ha applicato a fortiori il principio espresso nella sentenza n. 253/2003, dato che sarebbe stato irragionevole consentire la possibilità dell'applicazione della libertà vigilata ad un soggetto cui veniva attribuita “definitivamente” la commissione di un fatto (pur con una sentenza di proscioglimento) e invece preclusa in una fase in cui l'accertamento si fosse limitato ai gravi indizi della commissione del fatto (artt. 313 e 292 c.p.p.). (349)

Si deve notare come all'applicazione della misura di sicurezza provvisoria non sia estensibile la disciplina relativa ai limiti massimi della custodia cautelare, essa quindi potrà durare per un tempo indeterminato fino alla conclusione del processo, poiché la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 148/1987, (350) ha affermato la non estensibilità della normativa, perché l'art. 273 c.p.p. richiede gravi indizi di colpevolezza e di conseguenza non è applicabile ai non imputabili, pur facendo riferimento, lo ricordiamo, ad una misura provvisoria cioè applicata molto prima di una sentenza dichiarativa l'eventuale difetto di imputabilità.

L'applicazione provvisoria della misura di sicurezza si rivela essere un campo particolarmente delicato anche perché, nella prassi, si registra spesso una sorta di dispersione negli accertamenti dell'autorità inquirente. Visto che tali accertamenti devono muoversi verso due orizzonti diversi: l'accertamento della commissione del fatto e l'accertamento dello stato mentale dell'indagato imputato. Spesso l'accertamento della imputabilità finisce per assumere un ruolo totalizzante con un grave danno per l'imputato che “potrebbe essere prosciolto perché il fatto non sussiste e che, invece, all'esito di una perizia, si vede applicare una misura di sicurezza”. (351) Inoltre a seguito di un'applicazione provvisoria dell'internamento dell'Opg ex art. 206 c.p. non si può fruire delle misure alternative (semilibertà e licenze ex artt. 50-53 OP) previste a seguito dell'internamento “definitivo” (in conformità con quanto previsto per le misure alternative per gli imputabili).

Alla luce di quanto detto emerge come la limitazione della libertà personale legata ad un internamento provvisorio possa durare per tempi molto lunghi. Il fatto che essa non sottostia ai limiti temporali stabiliti per la custodia cautelare; la circostanza che il difetto di imputabilità non possa avvenire attraverso un decreto di archiviazione od una sentenza di non luogo a procedere comporta che spesso, quando il magistrato accerta la sussistenza della pericolosità ex art. 679 c.p.p., il periodo minimo di internamento sia già interamente trascorso. (352)

Tenuto conto del fatto che gli internati attraverso la misura di sicurezza provvisoria ex art 206 c.p. costituiscono mediamente circa il 30% della popolazione degli Opg (una percentuale quasi identica rispetto agli internati ex art 222 c.p.) si può notare come la sentenza n. 367/2004 non sia affatto secondaria rispetto alla 253/2003. (353)

Sul piano processuale è quindi ora possibile che sia il giudice procedente, sia il Tribunale della libertà in sede di impugnazione ex art. 309 c.p.p. e 310 c.p.p. possano disporre la libertà vigilata con le opportune prescrizioni. Inoltre attraverso questo ampliamento delle misure applicabili potrebbe essere meglio soddisfatta quella esigenza di proporzionalità dettata come criterio di scelta delle misure cautelari disposta dall'art. 275 c.p.p., secondo comma, che impone al PM. che ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata e che attualmente viene molto spesso disattesa nella prassi, quantomeno relativamente agli imputabili. (354)

Se si segua l'orientamento di Grevi sarà precluso al giudice, in quanto inammissibile per carenza della richiesta, disporre la più afflittiva misura dell'internamento in Opg qualora il PM si sia limitato a chiedere l'applicazione provvisoria e cautelare della libertà vigilata. (355)

Sulla base di queste premesse si potrebbe concludere che l'Opg od ogni altra forma di ricovero in struttura chiusa “dovrebbe essere utilizzato solo per i casi e per il tempo strettamente necessario a scongiurare situazioni di pericolo per l'altrui incolumità”. In attesa di una più ampia riforma di tutto il sistema delle misura di sicurezza, non limitata alle modalità di espiazione della sanzione, con particolare riferimento a quelle destinate ai sofferenti psichici cosi come auspicato dalla stessa Corte Costituzionale. (356)

8) Il trattamento: l'Ospedale psichiatrico giudiziario. Teoria e prassi

8.1) Teoria

L'ospedale psichiatrico giudiziario si staglia quindi all'orizzonte come un poliedro di significati di proiezioni e di interpretazioni che non hanno scalfito la sua struttura costitutiva, la sua sostanza, le pratiche che lo caratterizzano. Una istituzione totale che vive ai margini del diritto penale in quanto cura e vive ai margini dei servizi sanitari perché punizione. E che, vivendo in una zona totalmente propria, ha creato un sistema di regole autonome ed originali, funzionali alle sue esigenze.

Un sistema razionale ma fortemente impregnato da connotazioni materiali (la cura, la rieducazione, il trattamento dell'antisocialità), coerente e per questo regolare e costante: ordinato.

Possiamo cercare di riassumere analiticamente alcuni dei principi regolativi dell'Istituzione.

Il primo principio fondamentale è costituito dall'elasticità dei principi di regolazione delle modalità di ingresso dell'utenza, per ottenere questa elasticità si enfatizza lo status soggettivo da affiancare in posizione di parità rispetto all'effrazione. Il corollario più efficiente conseguente alla enfatizzazione dello status soggettivo risulta quello derivante dalla commistione tra status patologico e immoralità o “laicamente” antisocialità. La commistione tra antisocialità e patologia consente a sua volta l'accettabilità sociale di una pratica che sia al contempo terapeutica e punitiva, anzi consente che terapia e punizione possano non solo fondersi ma anche mimetizzarsi, scambiare il loro ruolo.

La commistione comporta che i contorni del sistema di imputazione delle sanzioni possano essere ampi e variabili non solo storicamente ma anche secondo specifiche e contingenti esigenze di controllo sociale. Addirittura potremmo con una certa radicalità affermare che l'applicazione della fattispecie al caso concreto può in alcune ipotesi sfuggire sia al principio logico di identità sia a quello conseguente di non contraddizione, dato il paradigma epistemico delle categorie normative e cliniche di imputazione delle misure di sicurezza per i non imputabili onnicomprensivo e variabile.

Da tale fusione deriva inoltre l'inopponibilità dei limiti correlati alla sanzione penale ad un trattamento che si declina, in quello specifico frangente, curativo, che quindi legittima la disparità di trattamento con i semplici rei. Sarà quindi fisiologico un certo numero di lunghi internamenti a fronte di reati di scarsa rilevanza, in coerenza allo spirito curativo dell'internamento che neutralizza ma non punisce. L'internamento è afflittivo senza affliggere.

Dalla commistione semantica della cura e della custodia deriva anche l'attribuzione ai medici non dei soli obblighi del farsi carico di un disagio, dell'assunzione di responsabilità terapeutica ma anche di un mandato di neutralizzazione dettato da esigenze di sicurezza sociale, di fatto punitiva. che legittima la disparità di trattamento con i “semplici malati”. Sarà quindi “naturale” la privazione della libertà personale stante l'antisocialità del comportamento “oggettivamente e patologicamente” criminale. L'internamento tutela la collettività e l'ordine sociale. E' presupposto necessario per l'operatività del sistema di principi che regolano il sistema punitivo l'incapacitazione del malato. Tale diminuzione di status infatti è la conditio sine qua non della modifica del sistema regolativo del soggetto, che consentirà da una parte di curare e di punire, dall'altra di non scomporre concettualmente e giuridicamente le due nozioni come invece dovrebbe essere conseguente al nuovo statuto normativo del folle in ambito civile post 180.

Una simile architettura ha necessariamente l'esigenza di appoggiarsi ad un sistema normativo improntato prioritariamente od esclusivamente sulla specialprevenzione, poiché questa consente maggiore elasticità ed è funzionale in pari misura alla neutralizzazione ed alla rieducazione, alla sanzione ed alla cura, senza bisogno scindere le due nozioni da un punto di vista astratto, concettuale e normativo. Un'elasticità che creerà nell'internato una condizione di sospensione e di totale incertezza poiché, il non sapere quando la pena dell'internamento finirà, renderà ogni aspetto della vita del soggetto provvisoria. Aumentando la sua difficoltà di creare uno spazio, fisico e psicologico, privato e personale che potrà creare, quindi, esclusivamente attraverso il rifugio della produzione psicotica o in un continuo esercizio di riduzione di sé, per la salvaguardia di un brandello della propria dimensione umana. (357)

Solo attraverso il paradigma teorico della prevenzione speciale la pratica asilare potrà trovare una relazione di senso -univoco ed imposto- con l'internato, poiché tale paradigma elimina l'inconciliabilità tra “voler far bene e intenzionalmente far del male”, tra “sanzione e volontà di aiuto sociale” e terapeutico, tra “etica e diritto”, tra “libertà e coazione alla virtù”. (358) “L'internamento è un processo dialettico in cui nessuna spiegazione è più richiesta, poiché una benevola commiserazione distrugge ogni possibilità di confronto, Il malato è assecondato e non più contraddetto dal mondo circostante, che non lo mette più in condizione di essere responsabile di un gesto o di una frase”. (359)

La fattispecie normativa porrà la sanzione nell'unico modo possibile: limitando la libertà personale, aggiungendovi una forte perdita di status (superiore a quella derivante dalla sanzione penale ordinaria) e rimanderà la definizione dei contenuti della cura al contesto culturale medico di quello specifico momento storico, che sarà però obbligato a muoversi entro la cornice concettuale securitaria stabilita dalla norma penale. “Il reo non viene inviato in carcere perché non può comprendere ciò che significa pena e rieducazione. Viene allora inviato in un manicomio giudiziario, dove sotto forma di cura espia in realtà una pena che capisce ancor meno”. (360)

Dal punto di vista istituzionale diviene irrilevante se le strutture di esercizio del contenimento siano di gestione sanitaria o penitenziaria purché in entrambi i casi si possa esercitare le pratiche di gestione dell'internato con elasticità e che tali pratiche vengano viste da un punto di vista sociale, culturale e giuridico come svolte negli interessi del destinatario oltre che della collettività, che quindi saranno portatori di un interesse visto e legittimato come comune: “ciò che è dannoso per l'alveare è dannoso anche per l'ape”, ha sostenuto di recente il Direttore Sanitario di una comunità di accoglienza per folli rei. Questa identità di interessi, rappresenterà il nucleo forte delle possibilità di neutralizzazione ed incapacitazione del soggetto.

Nel suo interesse verrà cosi praticata anche la più invasiva e violenta forma di neutralizzazione prevista, ma blandamente regolata, dal nostro ordinamento: la contenzione psichiatrica. La totale perdita della disponibilità del proprio corpo. Stretto in cinghie. Incatenato.

La base teorica giustificativa sul piano assiologico di questo sistema si fonda quasi sempre su fondamenti costituiti sul comune sentire o sul pragmatismo, su un realismo legato spesso anche ad un cardine morale fondato sulla volontà di cura degli ultimi, i quali però, si badi bene, dovranno e in quest'ottica non potranno che rimanere ultimi.

Il voler privilegiare il momento della cura sul contenimento non scalfisce alcuno di questi principi fondanti, poiché ci si muove ancora in un ambito semantico che ancora oggi risulta indifferenziato.

Un sistema normativo penale che parta da questa esigenza non muterà, né migliorerà, né gli elementi costitutivi, né gli effetti normativi ed afflittivi, né le pratiche istituzionali tradizionalmente legate al folle reo. Il puntare tutto sul potenziamento del trattamento medico non è da solo indicatore di un trattamento più conforme alla dignità della persona, come dimostra chiaramente l'esperienza del manicomio.

Né si può pensare che una miglior tutela della posizione dell'internato, e più in generale, il rapporto tra psichiatria e giustizia, possa essere rimesso o dipendere esclusivamente dalla posizione umana culturale o di ruolo che lo psichiatra assume nei confronti del fatto-reato o nei confronti dell'internato. Per cui le “buone pratiche” renderebbero realizzata la “vera” funzione della special prevenzione, facendo venir meno ogni componente afflittiva all'internamento, realizzando l'ideale della non punibilità e della presa in carico “terapeutica” e quindi “etica” dell'irresponsabile.

L'Opg, magari trasformato in piccola struttura chiusa prevalentemente od esclusivamente sanitaria viene secondo quest'ottica accettato perché in fondo esso costituirebbe l'ultima spiaggia per soggetti respinti dal DSM o dal carcere. Un tale impianto di argomentazioni non è idoneo a giustificare un sistema normativo afflittivo, quale quello predisposto dalla attuale disciplina delle misure di sicurezza, fortemente discriminatoria e, a mio avviso, in aperta violazione dei principi di uguaglianza formale, di ragionevolezza e di proporzionalità, perché tale violazione si concretizza non in relazione alle esigenze terapeutiche od alle istituzioni, segreganti od umanitarie che siano, dove le misure devono essere eseguite ma in relazione alla dimensione puramente sanzionatoria della normazione criminale, strettamente afferente alla sua connotazione punitiva che non può essere edulcorata od affogata nel mare delle buone intenzioni.

8.1.1) Un esempio di riforma spiccatamente special preventiva della sanzione criminale del folle reo: la proposta della Fondazione Michelucci

Il primo accademico che visitai aveva il volto magro e spaurito da far compassione, la barba e i capelli incolti, la pelle color tabacco, e gli abiti e la camicia del colore stesso della pelle. Egli da otto anni si perdeva dietro un progetto consistente nell'estrarre i raggi del sole dalle zucche, affinché fosse possibile, dopo averli chiusi in boccette ermeticamente tappate, di servirsene per riscaldare l'aria nelle stagioni fredde e umide. Mi disse che sperava, entro i prossimi otto anni, di fornire ai giardini del governatore dei raggi solari a un prezzo conveniente. Si lamentò però d'esser povero, e mi chiese qualche soldo a guisa d'incoraggiamento, tanto più che le zucche erano piuttosto care quell'anno. (Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver)
Si credeva che Apollo, dio della medicina, fosse anche quello che mandava le malattie: in origine i due mestieri ne formavano uno solo; è ancora così. (Jonathan Swift, Pensieri su vari argomenti)

Un esempio di questa eterogenesi dei fini può essere rinvenuta nella proposta di legge predisposta dalla Fondazione Michelucci presentata dal Consiglio regionale della Regione Toscana ed Emilia Romagna che, dichiaratamente rivolta ad un miglioramento della dimensione specialpreventiva ed univocamente finalizzata ad umanizzare il trattamento del malato mentale autore di reato, concentrandosi esclusivamente sulle condizioni materiali di internamento e sulle modalità di cura, enfatizzava involontariamente i profili sanzionatori ed afflittivi della misura di sicurezza.

La proposta infatti si proponeva di costruire un sistema di misure eterogeneo e differenziato, maggiormente aderente alla differente tipologia ed intensità della malattia mentale che non prevedesse più il manicomio come struttura totalizzante, in favore di una “psichiatria della differenza”. (361)

Nel far questo manteneva praticamente inalterata la categoria della pericolosità sociale (art 3) che non solo legava agli indici indicati dall'art 133 c.p. ma anche ad ulteriori criteri, quali:

  • la circostanza che il reato rappresentasse reiterazioni di condotte di particolare rilievo, con ciò conferendo rilievo a condotte di per se non penalmente rilevanti, che, se poste in essere da soggetto imputabile sarebbero prive di qualsivoglia effetto penale (art 3)
  • ai possibili interventi terapeutici, nel senso di collegare il giudizio di pericolosità alla dimensione situazionale e concreta legata ai rapporti con i servizi psichiatrici e le comunità terapeutiche per cui si positivizzava, e quindi si rendeva giuridicamente ammissibile e legittimo che l'eventuale carenza dei servizi stessi incidesse, imponendo la proroga della misura dell'internamento, sullo status del soggetto, legittimando discriminazioni personali su base territoriale, già molto diffuse nella prassi, legate alle differenti pratiche operative dei DSM e delle ASL di appartenenza, scaricando totalmente le inefficienze del sistema e l'insipienza degli operatori sociali sul sofferente psichico, che sarebbe stato così “responsabile” non solo per fatto proprio ma anche, per così dire, a causa dell'imperizia, imprudenza, negligenza altrui o addirittura per forza maggiore o caso fortuito, impedendo cosi la possibilità di far venir meno sotto il profilo della carenza o dell'illogicità della motivazione, ora astrattamente possibile a legislazione vigente, l'eventuale provvedimento di proroga della misura di sicurezza del magistrato di sorveglianza che addossasse la proroga stessa a carenze sistematiche e non a condizioni patologiche.

Sotto il profilo delle sanzioni la proposta prevedeva tre tipi di misure: un istituto sanitario chiuso, l'affidamento ai servizi sociali per adulti ed il carcere.

I. Un “istituto” di ridotte dimensioni con un numero massimo di trenta letti dove si assicurava al contempo la funzione terapeutica e la funzione di custodia del malato. La gestione terapeutica era affidata al Servizio Sanitario Nazionale. L'assegnazione all'istituto era prevista per i soggetti avessero commesso un fatto per cui si prevedesse una pena superiore nel massimo a dieci anni.

II. L'affidamento ai servizi sociali per adulti di cui all'art 72 della legge 354/1975 con l'obbligo dell'interessato a seguire un programma terapeutico proposto dal servizio pubblico. nelle ipotesi in cui si fosse commesso un fatto per cui era prevista una pena inferiore ai dieci anni e superiore ai due anni.

Questa netta distinzione trovava però un'eccezione: il magistrato poteva infatti disporre anche in questo caso l'assegnazione in istituto “chiuso” sulla base di una clausola doppiamente generale: sotto un primo profilo era generale in quanto la scelta lessicale della norma risultava particolarmente infelice, affermando tale necessità sulla base di una locuzione molto generica: “se ricorrono particolari indicazioni in senso contrario”. Sotto un secondo profilo perché, nel tentativo di precisare il contenuto di queste indicazioni particolari, si faceva riferimento alla nozione di pericolosità dell'art. 3 della proposta che di fatto era stata molto allargata rispetto alla originaria definizione del codice Rocco, includendo quella che viene definita pericolosità situazionale ma che, cosi declinata non serviva in senso “de-stigmatizzante” ma finiva, come abbiamo visto, con l'amplificare il ventaglio delle possibilità di neutralizzazione del malato mentale su cui si scaricava non solo il disagio sociale ma anche gli eventuali disservizi pubblici.

III. Il carcere a tempo indeterminato.

L'aspetto a mio avviso maggiormente controproducente in un ottica di tutela delle garanzie di libertà del malato di mente autore di reato risiede nella circostanza che all'art 5 comma 6 il progetto prevedeva che a fronte di “eccezionali esigenze di sicurezza” il soggetto potesse essere assegnato con provvedimento del magistrato di sorveglianza sentito il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria in un istituto di pena, in un carcere, sebbene dotato di un centro psichiatrico di diagnosi e cura disciplinato dallo stesso progetto di legge all'art. 12.

Il provvedimento sarebbe stato reclamabile ex art. 14 ter l. 354/1975 ed il soggetto si sarebbe dovuto reputare a tutti gli effetti sottoposto a misura di sicurezza.

Ci troviamo per la prima volta di fronte ad una misura di sicurezza, quindi totalmente elastica poiché terapeutica, eseguita in una struttura carceraria, quindi sostanzialmente punitiva, presa con un provvedimento giurisdizionale assunto anche su parere dell'esecutivo, quindi in violazione del principio di separazione dei poteri dello Stato. Forse la più grande, dettagliata, ed invasiva misura di sicurezza mai concepita nel nostro ordinamento. Una forma di neutralizzazione penitenziaria, elastica ed indeterminata, di competenza “quasi congiunta” giurisdizionale/amministrativa.

Nel caso si fosse commesso un fatto per cui fosse prevista una pena inferiore ai due anni le misure di sicurezza non si applicavano ma si segnalava il soggetto ai servizi sanitari.

Proprio nella sua ottica specialpreventiva e terapeutica la proposta non contemplava alcun limite massimo alle misure di sicurezza.

8.2) Prassi

L'ospedale psichiatrico giudiziario può strutturarsi sul piano pratico enfatizzando il contenimento sul trattamento (362) perché i due aspetti rimangono fusi non solo nella prassi ma anche teoreticamente. L'aspetto della patologia che assume rilevanza è il comportamento pericoloso, asociale, in conformità a criteri di selezione e tecniche predittive inadeguate e terapeuticamente inutili se non dannose. (363) Il trattamento disposto dallo psichiatra non può che ricondursi all'etichettamento delle condotte disturbanti:

questo nella più parte dei casi, risulta essere circoscritto al contenimento e alla retribuzione farmacologica dei disturbi di personalità: categoria diagnostica che, fatti salvi disturbi gravi di personalità, non è di sua competenza, se non quando è evidente e genuina la sofferenza psichica del soggetto che ne è portatore. Quando però il suo intervento clinico e prevalentemente se non esclusivamente richiesto per neutralizzare, la commistione diventa inevitabile. (364)

Trattamento e segregazione coincidono. Creando un malato “totalmente altro” rispetto al malato civile. Il problema che si pone quindi non si incentra tanto sulla gestione penitenziaria delle strutture piuttosto che sanitaria, quanto sugli obiettivi ed i modelli trattamentali predisposti per categorie di individui la cui soggettività giuridica viene definita non solo patologica ma soprattutto antisociale e pericolosa. Ciò che è rilevante è la modalità di intervento sul soggetto ed i rapporti di potere che si instaurano, che possono avere identiche caratteristiche e la stessa fenomenologia sia con un agente penitenziario, sia con un infermiere come attori, quando lo statuto epistemologico, culturale, sociale e normativo che circonda e costituisce il reato del folle rimane immutato e confuso. L'“orrore medievale” evocato dal Presidente della Repubblica Napolitano per descrivere luoghi “dove l'assistenza medica viene garantita da un infermiere ogni 25-30 internati e l'assistenza psichiatrica è assicurata per trenta minuti al mese; dove stanze da quattro ospitano nove internati su letti a castello, condizione che è stata definita 'tortura' da una delegazione del Consiglio d'Europa; dove se un internato ha un attacco di cuore (e il rischio c'è, soprattutto per i molti pazienti ultraottantenni presenti) è molto difficile salvargli la vita; dove in alcuni periodi dell'anno bisogna scegliere se utilizzare l'acqua per il sistema antincendio o per lo sciacquone dei bagni”, (365) non deve in realtà richiamare la desueta, ma sempre invocata categoria morale dello scandalo, o la consueta ed inefficace - in quanto sostanzialmente “narcisistica” ed “autosufficiente”- categoria dell'indignazione. Chi sia entrato in un carcere almeno una volta sa che questo è lo stato dell'arte presente in qualsiasi prigione italiana, ed è l'effetto delle funzioni materiali e latenti del sistema detentivo, dell'essere della sanzione, che deve necessariamente sopprimere ogni autonomia, che produce rapporti di disuguaglianza anche attraverso l'applicazione selettiva della sanzione, che enfatizza la dimensione emarginativa della reazione pubblica nei confronti della popolazione criminale, imputabile o non imputabile. Insomma l'orrore è connaturato alla valenza simbolica dell'istituzione, che lungi dall'essere assorbita dalla struttura burocratica o sanitaria degli organismi di gestione della sanzione realizza l'archetipo fondante il diritto penale contemporaneo e democratico: la realizzazione della volontà generale, della maggioranza, l'incarnazione della vox populi declinata nei principi materiali della vendetta o della neutralizzazione/terapia dell'anormale da curare, compatire e, nominalmente, perdonare. (366)

In conformità al suo statuto terapeutico ed alle sue finalità totalmente sostanziali la sanzione genera neutralizzazioni estremamente efficaci rispetto alle esigenze di custodia.

La Commissione Parlamentare di inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale nella sua relazione sulle condizioni di vita e di cura all'interno degli ospedali psichiatrici giudiziari che riferisce i risultati dell'attività di indagine della commissione sui sei ospedali psichiatrici giudiziari (367) attualmente operativi nel nostro paese ci testimonia tale efficacia.

Un'efficacia raggiunta anche attraverso 1) la contenzione; 2) la detenzione indeterminata.

  1. La contenzione:

    • “Presso l'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto trova il signor S. C. nudo, coperto da un lenzuolo; in regime di contenzione attuata mediante costrizione a letto con una stretta legatura con garza, sia alle mani, sia ai piedi, che gli impediva qualsiasi movimento. L'internato presentava, altresì, un vistoso ematoma alla zona cranica parietale. In merito si prendeva visione del registro dei trattamenti di contenzione dal quale emergeva che questi non era indicato”.
    • “Presso l'Opg di Napoli si constatava la presenza del Sig. E.V., che presentava un vistoso livido ad un orbita oculare che non era riportato nel diario sanitario e che in data 16 luglio c.a. era stato sottoposto ad un periodo di contenzione”;
    • “La presenza del Sig. M.D.F. che presentava ustioni alle mani ma che nulla era riportato nella documentazione sanitaria”.
    • “Nell'OPG di Montelupo si accertava che gli internati S.R. ed A.H. erano stati contenuti nella giornata del 21 luglio 2010 e ciò non risultava registrato nel diario clinico”.
    • “Nell'Opg di Reggio Emilia è stata accertata la presenza di un paziente in regime di contenzione previa adozione di letto metallico fissato al pavimento ad apposite fasce. Quella addominale e quelle atte a tenere pressoché immobili gli arti, in merito si è presa visione del registro delle contenzioni ed è stato accertato trattarsi del sig. R. G., sottoposto a tale regime da 5 giorni essendo autore di atti di violenza che avevano messo a rischio sia esso stesso che operatori della polizia penitenziaria e sanitari. (...) E' stata accertata l'assenza di un campanello per richiamare l'attenzione degli operatori sanitari che si trovavano nella stanza attigua (..)”

    Tuttavia secondo medici ed infermieri dell'Opg di Reggio Emilia è stato possibile l'abbandono pressoché totale della pratica della contenzione attraverso una semplice operazione: liberarsi dalle restrizioni, attraverso “l'apertura delle camere/celle, di alcuni reparti per gran parte della giornata”.

  2. La detenzione indeterminata:

    • A Napoli “il direttore dell'OPG Stefano Martone riferiva che il 40 per cento degli internati è detenuto in proroga ed all'uopo riportava il caso eclatante del sig M.L., il quale a fronte di una misura detentiva di 2 anni, risulta internato da ben 25 anni”.
    • Nello stesso Opg la commissione “constatava la presenza del sig. N.D.P., internato da circa tre anni nonostante abbia ottenuto dal magistrato di sorveglianza il parere favorevole al trasferimento in comunità terapeutica (in merito veniva rappresentata l'inesistenza di una struttura idonea sul territorio)”.
    • Ad Aversa dalle informazioni rese da alcuni ospiti emergevano casi di misure di sicurezza scadute da oltre 10 anni.
    • A Barcellona Pozzo di Gotto “sono stati intervistati vari ricoverati che rappresentavano, quasi tutti, la loro permanenza negli Opg con detenzione in proroghe”.
    • La stessa cosa si registra presso l'Opg di Montelupo Fiorentino. (368)

Durante l'indagine la commissione registrerà una prassi ampiamente diffusa in base alla quale anche i soggetti non più socialmente pericolosi con pericolosità grandemente scemata, definiti “dimissibili”, sono in stato di internamento.

Un dato che, secondo la Dottoressa Carlotta Giaquinto, direttore dell'Ospedale psichiatrico Giudiziario di Aversa, si estende a tutte le strutture. Dettato dal fatto che la magistratura di sorveglianza “non revoca, non dimette i soggetti comunque sottoposti a misura di sicurezza, pur in presenza di una diagnosi che attesta la loro non pericolosità sociale, laddove non sia pronta ad affidarli a qualcuno”. Testimoniando la difficoltà delle ASL di appartenenza dei ricoverati a farsi carico dell'affidamento, per questo si ritiene opportuno “una norma che preveda l'internamento direttamente in strutture ASL”, una alternativa a priori all'internamento in Opg per non rendere vano quanto previsto dal DPCM 1º Aprile 2008.

“Attualmente nell'Opg di Aversa una ottantina di persone sono considerate dimissibili, nel senso che nei loro riguardi c'è un giudizio di cessata pericolosità sociale”; “però al magistrato questa prognosi da sola non basta per metterli in libertà vigilata”. “Fino a quando non si comincerà a dimettere i soggetti non ritenuti non più pericolosi, non vi sarà modo di evitare il sovraffollamento”. “Del resto le strutture sono tutte come Aversa, cioè sono tutte in condizione di sovraffollamento” (369)

Secondo il Dott. Adolfo Ferraro, referente sanitario dell'Opg di Aversa:

il 49 per cento (degli internati) si trova all'interno di questa strutture per un reato punibile con due anni di detenzione. Ciò significa che si tratta per lo più di reati bagatellari, cioè di reati non particolarmente gravi: oltraggio a pubblico ufficiale, maltrattamenti in famiglia, come nel caso del malato di mente che chiede ogni giorno 10 euro alla mamma per acquistare le sigarette; alla lunga la situazione esplode. Tutto questo produce, dal punto di vista generale, una sorta di imbuto dal quale questi soggetti non riescono ad uscire, con la conseguenza che rimangono nella struttura per un tempo abbastanza lungo (...) Non dobbiamo tralasciare il motivo più importante: un paziente del genere, che è difficile da gestire, comporta un costo minore per l'ASL di appartenenza nel momento in cui viene ospitato all'interno dell'Ospedale psichiatrico giudiziario.

8.3) La Medicalizzazione come soluzione: il miglioramento della terapia

La medicalizzazione delle strutture, con la prevalenza di personale medico e paramedico, come dimostra l'esperienza dell'ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere (MN), frutto di una convenzione tra l'Azienda ospedaliera “Carlo Poma” di Mantova ed il Ministero della Giustizia, ha dato vita ad una struttura totalmente sanitaria con edifici in condizioni strutturali buone collocati in un ampio parco recintato, buone condizioni igienico-sanitarie, stanze con buono standard alberghiero, porte aperte, addirittura un piccolo bar ed una piscina. Una soluzione che evita i letti metallici, “gli effetti lettericci dell'amministrazione penitenziaria”, consentendo la fornitura di letti ospedalieri, di materassi ortopedici e di lenzuola monouso. (370) Consente una assistenza psichiatrica 24 ore su 24, in altri istituti spesso assente. (371) Consente di evitare che il medico possa dedicare all'internato una sola ora al mese. (372) L'assenza del contesto penitenziario può inoltre permettere una serie di attività riabilitative ora precluse nella maggior parte degli altri Opg per problemi di sicurezza. (373) Impedisce “il sovraffollamento degli ambienti, l'assenza di cure specifiche, l'inesistenza di qualsiasi attività, la sensazione di completo e disumano abbandono, la ruggine, i cumuli di sporcizia. Carenze tali da essere non solo lesive della dignità personale ma anche di assumere rilevanza penale” (come rilevato ad Aversa e a Barcellona Pozzo di Gotto)

Permette di evitare “celle dotate di cancello blindato e grate alle finestre, gli arredamenti tipici del carcere” (come rilevato a Napoli) o “le celle fatiscenti ed anguste con alcune camere/celle dove sono presenti fino a 9 posti letto con un sovraffollamento che impedisce ogni movimento alle persone ospitate” (come rilevato a Montelupo fiorentino) (374)

Pur con la sanitarizzazione, Castiglione delle Stiviere non riesce tuttavia ad essere nei fatti terapeutico, non cura o quantomeno ripropone tutti i limiti connessi ed intrinseci alla struttura normativa della misura di sicurezza detentiva e non al luogo di esecuzione, e che quindi si manifestano in ogni Opg od ospedale o “residenza terapeutica”. In altre parole si manifestano in ogni struttura manicomiale.

In due diversi momenti si è svolta una ricerca (pubblicata nel 1995 e nel 2003) sull'andamento delle revoche della misura dell'ospedale psichiatrico giudiziario effettuato dalla magistratura di sorveglianza di Mantova. Le ricerche hanno coperto un arco temporale estremamente lungo:15 anni, dal 1987 al 2002. Lo studio ha analizzato sia le ordinanze che riguardavano le istanze di revoca anticipata sia le ordinanze aventi ad oggetto le revoche a termine (ordinarie). Sono state esaminate anche gli elementi connessi alla sentenza di proscioglimento: presenza di vizio totale di mente, diagnosi psichiatrica, durata minima della misura inflitta. La ricerca si è interessata anche dello stato della malattia al tempo dell'istanza di revoca, dei pareri resi in merito alla concessione da parte dell'equipe dell'Opg del CSSA (centri servizio sociale per adulti), della disponibilità dei familiari, della presenza di comunità terapeutiche disposte a prendersi in carico l'internato. (375)

Se risulta concessa una buona percentuale di revoche anticipate a chi ne faceva istanza, il 51,7% degli istanti nel periodo 1987/1991; mentre nel decennio 1992/2002 il 55, 10% degli istanti -27 su 50 istanze-. I soggetti che facevano istanza nel periodo 87/91 avevano rappresentato il 17, 15% della popolazione complessiva degli internati ex art 222 c.p. mentre nel periodo 92/02 sono risultati essere il 10, 22% della popolazione internata. Si evidenzia tuttavia come le revoche a termine siano state ottenute solo dal 29% dei soggetti interessati nel periodo 87/91 e dal 23% nel periodo 92/02 (con una conseguente proroga della misura nel restante 71% e 76,5% dei casi).

Si registra quindi una rilevante diminuzione del numero delle revoche concesse, che segue un andamento progressivo, rilevato già nella prima ricerca, e culminato nel 2002 con la totale assenza di richieste di revoca anticipata e con solo 8 casi di giudizi in ordine alle revoche ordinarie, con 2 concessioni e 6 proroghe.

Si deve inoltre segnalare il fatto che per quanto attiene la revoca ordinaria, nel periodo più recente il parere favorevole alla revoca della misura da parte dell'Equipe dell'Opg sia risultato essere pressoché irrilevante: se, infatti, il parere favorevole nel quinquennio 87/91 aveva portato a 97 concessioni e soli 15 rigetti, (376) nel periodo 92/02, invece, a fronte di 76 pareri positivi la misura è stata prorogata in ben 56 casi. (377)

Anche la remissione e la stabilizzazione della patologia non sono più indicatori utili per stabilire la possibile revoca della misura. Mentre nel periodo 87/91 le remissione ha sempre portato alle revoca della misura ed il sufficiente compenso portavano nella stragrande maggioranza dei casi alla revoca della misura (100% di revoche anticipate nel caso in cui l'istante presentasse la remissione della patologia ed il 94% di revoche ordinarie; 90% di revoche anticipate e 79% c.a. di revoche ordinarie nel caso di sufficiente compenso), (378) nel decennio 92/02 a fronte di 20 casi in cui vi era stata la remissione della patologia: in 6 casi è stata disposta la revoca ordinaria mentre in 15 e stata disposta la proroga della misura. Quando invece la patologia presentava un compenso sufficiente (65 casi) in 30 casi la misura è stata revocata ed in 35 prorogata.

Se si tiene conto poi del tempo di internamento complessivo trascorso in esecuzione della misura, tenendo conto del tempo trascorso sia da coloro che hanno fruito della revoca anticipata sia di coloro ai quali la revoca era stata negata, appare come in linea di massima, la misura dell'internamento si applichi per un tempo molto superiore al termine minimo previsto. “Fino ad arrivare a situazioni nelle quali si riscontra una permanenza in Opg della durata di 17 anni e 4 mesi (1 caso, con termine minimo di 2 anni) di 19 anni (1 caso con termine minimo a 10 anni), di 22 anni e 6 mesi (1 caso con termine minimo a 5 anni) e ciò tralasciando le ipotesi intermedie” (379)

La tabella indica il periodo di internamento complessivo trascorso di tutti gli internati, comprendendo quindi sia quelli che hanno fruito della revoca anticipata in sede di riesame sia quelli che non l'hanno conseguita.

Il dato, apparentemente, sembrerebbe essere in palese contrasto con quanto rilevato da Andreoli nella sua ricerca, secondo il quale la permanenza media degli internati durante il periodo di rilevamento delle ricerca - che in parte si sovrappone a quella più specifica sulle ordinanze del tribunale di sorveglianza di Mantova - era pari a 36,33 mesi (ma con una punta massima di 61, 1 mesi rilevata proprio a Castiglione), dato che portava lo psichiatra a concludere che “nulla giustifica affermazioni correnti che vedrebbero questi Istituti come cimiteri o depositi di soggetti abbandonati”. (380)

Si deve tuttavia sottolineare che il dato rilevato da Andreoli si riferiva all'intera popolazione degli internati alla data del rilevamento, (381) comprendente quindi anche i soggetti a cui era stata applicata la misura di sicurezza provvisoria: internati ex art. 219 c.p. (CCC), internati per accertamento dell'infermità psichica ex art 112, c. 2 D.P.R 230/'00, internati per infermità sopravvenuta alla condanna ex art. 148 c.p., detenuti minorati psichici ex art 111 c. 5 reg. esec. Ord. Penit. D.P.R 230/'00, mentre la ricerca di Cavanese, Benetti e Bianchetti riguarda solo gli internati “definitivi”, gli internati ex art 222. c.p., i destinatari finali e “naturali” della misura dell'ospedale psichiatrico giudiziario.

L'incredibile eterogeneità delle categorie di soggetti “ospitati” all'interno di un ospedale psichiatrico giudiziario è stato tra l'altro considerato uno dei dati che confutano la vocazione individualizzata e terapeutica dell'Opg che si configura, al contrario, come un contenitore informe di disagio psichico. (382)

Si registra poi un progressivo invecchiamento della popolazione interessata al procedimento di revoca dell'Opg di Castiglione: se la fascia di età maggiormente rappresentata è quella che va dai 41 ai 50 anni (80 soggetti), nel periodo 92/02 è tuttavia fortemente presente una popolazione di internati ultrasettantenne (35 soggetti, il 13,25% dei casi sottoposti al magistrato) (383) che nel periodo 87/92 era scarsamente incisiva (rappresentava infatti solo il 2,5% dei casi). (384)

Il dato può indicare una cronicizzazione sia della malattia sia dell'internamento, una cronicizzazione che per i ricercatori viene testimoniata anche dal fatto che la stessa revoca “ordinaria” a termine, a fronte di 76 pareri positivi dell'equipe dell'Opg, sia stata concessa solo in 20 casi e in 56 rigettata, anche in correlazione ad un aumento dell'invecchiamento del numero degli internati e quindi della totale perdita della possibilità di un inserimento esterno. Si deve registrare tuttavia che, a fronte di 60 pareri negativi, la magistratura ha invece disposto la concessione in 13 casi della revoca, per cui il parere dell'equipe non pare essere così “vincolante” come astrattamente si crede, e Ancora meno influente è il parere del CSSA. A fronte di 24 pareri positivi alla revoca ordinaria, vi sono state solo 6 concessioni e 18 rifiuti, si deve anche segnalare che in 103 casi sui 264 sottoposti al magistrato la relazione sociale del CSSA era del tutto mancante.

Il fatto che gli aspetti strettamente patologici ed il parere dell'equipe psichiatrica dell'Opg abbiano perso rilevanza sembra derivare dalla introduzione della nozione di pericolosità situazionale, una pericolosità non legata alla patologia in se, quanto alla relazione del sofferente psichico con il mondo esterno, per cui verrebbero ad assumere maggior importanza la possibilità di un inserimento armonico all'esterno che dovrebbe essere promosso e facilitato dalle istituzioni.

Anche in questo caso si deve prendere atto che l'andamento della concessione della misura dell'internamento da parte della magistratura di Mantova ha invece seguito un andamento sempre più restrittivo. Quasi che il fattore ambientale venisse coniugato non in senso di spinta alla risocializzazione ma di innalzamento dello standard, dei requisiti soggettivi ed oggettivi necessari per riappropriarsi della propria libertà personale.

Infatti la stessa possibilità di un inserimento extra-istituzionale, per poter consentire la revoca ordinaria, deve raggiungere uno standard estremamente alto.

Nel periodo 92/02 caso in cui la prospettiva di inserimento sia stata considerata buona o sufficiente si sono registrati, a fronte di 13 casi, 8 rigetti dell'istanza di revoca e 5 concessioni. (un dato pressoché identico in termini percentuali al quinquennio 87/91). In questi casi per gli autori della ricerca “la proroga della misura di sicurezza viene sovente disposta per quei soggetti che, pur non presentando pericolosità sociale, necessitano ancora di assistenza medica ma per i quali non vengono rinvenuti presidi ospedalieri idonei ad accoglierli e a curarli”, (385) a fronte di una inadeguatezza del campo civile e amministrativo si preferisce quindi sovrapporre una repressione di tipo penitenziario gestita ed ordinata dal diritto penale disposta unilateralmente dal magistrato priva di qualsiasi dimensione consensuale. (386)

La progressiva diminuzione del numero delle concessioni delle revoche non dipende dal tipo di reato commesso stante la quasi totale identità dei reati commessi dai soggetti interessati nell'arco di 15 anni (i principali reati sono quelli contro la persona come omicidio, tentato omicidio, lesioni personali ma si deve segnalare che quasi il 54% dei reati dei casi vagliati sono rappresentati da reati minori o connessi alle molestie od alle condotte da scompenso, quali la resistenza a pubblico ufficiale, le minacce, il furto, la calunnia, il danneggiamento, l'ubriachezza, l'insolvenza fraudolenta e la violazione di domicilio - 237 casi sui 442 reati considerati). (387) Anche i quadri clinici presentati sono pressoché gli stessi (la diagnosi più frequente è quella di schizofrenia, vi è però un forte aumento negli ultimi anni dei disturbi della personalità, una forma più lieve di patologia ma considerata meno trattabile). (388)

Considerevole è poi lo slittamento di dieci anni di tutte le fasce di età interessate ai procedimenti di revoca che sembrano indicare la presenza di situazioni immodificabili “e definibili ormai di non ritorno dalla gabbia istituzionale, e pertanto, una prosecuzione indefinita dell'internamento per i soggetti 'inguaribili': circostanza questa che viene ulteriormente ribadita dal dato per cui il numero degli ultrasettantenni si è addirittura quintuplicato”. (389)

La parabola discendente delle Ordinanze di revoca sembra essere collegata alla carenza delle strutture civili e ad atteggiamenti più restrittivi della magistratura di sorveglianza, maggiormente conformi a “richieste generalizzate di maggior severità e controllo”, (390) che ben si armonizzano con le strutture formali delle misure di sicurezza.

I dati risalgono ad un periodo precedente alla pronuncia della Corte Costituzionale 253/2003 che prevede la possibilità di eseguire la misura di sicurezza in un regime di libertà vigilata tuttavia sono indicativi degli esiti di una medicalizzazione strutturata sull'attuale impianto normativo delle misure di sicurezza.

La medicalizzazione, dunque, non sembra poter superare l'effetto neutralizzativo che, per Von Liszt, rappresentava proprio una delle funzioni essenziali della pena riservata ai delinquenti incorreggibili.

La società deve proteggersi contro gli irrecuperabili; e dal momento che noi non vogliamo né decapitare né impiccare, né possiamo usare la deportazione, l'unica possibilità che ci rimane è l'isolamento perpetuo, oppure a tempo indeterminato. (391)

9) Il Superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari

Il superamento dell'Opg è stato stabilito dall'art. 3-ter della Legge 17 febbraio 2012, n. 9 che ha convertito in legge il D.L. 22 dicembre 2011, emanato con lo specifico scopo di far fronte all'emergenza dettata dal sovraffollamento carcerario. L'art. 3 ter, al primo comma, disponeva che entro il primo Febbraio 2013 doveva essere completato il processo di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Il termine è stato poi spostato al 1º Aprile 2014 con la legge 23 maggio 2013 n. 57, che ha convertito il D.L. 25 marzo 2013 “recante disposizioni urgenti in materia sanitaria”. (392) Un processo di superamento che, sulla base di quanto affermato dal primo comma dell'art 3 ter, trova nel D.p.c.m. 1º Aprile 2008 la sua cornice di riferimento, (393) in quanto questo, “nell'ambito di interventi di prevenzione di cura e riabilitazione in favore dei detenuti” (394) e nel quadro del trasferimento del trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni in materia di sanità penitenziaria e del relativo personale sanitario, disponeva all'art 5 il totale trasferimento alle regioni delle funzioni sanitarie attinenti agli Opg ubicati nel loro territorio.

L'allegato C del D.p.c.m. prevedeva poi delle linee guida entro le quali procedere ad una serie di interventi progressivi posti a carico delle Regioni, da attuare attraverso le Aziende Sanitarie regionali. (395) L'allegato prevedeva tre fasi distinte. Al termine della terza ed ultima fase si prevedeva la presa in carico da parte di ogni regione italiana della quota di internati in Ospedale psichiatrico Giudiziario di provenienza dai propri territori, (396) con il chiaro intento di procedere al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari.

Il D.p.c.m. del 2008 è stato applicato in modo incompiuto dalle diverse regioni rimanendo in larga parte, se non da un esiguo numero di “isole felici”, disatteso, soprattutto in relazione al problema degli internati “dimissibili”, le persone non più socialmente pericolose ma comunque internate in Opg perché si riteneva necessario inserirle in strutture sanitarie civili o comunità, che però risultavano assenti od impreparate ad un simile compito. (397)

Il fine della normativa predisposta dall'art 3-ter del decreto legge 211/2011 convertito dalla legge n. 9 17/2/2012, modificato dal DL n. 24/2013 convertito con modificazione dalla L. n. 57/2013 è quindi quello di procedere ad una sanitarizzazione delle modalità esecutive delle misure di sicurezza detentive previste dall'art 222 e 219 c.p. (398)

Il quarto comma dell'art 3 ter, infatti, dispone, oltre alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, che le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e del ricovero in casa di cura e di custodia siano eseguite solo all'interno di strutture sanitarie (poi definite dall'allegato A. del DM 1º ottobre 2012 Strutture residenziali per le persone ricoverate in ospedale psichiatrico giudiziario e assegnate alla casa di cura e di custodia o REMS: residenze per l'esecuzione misure di sicurezza). La definizione e la disciplina delle caratteristiche strutturali, tecnologiche ed organizzative delle REMS vengono demandate ad un ulteriore decreto di natura non regolamentare del Ministro della Salute adottato di concerto con il ministro della Giustizia, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano che ha il compito di definirle e disciplinarle. (art. 3 ter comma 2)

Al decreto la legge impone l'adozione di tre criteri fondamentali: 1) l'esclusiva gestione sanitaria all'interno delle strutture; 2) la presenza di un'attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna, ove necessario in relazione delle condizioni dei soggetti interessati; 3) la destinazione delle strutture ai soggetti, di norma, provenienti dal territorio regionale di ubicazione delle strutture (art. 3 ter, comma 4).

Il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, quindi, non si traduce in una loro soppressione ma in una loro sostituzione con una struttura sanitaria che lascia immodificata sia la normativa del codice penale e del codice di procedura penale attinente alle misure di sicurezza, sia le norme sull'ordinamento penitenziario con i relativi problemi di armonizzazione ermeneutica dell'intera normativa. (399)

Una delle prime ambiguità evidenziate risiede proprio nel fatto che l'attribuzione esclusiva alle REMS, le nuove strutture sanitarie predisposte per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive potrebbe condurre, in omaggio ad una interpretazione esclusivamente letterale e non sistematica, ad una sorta di ritorno di favore nei confronti di modalità di esecuzione in forme protette o chiuse a scapito della fruizione della libertà vigilata ex Sent. 253/2003. (400) Un rischio tanto maggiore in quanto la scelta dell'adozione delle modalità di esecuzione della misura è totalmente rimessa alla discrezionalità del magistrato, ed in quanto le nuove strutture si presentano o si potrebbero presentare al giudice così come si presenta ora Castiglione delle Stiviere: un luogo di cura “umano”, pieno di operatori sanitari ed operatori volontari che si “prendono cura” del malato, un luogo forse migliore dell'ambiente in cui il sofferente psichico è “costretto” a vivere in libertà.

Il decreto attuativo, del secondo comma dell'art 3-ter, adottato dal Ministero della Salute in concerto con il Ministero della Giustizia del 1º Ottobre 2012 ha stabilito i requisiti “minimi” per il funzionamento delle strutture e per l'esercizio delle compiti sanitari indispensabili.

  1. In relazione alla gestione totalmente sanitaria ha disposto:

    1. che le strutture dovranno essere realizzate e gestite dal Servizio Sanitario delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano. Esse faranno riferimento alle norme ed ai regolamenti ospedalieri per tutti gli aspetti interni sia logistici (quali quelli che regolano arredi, materassi, mobili) sia tecnologici, strettamente attinenti ai presidi medici sanitari (modalità di conservazione dei farmaci, sterilizzazione degli strumenti, dotazione di defibrillatori e carrozzine ecc).

      Si dispone la necessaria presenza di scale di valutazione e materiale testistico, canonicamente usati e specificatamente predisposti per la valutazione clinica della pericolosità, ma qui definiti come necessari per la “rilevazione dei bisogni assistenziali”.

      Il decreto ha fissato poi il numero massimo di letti disponibili in ciascuna struttura in 20 letti. Prevedendo camere di dimensioni conformi a quanto previsto dalla normativa sanitaria, destinate ad un massimo di quattro “ospiti”, con arredi e attrezzature tali da garantire sicurezza, decoro, comfort.

      Si prescrive anche che dovranno essere previsti “sistemi di sicurezza congrui rispetto alla missione della struttura quali sistemi di chiusura delle porte interne ed esterne, sistemi di allarme, telecamere nel rispetto delle caratteristiche sanitarie e dell'intensità assistenziale”. Si rimanda poi ad appositi accordi tra Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Ministero della Salute e Regioni e Province autonome e di Trento e Bolzano per la regolamentazione delle funzioni di cui alle norme sull'ordinamento penitenziario (L.354/1975; D.p.r. 230/2000), anche con riferimento agli aspetti dell'esecuzione delle misure di sicurezza ed alle forme dei rapporti con la magistratura.

    2. Per quanto attiene al personale si dispone la presenza di solo personale medico e paramedico, composta da un equipe multi-professionale di psichiatri, psicologi, educatori, infermieri con una formazione specializzata, OSS, assistenti sociali, che agiranno “sotto la responsabilità di un medico dirigente psichiatra” con l'esclusione del personale penitenziario.

      Le regioni dovranno adottare un piano per la formazione del personale delle REMS, che dovranno adottare linee guida e procedure scritte riguardanti tutto il processo terapeutico: dalle modalità di accoglienza del paziente, alla definizioni di un programma individualizzato, dalle modalità ed ai criteri di raccordo con le strutture esterne per programmare un'attività di recupero, e di inclusione (DSM, SERT, cooperative sociali, associazionismo) alle modalità di attivazione delle forze dell'ordine nelle situazione di emergenza attinenti alla sicurezza.

  2. In relazione, invece, alla attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna le Regioni e le province Autonome dovranno attivare accordi specifici con le Prefetture “al fine di garantire adeguati standard di sicurezza”.

Il decreto esclude espressamente, per l'adempimento di questa funzione, la competenza del Servizio Sanitario e stranamente anche la competenza dell'Amministrazione Penitenziaria, quasi volesse escludere qualsiasi dimensione carceraria e quindi punitiva alle Residenze, anche se la disposizione potrebbe anche essere interpretata nel senso che gli accordi dovrebbero attribuire alle prefetture una competenza residuale, attinente a quella parte di sicurezza che il Sanitario ed il Penitenziario non riescono a coprire. (401)

La netta separazione dell'attività sanitaria interna ed attività di sicurezza perimetrale, inoltre, sembra definitivamente conferire implicitamente compiti anche di tipo custodiale e di sicurezza al personale sanitario per la gestione della sicurezza interna, per il controllo dentro il perimetro tracciato dalla norma.

9.1) I Dimissibili

L'ultima parte del comma 4 dell'art. 3 ter afferma che “Le persone che hanno cessato di essere pericolose devono essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul territorio dai Dipartimenti di salute mentale”.

La novella apportata con la L. 57 /2013 ha modificato il comma 6 dell'art. 3 ter ribadendo ulteriormente: “la dimissione di tutte le persone internate per le quali l'autorità giudiziaria abbia già escluso o escluda la sussistenza della pericolosità sociale”.

Due disposizioni che sembrerebbero essere ridondanti: un soggetto non pericoloso non potrebbe che essere dimesso “senza indugio”, poiché la sussistenza della pericolosità sociale è l'unico “caso” previsto dalla legge che ammetta la restrizione della libertà personale dell'infermo di mente ex art 13 Cost., ed inoltre sono previste periodiche revisioni della pericolosità parte della magistratura di Sorveglianza. Tuttavia la previsioni sono conformi ad una serie di disposizioni che si inseguono e si inseriscono l'una nell'altra sin dal 2008.

Lo stesso Allegato C del d.p.c.m. del 2008, infatti, faceva generico riferimento ad un certo numero di persone, che avrebbero potuto ottenere la revoca della misura dal magistrato di Sorveglianza, vista la cessata pericolosità, ma che erano costretti a rimanere dentro le celle dell'Opg data la mancanza di una possibile collocazione esterna. Nell'accordo sancito il 26 novembre 2009 dalla Conferenza unificata Stato-Regioni, Province autonome si individua con precisione il numero di queste persone. Nel Giugno 1999 vi sono “negli OPG 399 internati maschi e 14 donne dimissibili, in regime di proroga per mancanza di alternative all'esterno”. E si afferma che le regioni si impegnano a “raggiungere l'obiettivo di circa 300 dimissioni entro la fine del 2010”. (402) La Conferenza unificata ha poi esteso il numero dei dimissibili a 543 soggetti.

Dal 2007 al 2011 si è registrato tuttavia un aumento del numero complessivo di internati (403) (da 1272 a 1419 soggetti. Un aumento di 147 unità). (404)

Sono questi i soggetti maggiormente esposti al rischio di un “ergastolo bianco”, destinatari di un numero indefinito proroghe della misura, perché non sembrano esservi soluzioni alternative all'internamento in Opg. (405) Una mancanza di alternative che aumenta ancora di più a fronte dell'invecchiamento progressivo degli internati, che arrivano in casi estremi agli 80 od ai 90 anni (406) e che quindi non si collega tanto ad un perdurare della pericolosità quanto al cronicizzarsi della malattia, cronicizzazione derivante anche dall'istituzionalizzazione.

Si registra quindi quella che a mio avviso si manifesta come una forma distorta, allargata ed inevitabilmente arbitraria dell'interpretazione della nozione psicologica e sociale di pericolosità situazionale: la presenza in una struttura penale di un cospicuo numero di soggetti (il 23, 58% del numero complessivo di internati nel 2007) che non avendo più necessità di tipo medico sanitario -ovvero dei presupposti di applicazione della misura di sicurezza detentiva ospedaliera - rimangono internati per questioni sistemiche. (407)

Un'altra interpretazione tuttavia, anch'essa coerente con l'impianto normativo attuale, potrà sempre obiettare appigliandosi ad uno degli innumerevoli elementi costitutivi della nozione di pericolosità - elementi che sono, alternativamente o congiuntamente, sia giuridici, sia psichiatrici, sia psicologici, sia sociali - la legittimità di tali internamenti.

Una configurazione che consente ad alcuni Magistrati di Sorveglianza di emettere proroghe della misura sulla base di una pericolosità “di scarsa consistenza probatoria” vaga e difficilmente dimostrabile, definita “Latente” (408)- termine utilizzato anche per l'adozione delle misure di prevenzione per gli appartenenti ad organizzazioni della criminalità organizzata (409)- spesso dichiarata in opposizione alle relazioni dei gruppi di osservazione e trattamento degli Opg, i quali oltre a suggerire la collocazione esterna, sottolineano la nocività per la salute mentale dell'internato del mantenimento della misura detentiva. (410)

La causa delle proroghe non risiede solo nella configurazione normativa della pericolosità ma anche nella tradizionale resistenza da parte di molti Dipartimenti di Salute Mentale territoriali a farsi realmente carico di pazienti psichiatrici considerati troppo difficili da gestire. Spesso mai presi in carico, visto che i rapporti tra soggetti internati e servizi di salute mentale sono per lo più telefonici ed epistolari e spesso esclusivamente funzionali a trovare modalità accettabili per l'espletamento delle licenze. Una difficoltà che si manifesta in tutti i rapporti tra penale e sanitario. (411) In alcuni casi questo ha portato a veri e propri contrasti tra magistratura di sorveglianza e servizi psichiatrici. Dove la magistratura ha minacciato di segnalare alla Procura della Repubblica gli eventuali comportamenti omissivi dei DSM, dopo aver dichiarato cessata la misura di sicurezza detentiva ed aver imposto la frequentazione dei DSM. (412)

La Magistratura di Sorveglianza di Firenze, ad esempio, con una decisione di grande razionalità dogmatica, nell'ordinanza 15.02.2012, ha revocato anche la misura della libertà vigilata concessa in sostituzione dell'internamento presso l'Opg di Montelupo Fiorentino di un soggetto ancora infermo ma giudicato non più pericoloso, poiché la misura di sicurezza non può essere imposta come “coazione benigna alla cura” come invece suggeriva la relazione dello psichiatra curante del Modulo Operativo Multi professionale Salute mentale Adulti datata 14.2.2012. Poiché tale conclusione avrebbe condotto, vista la mancanza del presupposto della futura probabilità di commissione di reati, vista la assenza di condotte aggressive e di altri indicatori “ad una non consentita delega dei poteri e doveri di cura al potere giudiziario e alla conseguente surroga del Magistrato di sorveglianza allo specialista curante con evidente circolo vizioso, che in una patologia cronica come quella del caso di specie potrebbe in linea teorica alla perenne sottoposizione del paziente psichiatrico a una misura di sicurezza con la ulteriore conseguenza dello spostamento della posizione di garanzia dal servizio sanitario alla magistratura” (413)

Il magistrato ha poi trasmesso l'ordinanza ai servizi territoriali che suggerivano “la coazione benigna” ed alla comunità che aveva dichiarato la disponibilità ad accettarlo affinché vi fosse una presa in carico puntuale, svincolata dall'ordinamento penale con il conseguente trasferimento delle responsabilità del potere dovere di cura e di garanzia al Servizio Sanitario.

Appare comunque necessario svincolare il giudizio di pericolosità sociale dal valutazioni relative alla mera integrabilità del soggetto nel contesto sociale “fondata su un paternalismo disfunzionale e fuori luogo” (414) e rivolta a situazioni di marginalità sociale, che viene penalizzata proprio in quanto marginale.

9.2) Le REMS

La L. 9/2012 ed il Decreto Ministero della Salute di concerto con il Ministero della Giustizia 1/10/2012 delineano quindi le REMS, le nuove strutture chiuse di esclusiva competenza sanitaria, realizzate e gestite dal Servizio Sanitario delle Regioni e delle Province Autonome, dove eseguire le misure di sicurezza detentive previste dal codice penale, in particolare quelle previste dagli artt. 219 e 222 c.p. Le REMS si profilano come le strutture portanti dell'intera riforma anche per la cospicua entità dei fondi destinati alle regioni per la loro predisposizione. (415) La loro funzione mista, sanitaria e di vigilanza, secondo molti non ha fatto altro che riproporre degli Opg “su scala ridotta”. (416)

Delle strutture che pur volendosi ispirare a percorsi volti all'inclusione sociale ed alla riabilitazione rischiano di rimanere invece impigliate nelle maglie della medicalizzazione, di una mera ospedalizzazione indeterminata, per cui il processo di superamento si trasformerebbe in una “trans-istituzionalizzazione”, in un trasferimento di internati dai vecchi OPG a “nuove forme di residenzialità organizzate per erogare prevalentemente interventi medicalizzati tipici di una psichiatria ospedaliera”. La particolare attenzione data alla “sicurezza relazionale” potrebbe tradursi in forme di contenimento di tipo prettamente manicomiale (417) e, visto che anche la cornice normativa penale è rimasta totalmente immutata, potrebbe addirittura comportare un aumento del numero degli internamenti o della durata degli stessi vista la sua veste “presentabile”. (418)

L'Unione delle camere Penali Italiane, nel commentare in un suo comunicato le concrete modalità di attuazione della normativa da parte delle Regioni, ha ritenuto disattesi i principi di de-istituzionalizzazione stabiliti dalla legge 9/2012, che trovano fondamento nella legge 180, “in ragione di logiche funzionali a politiche di contenimento di paure collettive reali o presunte”. Secondo le Camere Penali le delibere di attuazione emanate dalle Regioni evidenziano complessivamente la tendenza a “far prevalere politiche di inclusione dei nuovi internati attraverso la costruzione delle nuove REMS (...), nella costruzione di nuove strutture ove spostare tanti quanti erano gli internati”, tanto da rendere necessario un fermo intervento del governo che con una nota programmatica ha invitato gli assessorati regionali a non disattendere la legge 9, provvedendo a potenziare anche i programmi riabilitativi e non solo a provvedere alla costruzione di nuovi posti letto. “Il dato preoccupante è che il numero dei posti programmati dalle regioni (1.022) coincide pericolosamente con il numero attuale degli internati”. (419)

Anche il limite dei venti posti letto che consentirebbe di tracciare una maggior distinzione, anche terapeutica, tra le Residenze ed il manicomio (420) può venir aggirata se si consente che un'unica struttura, magari divisa in sezioni, ospiti in sostanza più residenze. In effetti alcune regioni si stanno muovendo in tal senso come risulta dalla Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione dei programmi regionali relativi al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. (421) Si profilerebbe quindi una regionalizzazione più che un superamento degli Opg. (422)

Dalla relazione emerge come le regioni stiano dando la priorità alla istituzione delle REMS rispetto all'altro percorso previsto (ma solo dopo la novella della L. 57/2013) dalla riforma, che impone alle Regioni di predisporre attività volte ad incrementare la realizzazione dei percorsi terapeutico-riabilitativi finalizzati al recupero ed al reinserimento sociale, in linea con lo spirito della sentenza 253/2003 della Corte Costituzionale.

Per questo viene previsto che i fondi stanziati possano essere utilizzati anche per provvedere al potenziamento dei, spesso carenti, dipartimenti di Salute Mentale. (423) (Una soluzione intrapresa in particolare dalla Regione Emilia Romagna) (424)

Questa prevalenza data alle REMS rispetto all'incremento dei percorsi terapeutico riabilitativi deriva anche dalla circostanza che la normativa vincola la maggior parte dei fondi finanziari stanziati alla realizzazione delle strutture. (425)

Un ordine del giorno della Camera dei deputati del 20 maggio 2013, accolto dall'esecutivo, impegna il governo a vigilare affinché “i programmi regionali siano ispirati alla legge 180/1978 alla 833/1978 ed alla Carta Costituzionale, superando la logica manicomiale ed inaugurando percorsi innovativi di cura e di assistenza oltre che di reinserimento sociale, stimolando anche una progettualità di reinserimento abitativo, come housing sociale e lavorativo, come passo primario di un recupero delle relazioni e della autonomia della persona”. (426)

La completa medicalizzazione delle strutture pone anche problemi di coordinamento con le norme dell'Ordinamento Penitenziario.

Il DM 1/10/2012 Allegato A ha rinviato a futuri accordi da stipulare tra DAP, Ministero della Salute, Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano la disciplina dello svolgimento delle funzioni di cui alla legge n, 354/1975 ed al DPR 230/2000 anche con riferimento agli aspetti dell'esecuzione della misura di sicurezza ed ai rapporti con la magistratura. La norma crea già una incertezza nel momento in cui definisce funzioni quelli che in realtà si configurano anche come diritti soggettivi, azionabili in via giurisdizionale, sanciti con legge ordinaria e quindi non derogabili attraverso normazioni di natura secondaria. (427) In particolare si profilano vere e proprie incompatibilità tra alcune norme dell'Ordinamento Penitenziario e la struttura sanitaria delle REMS, quali le limitazioni di permanenza all'aperto (art 10), le norme disciplinari (32-40), l'impiego della forza fisica (art 41 comma 1), i limiti e le modalità dei colloqui e delle telefonate (art 18 ord. pen., 37 e 39 reg. es. ord. pen.); tutte norme che presuppongono una gestione di tipo penitenziario. (428)

Ulteriore difficoltà derivante dalla gestione totalmente sanitaria sarà quella, in assenza di un “ufficio matricola”, della gestione delle posizione giuridica degli internati, della gestione delle notifiche delle eventuali udienze o dei provvedimenti giudiziari, degli eventuali reclami degli internati per la violazione dei loro diritti, delle istanze da inviare alla magistratura di sorveglianza in relazione alle licenze (art 53 op) o alla semilibertà (art 48 comma 1 e 50 comma 2 op) (429) od delle istanze di revoca anticipata. Questione resa ancor più complessa vista la diffusa e cronica mancanza di una concreta assistenza tecnica legale nella prassi della fase dell'esecuzione non solo della misura di sicurezza ma anche della pena (430)

Il prevedere delle strutture chiuse per i folli autori di reati gravi non solo è inevitabile ma è anche logico nel caso in cui sia stato commesso di un reato grave (431) (mentre crea solo emarginazione per i reati minori), cui segue un provvedimento coattivo giurisdizionale, che trova la propria fonte nelle norme penali, che si esegue anche contro la volontà del soggetto.

La medicalizzazione non può e non deve nascondere la componente sanzionatoria della misura.

La psichiatrizzazione della struttura non implica il venir meno di una dimensione nei fatti penitenziaria. E' necessario avere ben presente come non sia assolutamente vero che delle “strutture totalmente sanitarizzate” siano per ciò stesso “immuni da qualsiasi caratterizzazione punitiva”, (432) o volte ad una politica dell'“umanità”, perché la punizione consiste nella perdita coattiva della libertà personale, nell'essere soggetti al potere dell'altro senza alcuna possibilità di una reale ed autentica dialettica.

Una sanzione legittima solo in quanto connessa ad un reato, non in quanto cura di un male.

Un male che comporta ancora, sia socialmente, sia per il nostro ordinamento, la perdita della “pienezza del proprio diritto; ed anche il carcere (...) a differenza dell'OPG è luogo di diritto”, (433) che quantomeno libera da uno stigma come quello della follia che talora può rivelarsi di per se insopportabile, lasciando lo spazio prevalente alla dimensione criminale dell'atto. Che potrebbe consentire una acquisizione di responsabilità che apre a zone di se ancora non compromesse, per reintegrare il soggetto malato negli spazi di coloro che, se pur reietti sono ancora dentro una dimensione sociale preclusa spesso arbitrariamente, senza giustificazione razionale, al malato.

Il giudizio di pericolosità trova la sua consistenza sostanziale solo nella necessità di mantenere una doppia cittadinanza che ha sempre meno ragione di esistere.

La previsione della non imputabilità sorta per proteggere l'incapace dalla pena, molto spesso non lo libera dalla punizione che si ripresenta nella medicalizzazione e, per reati modesti, diventa spesso più afflittiva del carcere.

E' anche difficile pensare che corrisponda a verità che il folle non abbia - se non in casi di psicosi gravissime - quella consapevolezza dei propri atti richiesta dalla norma penale e, nei fatti, concretamente accertata dagli organi giurisdizionali anche nel fatto del non imputabile. (un paranoico sa e vuole uccidere nel momento in cui sopprime il supposto persecutore e sa che l'omicidio è un reato). (434)

Una riorganizzazione dei servizi psichiatrici del carcere è possibile, per consentire a special prevenzione e retribuzione di ritrovare una nuova tensione dialettica, un nuovo rapporto di simmetria, arrivando ad una loro ridefinizione concettuale che le depuri dalle scorie moralistiche che ne hanno oscurato significato ed alterato gli effetti giuridici. Per poterle utilizzare al fine di mitigare la durezza delle sanzioni non solo dei non imputabili ma anche degli imputabili, sempre più visti come soggetti pericolosi ed “altri”.

E' necessario che il folle sia trattato più da colpevole, e che il colpevole di converso non sia più trattato da folle morale, da psicopatico incorreggibile.

Una unione della sanzione penale potrebbe consentire, se inquadrata in termini razionali, di vedere la malattia mentale ed in generale l'atipicità del deviante non solo in termini morali o tipologico - criminologici ma può imporre di far fronte secondo altre modalità a quel carico di disagio sociale e antropologico cui attualmente si risponde solo ed esclusivamente attraverso risposte penali.

L'emergere finalmente esplicito, senza infingimenti, della natura strettamente ed esclusivamente punitiva della detenzione (retribuzione) costringerebbe a dover dar conto della sofferenza (specialprevenzione) non solo degli internati non imputabili ma anche del 20% dei detenuti affetti da disturbi mentali, del 25% dei detenuti tossico dipendenti (435) e del fatto che ogni anno nelle carceri e negli Opg molti scelgono di togliersi la vita.

Note

1. Augusto Barbera, Francesco Cocozza, Guido Corso, Le situazioni soggettive. Le libertà dei singoli e delle formazioni sociali. Il principio di eguaglianza, in Manuale di diritto pubblico a cura di Giuliano Amato e Augusto Barbera, Società editrice il Mulino, Bologna, 1984, quinta edizione 1997, p. 248 e 250.; F Antolisei, Manuale di Diritto Penale, parte generale, Dott A. Giuffrè, Milano, sedicesima edizione 2003, p. 806.

2. Giovanni Fiandaca, Enzo Musco Diritto penale, parte generale, Zanichelli, Bologna, 2008, p. 809. Marinucci e Dolcini, in Diritto Penale, parte generale, Giuffrè, 2006, p.573, affermano inoltre che la diversità tra pena e misura di sicurezza dovrebbe fondarsi su una diversità di contenuti Se la misura di sicurezza detentiva è una mera variante nominalistica della pena e si riduce a strumento per aggirare i principi di garanzia propri delle pene (principio di legalità in relazione alla durata della pena, al principio di colpevolezza e al principio di irretroattività) come tali dovrebbero essere considerate incompatibili con la Costituzione.

3. Paolo Caretti, Ugo De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, G. Giappichelli editore, Torino, ottava edizione, 2006, p. 453.

4. Amato, Barbera, op. cit. p. 246.

5. Vassalli, op. cit. p. 325. La Corte Costituzionale proprio in relazione alle diversa “intensità” del principio di legalità nel campo delle misure di sicurezza, nella sentenza n. 57 del 1972 toccherà i due punti cronicamente critici dell'intera disciplina. Affermerà, infatti, che il principio di legalità in materia di misure di sicurezza dovrà essere inteso in una accezione necessariamente più elastica rispetto alle pene in quanto le fattispecie di pericolosità, essendo costituite su elementi sintomatici attinenti alla personalità, non possono essere ricostruite con la precisione propria delle fattispecie incriminatrici di diritto penale, inoltre il giudizio squisitamente prognostico, rivolto al futuro e non al passato non può non avere ampi margini di incertezza che incidono sul principio stesso. Cfr. Fiandaca, Musco, op. cit., p.810.

6. Carlo Chimenti, Gli organi costituzionali nella forma di governo Italiana, G. Giappichelli Editore, Torino 1989, p. 337.

7. Ivi p. 338.

8. Carlo Federico Grosso, Principio di colpevolezza e personalità della responsabilità penale in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006, p. 3.

9. Giuliano Vassalli, Introduzione al Volume Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, (cit) p. x.

10. C. Cass. 15 luglio 1960 cit. in Musco, op. cit., p. 175. Questa posizione relativa alla natura sostanzialmente unitaria di pena e misura di sicurezza è ormai la più condivisa nella dottrina e giurisprudenza attuali.

Per quanto attiene alla fungibilità tra pena e misura di sicurezza, nel senso della detraibilità del periodo espiato sine titulo in carcere alla durata minima della misura di sicurezza, la giurisprudenza esclude la fungibilità tra pene e misure di sicurezza visto che per essa permane la differente struttura, funzione e contenuto (Cass pen. sez. unite 10 febbraio 1962) Parte della dottrina, invece, tenendo conto del fatto che l'afflittività delle due sanzioni è identica ritiene possibile, in funzione garantista, la piena fungibilità tra custodia cautelare preventiva ed esecuzione della misura di sicurezza detentiva nel caso in cui la custodia sia seguita da una sentenza di proscioglimento e da una misura di sicurezza detentiva (Maria Antonella Pasculli, Le misure di sicurezza in Commentario al codice penale, diretto da M. Ronco, Zanichelli editore, vol. III, p. 789).

11. Daniele Spuri, Della Natura Giuridica delle misure di sicurezza, in Cass. Pen., 2012, 10, p. 2417 e ss.

12. Cass, sez I, 3 marzo 1978, 8 novembre 1978, n. 13512; Cass sez I, 26 aprile 1988, 1 ottobre 1988, n 9624; Cass, sez. V, 28 aprile 2004 - 15 giugno 2004, n. 26876 et al.

13. Domenico Pulitanò, Il Diritto penale fra vincoli di realtà e sapere scientifico in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 03, 2006, p. 0795 e ss.

14. Sent. C. Cost. 10 marzo 1966 n. 19, in Rivista italiana di diritto e procedura penale 1966, p. 1010.

15. Ivi, p. 1015 (corsivo mio).

16. Ivo Caraccioli, nota a sentenza n.19/1966 in Riv, It. Dir. e Proc. Pen 1966, p. 1014.

17. Sent C. Cost. 1966 n. 19, cit., p. 1015.

18. Sent C. Cost. n. 68/1967 p. 3.

19. Ivi p. 4.

20. Ibidem.

21. Ivi p. 5.

22. Enrico Altavilla, La dinamica del delitto, vol. II, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino, 1952, p. 575.

23. Franco Basaglia, L'istituzione negata (1968), BC Dalai Editore, Milano, 2010, p. 32.

24. Ibidem (corsivo mio).

25. Ivi, nota introduttiva., p. 5.

26. Ivi, p. 107.

27. Maxwell Jones, influenzato da Erving Goffman, aveva aperto a Singleton, in Scozia, un ospedale psichiatrico “aperto” ispirato al modello di una comunità terapeutica, che prevedeva tra i suoi trattamenti terapeutici anche delle riunioni tra pazienti e staff che, lungi dal voler edulcorare il divario di potere tra pazienti ed operatori o dal presentare una comunità idealizzata, erano volte a mettere in luce i contrasti che sussistevano all'interno della comunità ed a svelarne i contenuti e le dinamiche, anche conflittuali, tentando di affrontarle ed anche di renderle manifeste, se queste si presentassero in modo ambiguo, per evidenziare come l'ambiente sociale fosse uno dei fattori causali dell'insorgere attraverso i suoi conflitti, la sua violenza, le sue dinamiche di potere, della malattia mentale. Nell'intenzione di Basaglia questo tipo di comunità, essendo una istituzione aperta avrebbe dovuto privilegiare la soggettività del paziente a scapito della sua efficienza organizzativa. La libertà, vista come esercizio di autocontrollo, di responsabilizzazione e anche di comprensione della propria malattia, sarebbe stata la norma, così che il paziente avrebbe gradualmente imparato ad usarla e ad assumersi responsabilità, e superando, attraverso l'apertura di una porta fino a quel momento serrata, il carico simbolico ed emotivo dello stigma della pericolosità attribuitogli, non si sarebbe più sentito “pericoloso per se o per altri”. Prendendo però coscienza di essere un escluso reale (cfr. F. Basaglia, op. cit.;V. P. Babini, op. cit.; R. Canosa, op. cit.).

28. Franco Basaglia, op. cit., p. 118.

29. Franco Basaglia, op. cit., introduzione documentaria di Nino Vascon, p. 17.

30. Ivi, p. 18.

31. Franco Basaglia, op. cit., pp.144-155.

32. L'esperienza della distruzione ed il rifiuto del meccanismo distruttivo delle istituzioni manicomiali viene avvertito, grazie anche all'opera di Basaglia ed alla sua diffusione a livello internazionale, anche in tutti i paesi europei. L'Inghilterra ad esempio sarà chiamata per ben due volte in tre anni di fronte alla Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo per la violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti sancito dell'art 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, a causa delle terribili condizioni dei suoi ospedali psichiatrici. Riportiamo integralmente la descrizione fattane da Lawrence O. Gostin: “One day in 1977 I read a letter with an official seal and an urgent request. The European Commission of Human Rights wrote asking me to visit Mr. Adrian Clarke who was placed in solitary confinement at Broadmoor. When I arrived at Broadmoor, his psychiatrist, Dr [...], refused permission to see him, saying he was too dangerous. After treating litigation against the hospital, I was permitted to enter his isolation room. the stench was so overpowering that I could hardly breath. The room was filled with pots of urine, and faeces were caked on the walls. Clark was crouching in a corner, barely clothed and cowering. The room had only a tiny translucent window with bars, with little light, and no ventilation. He had been confined there for 5 weeks and allowed out for 20 minutes in every 24 hour period. I managed to have Mr Clarke eventually removed from isolation, but there was still the matter of ensuring that seclusion facilities were not used for convenience or punishment, and they were humane. It was not until 1980 that the European Commission negotiated a ‘friendly settlement’ in the case of A. v. United Kingdom, which entailed a small payment to Mr. Clarke and new rules on seclusion in psychiatric hospitals [...].The case of Nigel Smith, or B. V. United Kingdom, was another test case [...] in the mid 1970s. Smith was detained in grossly overclouded conditions at Broadloom Hospital [...] The applicant received no medical treatment such as medication and almost never saw his doctor in more than a decade of confinement. The commission determined his complaint to be admissible [...] The conditions of his detention and the question of his medical treatment must be looked at together and, if so examined, raise issues under Article 3”. Lawrence O. Gostin, From a civil libertarian to a Sanitarian, Journal of Law and Society Volume 34, number 4, December 2007, p. 604.

33. Edoardo Re (a cura di), I servizi di salute mentale: storia e organizzazione istituzionale, Università degli studi di Milano - Azienda Ospedaliera Ospedale Ca' Randa - pubblicazione a diffusione interna, ottobre 2006, p. 8.

34. G. Tartaglione, Trattamento giuridico dei malati di mente, in Rass. studi Penit. 1976, p. 205.

35. Franco Basaglia, op. cit. p. 166.

36. Ivi, p. 124.

37. Ivi, p. 128.

38. Ivi, p. 142.

39. Karl Jaspers (1883-1969) è il padre della psicopatologia fenomenologica, fonda il proprio metodo sui principi della fenomenologia di Husserl, in particolare sulla opposizione al modello biologico ed oggettivante della scienza positivista e sul tentativo di ridare centralità alla soggettività dell'individuo, che potrà essere conosciuta attraverso un metodo che permetta di coglierne la sua unicità.

La malattia mentale, per Jaspers, non richiede spiegazioni descrittive ma comprensione, e la comprensione può avvenire soltanto attraverso l'empatia, l'immedesimazione nell'altro e l'epochè: la sospensione del giudizio, la messa tra parentesi delle categorie attraverso le quali classifichiamo il mondo, quindi anche le categorie nosografiche.

Se in una prima fase del suo pensiero Jaspers ritiene che vi siano alcune forme di psicopatologia assolutamente incomprensibili, perché non accessibili attraverso l'empatia e la comprensione in quanto radicalmente diversi rispetto alla comune sensibilità psichica, come ad esempio la schizofrenia, successivamente egli muterà la propria teoria, affermando che qualsiasi realtà psichica, sia essa sana o patologica non deve né essere compresa per empatia né ricondotta a precisi nessi causali o nosografici, come invece sosteneva la Scuola positiva. Ogni manifestazione della psiche deve essere vista come rivelatrice dei modi essenziali in cui un esistenza riceve il mondo, lo trasforma e si progetta, la follia non è altro che uno dei tanti modi attraverso i quali un esistenza si dispiega nel mondo, un modo che potrà essere limitato, appiattito, ma sempre sullo stesso piano rispetto ad una esistenza “sana”, non vi è alcuna degenerazione anatomica o funzionale, nessuna decadenza, od atavismo, non vi è alcuna distinzione tra un'esistenza sana ed una malata se non relativamente al modo di declinarsi nella realtà fenomenica.

Si configura, quindi, un quadro epistemologico in cui si rifiuta qualsiasi forma di riduzionismo, non vi sono “deviazioni dalla norma” ma vi è solo un processo gnoseologico dell'esperienza umana che è consapevole di quanto le categorie nosografiche od etiche ostacolino una piena comprensione dell'altro.

Cfr. Karl Jaspers Psicopatologia generale (1913), Psicologia delle visioni del mondo (1919), Giovanni Stanghellini L'equivoco della coscienza, fenomenologia, Coscienza, inconscio, Psiche-Rivista di cultura psicoanalitica (società Psicoanalitica Italiana) n. 1, 2012.

40. Philippe Pinel, il primo liberatore dei folli, condivideva con Jaspers il principio della parzialità della follia, secondo il quale nessun folle è mai totalmente tale, egli infatti conserva sempre una parte di sé non toccata dalla malattia, che potremmo identificare con in quella componente psichica che, riuscendo ad astrarsi dalla follia, quasi in posizione di “terzo osservatore”, riesce a cogliere la parte di sé malata o sofferente ed a fronteggiarla. Pinel condivideva con Jaspers anche la concezione della malattia mentale vista in estrema sintesi come “risultante dialettica tra persona e vulnerabilità”, cfr. Giovanni Stanghellini, op. cit.

41. Giovanni Jervis, Crisi della psichiatria e contraddizioni istituzionali in L'Istituzione negata, op. cit., p. 299.

42. Franco Basaglia op. cit. p. 146.

43. Novella Bugetti, L'amministrazione di sostegno tra tutela della persona e limiti di capacità, Università degli Studi di Bologna, Tesi dottorato, Bologna, aa. 2006 - 2007, p. 8.

44. La legge 431/68 disponeva: 1) che gli ospedali psichiatrici avessero un massimo di 600 posti letto, con divisioni con un numero massimo di 125 posti letto; 2) la istituzione di divisioni di psichiatria all'interno degli Ospedali psichiatrici; 3) un rapporto tra personale di cura e pazienti non inferiore ad 1 operatore ogni 4 ricoverati; 4) prevedeva l'intervento non solo psichiatrico ma anche psicologico e psicosociale a favore degli internati; 5) aboliva l'obbligo della registrazione del ricovero in ospedale psichiatrico nel casellario giudiziario, previsto dal codice di procedura penale del 1930; 6) prevedeva che venissero istituiti i Centri di Igiene Mentale (CIM), delle strutture a carattere ambulatoriale finalizzate all'assistenza di coloro che erano stati dimessi dall'ospedale psichiatrico. I Centri di Igiene Mentale seguivano il modello della cosiddetta psichiatria di settore Francese, che prevedeva la creazione dei servizi psichiatrici sul territorio ed il superamento del manicomio.

45. Bugetti riporta come esempio un regolamento manicomiale che non permetteva l'ingresso di libri o riviste senza autorizzazione dei sanitari. Bugetti, op. cit, p. 13.

46. Agostino Pirella, Poteri e Leggi Psichiatriche in Italia (1968-1978) dal sito Psichiatria Democratica.

47. R. Canosa, op. cit. p. 174.

48. G. Tartaglione, Trattamento giuridico dei malati di mente in Rass. Studi Penit., 1976, p. 203 e ss.

49. Esperimenti simili a quelli di Basaglia si ebbero infatti a Perugia, che aveva, più moderatamente, tentato di umanizzare il manicomio ed aveva iniziato un suo parziale svuotamento attraverso l'apertura dei Centri di igiene mentale previsti dalla legge del 1968. A Firenze, dove l'Associazione S. Salvi per la lotta delle malattie mentali portò alla luce le violenze che si perpetravano contro gli internati del manicomio, sottolineando come queste fossero una componente strutturale del processo di istituzionalizzazione. L'associazione non era composta solo da medici, od esponenti di quella che si è soliti chiamare la società civile o da parenti dei malati ma anche dai malati stessi. A Milano nasce il Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia che incentra la sua attività sulla ricerca culturale per tentare di colmare il gap che si era formato tra il mondo accademico italiano reclinato esclusivamente sulla componente biologica della malattia mentale e le ricerche internazionali in campo psicoanalitico, sociologico, psicologico, linguistico e semiotico. Basti solo pensare che Psicopatologia generale di Jaspers - pubblicato per la prima volta nel 1913 - verrà tradotto in italiano solo nel 1964. Il gruppo darà vita alla pubblicazione Psicoterapia e scienze umane che cercherà di approfondire il problema della tecnica psicoterapeutica in modo interdisciplinare, in controtendenza rispetto a Basaglia ed agli altri movimenti riformatori che non approfondiranno in alcun modo questo aspetto, pagandone il prezzo con il finire degli anni della contestazione. Sergio Piro direttore dell'Istituto Mater Domini a Nocera superiore cercherà di umanizzare il manicomio (cfr. V. P. Babini, op. cit.).

50. Sarebbe scorretto sostenere che l'appoggio politico a Basaglia provenga solo dall'ala movimentista ed operaia, anzi l'appoggio più efficace nei confronti dello psichiatra veneziano proverrà soprattutto dai governi di centrosinistra ed in particolare da parte della Democrazia Cristiana e dai Socialisti. Sarà infatti il Ministro socialista della Sanità Mariotti, dopo aver definito i manicomi dei Lager, delle Bolge Dantesche, ricollegandosi in modo esplicito all'esperienza condotta da Basaglia all'interno dell'ospedale di Gorizia a dare impulso alla legge del 1968. Sarà un democristiano, il presidente della provincia di Trieste, a chiamare Basaglia alla direzione del manicomio Triestino, dove Basaglia darà vita al tentativo più radicale di liberazione del manicomio che farà da precursore alla legge 180 (cfr. V. P. Babini, op. cit., Canosa op. cit., Pirella op. cit.).

51. Lawrence O Gostin, docente alla Georgetown University ed alla Johns Hopkins University, membro della Task Force creata sotto la Presidenza Clinton per la riforma dell'assistenza sanitaria degli Stati Uniti, ha annoverato Franco Basaglia, insieme a Sazs e Goffman, tra gli epigoni di una concezione del trattamento dei malati mentali che superando una politica della paura si basava più su una politica di inclusione e di umanità. Gostin così chiosa: “During a conference organized by Basaglia in Bologna, my most vivid memory was my 18-month-old son Bryn being passed around among a joyous audience of recently freed mental patients”. Gostin, From a civil libertarian to a Sanitarian, Journal of law and society, Volume 34, number 4, December 2007.

52. V. P. Babini, op. cit., p. 170.

53. Marco Pellissero, op. cit., p. 94.

54. Bisogna tener presente tuttavia che la norma fu originariamente creata al fine di equiparare il trattamento dei malati di mente autori di reato con i malati di mente “civili”, generalizzando la possibilità di internamento nei manicomi civili e per tentare così una prima forma di territorializzazione della esecuzione della misura di sicurezza (cfr. Alessandro Margara, Manicomio giudiziario e legge 180, in Fogli d'informazione nº 5-6, 2008, p. 116).

In realtà il fatto che l'intera normativa in tema di misure di sicurezza rimanesse invariata e che vi fosse la pratica identità strutturale e trattamentale tra le due istituzioni neutralizzava, di fatto, le intenzioni del legislatore (cfr. R. Castellani, R. Correani, Ospedale Psichiatrico Giudiziario: sottosistema penitenziario, in Rass Stud Penit. 1982, p. 789).

55. Enrico Carbone, Habeas corpus e sofferenza psichica: riflessioni di un giudice tutelare, in Dir. Famiglia, 2005, 02, 0611.

56. Daniele Piccione, Riflessi Costituzionalistici del pensiero di Franco Basaglia a trent'anni dalla morte, inGiur. Cost., 2010, 05, 4137.

57. Originariamente inquadrata nel progetto di riforma della Sanità, la riforma psichiatrica fu stralciata ed approvata separatamente dal parlamento a larghissima maggioranza per impedire lo svolgimento del referendum abrogativo della legge del 1904 promosso dal Partito Radicale. E' interessante notare che tale decisione, come riporta Bruno Orsini, Relatore della Legge 180 alla Camera dei Deputati, venne presa non tanto per evitare un vuoto legislativo derivante da un possibile esito favorevole del referendum quanto, al contrario, per evitare che sull'onda emotiva causata dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse e sulla conseguente richiesta di maggiore ordine e sicurezza da parte dell'opinione pubblica, il referendum, se respinto, confermasse indirettamente la legge manicomiale del 1904. Successivamente la legge 180 venne riassorbita nella legge 833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (cfr. Bruno Orsini, Vent'anni dopo; Babini, op. cit.).

58. Lg. 180/78 Art. 33: “Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Nei casi in cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l'art 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata del medico. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono attuati dai presidi e servizi pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. L'unità sanitaria locale opera per ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori, sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità.

Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, l'infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno.

Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio.

Sulle richieste di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. I provvedimenti di revoca o modifica sono adottati con lo stesso procedimento del provvedimento revocato o modificato”.

Art. 34: “La legge regionale, nell'ambito della unità sanitaria locale e nel complesso dei servizi generali per la tutela della salute, disciplina l'istituzione di servizi a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitative relative alla salute mentale.

Le misure di cui al secondo comma dell'articolo precedente possono essere disposte nei confronti di persone affette da malattia mentale.

Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi territoriali extra ospedalieri di cui al primo comma.

Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui al terzo comma dell'art. 33 da parte di un medico della unità sanitaria locale e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel presente comma.

Nei casi di cui al precedente comma il ricovero deve essere attuato presso gli ospedali generali, in specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura all'interno delle strutture dipartimentali per la salute mentale comprendenti anche i presidi e i servizi extra ospedalieri, al fine di garantire la continuità terapeutica. I servizi ospedalieri di cui la presente comma sono dotati di posti letto nel numero fissato dal piano sanitario regionale”.

Art. 35: “Il provvedimento con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, da emanarsi entro 48 ore dalla convalida di cui all'articolo 34, quarto comma, corredato dalla proposta medica motivata di cui all'art 33, terzo comma, e dalla suddetta convalida deve essere notificato entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune.

Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.

Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è disposto dal sindaco di un comune diverso da quello di residenza dell'infermo, ne va data comunicazione al sindaco di quest'ultimo comune, nonché al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune di residenza. Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è adottato nei confronti di cittadini stranieri o di apolidi, ne va data comunicazione al Ministero dell'Interno, e al consolato competente, tramite il prefetto.

Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico della unità sanitaria locale è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta motivata al sindaco che ha disposto il ricovero, il quale ne dà comunicazione al giudice tutelare, con le modalità e per gli adempimenti di cui al primo e secondo comma del presente articolo, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso. Il sanitario di cui al comma precedente è tenuto a comunicare al sindaco, sia in caso di dimissioni del ricoverato che in continuità di degenza, la cessazione delle condizioni che richiedono l'obbligo del trattamento sanitario; comunica altresì la eventuale sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso. Il sindaco, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione del sanitario, ne dà notizia al giudice tutelare.

Qualora ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e per amministrare il patrimonio dell'infermo.

La omissione delle comunicazioni di cui al primo, quarto e quinto comma del presente articolo determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio.

Chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre al Tribunale competente per territorio ricorso contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare. Entro il termine di trenta giorni, decorrente dalla scadenza del termine di cui al secondo comma del presente articolo, il sindaco può proporre analogo ricorso avverso la mancata convalida del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio.

Nel processo davanti al Tribunale le parti possono stare in giudizio senza ministero di difensore e farsi rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce al ricorso o in atto separato. Il ricorso può essere presentato al Tribunale mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Il presidente del Tribunale fissa l'udienza di comparizione delle parti con decreto in calce al ricorso che, a cura del cancelliere è notificato alle parti e al Pubblico Ministero.

Il presidente del Tribunale, acquisito il provvedimento che ha disposto il trattamento sanitario obbligatorio e sentito il Pubblico Ministero, può sospendere il trattamento medesimo anche prima che sia tenuta l'udienza di comparizione.

Sulla richiesta di sospensiva il presidente del Tribunale provvede entro dieci giorni. Il Tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il Pubblico Ministero, dopo aver assunto le informazioni e raccolto le prove disposte di ufficio o richieste alle parti.

I ricorsi e i successivi procedimenti sono esenti da imposta di bollo. La decisione del processo non è soggetta a registrazione”.

59. Maria Grazia Giannichedda, La democrazia vista dal manicomio, un percorso di riflessione a partire dal caso Italiano in Animazione sociale, n. 4 aprile 2005 p. 23.

60. Ivi p. 24.

61. Trattandosi di una legge quadro la 180 avrebbe dovuto trovare completamento attraverso la legislazione regionale. Fu cosi che la Legge Basaglia ebbe quello che si suole definire un'applicazione a macchia di leopardo. Inoltre si registrarono alcune resistenze organizzative non solo degli organi politici ma anche di alcuni psichiatri, che spinti da un intento provocatorio applicarono in modo letterale la legge, mettendo i pazienti, arbitrariamente considerati guariti, su un pullman per spedirli nel luogo di residenza, magari dopo molti anni di assenza, o semplicemente aprendo le porte dei reparti senza assumersi la responsabilità di prendere effettivamente in carico i malati, nel nuovo senso che lo spirito della legge gli imponeva. Successivamente all'entrata in vigore della legge si formarono associazioni di familiari dei sofferenti psichici fortemente contrarie alla 180. Altre associazioni, pur favorevoli alla sua impostazione generale, lamentavano la mancata applicazione da parte delle regioni. Incominciò a farsi largo l'idea che la legge Basaglia fosse una legge inapplicabile e si susseguirono una serie di istanze di tipo repressivo che chiedevano il ripristino, anche se in forma edulcorata, di istituti che avessero di fatto funzioni manicomiali. E' comunque indubbio che accanto ad alcune zone d'eccellenza dove la 180 ha trovato piena applicazione grazie al buon funzionamento dei Dipartimenti di Salute Mentale, sono coesistite altre realtà in cui la mancata applicazione della legge ha portato al proliferare di strutture private convenzionate che hanno tutte le caratteristiche custodiali e securitarie dei manicomi. Inoltre le condizioni di erogazione dei servizi psichiatrici nelle sezioni degli ospedali ordinari sono spesso da considerare molto al di sotto di uno standard dignitoso e non improntate al rispetto della persona ricoverata (cfr. Pirella op. cit.; Giannichedda op. cit.).

La chiusura definitiva degli ultimi istituti manicomiali si ebbe solo con l'art 3 comma 5 della legge Finanziaria del 23 dicembre 1994 n. 724 che fisso al 31 dicembre 1996 la data per la definitiva chiusura e dismissione dei residui manicomiali. Il termine fu poi spostato dalla successiva legge Finanziaria (449/97) al 31 marzo 1998, imponendo alle regioni di provvedere a realizzare delle residenze territoriali. Il progetto Obbiettivo Tutela Salute Mentale 1998/2000, D.P.R. 10 novembre 1999 sancisce poi l'istituzione dei Dipartimenti Salute Mentale presso le Aziende Sanitarie. I Dipartimenti si articolano nei Servizi Psichiatrici Diagnosi e Cura presso gli ospedali civili, nei Centri di Salute Mentale Territoriale nelle Residenze Riabilitative.

62. Bruscaglia, Legge 13 maggio 1978, n. 180. Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, p. 196 cit. in Bugetti op. cit., p. 16, nota 32.

63. Agostino Pirella, Poteri e leggi psichiatriche in Italia (1968-1978) dal sito Psichiatria Democratica.

64. Daniele Piccione, op. cit., p. 4148.

65. Bugetti, op. cit., p. 10.

66. Daniele Piccione, op cit., p. 4149.

67. Sul punto cfr. anche Curare e Punire, Unicopli, Milano, 1988, introduzione, p. 9.

68. Philippe Robert, La crise de la notion de dangerosité, Orientations critiques dans la domaine de la dangerosité, Centre International De Criminologie Clinique VIII Journées Internationales de Criminologie Clinique Comparée, Genova 25- 27 maggio 1981 in Rass. it. Crim. 1982.

69. Francois Ost, Mosè, Eschilo, Sofocle. All'origine dell'immaginario giuridico, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 125.

70. Eschilo, Eumenidi, sulla base traduzione oxoniense di D. Page (1972) v. 189 e ss., reperibile in Thesaurus Linguae Graecae online.

71. Donatien Alphonse Francois De Sade, Il giudice beffato (1787), Sellerio Editore, Palermo, 2002, p. 64.

72. L. Carrol, Attraverso lo specchio (1871), cit. in Velo Dalbrenta, op. cit., p.137.

73. Ambrogio Santambrogio, Il senso comune appartenenze e rappresentazioni sociali, Gius Laterza 2006 Bari, p. ix.

74. Ibidem.

75. Robert, op. cit., p 324 e 326.

76. T.W. Harding, Du danger, de la dangerosité et de l'usage médical de termes affectivement chargés “Déviance et Société”, 1980, IV, 4 331-48 cit. in Robert, op. cit.

77. C. Debuyst, La notion de dangerosité et sa mise en cause, Orientations critiques dans la domaine de la dangerosité, Centre International De Criminologie Clinique, VIII Journées Internationales de Criminologie Clinique Comparée, Genova 25-27 maggio 1981 in Rass. it. Crim. 1982.

78. Debuist, op cit p. 309.

79. Raffaele Castiglioni, Il ritorno del Mariolino ovvero dell'insostituibile funzione del Manicomio Criminale, in Rass Penit. e Crim., 1982, p.108. Castiglioni partendo da questa storia arriva a conclusioni opposte alle mie, e critica la scelta della chiusura del manicomio che vede come una sorta di ultimo rifugio per le persone rifiutate da tutti.

80. Ibidem.

81. Ivi, p.108.

82. Ivi, p.110.

83. Ivi, p. 118, Poi accompagnato da un ulteriore esposto alla Procura, presentato questa volta da un medico.

84. Relazione dell'assistente sociale dell'Amministrazione Provinciale, 17 marzo 1983, in posizione, cit. Ivi, p. 119 nota 36.

85. Lettera all'assistente sociale G., 22 luglio 1983, in posizione, cit. ivi, p. 119, nota 37.

86. Pretura di Padova 11 giugno 1982 - Giud Ferrato - Vitocco, in Rassegna di giurisprudenza Rivista italiana di medicina legale 1982, p.1003.

87. Ibidem.

88. Ibidem.

89. Ivi, pp. 1003-1004.

90. Francesco Introna Coscienza e Volontà, capacità di intendere e volere ed art 222.cp. In un caso di cleptomania, commento a sent. cit., in Rivista italiana di medicina legale 1982, p.1003.

91. Ibidem.

92. Giuliano Vassalli, L'abolizione della pericolosità presunta degli infermi di mente attraverso la cruna dell'ago, in G. Cost.1982, p. 1211.

93. Sentenza Corte Costituzionale 139/1982 (corsivo mio).

94. Vassalli, op. cit., p.1221.

95. Enzo Musco, Variazioni minime in tema di pericolosità sociale in Riv. It. Dir. Proc. Pen, p. 1588.

96. Ivi, p. 1593.

97. Ivi, p. 1595.

98. Ivi, p. 1596.

99. Perché la malattia, essendo in questo caso meno grave, è maggiormente suscettibile di guarigione e perché la seminfermità mentale segue ad una sentenza di condanna, per cui è probabile che si abbiano tre gradi di giudizio. Aumenta quindi il lasso di tempo intercorrente tra la commissione del fatto ed il momento dell'esecuzione della misura che inoltre viene eseguita dopo l'espiazione della pena.

100. Giuliano Vassalli, Infermità psichica sopravvenuta e nuove leggi sanitarie, in Giur. Cost 1982, p. 1245.

101. Alberto Manacorda Infermità mentale, custodia e cura alla luce della recente giurisprudenza Costituzionale, in Foro it., 1982, p. 293.

102. Ivi, p. 294.

103. Ibidem.

104. Ibidem.

105. Ivi, p. 295.

106. Nel 1982 si registravano infatti 1584 internati; nel 1985 si passa a1344; nel 1990 se ne registrano 1068; nel 1995 si arriva a 1121 internati. Romano Saurignani, op.cit, p. 551; cfr. anche Pellissero, op. cit., p. 106.

107. Bizzarri, op cit., p. 145.

108. Karl R. Popper, Congetture e Confutazioni (1969), Il Mulino, Bologna, 2009, p. 64. Sul piano dell'epistemologia scientifica Popper si ricollega a David Hume che per primo formulò il problema dell'induzione affermando che tutte le asserzioni induttive sono in realtà frutto di ragionamenti circolari perché presuppongono una legittimità dell'induzione indimostrabile nè in via deduttiva, nè in via induttiva. Popper propone, quindi, l'abbandono del metodo induttivo per enumerazione, attraverso il quale si arrivava alla costruzione di una legge scientifica attraverso un procedimento di generalizzazione risultante dall'osservazione di un numero finito di casi. Affermando l'impossibilità di sancire regole generali dall'osservazione di una sequenza di casi particolari (il fatto che io abbia osservato il sole sorgere e tramontare nell'arco di una giornata non implica che sempre il sole sorga e tramonti come dimostra il caso del sole a mezzanotte dei paesi scandinavi oppure il fatto che abbia sempre osservato un numero enorme di cigni bianchi non giustifica l'asserzione “tutti i cigni sono bianchi”, per questo una legge scientifica non potrà mai essere verificata tramite l'osservazione ma solo falsificata. Il falsificazionismo di Popper è stato comunque sottoposto a critiche da alcuni filosofi della scienza come ad esempio Feyerabend.

109. Popper, infatti, ritiene che:

  1. Sia facile raggiungere la conferma di ogni teoria nel caso in cui il ricercatore cerchi solo conferme di essa.
  2. Le conferme possono considerarsi tali solo se sono il risultato di previsioni rischiose; nel senso che, senza l'ausilio della teoria formulata ci saremmo aspettati un evento incompatibile con questa (ad es la teoria che afferma la capacità della forza di gravitazione di attrarre non solo i corpi materiali ma anche la luce, cosi come affermato nella teoria della relatività generale da Einstein).
  3. Ogni teoria scientifica “valida” deve tradursi in una proibizione: cioè deve precludere l'accadimento di certi eventi o fenomeni, delimitando un campo di applicazione della teoria definito compiutamente. Tanto più compiutamente viene definito il campo tanto più potrà considerarsi valida la teoria (Ad es. nel nostro caso una teoria che affermi il particolare legame tra follia e pericolosità dovrebbe escludere l'influenza su di esso dell'ambiente o di altri fattori esogeni al fenomeno della follia posto che sia possibile una delimitazione netta tra elementi patologici intrapsichici, endogeni ed esogeni extra psichici).
  4. Una teoria che non possa essere confutata da alcun evento concepibile, non è scientifica.
  5. Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, di confutarla. La controllabilità si identifica con la confutabilità.
  6. I dati di conferma di una teoria non dovrebbero avere valore se non si configurino come un tentativo serio benché fallito di confutazione.
  7. Deve essere evitata ogni “mossa” o “stratagemma convenzionalistico”, ovverosia introdurre qualche assunzione, aggiuntiva o ausiliare alla teoria od una reinterpretazione della stessa predisposta allo scopo di sottrarla alla confutazione, una volta che siano emersi dati che smentiscano l'asserzione originaria della teoria. Una tale operazione distrugge lo stato scientifico della teoria stessa. (Karl Popper, op cit., p. 66)

Dopo le critiche mosse da Kuhn e da Lakatos, i quali hanno affermato che una teoria scientifica non viene abbandonata perché alcuni fatti la contraddicono ma solo in seguito alla prevalenza di teorie rivali che possano essere confrontate, portando all'eliminazione della teoria peggiore, Popper mitigherà le sue convinzioni affermando l'opportunità di mantenere una teoria falsificata finché non sia disponibile una alternativa migliore. Cfr. Nicola Abbagnano, Falsificabilità, principio di (Voce) e Falsificazionismo (Voce), Dizionario di filosofia, terza edizione aggiornata e ampliata da Giovanni Fornero, UTET, 2008, p. 458.

110. Ivi, p. 69.

111. Bizzarri, op. cit., p. 145.

Sul punto si veda anche Ota de Leonardis Statuto e figure della pericolosità sociale tra psichiatria riformata e sistema penale note sociologiche in Curare e Punire, Unicopli, Milano, 1988, p. 50.

112. L'Evidence Based Medicine, nata negli anni '60 del 900 enfatizza l'importanza di una diagnosi che non sia basata su informazioni aneddotiche o sull'esperienza personale del medico ma sugli studi scientifici più accreditati e fatti su ampi campioni statistici, dati epidemiologici. Preoccupandosi, inoltre, di formulare modelli formali sia per i procedimenti razionali sia per le decisioni mediche, nonché procedere alla formazione del personale per una corretta interpretazione dei test diagnostici. Cfr. Paolo Cherubini, Fallacie nel ragionamento probatorio in Luisella de Cataldo Neuburger (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, CEDAM, Padova, 2007, p. 267.

113. Ivi, p. 251 e ss.

114. P.K. Feyerabend, Il realismo scientifico e l'autorità della scienza, il Saggiatore, Milano, p. 271 e ss.

115. Ivi, p. 292. Feyerabend abbraccia inizialmente le posizioni teoriche di Popper secondo il quale era possibile predisporre un metodo scientifico razionale che potesse progressivamente approssimarsi alla verità attraverso l'elaborazione di ipotesi deduttive da cui ricavare delle conclusioni da sottoporre ad una verifica/falsificazione empirica (eliminando qualsiasi metodo induttivo tipico dell'empirismo). Successivamente Feyerabend affermerà l'impossibilità di operare una netta separazione tra metodo scientifico e metodo non scientifico poiché riteneva smentita dalla stessa storia delle scoperte scientifiche l'idea che vi fosse un metodo universale in quanto totalmente razionale, come sostenuto dall'epistemologia scientifica classica. Feyerabend sosterrà il cosiddetto anarchismo metodologico affermando l'inverosimiglianza dell'ipotesi secondo la quale esiste una precisa regola cui subordinare l'atto conoscitivo che porta ad una scoperta scientifica. Non esiste quindi alcun metodo scientifico valido, anzi la logica della scoperta scientifica impone di infrangere le regole ed i metodi esistenti proprio per conseguire un progresso. Per evitare qualsiasi omologazione è necessaria le totale libertà metodologica. Le teorie inoltre non sono neutrali e universali ma sono intimamente connesse e fortemente influenzate al contesto storico e sociale in cui sorgono. Per questo motivo la scienza è un processo storico, non omogeneo e soprattutto privo di Verità. L'importanza del progresso scientifico nasce per motivi meramente opportunisti e pratici, per il semplice fatto che ci si allontana da metodi arcaici. Feyerabend, negando un fondamento assoluto dell'epistemologia scientifica, non rifiuta ogni regola razionale che consenta la condivisione del sapere ma solo un metodo che si auto imponga come assoluto e vincolante in quanto ritiene questa visione eccessivamente omologante e storicamente implausibile. Cfr. P.K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975) Feltrinelli, Milano, 2003; Isabel Costanzi, Paul K. Feyerabend (1924-1994) Filosofo della scienza, Università degli studi di Brescia, paper n. 117, Settembre 2011; Paul K. Feyerabend (voce), Dizionario di Filosofia Treccani, 2009; P. Tilocca, L'anarchismo epistemologico di P.K. Feyerabend, in “XÁOS. Giornale di confine”, Anno IV, N.1 Marzo - Giugno 2005/2006.

116. William Shakespeare, Macbeth (1605-1608), Garzanti, Milano, 1989, p. 9.

117. Cfr. Domenico Pulitanò, L'imputabilità come problema giuridico in Curare o punire, op. cit., p.134. Pulitanò usa questa immagine per descrivere la sovrapposizione di piani nella fattispecie relativa all'imputabilità ma è utilizzabile a fortiori per la pericolosità.

118. Benedetto Saraceno, Sapere psichiatrico e sapere giuridico, un incontro possibile?, Curare o punire, op. cit., p. 188.

119. Ivi, p. 187.

120. Ibidem.

121. Ivi, p. 190.

122. Ibidem. Sul punto cfr. anche Ugo Sabatello, Psicanalisi e psichiatria forense una difficile integrazione, in Rass. It. Crim. 02 2012, p. 374.

123. Pellissero, op. cit., p. 7.

124. Mary Gibson, op. cit., p. XIV.

125. Eugenio Picozza, Laura Capraro, Vera Cuzzocrea, David Terracina, Neurodiritto. Una introduzione, Giappichelli, Torino, 2011, p. 43.

126. Cfr. Ivi, p.47 e p.189.

127. Malgrado la maggior parte dei neuroscienziati sostengano che le neuroscienze, abbiano dimostrato che mente e cervello coincidano e che quindi la mente viene regolata dalle regole del modo fisico e quindi allo stesso suo modo essa è determinata ed il libero arbitrio sarebbe una illusoria finzione seppur funzionale al vivere sociale. Il determinismo della mente sarebbe dimostrato dall'esperimento di Benjamin Libet, il quale ha dimostrato che gli impulsi neurologici che danno vita ad una specifica azione sono osservabili in via sperimentale alcuni millisecondi prima che l'individuo chiamato a compiere l'azione abbia la percezione cosciente di aver deciso di porla in atto, la coscienza umana quindi avrebbe al massimo un potere di veto sugli impulsi all'azione. Daniel C. Dennet, pur muovendosi nella stessa prospettiva totalmente biologica dell'agire umano sostiene invece, contestando Libet da una prospettiva evoluzionista, che la libertà esista e si sia evoluta gradualmente e sia ancora in fase di evoluzione, anche perché il cervello, la mente risulta essere il frutto di un evoluzione ulteriore, data dall'evoluzione culturale, per cui il cervello si configura come l'hardware e la mente come il software che viene alimentato dalla cultura e dai sistemi politici in cui l'individuo vive. Daniel C. Dennet, L'evoluzione della libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.

128. Ivi, p. 53.

129. Ivi, p. 56.

130. Daniela Ovadia, Il caso di Como e le neuroscienze in Tribunale in le scienze Blog, edizione italiana di Scientific American, 6 settembre 2011.

131. La monocausalità viene mitigata dall'affermazione fatta dalle neuroscienze della “plasticità del cervello” per cui gli stessi circuiti neuronali possono essere plasmati dall'ambiente e dalle esperienze di vita individuale.

132. Le più importanti tecniche di neuroimaging sono la Tomografia ad emissione di Positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (FMRI) utilizzata anche in relazione a compiti cognitivi articolati quali il mentire o il prendere decisioni. Le tecniche si basano sul semplice assunto che i singoli neuroni nel momento in cui si scambiano informazioni attraverso scariche elettriche hanno bisogno di maggior energia, che nel cervello si ottiene dal glucosio e dall'ossigeno. Visto che glucosio e ossigeno vengono trasportati dal sangue, l'area celebrale anatomica nella quale vi sarà il maggior afflusso di sangue durante una specifica attività celebrale, così come individuata dalle tecniche, verrà collegata funzionalmente a quella attività.

133. Isabella Merzagora Bestos, Il colpevole è il cervello, Neuroscienze, Libero arbitrio: dalla teorizzazione alla realtà in Riv. It. Med. Leg. 1/2011, p. 184.

134. Messina, op. cit., p. 349.

135. Ivi, p. 350.

136. Cfr. ivi, p. 349.

137. Ivi, p. 195.

138. Nikolas Rose, La politica della vita, Einaudi, 2008, p. 371.

139. Michael S. Gazzaniga, M.S. Stevens, Free Will in the Twenty-first century, in AA.VV, Neuroscience and the Law, Dana press, New York / Washington D.C. 2004, p. 69.

140. Amedeo Santorusso, Il dilemma del diritto di fronte alle neuroscienze in Le neuroscienze e il diritto, Ibis, Como-Pavia, 2009, p. 17.

141. Giulia Messina, Le neuroscienze nel processo, profili problematici e orizzonti prospettici di un nuovo confronto tra scienza e diritto in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2010, p. 347.

142. Nikolas Rose, La politica della vita, Einaudi, 2008, p. 369.

143. Maria Elena Magrin, Cristina Bruno, Prospettive interdisciplinari per la giustizia penale. Malati o malvagi? Valutare la libertà umana in azione in Cass. Pen, 2004, 11, p. 3860 e ss.

144. Marta Bertolino, Le incertezze della scienza e le certezze del diritto a confronto sul tema dell'infermità mentale in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, 02, 0539.

145. Gianluigi Ponti, Isabella Merzagora, Imputabilità e pratiche della perizia psichiatrica, in Curare e Punire, op. cit., p. 75.

146. Kring Ann, Davison Gerald, Neale John, Jhonson Shen, Psicologia Clinica, Zanichelli, Bologna, p. 48 e ss.

147. Il Dsm è un manuale diagnostico e statistico redatto a cura dell'Associazione Psichiatrica Americana (APA). La prima versione (DSM I) risale al 1952, a questa sono succeduti il DSM II nel 1968, il DSM III nel 1980, il DSM III- Revised nel 1987, il DSM IV nel 1994 ed il DSM -IV Text Revision nel 2000. Il manuale afferma di non voler fornire alcuna spiegazione relativa alle cause delle malattie mentali che classifica ed in questo risiede il nucleo della sua “ateoreticità”.

Per enfatizzare la sua dimensione ateoretica si preferisce usare il termine “disturbo” al posto di quello di “malattia”.

Il Manuale utilizza anche il termine di “sindrome” per indicare un insieme di segni e di sintomi la cui origine sia ignota. Con il DSM III si abbandona definitivamente il termine “nevrosi” con la volontà di espellere le definizioni psicanalitiche e psicodinamiche. A partire dal DSM III -R (1987) viene utilizzato un approccio esclusivamente politetico secondo il quale per arrivare ad una diagnosi è necessaria la compresenza di un numero minimo di sintomi/segni in un lasso dato di tempo (ad es. per procedere ad una diagnosi di depressione maggiore è necessaria la presenza di almeno 5 sintomi elencati dal manuale per almeno un mese o più di nove sintomi nell'arco di due settimane. Il numero di sintomi necessari per arrivare alla diagnosi ed il lasso di tempo richiesto viene stabilito convenzionalmente. Attualmente il DSM raccoglie più di 370 disturbi mentali, descrivendoli in base alla prevalenza di determinati sintomi (per lo più osservabili nel comportamento dell'individuo, anche con riferimenti alla struttura dell'Io e della personalità).Secondo gli autori e l'APA il DSM è:

Nosografico: i quadri sintomatologici sono descritti a prescindere dal vissuto del singolo;

Ateoretico: non si basa su nessun tipo di approccio teorico;

Assiale: raggruppa i disturbi su 5 assi, al fine di semplificare e indicare una diagnosi standardizzata;

Su basi statistiche: il sintomo acquista valore come dato frequenziale;

Il manuale ha quindi il compito di classificare i diversi disturbi per arrivare a delle diagnosi in modo oggettivo e descrittivo.

La sua struttura segue un sistema assiale con 5 assi:

ASSE I: disturbi clinici, temporanei o comunque non strutturali che possono essere riconducibili non solo alla psicopatologia, ma anche a qualsiasi condizione patologica significativa come una malattia cronica.

ASSE II: disturbi di personalità e ritardo mentale, stabili, strutturali. Generalmente si accompagnano a un disturbo di Asse I.

ASSE III: condizioni mediche acute e disordini fisici.

ASSE IV: condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disordine.

ASSE V: valutazioni globali del funzionamento.

148. G. Canepa, Presentazione a Diagnosi psichiatrica e DSM III-R, op. cit., p.VII.

149. Iabella Merzagora Bestos definisce opinabile questo passaggio della sentenza affermando che la scelta della nosografia dell'APA non deve essere considerata un dogma di fede e paventando l'ipotesi che la scelta in favore del DSM IV sia mossa principalmente dalla “apparente facilità diagnostica anche per i profani”. I Merzagora Bestos, I nomi e le cose in Riv. Ita Med. Leg. 2005, p. 415.

150. Cassazione Penale, Sez. Un, 25/01/2005 n. 2163 (data dep. 8/03/2005) Isabella Merzagora Bestos mette in guardia sulle conseguenze che questa sentenza può avere in termini pratici. Le pronunce di proscioglimento legate alla presenza di disturbi della personalità potranno portare a maggiori dichiarazioni di pericolosità ed a maggiori e massicci internamenti in Opg e “fino a quando non vi sia una riforma seria efficiente e non di mero maquillage di questa struttura sarà una sventura”, poiché aumenterà il numero di una popolazione “carceraria” già attualmente in esubero e perché accrescerà la confusione derivante dalla coabitazione di soggetti che hanno patologie profondamente diverse tra di loro con bisogni terapeutici completamente differenti. I. Merzagora Bestos, I nomi e le cose, Riv. Ita Med. Leg. 2005, p. 407.

151. L'operativismo teorizzato da Percy Bridgman afferma che i concetti scientifici debbono essere considerati e definiti come i risultati di operazioni.

Il significato di una asserzione teorico scientifica è dato dalla procedura empirica mediante la quale è possibile stabilire la presenza o l'assenza delle condizioni di verità dell'enunciato stesso, la nozione verrà ripresa in psichiatria da Hempel cfr. Silvio Ciappi, Le catene di Pinel: pratiche riflessive della criminologia e della psichiatria forense in Rass. It. Crim. n. 2 2012, p. 123.

152. S. Ciappi, op. cit., p. 125.

153. M. Bertolino, op. cit., p. 82.

154. Nicola Abbagnano, Voce Operazionismo, op. cit., p. 781.

155. Tullio Bandini e Gabriele Rocca, La psichiatria forense e il “vizio di mente”: criticità attuali e prospettive metodologiche in Riv. It. Medicina legale, 2010, 03, 0415 e ss. Gli autori sottolineano comunque il ruolo positivo che può avere il DSM (ed anche l'ICD: l'altro manuale diagnostico usato in psichiatria forense) poiché offre parametri di riferimento che possono garantire la verifica ed il controllo da parte del giudice sull'affidabilità e l'attendibilità della prova scientifica ed evitare che “la psichiatria forense possa essere equiparata ad un discorso ermeneutico che non ha referenza e la cui spiegazione filosofica è autoreferenziale”.

156. Mauro Barberis, Giuristi e filosofi. Una storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 160.

157. Voce Neopositivismo in Enciclopedia Treccani; cfr. anche Ludwig Wittgenstein Tractatus Logico-philosophicus e quaderni 1914-1918, Einaudi, Milano 1998. E' necessario precisare che il filosofo, non solo si rifiuterà sempre di aderire al neopositivismo ma abbandonerà anche la teoria secondo la quale il linguaggio può avere un rapporto isomorfico con il Mondo (la totalità dei fatti) per affermare che il linguaggio può, si, riflettere il mondo ma questa è solo una delle sue molteplici possibilità, perché esso si presta ad ogni tipo di “gioco evidenziando il ruolo creativo del linguaggio e sottolineando il fattore espressivo-sociale, e funzionale del suo significato”(tuttavia ciascun gioco è sottoposto a precise regole, non libero) cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Milano 2008.

158. Per la riaffermazione del “metafisico” metodo deduttivo in campo scientifico si rimanda ancora a Popper, Congetture e confutazioni, op. cit. supra.

159. L'operazionismo infatti definisce il concetto solo come sinonimo del corrispondente gruppo di operazioni con cui è introdotto. Ogni concetto non correlabile ad alcun tipo di operazione come ad es. i concetti universali sarà quindi privo di significato. Ad esempio l'operazionismo ritiene privo di significato anche il concetto di tempo assoluto della fisica newtoniana Attraverso questa riduzione si formulano regole che cercano di raggiungere una assoluta univocità di significato, che in questo limitato senso assume una dimensione oggettiva: “l'aspetto più importante di una teoria è quello che essa fa”. Cfr. Voce Operazionismo in Enciclopedia Treccani.

Si deve precisare che il carattere relativo proprio delle operazioni e l'elemento che conferisce oggettività al concetto in conformità agli orientamenti neopositivisti.

160. G. Giacomo Giacomini, Il manuale “diagnostico” e “statistico” DSM III-IV: analfabetismo epistemologico, nichilismo metodologico e insipienza clinico-diagnostica in psicopatologia, in Psicopatologia sistematica e metodo dialettico (a cura di G.G. Giacomini), edizioni ETS, Pisa, 2010, p. 307 e ss.

161. Silvio Ciappi, Le catene di Pinel: pratiche riflessive della criminologia e della psichiatria forense in Rassegna italiana di criminologia N. 2., 2012, p. 162.

162. DSM IV -TR Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali text revision a cura di V. Andreoli, G. Cassano, R. Rossi, Masson, Elsevier, Milano, 2009, p. 102.

163. G. Giacomo Giacomini, Il manuale “diagnostico” e “statistico” DSM III-IV, cit.

Si rimanda al testo per le considerazioni circa la correlazione tra mutamenti della nosografia attraverso il DSM e l'incremento esponenziale del consumo degli psicofarmaci, nonché della creazione di un mercato di molecole per la cura specifica dei disturbi classificati dal manuale (come ad esempio il disturbo da attacchi di panico o del disturbo d'ansia generalizzata - definito dall'autore “diagnosi spazzatura”), farmaci che secondo alcuni non avrebbero particolari profili innovativi rispetto ad altri psicofarmaci già da molto tempo presenti sul mercato.

In Italia l'Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane nel suo Rapporto 2009 ha registrato un aumento nel consumo degli antidepressivi del 310% nel periodo 2000-2008.

Invece idati dell'Osservatorio Nazionale Osmed, nel Rapporto 2011, indicano che il consumo di antidepressivi, dal 2000 al 2009, abbia avuto un incremento medio annuo del 15,6% (complessivamente quindi del 140,4%), con un aumento da 16,2 dosi giornaliere per 1.000 abitanti del 2001 a 34,7 dosi giornaliere del 2009 (Agenzia Italiana del Farmaco).

Si deve notare che nello stesso periodo si registra la nascita e la diffusione dei farmaci inibitori dei ricaptatori della serotonina (SSRI).

164. G. Giacomo Giacomini, Psicopatologia classica e DSM: un dilemma epistemologico, clinico e didattico per la psichiatria contemporanea in Italian on line psychiatric magazine, 2012, cit. anche in Bertolino, op. cit., nota 37.

165. Ivi.

166. G. Giacomini, Il manuale “diagnostico” e “statistico” DSM III-IV, cit.

167. La diagnosi differenziale postula infatti una struttura gerarchica delle malattie che nel DSM manca (a parte la suddivisione in macroassi) Bertolino, op. cit., p. 87, Ciappi, op cit., p. 124.

168. DSM-IV-TR., op. cit., p. 15.

169. Ibidem.

170. Roberto Catanesi, Vito Martino Verso una psichiatria basata su evidenze in Riv. Ita. Med. Leg, 2006, 06, p.1037 (p. 1011 e ss).

171. S. Ciappi, op. cit., p. 125.

172. Bernardette Dellaire, Michael Mc Cubbin, Paul Morin e David Cohen, Civil commitment due to mental illness and dangerousness: the union of law and psychiatry within a treatment-control system, in Sociology of health & illness, Sep. 2000, vol. 22, num. 5, p. 679 e ss.

173. Fornari, Trattato di Psichiatria Forense, cit., p. 329.

174. Ivi, p. 330.

175. Bertolino op. cit., p. 87.

176. Ibidem.

177. Cfr. Tullio Bandini, Gabriele Rocca, La psichiatria forense ed il vizio di mente: criticità attuali e prospettive metodologiche, in Riv. It. Medicina Legale, 2010. Gli autori sono comunque favorevoli all'uso di questi manuali come parametri di riferimento per la verifica ed il controllo da parte del giudice sull'affidabilità e l'attendibilità della prova scientifica.

178. Pellissero, op. cit., p. 107; Tullio Bandini, La valutazione psichiatrico forense della pericolosità, in Rass. Criminol. 1981, p. 55; Ponti, Merzagora, Ponti L'abolizione delle presunzioni di pericolosità in Riv. It. Med. Leg. 1987, p. 17.

179. Bandini, op. cit., pp. 53, 57.

180. Bandini-Lagazzi, La pericolosità, cit. in Maria Teresa Collica, La crisi del concetto di autore non imputabile e “pericoloso”, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 15.

181. Per il rapporto tra prova penale e prova scientifica cfr. anche Paolo Tonini, Progresso tecnologico, prova scientifica e contraddittorio, in Luisella De Cataldo Neuburger (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Cedam, Padova., p. 49 e ss.

182. Giusto Giusti (a cura di), Trattato di medicina legale e scienze affini Vol. IV, Cedam, Padova, 2009, p. 194.

183. Maria Grazia Terzi, In tema di pericolosità sociale psichiatrica, in Rass. Criminol. 1993, p. 367; cfr. anche Bandini, Il contributo del clinico al dibattito sulla psichiatria e sull'Ospedale Psichiatrico Giudiziario in Curare o punire, cit.

184. Alberto Manacorda, Imputabilità e Pericolosità Sociale, Criminologia 1986, p. 50.

185. Ugo Fornari, Trattato di Psichiatria Forense, op. cit., p. 222 e ss.

186. Marta Bertolino, La Questione attuale dell'imputabilità penale in Curare o punire, op. cit., p. 171.

187. Tullio Bandini, Il contributo del clinico al dibattito sulla psichiatria e sugli Ospedali psichiatrici giudiziari, in Curare o punire, op. cit., p. 116.

188. Ibidem.

189. Gaetana Russo Il recidivismo criminale dei delinquenti mentalmente disturbati, in Rass. It. Crim., 1981, p.330. Si tratta di uno studio su 133 soggetti di sesso maschile ricoverati presso l'OPG di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) che si ricollega ad altri studi effettuati da Balloni e quelli di Tupin et al sulla recidiva giovanile e sul piano internazionale allo studio di Baldwin e Bottoms sul rapporto tra struttura sociale e crimine nella città di Sheffield, e quello di Weisnet sul rapporto tra recidiva e problemi connessi alla famiglia.

Anche lo studio condotto da Traverso sulle cartelle cliniche di 320 soggetti dimessi dal O.P. di Genova, esclude qualsiasi relazione diretta tra crimine e malattia mentale che invece si riscontrava maggiormente in soggetti con disturbi minori od alcolisti e venivano visti come l'espressione di un disagio sociale prima ancora che di un quadro clinico psicopatologico (G.B. Traverso Il giudizio di pericolosità ed il suo accertamento, in Riv. It. Med. Leg., VIII, 1986, p. 1041).

190. Ivi, p. 332.

191. Marta Bertolino, La questione attuale dell'imputabilità penale, in Curare o Punire, cit., p. 174.

192. Boris V. Shostakovich, On social Dangerousness of mental patients, in Schizophrenia bulletin, vol. 15, no. 4, 1989 p. 555. Shostakovich, allora Capo della Divisione di Psichiatria Forense dell'Istituto di Ricerca di Psichiatria Generale e Forense di Mosca afferma la necessità di mantenere la categoria della pericolosità sociale basandosi su statistiche che sono del tutto contrarie ai dati maggiormente diffusi nei paesi occidentali (cfr. però Greco, Maniglio, Malattia mentale e criminalità, in Rass It Crim 2007). Egli infatti afferma che il 18.7% degli schizofrenici compirebbe atti violenti durante la malattia, addirittura i tentativi di omicidio arriverebbero al 5% del totale degli atti violenti, ed il massimo livello di pericolosità si registrerebbe nei primi 4 anni di malattia, anche se comunque lo psichiatra nega qualsiasi forma di predeterminazione alla violenza derivante dalla malattia mentale. Shostakovich, che si allinea alle tendenze di una certa corrente criminologica comune sia ai paesi occidentali sia all'URRS (allora ancora esistente), ritiene di poter estendere la categoria della pericolosità anche ai soggetti sani di mente, ma solo nel caso in cui ci siano prove specifiche e convincenti. Inoltre segnala come l'alcolismo e l'isolamento sociale siano potenti fattori di rischio di azioni violente da parte dei malati mentali.

193. Giacomo Canepa, L'esame psicodiagnostico nei giudizi medico-legali di accertamento e revisione della pericolosità sociale in Riv. It. Med. Leg. VI, 1984, p. 607-620.

194. Giacomo Gatti, Prefazione a Irma Gatti, Schizofrenia e pericolosità sociale. Aspetti medico legali e recenti orientamenti giurisprudenziali, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2004, p. 9.

195. Marco Cannavicci, I “mostri” riconosciuti sani di mente, Polizia e Democrazia settembre 2005.

196. Cassazione 17 febbraio 1978, cit. in Isabella Merzagora Bestos, Opache Follie, impulsi irresistibili, furori non sempre morbosi e il ritorno della perizia criminologica, in Rass it. Crim 2007, p. 220.

197. Marco Cannavicci, Evoluzione dei concetti di perizia psichiatrica e di pericolosità sociale: confronto con l'odierno diritto penale, Giornale di Medicina Militare. 2005;155 (1) p. 102.

198. Ugo Fornari, Trattato di Psichiatria Forense, op. cit., p. 230.

199. Giacomo Canepa, Diagnosi Psichiatrica e DSM III-R (a cura di Liliana Dell'Osso e Andrea Lomi), Giuffrè Editore, Milano, 1989 p IX. Canepa si riferisce al giudizio di imputabilità che nel nostro Ordinamento è di tipo “psicologico normativo” ma ben può essere esteso al concetto di pericolosità avendone gli stessi elementi costitutivi seppure dai contorni decisamente più indefiniti.

200. Cfr. Ota De Leonardis, Sulle tracce di innovazioni istituzionali in RA la rivista dell'AIS n. 1-2010, p. 10.

201. Dernevik, op. cit., p. 17.

202. Michael A. Norko, Madelon V. Baranoski, The prediction of violence; Detection of Dangerousness in Brief Treatment and Crisis Intervention/ 8:1, Oxford University Press, February 2008, p.80 e ss.

203. Ivi, p. 84.

204. Toby Seddon Personality disorder and the politics of risk in Punishment & Society 10 (3), p.303 e ss. Si fa l'esempio della proposta fatta dal governo inglese nel 1999 di introdurre la categoria nosografica Dangerous and severe personality disorder (DSPD) prevedendo la possibilità di internamento forzato se si accertasse la loro pericolosità indipendentemente dalla commissione di un crimine o alle varie proposte di legge degli stati americani sui sex offenders.

205. Robert Castel, From dangerousness to risk, In Burchell, G., Gordon, C., Miller, P., The Foucault effect, studies in governmentality, London: Harvester Wheatsheaf, 1991, p. 288.

206. Michael A. Norko, Madelon V. Baranoski, op. cit., p. 81.

207. Fornari, Coda, Dalla pazzia morale al disturbo antisociale di personalità, op. cit., p. 206.

208. Isabella Merzagora Bestos, Imputabilità e pericolosità sociale, un punto di vista criminologico. In Adelmo Manna (a cura di), Imputabilità e Misure di Sicurezza, Cedam, Padova, 2002, p. 99.

209. Robert Hare This charming Psycopath, how to spot social predators before they attack, in Psychology today. A Robert Hare si deve la Revised Psychopathy Checklist (PCL-R), la più diffusa lista di controllo per individuare e diagnosticare la personalità psicopatica. Contiene 20 indicatori, di cui 15 legati ai tratti della personalità del soggetto, quali la “disinvoltura”; il “senso grandioso di se”; la “bugia patologica”; l'“insensibilità”; l'“impulsività; l'irresponsabilità” ecc. Gli elementi definiti oggettivi sono invece la “versatilità criminale” che indicherebbe la propensione a compiere diverse tipologie di atti criminali o la delinquenza compiuta in età giovanile (cfr. Michael H. Stone, La personalità degli autori di omicidio: l'importanza della psicopatia e del sadismo, in Skodol (a cura di) Psicopatologia e crimini violenti, Centro Scientifico Editore, Torino, 2000, p. 37.

210. Cfr. James C. Beck, Heidi Wencel, il crimine violento e psicopatologia dell'Asse I, in Andrew E. Skodol (a cura di) Psicopatologia e crimini violenti, cit., p. 1 che riportano studi (Cote e Hodgins 1992) che affermano che il 35% degli autori di omicidio risultava affetto da MMD (Disturbo Mentale Maggiore).

211. Così Adrian Raine, From genes to brain to antisocial behaviour in Current directions in Psychological Science 2008 17:323, p. 324.

212. Ivi, p. 327. Anche se le neuroscienze fanno riferimento al concetto di “plasticità celebrale” per indicare la modificabilità delle strutture celebrali a seguito dell'interazione con l'ambiente, che consentirebbe alla funzioni celebrali di bypassre eventuali lesioni celebrali, non sono ancora indicate specifiche modalità o specifici trattamenti che consentano un tale risultato. Ipotizzata una connessione tra le malformazioni genetiche che incidono sulla produzione di serotonina e le lesioni alla corteccia prefrontale, all'amigdala, all'ippocampo ed alla corteccia cingolata, potrebbe essere tentata una cura con gli psicofarmaci serotoninergici (ssri) ma gli scienziati si muovono per loro stessa ammissione su un campo puramente ipotetico.

213. Adam Lamparello, Using cognitive neuroscience to predict future dangerousness in Columbia human rights review 42: 481, p. 531 e ss.

214. Robert Castel From dangerousness to risk. In Burchell, G., Gordon, C., Miller, P., The Foucault effect, studies in governmentality, London: Harvester Wheatsheaf, 1991, p. 289.

215. Derek Chiswick, Rosmery Cope, Seminars in Practical Forensic Psychiatry, cap 8, Royal College of Psychiatrists, London, 1995, p. 210-211.

Gli autori iniziano il capitolo affermando che può sembrare strano dedicare un intero capitolo di un manuale di psichiatria forense ad una nozione indefinibile, scarsamente individuabile e non prevenibile in modo appropriato. La ragione di tanta attenzione risiede solo in un dato di fatto: ogni giorno viene istituzionalmente richiesto agli psichiatri di individuare la pericolosità nei loro pazienti (questo è particolarmente vero in Gran Bretagna dove il Mental Health Act del 2007 ha enfatizzato la dimensione della pericolosità negli internamenti civili).

216. Paul Moran, Editorial: Dangerous Severe Personality Disorder Bad Tidings from the UK, in International Journal of Social Psychiatry, 2002 48:6.

217. Derek Chiswick, Rosemary Cope, Seminars in Practical Forensic Psychiatry, cap 8, Royal College of Psychiatrists, London, 1995, cit, p. 212.

218. Gianluigi Ponti, Piera Gallina Fiorentini, Compatibilità tra Psicosi e Piena Imputabilità, Rivista Italiana Medicina Legale, 1982, pp. 96-109; sul punto cfr. anche Bandini e Lagazzi, Lezioni di psicologia e psichiatria forense, Giuffrè, 2000, la posizione viene ribadita da Ponti, Merzagora in Psichiatria e Giustizia, Milano, 1993, p. 25: “ben pochi sarebbero i soggetti (...) che debbono riconoscersi incapaci di intendere e di volere”.

219. Ponti, Gallina Fiorentini, op. cit., p. 105.

220. Giuseppe Dell'Acqua, Roberto Mezzina, La Storia, il soggetto, la capacità di intendere e volere, in Curare o Punire, cit., pp. 88- 91.

221. Gianluigi Ponti, Isabella Merzagora, Imputabilità e pratiche della perizia psichiatrica, in Curare e punire, op. cit., p. 80.

222. Ivi, p. 83.

223. Isabella Merzagora Bestos, Imputabilità e pericolosità sociale, un punto di vista criminologico. In Imputabilità e Misure di Sicurezza, Adelmo Manna (a cura di) Cedam, Padova, 2002, p. 82.

224. Giuseppe Dell'Acqua, Roberto Mezzina, op. cit., p. 98.

225. Marta Bertolino, La questione attuale dell'imputabilità penale in Curare o Punire, cit., p. 149.

226. Ibidem.

227. Tullio Bandini, La valutazione psichiatrico-forense della criminalità, in Rass. it. Crim 1981 pp. 63, 65.

228. Ugo Fornari, Trattato di Psichiatria Forense, op. cit., p. 228.

229. Cosi anche Cass., sez I, 8 ottobre 1996, n. 8996.

230. Gaetano Pecorella, Usi “devianti” della perizia psichiatrica in Curare o punire, op. cit., pp. 105-106.

231. Domenico Pulitanò, L'imputabilità come problema giuridico in Curare o punire, op. cit., p. 142.

232. Tullio Bandini, L'infermità psichiatrica-forense in Diagnosi psichiatrica e dsm III-R, op. cit., p.176.

233. Ibidem.

234. Ivi, p. 178.

235. Ibidem.

236. Ugo Fornari, Trattato Psichiatria Forense, op. cit., pp. 230 - 234.

237. Ugo Fornari, L'Ospedale psichiatrico giudiziario. Alcune proposte di revisione, Fed. Med. XXXVII 1985; Fornari Coda Dall'Ospedale psichiatrico giudiziario al territorio in Riv. Ita. Med Leg. 2001 cit in Roberto Catanesi, Felice Carabellese, L'accertamento peritale tra esigenze di cura e pericolosità sociale, in Rass. It. Crim. 2005, p. 413.

238. Oronzo Greco, Roberto Catanesi. Malattia mentale e giustizia penale. La percezione sociale della malattia mentale e della pericolosità del malato di mente, Giuffrè, Milano, 1988, p.83, Francesco Centonze L'Imputabilità il Vizio di mente e i disturbi della personalità in Riv. Ita. Dir. Proc. Pen, 2005-I XLVIII, p. 249 specificamente si fa riferimento ai sintomi del Disturbo antisociale, del Disturbo paranoide, del Disturbo Schizoide. Si ricorda ancora che le Sezioni Unite nel 2005 hanno allargato definitivamente la possibilità di estendere la dichiarazione del difetto di imputabilità ai disturbi della personalità.

239. Cfr. Cristiano Barbieri, Alessandra Luzzago, Problemi etici della predizione. Prevenzione della delinquenza precoce, in Rass. It. Crim. 1, 2009, p. 76 e ss.

240. Andrew E. Skodol (a cura di), Psicopatologia e crimini violenti, Centro Scientifico editore, Torino, 2000, p. 51.

241. Widger e Trull (1994) riportato da Jeremy W. Coid, Disturbi dell'Asse II e motivazioni al comportamento criminale grave in Skodol, op. cit., p. 64.

242. Ibidem.

243. F. Centonze, op. cit., p. 249. L'autore sottolinea anche come le diagnosi sui disturbi della personalità, pur dotate di maggiore “interrater reliability”, cioè di affidabilità in relazione alla probabilità che due clinici indipendenti diano la stessa diagnosi, mancano però spesso di validità cioè di un “adeguato e sicuro riscontro nella realtà”, p. 267.

244. In dottrina si discute se tale divieto, previsto espressamente per le perizie, debba estendersi in via analogica anche alla consulenza tecnica, come sostenuto dalla giurisprudenza. Parte della dottrina ritiene che tale estensione non possa effettuarsi in virtù della considerazione che la consulenza tecnica criminologica rientrerebbe a pieno titolo nell'oggetto del diritto alla prova sancito dagli artt. 187 e 190 c.p.p. Attraverso la consulenza tecnica criminologica si fornirebbero al giudice gli elementi utili per l'accertamento dei fatti indicati dall'art 187 c.p.p. mentre il divieto posto dall'art 220 c.p.p. dovrebbe essere considerato norma eccezionale e come tale insuscettibile di applicazione analogica ex art 14 delle preleggi (cfr. Ilario Giannini, Il dibattito sulla ammissibilità della perizia e della consulenza criminologica nel processo penale in Rassegna Penitenziaria e criminologica, num. 3, 2003, p. 93).

245. Concetta Macrì, Criminologia applicata, in C. Serra (a cura di), Proposte di criminologia applicata, Milano, Giuffrè, 2003 (terza edizione). L'autrice ritiene doveroso, per il criminologo, acquisire un ampio bagaglio teorico, che definisce in evoluzione, al fine di comprendere le problematiche individuali, sociali e - addirittura - politiche che spingono a determinati comportamenti, per cui il termine clinico associato alla criminologia non dovrebbe essere inteso in senso strettamente medico, pur se ne utilizza in parte le metodologie, ma in modo più ampio, anche se poi questa ampiezza viene declinata in modo, a mio avviso, vago e potenzialmente onnicomprensivo. L'autrice infatti, sebbene riconosca che “non si è mai provveduto in sostanza, ad una precisazione dello statuto epistemologico della clinica criminologica”, afferma che attualmente i sistemi teorici ed applicativi di questa disciplina si indirizzano verso una “epistemologia della complessità” e verso l'elaborazione di vere e proprie tecniche volte a diminuire la criminalità con programmi di prevenzione, di trattamento, e di prevenzione della recidiva.

246. Sent C. Cost 124/1970 e così successivamente anche Sent C. Cost 179/1973 in relazione all'art 314 c.p.p 1930 che sanciva il medesimo divieto.

Il r.d.l 20/7/1934 n.1404, istitutivo del Tribunale per i minorenni prevede invece all'art 11 (espressamente intitolato. Forme del procedimento; indagini sulla personalità del minore.) che: “nei procedimenti a carico dei minori, speciali ricerche devono essere rivolte ad accertare i precedenti personali e familiari dell'imputato, sotto l'aspetto fisico, psichico, morale e ambientale”.

Il Pubblico Ministero, il Tribunale e la Sezione della Corte d'Appello possono assumere informazioni e sentire pareri di tecnici senza alcuna formalità di procedura, quando si tratta di determinare la personalità del minore e le cause della sua irregolare condotta. La possibilità di “assumere informazioni e sentire pareri tecnici senza alcuna formalità di procedura quando si tratta di determinare la personalità del minore e le cause della sua irregolare condotta” aprendo quindi le porte ad ogni tipo di perizia in virtù della funzione accentuatamente rieducativa delle pene minorili.

247. Aldo Carnevale, Rita Menna, Armando Colagreco La perizia Criminologica nel processo penale dal codice del '30 ai nostri giorni in Riv. Ita. Med. Leg., 1995, p. 373. Si veda anche G. Canepa, L'esame Psicodiagnostico nei giudizi medico legali di accertamento e revisione della pericolosità sociale in Riv. Ita. Med. Leg. 1984, p. 619 dove Canepa ribadisce la necessità del superamento del concetto di pericolosità ma auspica il mantenimento dei giudizi prognostici in campo criminologico, per cui il riferimento clinico alla pericolosità sociale dovrà sopravvivere in quanto funzionale al trattamento.

248. Giacomo Canepa, Problemi dell'attività diagnostica nel sistema italiano di giustizia penale e perizia criminologica, in Riv. Ita. Med. Leg., 1979, p. 229. Canepa, comunque, critica sia la nozione di pericolosità sociale sia i provvedimenti che conseguono alle perizie psichiatriche, considerati “assurdi e controproducenti in quanto in contrasto con le reali esigenze di trattamento” degradando così la perizia psichiatrica ad una indagine di ordine morale o ad una difesa sociale passiva (ivi p. 238).

249. Domenico Corsaro Vito Pirrone, L'indagine della personalità nel nuovo processo penale, in Rass. Penit. Crim., 1980, p. 69.

250. Tullio Bandini, La valutazione psichiatrico forense della pericolosità, in Rass. It. Crim. 1981, p. 59.

251. Domenico Corsaro Vito Pirrone, op. cit., p. 69. Gli stessi autori lamentano il fatto che la funzionalità dell'art 133 c.p. (in particolare il secondo comma) in assenza della perizia criminologica risulterebbe limitata in quanto fisserebbe solo dei criteri generali per l'indagine della personalità che la giurisprudenza dominante usa in senso esclusivamente garantista: o per irrogare il minimo della pena o per concedere la circostanze attenuanti generiche “per mera intuizione o per benevolenza del giudice” (p. 72).

252. Ivi p. 236 e ss.

253. Marco Cannavicci, op. cit., p. 102.

254. Ferrando Mantovani, Diritto Penale. Parte Generale, quarta edizione, Cedam, Padova, 2001, p. 672 e ss.

255. Ennio Fortuna, La pericolosità sociale del malato di mente nelle prospettive del nuovo processo penale, Riv. It. Med. Leg. XIII, 1991, p. 416 e ss. La decisione finale sulla pericolosità rimarrà comunque, per Fortuna, al giudice.

256. Domenico Corsaro, Vito Pirrone, op. cit., p. 73. Gli autori aggiungono inoltre che l'introduzione della perizia criminologica realizzerebbe “quella giustizia tanto auspicata che pone l'elemento uomo come cardine del processo penale”, chiedendo l'applicazione della perizia criminologica a chi ha compiuto piccoli reati (anche contravvenzionali) perché tali reati potrebbero costituire il primo sintomo di gravi tendenze criminali che, accertate tempestivamente, potrebbero essere “curate e represse”. Richiedono, però, di introdurre la perizia criminologica anche per valutare le situazioni familiari e sociali di disagio, di bisogno, di miseria, di incultura e di ineducazione per evitare eccessivi inasprimenti di pena, p.75 e ss.

257. Carnevale, Menna, Colagreco, op. cit., p. 371.

258. Tullio Bandini, La valutazione psichiatrico forense della pericolosità, cit., p. 65.

259. Roberto Catanesi, Vito Martino, Verso una psichiatria forense basata su evidenze in Riv. Ita. Med. Leg. 2006, 06, p. 1012.

260. Ibidem.

261. Ugo Sabatello, op. cit., p. 78.

262. A. Carnevale, A.Colagreco, R.Menna, op. cit., p. 381; per questo vi è stato chi ha proposto di configurare un processo bifasico in cui la perizia potesse essere disposta solo dopo l'attribuzione della responsabilità penale cfr. I Giannini, op. cit.

263. Pannaim B. Albino M. Pannaim M., La perizia sulla personalità del reo: evoluzione dottrinaria e normativa. Prospettive nel c.p.p. '88 in Riv. It. Med. Leg. 11, 851, 1989.

264. Maria Teresa Collica, Il giudizio di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore scientifico, in Riv. Ita. Dir. e Proc. pen. 2008, p. 1172.

265. La proposta di legge proposta dall'On. Siniscalchi nel 2002 diretta ad introdurre la perizia criminologica e a modificare il comma 2 dell'art 220 affermava comunque che “i fatti emersi durante la perizia psicologica e psichiatrica non possono essere utilizzati e valutati dal giudice ai sensi dell'art 192 c.p.p., al fine di desumere da essi l'esistenza di un fatto e, conseguentemente, la fondatezza dell'accusa” cit. in Maria Elena Magrin, Cristina Bruno Prospettive interdisciplinari della giustizia penale. malati o malvagi? Valutare la libertà umana in azione in Cass. pen., 2004, 11, p. 3860 e ss.

266. Isabella Merzagora Bestos, Il colloquio criminologico, Unicopli, Milano, 1987, cit. in Concetta Macrì, Criminologia applicata, in C. Serra (a cura di), Proposte di criminologia applicata, Giuffrè, Milano, 2003 (terza edizione). Chiunque abbia avuto una certa esperienza carceraria sa tuttavia che questa attività è puramente teorica ed ipotetica, il trattamento è infatti quasi del tutto assente nel contesto carcerario e la concessione dei benefici e delle misure alternative è di fatto legata alla buona condotta carceraria, quindi in sostanza alla mancanza di rapporti disciplinari da parte della polizia penitenziaria, che è il dominus concreto del trattamento detentivo.

267. Bertolino, in Curare o punire, op. cit., p. 164. Vista la profonda diversità di impostazione teorica e di concezione del rapporto tra psichiatria e giustizia dei diversi psichiatri, la stessa scelta del perito assume un'importanza fondamentale soprattutto in relazione al giudizio di pericolosità sociale, nella prassi si segnala però il fatto che il giudice si limita, nei casi meno rilevanti, ad incaricare della scelta l'ufficio perizie del tribunale. Cfr. Massimo Croci, Operatori della giustizia e della psichiatria: un timore reciproco in Curare o punire, op. cit., p. 271.

Nella prassi si registra poi spesso nelle perizie il ricorso a formule standardizzate, che utilizzano nessi causali consequenziali e certi tra malattia mentale e pericolosità, superati ampiamente dalla teoria psichiatrica. In particolare De Leonardis riporta un esempio di perizia di questo tipo: “un individuo che dal punto di vista psichiatrico è inquadrabile come oligofrenico cerebropatico con gravi e reiterati disturbi comportamentali, è sempre persona socialmente pericolosa, soprattutto in ordine a prospettive di progressione altamente probabili della malattia e della imprevedibilità del suo comportamento”.

La standardizzazione registrata sembra poi negare nei fatti ogni aspirazione all'individualizzazione, ogni pretesa di trattamento curativo, ogni esigenza specialpreventiva diversa dalla neutralizzazione e dalla incapacitazione. Alle scelte binarie dei quesiti peritali corrispondono analisi in cui le variabili del caso concreto o le informazioni sulla persona cedono il passo a formule prefissate rispondenti ad un iter predeterminato e rituale, povero di argomentazioni cliniche. Il che sembrerebbe riconfermare nella prassi processuale l'automatismo tra follia e pericolosità negato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 139/82. Cfr. De Leonardis in Curare o punire, op. cit., p. 281.

268. Isabella Merzagora Bestos, Opache follie, impulsi irresistibili, furori non sempre morbosi e il ritorno della perizia criminologica in Rass. it Crim. 2007; cfr. anche F Carrieri, R Catanesi, La perizia psichiatrica sull'autore di reato: evoluzione storica e problemi attuali in Riv. It. medicina legale, 2001, 01, 0015.

269. Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente possono rientrare nel concetto di infermità mentale anche i gravi disturbi della personalità, come quelli da nevrosi o da psicopatie, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere in concreto sulla capacità di intendere e di volere e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa tale da far ritenere che il fatto di reato sia causalmente determinato dal disturbo mentale (Cass. Pen., sez. Un. 25.01.2005 n. 9163).

270. Roberto Bartoli, Pericolosità sociale esecuzione differenziata della pena carcere. Appunti sistematici per una riforma mirata del sistema sanzionatorio, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., Aprile- Giugno 2013, p. 716.

271. Dott.ssa Daria Vecchione, Ufficio di Sorveglianza di Napoli, L'infermo di mente nel processo penale e nella fase di esecuzione, relazione nell'Incontro di studio “La magistratura di Sorveglianza”, Roma, 27 settembre 2011, CSM IX commissione.

272. Così anche Adelmo Manna, Corso di diritto Penale parte generale, Cedam, Padova 2012, p. 591.

273. Cfr. F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, op. cit., p. 65.

274. Naturalmente qualora si segua una visone nettamente dicotomica relativa alla capacità, alla libertà ed alla responsabilità dei soggetti imputabili e non imputabili, e quindi si aderisca ad una visione secondo la quale il principio di determinatezza potrebbe essere applicato solo alla norma penale intesa come norma comando diretta ai consociati per orientare la loro condotta, non si potranno estendere al precetto dell'art 203 le considerazioni della dottrina consolidata in ordine al legame tra principio di determinatezza e norma penale, ma se si esclude l'applicabilità del principio alle misure di sicurezza o se si ritenga che questa applicazione debba avere connotati molto più elastici non si potrà che ritenere tali misure come totalmente “esterne” al diritto penale, si finirà quindi per ricondurle sotto l'originaria categorie di misure amministrative, in contrasto con quanto ritenuto ormai pacificamente da dottrina e giurisprudenza costante. Tale punto controverso, potrà comunque essere superato se si segue quella parte della dottrina che opera una ulteriore distinzione all'interno del principio, enucleando il cosiddetto principio di precisione, che impone al legislatore di disciplinare in modo meticoloso, puntuale ed accurato il reato e le conseguenze penali al fine di restringere l'arbitrium iudicis e soprattutto per evitare che il significato linguistico della norma assuma aspetti ambigui, per consentire che trovi riscontro nella realtà e possa essere concretamente accertato dal giudice.

275. Cosi il Pretore di Ancona, nel 1998, (riportato nella Sentenza Corte Costituzionale n. 114/1998) in tema di motivazione con riferimento all'insussistenza delle basi scientifiche poste a base di una norma penale (in questo caso in ordine alla distinzione tra ubriachezza abituale e cronica ex artt. 94 e 95 c.p. insussistente a livello scientifico) vedi anche nota 249.

Il problema delle formule rigidamente stereotipate della motivazione dei giudizi di pericolosità in particolare è stata lamentata non solo in fase di cognizione anche in sede di esecuzione al momento della proroga della misura di internamento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario.

276. Luigi Fornari, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile? in Riv. Ital. Dir. e Proc. Penale 2/1993, p. 610.

277. Cosi Cass. Sez. 3. 1387/1971; la pronuncia era relativa al vecchio codice di rito e sottolineava che la nullità era relativa solo al procedimento di applicazione delle misure, stante la diversa natura amministrativa.

Si può dedurre una simile posizione anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 151 del 1967 che aveva sancito l'illegittimità costituzionale dell'art. 376 del vecchio codice di procedura penale nella parte in cui non prevedeva la contestazione del fatto e l'interrogatorio dell'imputato ai fini del proscioglimento con formula diversa da quella che il fatto non sussistesse o non fosse stato commesso dall'imputato.

Dichiarava inoltre l'illegittimità costituzionale degli artt. 395, ultimo comma, e 398, ultimo comma, del Codice di procedura penale nei limiti in cui non prevedevano la contestazione del fatto e l'interrogatorio dell'imputato ai fini del proscioglimento con formula diversa da quella che il fatto non sussistesse o non fosse stato commesso dall'imputato.

L'art. 376 del Codice di procedura penale disponeva che non si potesse prosciogliere l'imputato per concessione del perdono giudiziale o per insufficienza di prove o per amnistia se non gli fosse stato contestato il fatto. Se ne deduceva che, in tutti gli altri casi di proscioglimento, la contestazione dell'accusa non fosse necessaria.

La Corte affermava però che lo stesso legislatore aveva riconosciuto, in certi casi, che il proscioglimento può ferire la dignità del cittadino allo stesso modo d'una pronuncia di rinvio a giudizio: perciò aveva stabilito che esso fosse preceduto da interrogatorio o contestazione del fatto cosicché l'imputato fosse messo in condizione di difendersi allo scopo di evitare questo tipo di sentenza (art. 376, impugnato, e art. 398 del vecchio Codice di procedura penale).

Ma il legislatore si era fermato, per la Corte, a metà strada. Non aveva considerato che la sentenza di proscioglimento in altre ipotesi può contenere o comportare una misura di sicurezza limitatrice della libertà personale (es. il proscioglimento per totale infermità di mente); in alcune ipotesi, neanch'esse richiamate dall'art. 376, può avere addirittura effetti infamanti, quanto e più dello stesso rinvio a giudizio (es. proscioglimento per intossicazione cronica da alcool o da stupefacenti); in tutte queste ipotesi, le pronunce vengono emesse perché il fatto non sussiste o non è stato commesso dal prevenuto, non si attribuisce all'imputato un fatto, o non esclude l'attribuzione di un fatto, che può non costituire reato ma tuttavia egli può essere giudicato sfavorevolmente dall'opinione pubblica o comunque dalla coscienza sociale.

Si deve aggiungere che queste sentenze di proscioglimento per loro natura sono atte a cagionare un male almeno temporaneamente irrimediabile: infatti, a differenza dalla pronuncia di rinvio, esse chiudono il giudizio e perciò non consentono una seconda fase nella quale, entro lo stesso grado del giudizio, si possa porre immediato riparo a quel male. È soprattutto per questo che, nell'orbita dell'art. 24 della costituzione, l'imputato, se non viene prosciolto perché il fatto non sussiste o non è stato commesso da lui, deve essere posto in condizione di difendersi tempestivamente, sia che il giudice proceda ad atti istruttori sia che intenda proscioglierlo senza procedervi. Questa Corte ha già osservato (vedi sentenze nn. 33 e 122 del 1966) come la garanzia per una adeguata difesa anche tecnica, nella fase che si chiude con la sentenza istruttoria, sia costituita essenzialmente dalla contestazione dell'accusa e dall'interrogatorio dell'imputato (vedi, oltreché lo stesso art. 376, gli artt. 304, 365, 366, 390, 395 e 398 del Codice di procedura penale). Ne deriva che la norma impugnata, là dove esclude l'obbligatorietà dell'uno e dell'altra, non può non essere dichiarata costituzionalmente illegittima.

278. Luigi Ferrajoli, Diritto e Ragione, op. cit., p. 8.

279. La Corte Costituzionale ha assunto in materia di irretroattività delle misure di sicurezza posizioni oscillanti.

Nella sentenza n. 53 del 1968 ha affermato che l'art 25 terzo comma lascia ferma nell'ordinamento la norma dettata dall'art 200 c.p. interpretandolo nel senso che le misure verranno disciplinate da quelle disposizioni che via via l'ordinamento riconoscerà più idonee contro il pericolo criminale. Successivamente sembrò aver fatto un passo indietro, interpretando estensivamente l'art 25, sancendo nella sentenza n. 19 del 1974, l'applicabilità del principio di irretroattività alle misure di sicurezza, vista la “correlazione tra misura di sicurezza e pericolosità che è situazione per sua natura attuale” e tenendo conto del dato storico del riferimento della Costituzione proprio al sistema esistente al momento della sua entrata in vigore. L'art 25 della Costituzione infatti ricalca sostanzialmente le disposizioni del codice penale sui principi di legalità e irretroattività, disponendo una identità di interpretazione tra 199 c.p. e art 1 e 2 c.p.

La posizione viene ribadita nell'ordinanza n. 392 del 1987- permane l'ambiguità circa la riferibilità di questa interpretazione alle misure di sicurezza nei confronti dei non imputabili stante la costante posizione della Giurisprudenza costituzionale sulla natura ontologicamente curativa dell'Opg e tenuto conto che le pronunce riguardavano misure nei confronti di imputabili (abitualità e confisca).

Nella sentenza n.196 del 2010 ha invece riaffermato, con argomentazioni a mio avviso fortemente regressive, la natura retroattiva delle misure di sicurezza; “In quanto connaturata alla circostanza che le misura di sicurezza personali costituiscono strumenti preordinati a fronteggiare uno stato di accertata pericolosità, funzione che esse assolvono con i mezzi che dalle differenti scienze, chiamati specificamente a fornirli, potranno essere desunti” la Corte precisa poi che sarebbe sempre necessario un controllo del contenuto della misura di sicurezza che dovrebbe essere di tipo “spiccatamente preventivo” e privo dei connotati repressivi della pena in senso stretto per evitare che il mero nomen iuris di misura di sicurezza dato ad una pena non consenta l'elusione dei principi di irretroattività della pena.

In dottrina Fiandaca e Musco fanno discendere il divieto di retroattività dall'art 2 del codice penale che regola la successione delle leggi penali non solo per la previsione della fattispecie di reato ma anche per l'individuazione del tipo e della quantità delle sanzioni (pena - misura di sicurezza) in conformità con la ratio di garanzia cui si ispira l'art 25 della Costituzione che induce ad escludere che si possa applicare una misura di sicurezza per un fatto che al momento della sua commissione non era previsto dalla legge come reato o che possa applicarsi una misura non prevista per un fatto di reato. In base a queste premesse l'art 200 c.p. il quale afferma che “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione e se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell'esecuzione” dovrà essere interpretato restrittivamente, nel senso che potrà riferirsi esclusivamente alle diverse modalità esecutive, all'ipotesi in cui la legge successiva disciplini in modo diverso le modalità esecutive della misura, che non potrà non essere già prevista al momento del fatto.

A favore di una estensione della ratio garantista dell'art 25 della costituzione alle misure di sicurezza anche Manna, il quale suggerisce anche il percorso diverso fornito dall'art 2 della legge 689 del 1981 che stabilisce il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative e di retroattività della sanzione amministrativa più favorevole (op. cit., p. 587).

Altri ritengono applicabile il principio di irretroattività sancito dall'art 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo ricomprendendo nel termine “pena” della norma anche la sanzione afflittiva e post delictum della misura di sicurezza (Musco voce “misure d Sicurezza”, Enciclopedia Giuridica vol. XXII).

Palazzo pur ritenendo che il giudice possa applicare una misura non prevista prima della commissione del fatto o non prevista per quel fatto che si applicherà la legge vigente al momento dell'esecuzione qualora muti la disciplina della misura di sicurezza in senso meno favorevole (ad es. perché più restrittiva della libertà personale) dopo la commissione del fatto ritiene, in deroga ai principi della successione delle leggi penali, in quanto la misura di sicurezza per Palazzo non ha natura punitiva ma è solo “rimedio alla pericolosità” (Francesco Carlo Palazzo, Corso di diritto Penale Parte generale, Giappichelli, Torino, p. 572).

280. Cfr. Fiandaca Musco, op. cit, p. 810.

281. Corte Costituzionale, Sent n. 96/1981 in tema di plagio.

282. Ibidem.

283. Eduardo De Cunto, Ospedali psichiatrici giudiziari: profili di incompatibilità con la tutela dei diritti umani, in “Diritti Umani in Italia”, rivista online, 30 gennaio 2012; Adelmo Manna, L'imputabilità e i nuovi modelli di sanzione. Dalle “finzioni giuridiche alla terapia sociale”, Torino 1997, pp. 68 e ss.

284. Ferrajoli, Diritto e Ragione, cit. p. 368 e ss. Per l'espressa configurazione del principio di legalità in tema di misure di sicurezza come principio posto nell'interesse dello Stato equiparato a quello che regola ogni attività della Pubblica Amministrazione si veda anche Cap I.

285. Cfr. Lattanzi Lupo Codice Penale Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Giuffrè 2000, p. 617.

286. Roberto Bartoli op. cit., p. 716. Sul versante del rapporto tra pericolosità e patologia Bartoli sostiene che la patologizzazione della pericolosità è coerente all'assenza dell'imputabilità che è dovuta proprio alla presenza di una patologia, per cui la pericolosità sociale non può non essere collegata alle condizioni di infermità. L'affermazione è sicuramente condivisibile; si pone però il problema della possibilità di una reale e concreta individuazione della pericolosità dell'infermo, della necessaria ridefinizione in senso restrittivo della nozione giuridica di pericolosità e, viceversa, di una sempre maggiore tendenza a qualificare come patologici molti comportamenti devianti/criminali (anche degli imputabili).

287. Luigi Fornari, Misure di sicurezza e doppio binario un declino inarrestabile?, in Riv. ital. dir. proc. penale 2/1993 p. 593; l'autore precisa come la gravità del fatto sia un profilo poco valorizzato in dottrina ed in giurisprudenza rispetto ai tratti patologici della personalità.

288. Cfr. Pellissero, op. cit., p. 115.

289. Cfr. Bertolino, Curare o punire, op. cit., p. 151.

290. In relazione al rapporto sussistente tra giudice e perito, Bertolino ritiene siano presenti due finzioni che potremmo definire “scolastiche”. La prima è che sia il giudice a dirigere l'esperto e non viceversa. La seconda, ancora più palese, è che la competenza a decidere rimanga totalmente al giudice, il quale sindacherebbe liberamente le conclusioni del perito. In realtà al perito verrebbe concesso o il potere di “pregiudicare” la soluzione del caso processuale, od addirittura trasferita di fatto e per intero la competenza a decidere. Per cui il perito non sarebbe un ausiliario del giudice bensì un suo concorrente. Bertolino in Curare o punire, op. cit., p. 161.

La giurisprudenza di legittimità invece ribadisce la diversità formali delle competenze e dei poteri di magistrati e periti affermando che il giudice non è tenuto a prendere in considerazione soltanto le emergenze di natura medico psichiatrica ma può attribuire rilievo a qualsiasi elemento utile legato alla natura od alla gravità del fatto di reato ai fini dell'accertamento della pericolosità sociale (Cass. Sez. 3 12.04.1989 n. 5133). Inoltre riafferma che proprio in virtù dei dati indicati dall'art 133 la valutazione è compito specifico ed esclusivo del giudice pur dovendo tener conto delle indicazioni del perito (Cass. Sez. 22.5.1988 n.2913 e Cass. Sez. I 8.10.1996 n. 8996). L'ancoraggio alla gravità del fatto della dichiarazione di pericolosità ha di recente consentito alla giurisprudenza di legittimità una funzione di garanzia. La Corte infatti ha annullato la decisione relativa al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell'imputato assolto per vizio di mente dal reato di ricettazione di cassette musicali prive del contrassegno Siae, in quanto il giudice di appello si era limitato a riportare il giudizio del perito, concludente per una pericolosità limitata a reati della stessa specie di quello commesso, senza prendere in considerazione gli altri parametri indicati dalla legge (Cass. sez. VI, 12/12/2002, n. 1313).

291. Gran parte della dottrina e della letteratura clinico psichiatrica utilizza una quadripartizione dei metodi di accertamento della pericolosità psichiatrica (od una tripartizione, escludendo il metodo combinato): 1) il metodo clinico, 2) il metodo statistico, 3) il metodo combinato, 4) il metodo intuitivo - tutti chiosando virgolettando “del quale la prassi celebra ogni giorno il trionfo”. Si veda a titolo di esempio Pellissero op. cit., p. 112, cfr. Mauro Ronco e Salvatore Ardizone (a cura di), Codice Penale Ipertestuale, art 203 c.p., IIa edizione Utet Giuridica, Milano 2007, p. 1027; cfr. Mario Romano, Giovanni Grasso, Tullio Padovani Commentario sistematico del Codice penale Vol. III Giuffrè, Milano, 2011, p. 470; cfr. Marco Cannavicci, Pericolosità sociale del malato di mente in Polizia e democrazia Febbraio-marzo 2009; Maria Teresa Collica La crisi del concetto di autore non imputabile pericoloso, cit., p. 14; Eleonora Fungher La pericolosità sociale nel procedimento del Tribunale di Sorveglianza, op. cit.; Musco La Misura di sicurezza op. cit., p. 192 e ss.; Fornari Misura di Sicurezza e doppio binario, op. cit., p. 619; Giovannangelo, Collica Ruolo del giudice e del perito nell'accertamento del vizio di mente; De Francesco, Carmela Piemontese, Emma Venafro La prova dei fatti psichici, Giappichelli, Torino 2010, p. 34.

292. Bertolino in Curare o punire, cit., p. 172 e ss.

293. Cassazione, Sez. 2, 3.07.1990, n. 9572.

294. Cassazione, Sez. I, 19.01.1994, n. 507.

295. Bertolino, L'imputabilità ed il vizio di mente nel sistema penale cit., p. 679; ma anche Coda e Fornari in Imputabilità e pericolosità sociale in Imputabilità e misure di sicurezza, a cura di A. Manna, Cedam, Padova 2002 p. 57.

Adelmo Manna, Diritto penale e psichiatria di fronte alla malattia mentale in Rass. It. Crim. 2000. Manna ricorda inoltre come il codice svedese del 1965 abbia abolito la distinzione tra soggetti imputabili e non imputabili, passando ad un sistema di sanzioni unico ma differenziato al suo interno anche in base al bisogno di trattamento, in questo caso quindi non vi è un binomio antitetico tra colpevolezza e bisogno di trattamento come invece viene proposto dalla dottrina italiana e da diversi progetti di riforma del codice penale.

Anche la Commissione Grosso, riservando le misure di sicurezza ai non imputabili (per i semi imputabili era prevista una pena diminuita con forme di esecuzione “riabilitative”), aveva sostituito la nozione di pericolosità con la nozione di “bisogno di trattamento o controllo” (art. 98) ed aveva ristretto le ipotesi per le quali si disponeva il ricovero in strutture chiuse ai soli reati gravi e qualora vi sia concreto pericolo della commissione di ulteriori gravi reati (art. 99) il bisogno di trattamento risultava differenziato sulla base delle differenti esigenze (terapeutiche, educative disintossicanti, etc.).

Tuttavia nel dar concretezza a tale bisogno di cura il progetto fissa ancora nella pericolosità il suo elemento costitutivo. Lo stesso art. 99 infatti dispone come presupposto soggettivo per l'applicazione delle misure ai non imputabili “il concreto pericolo che il soggetto in assenza di una tale misura commetta nuovamente un delitto” (art. 99 lett. a e b).

Inoltre il progetto Grosso, pur prevedendo un limite massimo di 5 anni di durata per le misure riservate ai non imputabili stabiliva che tale limite potesse essere superato in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l'incolumità delle persone (art. 101 comma 7).

Si deve comunque segnalare che nella relazione della Commissione Ministeriale si affermava che “la risposta al bisogno di trattamento del non imputabile deve competere in prima istanza ad istituzioni diverse da quelle della giustizia penale” che avrebbe dovuto occuparsi dei sofferenti mentali solo in via eccezionale, quando fosse stato assolutamente necessario “il ricorso a forme di coercizione personale” (p. 640).

Anche la commissione Pisapia aveva previsto misure di cura e controllo per i non imputabili, per le quali si prevedeva in sede di esecuzione l'enfasi sulla dimensione curativa (Collica, op. cit., p.28 e ss.).

296. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, volume V, parte I, Roma 1929, p. 247.

297. Ivi p. 246.

298. Sentenza Corte Costituzionale n. 114 /1998 sulla legittimità costituzionale degli artt. 94 e 95 c.p. in riferimento all'art 3 e 111 Costituzione. In relazione alla ragionevolezza della distinzione normativa tra ubriachezza abituale (art. 94 c.p.), ed intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti (art. 95 c.p.) il perito d'ufficio nominato dal giudice a quo aveva infatti affermato che la diagnosi medica di alcolismo è nei due casi identica posto che la definizione di cronicità dell'intossicazione non ha ragion d'essere non essendo riscontrabile una patologia permanente che duri oltre la cessazione dell'abuso.

299. Ci riferiamo al caso paradigmatico della Signora Antonietta Berardini sottoposta all'esecuzione provvisoria della misura di sicurezza presso l'Ospedale psichiatrico di Pozzuoli per 14 mesi per una colluttazione con una donna e successivamente con un Carabiniere. Deceduta il 31 dicembre 1974, in seguito alle ustioni riportate a causa di un incendio divampato nella cella in cui si trovava legata, da 4 giorni, in un letto. Cfr. Maria Grazia Giannichedda, Ospedali psichiatrici giudiziari dove la pena si chiama “misura di sicurezza” e non ha limite massimo, Il Manifesto 22 agosto 2007.

Ci riferiamo anche agli altissimi tassi di suicidio che si registrano in Opg, che sono molto superiori rispetto ai suicidi in carcere nonostante la previsione di un costante presidio medico-psichiatrico e la previsione di trattamenti farmacologici continuativi. Il tasso medio di suicidio negli istituti penitenziari nel quinquennio 2002/2007 è stato infatti del 9,90 ogni 10.000 detenuti, mentre negli Opg il tasso è stato del 19,8 ogni diecimila internati (Michele Miravalle, La riforma della sanità penitenziaria: il caso degli ospedali psichiatrici giudiziari. Esigenze etiche e giuridiche dell'oltre, Tesi, Università degli studi di Torino, 2011).

300. In questa direzione si sono mosse, pur con modalità anche molto diverse, le varie commissioni che avrebbero dovuto portare alla riforma del codice penale (Commissioni Pagliaro 1988, Grosso 1998, Nordio 2001, Pisapia 2006). Per gli atti Ministero della Giustizia e sezione Aree di studio/studi giuridici/progetti di riforma del codice penale del sito Ristretti.it. Nello stesso senso il disegno di legge presentato dalle regioni Toscana ed Emilia Romagna, nel senso, invece, della piena imputabilità del malato mentale con previsione di forme di esecuzione terapeutica il progetto Grossi del 1983 poi ripresentato dall'Onorevole Corleone (proposta di legge n. 151, 9 maggio 1996, “Norme in materia di imputabilità e di trattamento penitenziario del malato di mente autore di reato”).

301. Francesco Palazzo. Corso di diritto Penale. Parte generale, III edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2008, p. 469 e ss. Assume una posizione simile anche Mantovani, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 879 e ss.

302. Ci riferiamo alla nozione retributiva cosi come elaborata dal canone razionalista-illuminista, inteso come prima garanzia del diritto penale, che poneva come suo postulato l'esigenza di punire meno, consapevole della sofferenza che viene inflitta con la sanzione criminale, e non di punire meglio anche attraverso pratiche penali terapeutiche di tipo medico. Non ci riferiamo alle teorie filosofiche sulla retribuzione “assoluta” intesa come principio etico-religioso legata alla soggettività malvagia del reo. Lo stesso Carrara affermava l'impossibilità di porre come ragione del potere punitivo il principio retributivo inteso come suprema legge di assoluta giustizia e neppure sulla difesa sociale, stante il carattere concretamente gerarchico della società civile, ma si doveva poggiare sulla protezione della libertà umana ed esercitarsi al solo fine della protezione del diritto, che evitasse la deriva dispotica connessa agli scopi di mera difesa sociale. Una difesa del diritto che non può confondersi per Carrara col “funesto dettato salus publica suprema lex esto”. Cosi come viene rifiutato ogni legame fondativo tra espiazione e retribuzione, perché tale concetto è privo di confini definibili dall'intelletto, ed è dato puramente metafisico che espone all'arbitrio. Quando Carrara parla di difesa del diritto esprime un “concetto universale” intendendo non solo il diritto di tutti i cittadini e il diritto del ferito ma anche il diritto del feritore. La retribuzione etica viene a creare inoltre la stessa confusione tra diritto e morale della nozione di pericolosità, che ora si manifesta nelle forma del sostanzialismo giuridico del “just desert” tipiche delle correnti neoretribuzioniste statunitensi arrivando alla costruzione di modelli penali di tipo illiberale, fondati sulla morale della maggioranza. Come sostiene John Locke: “Vox populi Vox Dei; quanto incerta e fallace sia questa massima apportatrice di mali, con quanto spirito di parte, con quale crudele intendimento sia stato divulgato questo proverbio di cattivo augurio, noi lo abbiamo imparato senza dubbio da un'esperienza troppo infelice (...) Per quanto riguarda il consenso in materia di morale, affermiamo subito che esso non rappresenta affatto una prova della legge di natura (...) Quale azione vergognosa non sarebbe non dico lecita ma necessaria se fossero gli esempi della maggioranza a darci la legge, in quale onta e obbrobrio di ogni genere ci condurrebbe la legge di natura, se si dovesse andare nella stessa direzione in cui procedono i più? (...) Per cui si può concludere che voler commisurare la rettitudine delle azioni umane sulla base di questo consenso morale, e dedurne di conseguenza la legge di natura, equivale a darsi da fare per giungere alla follia in accordo con la ragione”.

Bisogna riconoscere tuttavia che anche nella retribuzione giuridica classica di stampo illuministico appare difficile operare una reale distinzione tra diritto e morale che risulta ovviamente di natura tendenziale e legata come già affermato al costume ed alla morale della maggioranza. Tuttavia concordiamo con la posizione di Ferrajoli che distingue nettamente tra dottrine retribuzioniste che si pongono come dottrine di giustificazione esterna (o etico politica) della pena, connesse alla giustificazione ed alla funzione dell'irrogazione della pena e dottrine retribuzioniste che invece enunciano parametri di legittimazione interna o giuridica che impongono di punire solo il fatto di reato (in modo proporzionato e strettamente necessario in conformità al diritto penale minimo) e sono compatibili con dottrine di giustificazione esterna diverse rispetto al retribuzionismo filosofico, tenendo conto che lo scopo generale del diritto penale consiste nella minimizzazione della violenza in ambito sociale. E' ragion fatta reato, e ragione fatta vendetta. La legge penale in altre parole è chiamata minimizzare una duplice forma di violenza, proteggere le possibili parti offese attraverso la configurazione e il perseguimento delle fattispecie di reato e proteggere il reo minacciato dalla vendetta, regolando inoltre razionalmente le reazione della macchina statale. Per cui il Diritto penale trova la propria giustificazione in quanto legge del più debole finalizzata alla tutela contro la violenza arbitraria del più forte. In tal modo esso di pone sempre come strumento di tutela dei diritti fondamentali che non possono essere aggrediti né con i crimini, né con le punizioni. Cfr. Luigi Ferrajoli, op. cit., p. 222, p.240 -270, p. 329; Francesco Carrara, Opuscoli di diritto criminale, Vol. II, Tipografia Giusti, Lucca, 1877, p. 7 e ss.; John Locke, Saggi sulla legge naturale (1660-1664), Laterza, Bari, 2007, p. 45 e ss.

303. Manna, Corso di Diritto penale, cit., p. 595 e ss.

304. Fiandaca Musco, op. cit. p. 575.

305. E. De Cunto, op. cit.

306. Ibidem.

307. Cfr. Marinucci Dolcini, op. cit., p. 3 e ss., sulla legittimazione e i compiti del diritto penale.

Il principio di sussidiarietà è di difficile applicazione in quanto postula l'utilizzo della pena detentiva solo nel caso in cui il bene giuridico tutelato dalla norma penale non sia tutelabile altrimenti, è evidente che, visto che per il non imputabile la norma interessata è l'art 203, si rivela difficile non cadere in un rapporto di circolarità tra difesa sociale, che, a mio avviso, è il reale bene giuridico tutelato dalla norma - così come attualmente configurata - ed internamento. che porta inevitabilmente ad aumentare l'ipotesi di una scelta custodiale (anche se medicalizzata) a scapito di una misura meno invasiva (come ad es. la libertà vigilata oggi ammessa dopo la Sent. n. 253 del 2003 della Corte Costituzionale).

308. Francesco Palazzo, Introduzione ai principi del Diritto Penale, Giappichelli, Torino, p. 69 e ss.

309. Servizio Studi Corte Costituzionale, Principi Costituzionali in materia penale (diritto penale sostanziale), Quaderno predisposto in occasione dell'incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese a cura di V. Manes, ottobre 2011, p. 67.

310. Ivi p. 64. Si fa riferimento alla Sentenza della Corte costituzionale n. 254/1994 che ha ritenuto irragionevole la preclusione per taluni reati delle sanzioni sostitutive previste per altri reati che riguardavano condotte lesive dello stesso interesse. Va precisato tuttavia che la pericolosità presenta caratteristiche peculiari che mal si adattano ad individuare un equilibrio che ha classicamente come parametro il disvalore del fatto. La pericolosità infatti non viene considerata da dottrina e giurisprudenza un disvalore ma una condizione. L'intento di tale definizione è quello di imprimere un crisma terapeutico alla sanzione dei non imputabili, ma è innegabile che l'obiettivo viene raggiunto prefigurando una sanzione legata ad un modo di essere del soggetto sconfinando inevitabilmente nel diritto penale d'autore.

311. Cfr. Palazzo, Introduzione ai principi di Diritto Penale, cit., p. 73.

312. Palazzo, Introduzione ai principi del Diritto Penale, cit., p. 65.

313. Ivi, p.64. In questo specifico passo indicato dalla nota Palazzo fa riferimento alla proporzione legata alla concezione garantista della colpevolezza ma l'argomentazione mi pare essere coerente anche con la sua configurazione della proporzione intesa come principio autosufficiente cui mi riferisco alla nota 292.

314. Marinucci Dolcini, op. cit., p. 573.

La compenetrazione tra pene e misure di sicurezza sarebbe confermata secondo gli autori dalla parziale estensione agli internati della disciplina dell'Ordinamento penitenziario in materia di esecuzione della pena detentiva (in particolare dell'art 1 c. 6 e dell'art. 3 Ord. Penit.) che assevera la frode delle etichette.

Una ulteriore prova sarebbe fornita dal fatto che dal 1988 il legislatore ha sancito la parziale fungibilità tra pena e misura di sicurezza, disponendo la possibilità di detrarre alla pena da scontare il tempo trascorso in esecuzione provvisoria della misura di sicurezza, se questa non è stata applicata definitivamente (art 657 c.p.p.).

315. Sandro Staiano, Per orbite ellittiche. Modello garantista, valore della certezza, diritto penale, in Rivista telematica giuridica dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti n.1/2011, p. 6.

316. L. Fornari, Misure di sicurezza verso un declino inarrestabile?, op. cit., p. 605. L'autore ricorda che i dati statistici indicano come a parità di fatto commesso la privazione di libertà dell'internato è mediamente molto superiore a quella che subisce il soggetto imputabile e che ciò già costituisce una violazione del principio di proporzionalità. Inoltre il termine massimo dovrebbe essere imposto dal ricorrente problema del numero di falsi positivi connesso all'accertamento della pericolosità.

In un altro passo l'autore sottolinea: “il rischio è che nella piatta realtà dell'istituzione chiusa, acquisisca un risultato prognostico negativo ogni atteggiamento, anche il più insignificante, che possa implicare una qualche carica di aggressività, pur se in realtà riconducibile non ad una origine patologica ma alla condizione stessa di privazione della libertà e ai disturbi da ospedalizzazione che ne derivano. D'altra parte la possibilità di fruire di un genuino quadro terapeutico è altresì compromessa dal frequente insorgere di rapporti artefatti tra medico e paziente che pure costituisce un fenomeno tipicamente correlato al clima da istituzione chiusa” p. 609.

317. Cosi anche Commissione per la riforma del codice Penale Grosso, Sotto-Commissione: Pisa - Corbi - Pulitanò - Randazzo - Seminara - Zagrebrelsky - Zancan, l'imputabilità, estensore materiale del documento Pulitanò (dattiloscritto) cfr. nota 53. A. Manna, Diritto penale e psichiatria di fronte alla malattia mentale, cit. p. 347.

318. Fiandaca Musco, op. cit., p. 272.

319. Vedi supra, Cap. II, par 2.3.2.

320. Nel 1995 la Cassazione ha ribadito la natura sostanzialmente amministrativa delle misure di sicurezza proprio per giustificare il fatto che per quanto riguarda le misure di sicurezza disposte nella sentenza, essa è inidonea al giudicato. Per cui esse possono essere modificate, revocate, prorogate e possono essere applicabili d'ufficio persino dopo la sentenza nei casi indicati dall'art. 205 c.p. e quindi:

  1. nel caso di condanna, durante l'esecuzione della pena o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena;
  2. nel caso di proscioglimento, qualora la qualità di persona socialmente pericolosa sia presunta [204, 2], e non sia decorso un tempo corrispondente alla durata minima della relativa misura di sicurezza;
  3. in ogni tempo, nei casi stabiliti dalla legge [1092, 204, 210].

321. Paolo Tonini in La prova scientifica nel processo penale, op. cit. p. 69. Tonini precisa inoltre che “E' un corollario del principio del contraddittorio che le parti abbiano conoscenza anticipata dei criteri in base ai quali possono in concreto esercitare il proprio diritto alla prova costituzionalmente protetto. Non è sufficiente il riferirsi al principio del libero convincimento perché questo regola la valutazione non l'ammissione della prova. Un esempio può chiarire l'assunto. Facciamo l'ipotesi che la supposta prova scientifica sia inizialmente ammessa dal giudice ed una parte fondi su di essa la propria argomentazione. Successivamente il giudice utilizzando il libero convincimento, in sentenza dichiara la prova non scientifica; in tal caso, la parte non ha più la possibilità di chiedere l'ammissione di differenti mezzi di prova per difendere la propria tesi, con violazione del diritto di conoscere in anticipo quali sono le prove che sono ammesse (art. 495). Viceversa, se la prova fosse stata dichiarata non scientifica in sede di ammissione, la parte avrebbe avuto la possibilità pratica di riorganizzare la propria linea argomentativa utilizzando ulteriori mezzi di prova”.

322. F. Centonze, op. cit., p. 283.

323. Gian Antonio Stella, Giustizia e modernità, p. 438 cit. in Centonze, cit., p. 283. Anche in questo caso si parla di imputabilità, visto tuttavia che anche quando si tratti di dichiarare la pericolosità sociale è in gioco la libertà personale, per di più di un soggetto prosciolto, non si vede perché ci si debba attenere ad uno standard diverso.

324. Tonini, La prova scientifica nel processo penale, op. cit. p. 73; Maria Teresa Collica Giudizio di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore scientifico, in Riv. It. Dir. Proc. Pen, 2008, p. 1189.

325. Daubert, 509 Us at 589. Sul punto si veda anche Maria Teresa Collica, Giudizio di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore scientifico, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2008, p. 1185-1187.

326. Ivi at 590. Collica supra cit. p. 1193.

327. Ivi at 592-594.

328. Thomas Regnier, Barefoot in Quicksand. The future of “future dangerousness” prediction in death penalty sentencing in the world of Daubert and Khumo, in Akron Law Review, 2004, p. 495.

329. Sul tema delle norme processuali nel sistema inquisitorio si veda P. Tonini, Manuale di Procedura Penale III edizione, 2002, p. 177.

330. Cosi Sentenza Corte Costituzionale n. 228 1999.

331. Ex multis Salvatore Luperto, La valutazione peritale della pericolosità sociale ed il trattamento dell'autore di reato infermo alla luce delle sentenze n. 253 e 367 della Corte Costituzionale, in Rass. It. Crim., 2007, p. 244. Da notare che, dal versante dei giuristi, Fassone già nel 1976 aveva proposto di valorizzare l'utilizzo di una misura elastica come la libertà vigilata per un maggior equilibrio tra esigenze di controllo e di terapia nei confronti dei seminfermi cfr. Elvio Fassone Proposta per un diverso trattamento della seminfermità mentale in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1976, p. 583.

332. Ada Famiglietti, Verso il superamento della pena manicomiale, in Giur. Cost. 2003, p. 2122. Bisogna aggiungere che la Corte, anche nella successiva sentenza n. 228 del 1999 aveva affermato la necessità in relazione all'applicazione delle misure provvisorie di sicurezza di una attenta revisione normativa “sia alla stregua dei dubbi avanzati intorno all'istituto stesso dell'ospedale psichiatrico giudiziario sia alla stregua di una valutazione relativa all'adeguatezza di tale istituzione in relazione ai mutamenti introdotti sin dalle leggi 13 maggio 1978, n, 833 per il trattamento dei soggetti infermi di mente, [...] ma una tale revisione della legislazione penale (nella specie del diritto penale sostanziale) è riservata al legislatore” dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 206 e 222, primo comma c.p. e 312, 313 c.p.p. in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione.

333. Per i semi-imputabili è invece espressamente prevista la possibilità della sostituzione della misura del ricovero in casa di cura e di custodia con la libertà vigilata dall'art 219, secondo comma, c.p. Anche il Progetto Pagliaro prevedeva per l'infermo di mente, il tossicodipendente ed il sordomuto il ricovero in una struttura psichiatrica o il trattamento psichiatrico in libertà sorvegliata (art. 48 Bozza di articolato- disegno di legge su delega legislativa, 25 ottobre 1991).

334. Massimo Minniti, La Consulta apre la strada a misure più flessibili rispetto all'Opg. malattia psichica e giustizia un problema irrisolto, in Dir. e giust. 2003, 32, 0074.

335. Franco Della Casa, op. cit., (juris data) pg 6/10.

336. Sent. Corte Cost. 253/2003.

337. Famiglietti, op. cit., p. 2125.

338. Collica, op. cit., p. 35.

339. Salvatore Luperto, La valutazione peritale della pericolosità sociale ed il trattamento dell'autore di reato infermo alla luce delle sentenza n. 253 e 367 della Corte Costituzionale, in Rass. It. Crim, 2005, p. 245.

340. Ivi, p. 242.

341. F. Della Casa, op. cit. (juris data), p. 8/10.

342. Cfr. Tania Groppi La sentenza n. 253: la Corte e il “diritto mite” Forum di Quaderni Costituzionali 29 luglio 2003 anche in Consulta Online. Per l'autrice la decisione si muove sulla scia di una serie di decisioni della consulta che dichiarano l'incostituzionalità di norme che impongono vincoli troppo rigidi ai giudici, impedendo un bilanciamento legato alle concrete esigenze dei casi in esame. La Corte in tal modo “arriva pertanto a creare una vera e propria categoria di decisioni di accoglimento” arrivando ad affermare che “in fondo dichiarare una legge incostituzionale perché legge, ovvero generale ed astratta, significa riconoscere in modo assai netto ed esplicito il crollo del mito rivoluzionario ed ottocentesco della legge uguale per tutti”. Un esito di questo genere, a mio avviso, non sarebbe auspicabile se si volesse realizzare un reale sistema di tutela dei diritti individuali che non può in alcun modo implicare, non tanto un forte potere dell'autorità giudiziaria, quanto un potere di una pubblica autorità basato solo su principi generici (o generali).

343. Luperto, op. cit., p. 247.

344. Sezione Sorveglianza Firenze 16/12/2004, Tribunale di Sorveglianza di Firenze per il Distretto della Corte d'Appello, ordinanza in procedimento di sorveglianza Firenze a seguito di una sentenza emessa dal Tribunale di Lucca che aveva ordinato il ricovero in Opg per un periodo non inferiore ai due anni di un soggetto in seguito ad una assoluzione per vizio totale di mente dai reati di calunnia e detenzione illecita di esplosivi. Essendovi stata una impugnazione concernente le disposizioni in materia di misure di sicurezza a seguito di sentenza di proscioglimento la Corte di Appello di Firenze ha trasmesso gli atti al Tribunale di Sorveglianza competente ex art. 680 comma 2 c.p.p. Il soggetto era affetto da sindrome delirante paranoicale ed era seguito da anni dai servizi psichiatrici.

345. Franco Della Casa, La Corte Costituzionale corregge l'automatismo del ricovero provvisorio nella struttura manicomiale promuovendo la libertà vigilata al rango di alternativa in Giur. Cost. 2004, 06, p. 3998.

346. Massimo Niro, Misure di sicurezza e alternative all'O.P.G., relazione all'incontro studio “La salute mentale dei detenuti e degli internati in Toscana: presente e futuro”, Firenze, Villa Demidoff, 11 luglio 2008; cfr. Trib. Ivrea 20 gennaio 2004, in Il merito, 2004, n. 4, p. 80 (in motivazione); citato da Nadia Buttelli, la quale afferma anche che “La decisione della Consulta, ha contribuito a ‘scatenare’ la fantasia giudiziaria”; si limita a dare atto del frequente ricorso al ricovero in casa di cura e custodia in sostituzione dell'internamento in OPG N. Buttelli, Le misure di sicurezza detentive: dalla casa di lavoro all'ospedale psichiatrico giudiziario. Quale futuro?, Relazione tenuta nel seminario: Le prospettive del pianeta carcere, Comune di Bologna, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Giovedì 29 aprile 2010; M. Azzini, Il trattamento dell'infermo di mente nella fase dell'esecuzione, Relazione svolta nell'ambito dell'incontro di studio organizzato dal C.S.M. su «La magistratura di sorveglianza», p. 5.

347. Cfr. Cass., Sez. VI, 4 novembre 2010; Id., Sez. II, 17 giugno 2010; Id., Sez. V, 8 gennaio 2010; conformi anche Gip Pisa 5 novembre 2007, in Riv. pen., 2008, p. 679; Trib. Milano, 6 novembre 2008, in Foro ambr., 2008, p. 381 citate da Franco Della Casa, Riv. it. dir. e proc. pen., 2013, 01, 0064 nota 54.

348. Le esigenze cautelari sancite dall'art 274 si verificano:

  1. quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio Le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebitati;
  2. quando l'imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione;
  3. quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi [5852 c.p.] o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale [270, 270-bis, 272, 280, 283, 284, 289-bis c.p.] ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

349. Massimo Minniti, Francesco Minniti, I disabili mentali i giudici e la comunità: resta il nodo delle misure di sicurezza in Diritto e Giiustizia. 2004, 46, 0012 (iuris data).

350. Sono manifestamente infondate - in riferimento all'art. 13 comma 5 cost. - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 206 comma 1 e 3 c.p., nella parte in cui non prevede un termine massimo all'applicazione provvisoria, nel corso di un procedimento penale, di una misura di sicurezza detentiva e in quella in cui non prevede che il tempo di esecuzione provvisoria della misura di sicurezza sia computato nei termini di custodia cautelare.

351. R. Marino, Le misure di sicurezza detentive con particolare riferimento alla casa di cura e di custodia e all'Opg, in Quad. C.S.M, n. 80, Roma 1995, p. 232 cit in Franco Della Casa, La Corte Costituzionale corregge l'automatismo del ricovero provvisorio nella struttura manicomiale promuovendo la libertà vigilata al rango di alternativa in Giur. Cost. 2004, 06, p. 3998.

352. Franco Della Casa, ibidem. Si tenga conto che col codice di rito previgente nella prassi si è registrato un indirizzo opposto: Fornari e Rosso riportano un caso, nel 1987, in cui il Pubblico Ministero ha chiesto che venisse emessa una sentenza di non luogo a procedere per vizio totale di mente e si disponesse il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per un tempo non inferiore ad anni 5: E.F., una donna con disturbi psicotici, accusata di aver ucciso, tramite strangolamento, l'amica xy. U. Fornari, R. Rosso, Folli in libertà? Contributo al prosciolto socialmente non pericoloso, in Riv. It. Med. Leg., XIV, 1992, p. 635.

353. Ibidem; cfr. anche i dati statistici su internati in Opg alla data 14/04/2011 in StopOPG. Gli internati ex art 206 sono complessivamente 424 (398 uomini, 26 donne) mentre gli internati ex art 222 c.p. sono 537 (500 uomini, 37 donne) su un numero complessivo di 1419 internati.

354. Esperienza diretta di consulenza ai detenuti della Casa circondariale di Sollicciano con l'Associazione “L'Altro Diritto”. Spesso l'arresto in flagranza accompagnato da un provvedimento cautelare poteva comportare molti mesi di detenzione preventiva a fronte di un reato che avrebbe comportato una condanna molto al di sotto dei tre anni di detenzione (o 6 per i tossicodipendenti- che costituiscono un'ampia percentuale della popolazione carceraria) la quale avrebbe fatto operare l'art. 656 comma 5 c.p.p., che prevede che in questi casi l'ordine di esecuzione di una sentenza di condanna a pena detentiva con il quale il pm dispone la carcerazione venga sospeso e il condannato possa chiedere la concessione di misure alternative alla detenzione, la possibilità di un affidamento ai servizi sociali in luogo dell'espiazione in carcere (affidamento in prova ai servizi sociali ex art 47 op; detenzione domiciliare ex art 47 ter. o.p.; sospensione della pena detentiva ex art 90 D.p.r. 309/1990; affidamento in prova in casi particolari ex art 94 D.p.r 309/1990).

355. Della Casa, op. cit.

356. Corte Cost., Sent. 253/2003.

357. Peppe Dell'Acqua, Silvia D'Autilia, Abbandonare quei luoghi, abitare le soglie in Riv. It. Med. Leg 3/2013, pp. 1357, 1358.

358. Massimo Pavarini, Pena, Voce, in Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani.

359. F. Basaglia, Introduzione ad Asylum, in A Pertot, Basaglia politico. Un atto di non inclusione, Abiblio, Trieste, 2011, p. 55, cit. in P. Dell'Acqua, S. D'Autilia, op. cit. nota 7. Dell'Acqua e D'Autilia affermano, condivisibilmente: “L'istituzione è totale in quanto apparato che produce meccanismi (...) capaci di rubare senso al sentire singolare, capaci di sottrarre potere sul proprio stesso corpo. Prima di allora, tutto è ancora possibile perché quello che sarà il futuro malato mentale è ancora considerato una presenza contraddittoria nella realtà in cui vive: il datore di lavoro che si lamenta delle sue stranezze, il familiare che lo colpevolizza per il suo comportamento, stanno ancora pretendendo da lui qualcosa, il cui ottenimento lo manterrebbe ai loro occhi in un terreno di uguaglianza. Lamentarsi di un comportamento presume la possibilità che un tale comportamento venga modificato in seguito al proprio intervento, tenendo conto, contemporaneamente, delle ragioni che verranno opposte a spiegazione o a giustificazione del comportamento stesso” (op. cit. p. 1359).

360. F. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, 200 p. 66 cit. in Peppe Dell'Acqua, Silvia D'Autilia, op. cit., p. 1357.

361. Introduzione al d.d.l. 8 agosto 1977, n. 2746, Senato della Repubblica, p. 2.

362. U. Fornari, Trattato di psichiatria Forense, cit. p. 81.

363. Ibidem.

364. Ibidem.

365. Ignazio Marino, Mettiamo fine alla tortura di stato, Blog.

366. Cfr. Pavarini op. cit.

367. Aversa (CE), Barcellona Pozzo di Gotto (ME), Montelupo Fiorentino (FI), Napoli, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere (MN).

368. Commissione Parlamentare sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, Relazione sulle condizioni di vita e di cura all'interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, approvata dalla Commissione nella seduta 20 luglio 2011, Senato della Repubblica XVI Legislatura, Tipografia del senato, Doc. XXII-bis n. 4.

369. Commissione Parlamentare sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, Seguito dell'inchiesta su alcuni aspetti della medicina territoriale, con particolare riguardo al funzionamento dei servizi pubblici per le tossicodipendenze e dei dipartimenti di salute mentale, 74a seduta: martedì 22 giugno 2010, Senato della Repubblica XVI Legislatura, Tipografia del senato, resoconto stenografico n. 71, p. 4 e ss.

370. Cfr. ivi p. 16.

371. Ivi p. 14.

372. Ivi p. 10.

373. Ibidem.

374. Commissione Parlamentare sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, Relazione sulle condizioni di vita e di cura all'interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, op. cit., p. 11 e ss.

375. Ernesto Calvanese, Anna Benetti, La Revoca della misura dell'ospedale psichiatrico giudiziario. Una indagine sulle pronunce della Magistratura di Sorveglianza di Mantova in Rassegna Italiana Criminologia n. 1, gennaio 1995.

376. Calvanese, Bianchetti, op. cit., p. 50.

377. Ivi p. 48; non molto migliore risulta essere il potere di influenza dell'equipe in caso di revoca anticipata, nel quinquennio 85-91 aveva portato a 40 revoche su 50 pareri favorevoli, nel decennio 92-02 si è arrivati ad 11 revoche su 17 pareri positivi. Anche in questo caso vi è dunque un forte calo in termini percentuali di incidenza del parere favorevole, tenuto conto dell'arco temporale doppio vi è anche da registrare un forte calo delle richieste di revoca anticipata.

378. Calvannese, Benetti, op. cit., p. 60 e ss.

379. Ernesto Calvanese, Raffaele Bianchetti, L'internamento in ospedale psichiatrico giudiziario: le revoche della misura nelle ordinanze del magistrato di sorveglianza di Mantova (anni 1992-2002), in Rassegna Penitenziaria e Criminologica n. 1, 2005, p. 35.

380. Vittorino Andreoli (a cura di), Anatomia degli ospedali psichiatrici giudiziari, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Ministero della Giustizia, 2002, p. 46.

381. Andreoli, op. cit., p. 13.

382. T. Padovani, L'ospedale psichiatrico giudiziario e la tutela della salute, in Tutela della salute e diritto privato, a cura di F. D. Busnelli e U. Breccia, Giuffrè, Milano, p. 271.

383. Ivi, p. 36.

384. Calvanese, Benetti, op. cit., p. 57, tabella n. 4.

385. Calvanese, Bianchetti, op. cit., p. 53.

386. Ivi, p. 29.

387. Ivi, p. 36.

388. Ivi, p. 38.

389. Ivi, p. 50.

390. Ivi, p. 53.

391. F. von Liszt, La teoria dello scopo nel diritto penale, I ed. 1883, trad. a cura di A. Calvi (1962) della versione pubblicata in Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge von Dr. Franz von Liszt (1905), p. 56 cit. in Francesco Viganò, La neutralizzazione del delinquente pericoloso nell'ordinamento italiano in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2012, 04, p. 1334.

392. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 25-5-2013 serie generale- n. 121, p. 45.

393. Il D.p.c.m. 1/4/2008 ha dato a sua volta attuazione al D.l.g.s. n. 230/1999 che ha sancito il trasferimento della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale ed ha lasciato all'amministrazione penitenziaria funzioni organizzative e di raccordo tra i sistemi. Disponendo, per quanto riguarda la salute mentale, che i DSM operino nelle carceri, tramite accordi stipulati tra amministrazione penitenziaria e amministrazione sanitaria, con gli stessi obiettivi e modalità usati per tutti i cittadini del territorio di competenza.

394. Ministero della Salute. Ministero della Giustizia, Linee di indirizzo per gli interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) e nelle case di cura e di custodia, Allegato C al DPCM 2008 concernente le modalità e i criteri per il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria.

395. Franco Della Casa, Basta con gli OPG! La rimozione di un “fossile vivente” quale primo passo di un arduo percorso riformatore in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2013, 01, p. 65 (iuris data).

396. In una prima fase l'Allegato C, per provvedere ad uno sfoltimento de numero degli internati nell'OPG, prevede, a passaggio di competenze avvenuto, che la responsabilità della gestione sanitaria degli Opg venga assunta interamente dalle Regioni in cui essi hanno sede. Inoltre i Dipartimenti di Salute Mentale devono predisporre un programma operativo in collaborazione con l'equipe responsabile della cura e del trattamento dei ricoverati che preveda la dimissione degli internati che abbiano concluso la misura di sicurezza con il coinvolgimento degli enti pubblici locali territoriali ed i servizi sanitari per consentirne una inclusione sociale adeguata.

L'Allegato C prevede inoltre di riportare nelle carceri i detenuti ricoverati in Opg per disturbi psichici sopravvenuti affinché fosse disposto l'accertamento dell'infermità negli istituti ordinari. (nell'accordo ratificato nell'ambito della Conferenza unificata Stato Regioni in data 13/10/2011 si è preso atto dei gravi impedimenti all'attuazione di questa parte delle linee guida e si è disposto la predisposizione in ogni regione di una apposita sezione carceraria destinata all'osservazione psichiatrica entro il 30 giugno 2012).

Nella seconda fase, dopo un anno, si prevede una redistribuzione degli internati nei vari Opg in modo tale che questi si configurino come sede per i ricoveri di internati delle regioni limitrofe o della regione stessa. Le regioni devono predisporre un programma di cura, di riabilitazione e di recupero per ciascuno degli internati prevedendo rapporti tra i diversi servizi sociali e sanitari utili e necessari per realizzare il programma di ulteriore decentramento nelle regioni di provenienza.

Nella terza ed ultima fase, dopo due anni, si dispone oltre la restituzione degli internati alla regione di appartenenza e la relativa presa in carico, in preparazione alla dimissione e all'inserimento nel contesto sociale come previsto dall'art 115 c.1. D.P. R. 230/2000, la predisposizione di strutture Opg con livelli diversificati di vigilanza, strutture di accoglienza, l'affidamento ai servizi psichiatrici e sociali territoriali, sempre e comunque sotto la responsabilità del Dipartimento Salute Mentale della Azienda Sanitaria dove la struttura od il servizio sono ubicati.

Un accordo in sede di Conferenza Permanente Stato Regioni e Province Autonome doveva definire gli standard organizzativi, le tipologie delle forme assistenziali, e le modalità della sicurezza.

397. Franco Della Casa Basta, op. cit., p. 65.

398. Giulia Valvo, Il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari: la delicata attuazione dell'art 3-ter d.l 211/2011, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2012.

399. Ivi, p. 4.

400. Francesco Schiaffo, La riforma continua del “definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. La tormentata vicenda legislativa dell'art 3-ter del d.l. n.211/2011 in corso di stampa in Critica del Diritto (edizioni scientifiche Napoli) 1/2013, p. 4.

401. Decreto 1 ottobre 2012, Ministro della Salute di concerto con il ministro della Giustizia, Requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione di casa di cura e di custodia. In Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 19-11-2012, serie generale, n. 270.

402. Repertorio Atti n. 84/CU del 26/11/2009, p. 3, cit. anche in F. Della Casa, op. cit., nota 15; così anche Enrico Zanalda, Claudio Mencacci, Percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia. L'impatto sui dipartimenti di salute mentale. L'opinione della Società italiana di Psichiatria, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, n. 1, 2013, p. 29.

403. Per questo motivo il 27 settembre 2011 il Senato ha approvato la risoluzione n. 6 sugli ospedali psichiatrici giudiziari un documento politico che ha preceduto un ulteriore accordo della Conferenza unificata intitolato “integrazione degli indirizzi di carattere prioritario di cui all'allegato C del Dpcm 1º aprile 2008” e l'intesa Ministero Salute - Ministero Giustizia per la dimissione entro marzo 2012, di 221 internati, addirittura individuati per nome e per cognome, non più socialmente pericolosi.

La Relazione del settembre 2011 sui dati forniti da Regioni e Province Autonome, Ministero della Salute - Ministero della Giustizia relativamente al rispettive azioni, in attuazione dell'accordo in Conferenza Unificata del 26 novembre 2009, prendeva atto del fatto che il numero dei soggetti dimissibili era stato allargato a 543 soggetti ma che solo il 39,96% era stati effettivamente dimesso (217 su 543), la difficoltà a procedere alla dimissioni effettive è stata individuata nei problemi di coordinamento all'interno dei 5 macrobacini territoriali creati dal dpcm del 2008 e dalla mancanza di risorse economiche delle regioni per effettuare investimenti in percorsi territoriali terapeutici alternativi per malati di mente autori di reato. (Gianfranco Rivellini, OPG, regioni in ordine sparso. senza risorse finanziarie lo svuotamento è una chimera, Il Sole 24 ore - Dibattiti - Sanità 22-28 novembre 2011).

La particolare atipicità della situazione viene evidenziata dal fatto che il rilascio di questi individui sembra essere rimesso più alle cure degli organi amministrativi e degli enti locali che dell'autorità giudiziaria, costituzionalmente preposta ex art 13 a disporre della libertà personale dei cittadini.

404. Cittadini internati 2007/2011 statistiche.

405. Della Casa, op. cit. (juris data p. 16/28).

406. Commissione Marino, Audizione Società Italiana di Psichiatria, Atti Senato. XVI Legislatura. Commissione parlamentare d'inchiesta, cit., seduta 155, 3 aprile 2012, p. 6 e 38.

407. Cfr. Enrico Zanalda, Claudio Mencacci, op. cit., p. 36.

408. Ufficio di Sorveglianza di Messina, proc. n.2909/10, Reg. Es. Mis. Sic; Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, proc. n.97/2009 R.G.M.S.D; Ufficio di Sorveglianza di, Santa Maria Capua Vetere, proc. n. 97/2009 R.G.M.S.D, cit in F. Schiaffo, op. cit., p. 9.

409. Così Tribunale Milano, 24/03/2000, Foro ambrosiano 2000, 384; Cassazione penale, sez. I, 27/01/1998, n. 461, Giust. pen. 1998, II, 724; Cass. Pen. 1999, 1250, Riv. polizia 1999, 40; Cassazione penale, sez. I, 31/03/1995, n. 2019; Cass. pen. 1996, 926; Cassazione penale, sez. V, 20/10/1993; Cass. pen. 1995, 161 (Juris data).

410. Giovanna Di Rosa, Il superamento dell'ospedale psichiatrico giudiziario, in Riv. It. Med. Leg. 3/2013, p. 1412.

411. Ivi, p. 1411; cfr. anche F. Della Casa., op. cit. 0064 e ss. (iuris data); i dipartimenti di salute mentale, si presentano infatti come un universo estremamente frastagliato, vi sono alcuni che si strutturano essenzialmente in modo chiuso con forti tendenze al mantenimento della sicurezza in cui le strutture residenziali diventano una forma di raccoglitore indifferenziato basati su pericolosità farmaci e contenzione ed altri, come quelli del Friuli Venezia Giulia o la Sardegna, che aboliscono o tentano di abolire ogni forma di contenzione nei servizi psichiatrici diagnosi e cura o aprono 24 ore su 24 i centri di salute mentale e cercano rapporti continuativi con le strutture penitenziarie attraverso le predisposizione di accordi. Il potenziamento dei Servizi psichiatrici e la concreta presa in carico delle situazioni più difficili ha determinato una diminuzione degli internamenti in OPG di soggetti provenienti da queste regioni, poiché evitava che questi svolgessero un ruolo di supplenza rispetto alle carenze dei servizi sanitari, soprattutto per quelle forme di disagio che si manifestavano nei reati di poca importanza (cfr. Daniele Pulino, Un'alternativa all'Opg. Intervista a Giovanna del Giudice - Direttrice dal 2006 al 2009 del Dipartimento Salute Mentale della ASL di Cagliari - Manifesto Sardo 1 dicembre 2012; cfr. P. Dell'Acqua, S. D'Autilia, op. cit., pp. 1370 e ss.).

412. Giovanna Di Rosa, op. cit., p.1412; cosi anche Francesco Maisto, giudice di sorveglianza del Tribunale di Bologna in Magistratura e superamento dell'OPG, intervista di Daniele Pulino, Il Manifesto Sardo 6 dicembre 2013.

413. Magistrato di sorveglianza di Firenze, Est. G. Merli, ordinanza del 15.2.2012, con nota di Maria Laura Fadda, in Persona e Danno.

414. F. Schiaffo, op. cit., p. 7.

415. E. Zanalda, C. Mencacci, op. cit., p. 32.

416. A. Grispini, G. Ducci, op. cit., p. 13.

417. Gian Domenico Dodaro, Ambiguità e resistenze nel superamento dell'OPG in regione Lombardia: verso l'“Istituzionalizzazione Ospedaliera” del malato di mente autore di reato, in Riv. It. Med. Leg. 3/2013, p. 1391 e 1398.

418. Franco Rotelli, I nuovi vestiti degli ospedali psichiatrici (a proposito di una legge molto “pericolosa”).

419. Unione Camere Penali Italiane.- Osservatorio Carcere, Operazione Verità. Il destino degli internati nei programmi regionali, Roma, 29 novembre 2013, in StopOPG; così anche Stefano Cecconi Giovanna del Giudice, Sul seminario stopOPG: Il superamento degli ospedali psichiatrici alla luce della nuova legge 57/2013, Roma 9 luglio 2013.

420. F. Della Casa, op. cit., p. 14/28 (iuris data).

421. Cfr. Ministero della Giustizia - Ministero della Salute, Relazione al Parlamento, ai sensi dell'art 3 ter comma 8-bis del Dl 211/2011 sullo stato di attuazione dei programmi regionali relativi al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari - trasmessa al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del Senato in data 16/12/2013; dal documento emerge che molte regioni si ripropongono, in conformità a quanto disposto dal D.p.c.m 1/4/2008, di differenziare i livelli di sicurezza delle varie strutture sul territorio. La Lombardia prevede ad esempio tre livelli di sicurezza (definita intensità terapeutica assistenziale e modulata in - alta - media - bassa). Inoltre la stessa Lombardia concentrerà nel polo di Castiglion delle Stiviere 120 posti letto dei 240 programmati.

Viene data grande importanza anche alla formazione del personale sanitario nelle questioni relative alla sicurezza. Sia nella forma della sicurezza fisica, attinente non solo al rischio di gesti autolesivi ma anche alla pianificazione di presidi per scongiurare la fuga degli internati, sia nella forma della sicurezza relazionale che viene considerata quella cui dare maggior riguardo, e che riguarda la competenza dello staff sanitario nel riconoscere situazioni di rischio legate al comportamento inadeguato dell'internato (cfr. anche G. Dodaro, op cit., p. 1395).

E' evidente quindi una riappropriazione delle funzioni di sicurezza dello staff sanitario che ricorda la superata esperienza manicomiale.

422. S. Cecconi, G. Del Giudice, op. cit.

423. Ibidem.

424. Il programma complessivo per il superamento degli Opg avviato dall'Emilia Romagna prevede infatti anche: “finanziamenti dedicati al supporto di progettualità per internati in licenza finale d'esperimento o dimessi; potenziamento dei DSM-DP per garantire adeguate risorse sia di personale che per progetti di residenzialità e di reinserimento sociale e favorire la dimissione dei pazienti (..); coordinamento ed interfaccia con i referenti delle AUSL per le dimissioni in modo da evitare che anche l'inserimento in questa struttura diventi stabile; l'apertura di un tavolo di lavoro con la magistratura di sorveglianza e quella ordinaria per favorire la condivisione di linguaggi e di procedure, l'apertura di un Reparto di osservazione psichiatrica presso il carcere di Piacenza per l'invio di detenuti che necessitano di una diagnosi ad oggi svolta impropriamente negli OPG (osservazione psichiatrica ex art 112 dpr 230/00)”.

425. E. Zanalda, C. Mencacci, op. cit., p. 32.

426. Atto Camera, Ordine del Giorno 9/00734-A/002 presentato da Scuvera Chiara, testo di Lunedì 20 maggio 2013, seduta n. 19.

427. G. Di Rosa, op. cit., p. 1414.

428. C. Mazzuccato, G. Varraso, op. cit., p. 1449.

429. G. Di Rosa, op. cit., p. 1414.

430. Esperienza personale durante l'attività di operatore volontario presso il carcere di Sollicciano attraverso l'associazione “L'Altro diritto”.

431. Alessandro Grispigni, Giuseppe Ducci, Il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Considerazioni e riflessioni in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, n. 1 2013, p. 16.

432. Così invece F. Della Casa, op. cit., p. 21/28.

433. P. Dall'Acqua, S. D'Autilia, op. cit, p. 1362.

434. A. Grispigni, G. Ducci, op. cit., p. 19.

435. Ivi, p. 21.