ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo IV
L'OPG negli anni '80 e '90: il silenzio diffuso e le sentenze della Corte Costituzionale

Giulia Melani, 2014

Negli anni '70 molti autori già ritenevano che le misure di sicurezza versassero in uno stato di profonda ed irreversibile crisi. Il manicomio giudiziario, dal canto suo, era stato travolto dai gravissimi scandali della metà degli anni '70 e molte voci istituzionali si erano espresse a favore del superamento di questa modalità di trattamento del folle autore di reato, ormai considerata anacronistica.

Nonostante gli scandali, le contestazioni, la rinnovata attenzione dell'opinione pubblica nei confronti del manicomio giudiziario, questa istituzione era rimasta pressoché immutata (salvo il cambiamento del nome da manicomio ad ospedale psichiatrico), sopravvissuta anche alla riforma dell'assistenza psichiatrica e alla chiusura dei manicomi. Nessun cambiamento radicale era intervenuto: l'OPG era rimasto un'istituzione fondamentalmente penitenziaria, con caratteri afflittivi: personale dipendente dall'amministrazione penitenziaria, regime e disciplina simili a quelle di un carcere, architettura e organizzazione tipiche di un'istituzione totale.

Gli anni '80 e '90 non hanno visto scandali e l'attenzione accesa solo qualche anno prima dalla tragica morte di Antonietta Bernardini, gradualmente si è spenta. L'OPG è ritornato ad essere, come per grande parte della sua storia, un'istituzione di interesse soltanto per pochi esperti.

Di fronte all'inerzia del legislatore, è stata ancora una volta la Corte Costituzionale ad intervenire con alcune sentenze, modificando degli aspetti importanti della normativa. In questo capitolo analizzeremo le principali di tali sentenze. Soffermandoci sugli effetti sulla disciplina delle misure di sicurezza e sul nuovo orientamento della Corte in materia di bilanciamento di interessi tra cura e custodia.

1. Le presunzione di pericolosità sociale al vaglio della Corte

Come abbiamo già osservato, il ricovero in OPG, in quanto misura di sicurezza, è applicato a soggetti ritenuti socialmente pericolosi. Nell'articolato originario del codice, nei confronti di varie categorie di soggetti, tra le quali anche il prosciolto per vizio totale di mente che avesse commesso un delitto non colposo per il quale il Codice prevedeva una pena superiore nel massimo a due anni, operava una presunzione di pericolosità sociale (1). La commissione di un reato e la presenza di una patologia psichiatrica erano ritenuti condizioni sufficienti per far operare una presunzione iuris et de iure, non suscettibile di prova contraria. La previsione delle ipotesi presuntive appariva coerente con le teorie dei fautori dell'istituzione del manicomio giudiziario, i criminologi positivisti, difatti la presunzione di pericolosità appare perfettamente calzante con una concezione deterministica del reato, ove questo finisca per rappresentare il sintomo di una anormalità (2). Dunque, la presenza accertata di una patologia psichiatrica e la commissione di un reato di almeno una certa gravità apparivano elementi sufficienti per esprimersi circa la pericolosità dell'autore (3).

La presunzione non era soltanto una presunzione di esistenza della pericolosità sociale del soggetto ma persino una presunzione di durata, di persistenza. L'infermità mentale e la conseguente pericolosità erano presunte perdurare fino al momento dell'applicazione della misura di sicurezza, con una debita eccezione nel caso in cui tra la commissione del fatto e l'applicazione della misura di sicurezza fosse decorso un tempo tale da far riaffiorare un onere di accertamento giudiziale (4).

Come abbiamo avuto modo di osservare nel capitolo II (5), in una prima fase la Corte Costituzionale manifestò un atteggiamento conservatore, rigettando tutte le questioni promosse (6). La Corte si era infatti assestata sul principio dell'id quod plerumque accidit, secondo il quale, le presunzioni di pericolosità sono legittime fintanto che risultano fondate su dati di comune esperienza. Ad avviso della Corte, poteva ritenersi ragionevole presumere una maggiore tendenza alla commissione di reati nei confronti di persone affette da patologie psichiatriche che avessero già dato prova della loro pericolosità mettendo in pratica una condotta criminosa.

Solo con la sentenza n. 1 del 1971, la Corte aveva accolto per la prima volta una questione relativa ad una presunzione di pericolosità, dichiarando l'illegittimità di quella operante nei confronti del minore di 14 anni (7). La Corte aveva ritenuto infatti, non essere fondata su dati di comune esperienza la pericolosità del fanciullo (8).

L'anno successivo la Corte aveva confermato la legittimità della presunzione nei confronti del prosciolto per vizio di mente, mantenendosi salda sull'indirizzo fino ad allora tenuto (9). La Corte Costituzionale aveva continuato a sostenere che la malattia di mente, unita alla commissione del reato, fosse una condizione sufficiente ad esprimersi sulla pericolosità del soggetto.

1.1. Illegittima la presunzione di persistenza della patologia psichiatrica: la sentenza n. 139 del 1982

A partire dalla metà degli anni '70 la questione di legittimità della presunzione operante nei confronti del folle reo è stata nuovamente sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale riuniti i 22 giudizi in merito, si è pronunciata con la sentenza n.139 del 1982. Con questa sentenza la Corte è rimasta per molti aspetti fedele al precedente indirizzo, infatti non ha dichiarato illegittima ex se la presunzione di pericolosità sociale, bensì ha ritenuto illegittima la presunzione relativa al perdurare dello stato patologico che ha dato luogo alla commissione del fatto.

La prima ordinanza di remissione presentata alla Corte (10) era occasionata da un giudizio a quo nel quale si riscontrava la seguente situazione: un soggetto, prosciolto per vizio totale di mente, era stato durante il processo sottoposto a perizia per accertare la sua capacità di intendere e di volere (11). Il perito aveva ritenuto che l'imputato fosse, al momento della commissione del fatto, incapace di intendere e di volere, ma che non si dovesse ritenere pericoloso (12). Nonostante il giudizio del perito il giudice avrebbe dovuto procedere con l'applicazione della misura di sicurezza stante la presunzione di carattere assoluto prevista dagli articoli 204 e 222 del codice penale, rispetto ai quali si sollevava dunque, questione di legittimità (13). Peraltro, a partire dalla sentenza della Corte del 1974 (14) era possibile disporre la revoca anticipata di una misura di sicurezza qualora si fosse ritenuta cessata la condizione soggettiva di pericolosità sociale (15). Perciò la disciplina appariva irragionevole, in quanto, in contrasto con l'art. 3 regolava in modo diverso situazioni analoghe (16). Infatti, se il malato di mente fosse risultato non più pericoloso a seguito dell'inizio dell'esecuzione della misura di sicurezza, si sarebbe potuta disporre la revoca della stessa; mentre qualora il soggetto già in una fase precedente fosse stato ritenuto non più pericoloso, nei suoi confronti si sarebbe dovuta ordinare la misura, salvo poi revocarla poco dopo l'inizio dell'esecuzione. Del resto, la normativa contrastava con l'art. 3 della Costituzione regolando in modo analogo situazioni totalmente diverse. Infatti, finivano per essere sottoposti ad identico regime sia il pericoloso che il non pericoloso (17).

La presunzione - a detta del rimettente - era contrastante anche con l'art. 27, ove sancisce che la responsabilità penale è personale, dal momento che faceva la misura di sicurezza non era conseguenza dell'accertamento in concreto di uno status ma di una presunzione (18). Il giudice a quo riteneva violato anche l'art. 13, laddove richiede che l'atto con cui si dispone una misura privativa della libertà personale - quale è la misura di sicurezza - debba essere motivato (19). Con atto motivato si deve intendere un atto giustificato attraverso il ricorso ad un argomentazione razionale e dunque logicamente coerente (20). Secondo il remittente non si poteva ritenere coerente un argomentazione che partendo dall'accertamento - attraverso la perizia - della non pericolosità del soggetto, arrivasse ad ordinare una misura il cui presupposto è proprio l'esistenza della pericolosità sociale.

Alla prima ordinanza ne seguirono altre (21) che aggiungevano, alle criticità sollevate già dall'Ordinanza del Giudice istruttore di Firenze, una serie di altre questioni. Le norme di cui agli artt. 204 e 222 c.p. sembravano infatti contrastare con l'art. 3 Cost. non solo perché prevedevano un trattamento equipollente per situazioni diverse, non tenendo conto, ad esempio della possibilità che un soggetto al momento del fatto incapace di intendere e di volere potesse essere guarito nel frattempo dalla patologia che aveva causato la condotta delittuosa (22), ma anche perché sarebbe stata irragionevole una presunzione di pericolosità basata su criteri probabilistici senza una verifica caso per caso (23).

Alcuni dei giudici remittenti ravvisavano anche il contrasto con l'art. 24, relativo al diritto di difesa (24). Infatti, all'imputato era garantita la difesa soltanto in senso formale, essendogli impedito di fornire una prova contraria alla pericolosità.

Le disposizioni violavano altresì l'art. 32 Cost. In primo luogo in quanto rischiavano di imporre un trattamento ad un soggetto sano con probabili ripercussioni negative sul suo stato di salute (25). In secondo luogo, alcuni remittenti riscontravano l'illegittima differenziazione nel trattamento del malato di mente autore di reato, rispetto al malato di mente comune a seguito dell'approvazione della legge n. 180 del 1978 (26). A maggior ragione in quanto operava un meccanismo presuntivo che obbligava il giudice a disporre la misura anche quando non fosse richiesta dalla pericolosità del soggetto (27).

La legittimità della presunzione assoluta di pericolosità era stata oggetto di precedenti giudizi, come la sentenza n. 106 del 1972, alla quale la Corte continua anche con questa sentenza a fare richiamo. In quest'ultima la presunzione era ritenuta giustificata allorché le condizioni dalle quali derivava il meccanismo presuntivo, ai sensi dell'osservazione di dati di comune esperienza, potessero ragionevolmente ritenersi indici della futura commissione di fatti di reato. Secondo la Corte, la scelta di adottare misure di carattere difensivo, aventi come requisito la pericolosità sociale, era una scelta di politica criminale che non poteva che spettare al legislatore. Del resto, anche al fine di garantire uguaglianza nel trattamento, il legislatore avrebbe potuto predisporre alcune categorie legali nei confronti delle quali far operare un meccanismo presuntivo, purché queste risultassero ragionevoli. La Corte considerava la commissione di un fatto di reato e l'infermità per patologia psichiatrica criteri che consentivano secondo dati di comune esperienza di presumere la futura commissione di un reato (28). Dunque, confermava la legittimità delle presunzioni che purché fondate sull'id quod plerumque accidit. Del resto, il preteso rigore della presunzione assoluta sarebbe di per sé attenuato dalla possibilità, riconosciuta a partire dalla sentenza n. 110 del 1974 di revoca anticipata della misura (29).

La Corte in via generale confermava la legittimità della tipizzazione delle fattispecie di pericolosità. Anzi, riteneva la stessa rispondente al principio di legalità, così come sancito dall'art. 25 della Costituzione. Stante comunque la legittimità, in genere, della presunzione, la Corte avrebbe dovuto invece sindacare sulle singole fattispecie presuntive, e sulla loro rispondenza all'id quod plerumque accidit. Dunque la Corte si calava nell'esame della fattispecie presuntiva in oggetto e partendo dalla considerazione della duplice funzione della misura di sicurezza del ricovero in OPG, sviluppa la seguente considerazione:

Come misura "finalizzata" - orientata a risultati, ad un tempo di sicurezza e di terapia - il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario appare pertanto ragionevolmente connesso al duplice presupposto tipico della commissione di un delitto non lieve e dell'infermità psichica quale condizione del delitto (30).

Essendo la misura finalizzata duplicemente a terapia e custodia, appariva legittimo che si presumesse la pericolosità sociale qualora i reati commessi fossero di una certa gravità (misurata attraverso il riferimento alla pena edittale prevista) e fosse accertata la malattia mentale. La Corte, nell'analisi della fattispecie, rilevava come questa contenesse una duplice presunzione, da un lato la presunzione di pericolosità, dall'altro quella della permanenza dello stato patologico e conseguentemente della pericolosità (31). Questa seconda presunzione veniva a cadere soltanto quando fosse trascorso un tempo di 5 o 10 anni. Inoltre, l'art. 222 c.p. non richiedeva un'ulteriore valutazione sull'attualità dell'infermità mentale che veniva accertata solo in relazione al momento della commissione del fatto. Ed era proprio questa seconda presunzione, relativa al persistere dell'incapacità, a rendere la disciplina irrazionale (32). Ritenere che un determinato stato di salute si mantenga inalterato nel tempo, non poggia su alcun dato di comune esperienza (33). Questa presunzione implicita era ritenuta perciò irrazionale e risultava in contrasto con l'art. 3 della Carta costituzionale, in quanto prevedeva la stessa disciplina per due situazioni completamente diverse, quella del soggetto sano al momento dell'applicazione e quella del malato. Nella motivazione della sentenza n. 139 del 1982, la Corte manteneva l'orientamento precedente, con riferimenti espressi alle sentenze n. 68 del 1966 e n. 106 del 1972. Proprio nel solco di questo ragionamento la Corte riteneva illegittimi gli art. 204 e 222 del c.p. nella parte in cui non si limitavano a presumere la pericolosità dell'infermo di mente autore di reato ma presumevano la persistenza di quello stato psichico che aveva giustificato l'affermazione della non imputabilità del soggetto. La Corte non si era pronunciata direttamente sulla illegittimità della presunzione di pericolosità sociale del malato di mente autore di reato, con il tradizionale ricorso all'id quod plerumque accidit, si era limitata a dichiarare infondata la presunzione del perdurare dello stato di malattia del soggetto che, avendo commesso un reato in stato di mente tale da escluderne la capacità, era ragionevole considerare pericoloso.

La Corte, con questa pur importante sentenza, come afferma Vassalli, giunge sì ad un abrogazione della presunzione di pericolosità sociale, ma non lo fa in modo manifesto, bensì passando per «la cruna dell'ago» (34). Ciò che appare illegittimo non è la presunzione di pericolosità sociale fondata sui requisiti di malattia e commissione di reato di una certa gravità, bensì la presunzione di un costante mantenimento nel tempo dell'infermità psichica.

1.1.1. Bilanciamento tra cura e custodia nella sentenza n. 139 del 1982

Abbiamo visto come la Corte ha risposto alle questioni inerenti alla presunzione di pericolosità sociale, ma a partire dal 1978 erano state sollevate anche questioni circa la legittimità della normativa codicistica, avuto riguardo al diritto alla salute e al principio di uguaglianza. Difatti, con la legge n.180 del 1978, si era accentuata la differenza tra il trattamento di due tipologie di soggetti, entrambi malati di mente: uno reo, l'altro no. I preponenti avevano ritenuto illegittima la disparità di trattamento in situazioni equipollenti (di malattia mentale), conseguenza dell'entrata in vigore della legge Basaglia (35). Quest'ultima aveva, infatti, abrogato una normativa che fondava il trattamento del folle sulla convinzione della sua pericolosità e faceva predominare le istanze custodialistiche su quelle terapeutiche. Secondo i rimettenti, i nuovi principi in materia di assistenza psichiatrica contrastavano con la misura di sicurezza del ricovero in OPG, che era nata in un epoca in cui la percezione sociale del malato di mente era quella di un soggetto pericoloso nei confronti del quale lo stato doveva intervenire arginando comportamenti non graditi, abnormi.

Per comprendere le motivazioni della Corte in questa sentenza, è utile richiamare il suo orientamento precedente. In primo luogo la sentenza n. 68 del 1967 che ha rappresentato il perno delle successive pronunce (ordinanze di inammissibilità per manifesta infondatezza nn. 141 del 1973, 80 e 196 del 1974, sentenze di rigetto n. 106 del 1972). Alla Corte era stata sollevata questione di legittimità costituzionale degli articoli 204, co. 2 e 222, co. 1 c.p., in quanto contrastanti con gli artt. 13, 27 e 32 della Costituzione. La Corte aveva risolto la questione relativa al preteso contrasto con l'art. 32 in senso negativo, statuendo che la misura di sicurezza, in quanto rispondente ad una funzione terapeutica, ex se non potesse presentare profili di contrasto con il diritto alla salute così come garantito dalla Costituzione (36). La Corte confermò la sua posizione negli anni seguenti, l'OPG misura intrinsecamente terapeutica, non poteva dirsi contraria al diritto inviolabile alla salute (37).

La Corte, nella sentenza n. 139 del 1982, si manteneva nel solco dell'orientamento già tenuto con la sentenza n. 68 del 1967 e confermato da alcune ordinanze e sentenze successive. Ma i remittenti avevano altresì opposto la non effettività della terapia, proclamata solo sulla carta e l'illegittima differenziazione rispetto alle condizioni del malato di mente non autore di reato. Così la Corte Costituzionale, sottolineava l'imprescindibile funzione di sicurezza della misura, affermando che: «Presupposti e definizione dell'istituto pongono così in risalto - e inscindibilmente collegano - dimensioni di "sicurezza" e dimensione terapeutica; il che è necessario a legittimare la misura, sia di fronte alla finalità di prevenzione speciale, "riabilitativa", propria in genere delle misure di sicurezza (sentenza n. 68 del 1967) sia di fronte al principio, anche esso costituzionale, di tutela della salute (art. 32 Cost.)» (38). Inoltre la normativa non sembrava contrastare con l'art. 3 per le differenze nel regime cui sono sottoposti malati rei e malati non rei, infatti la differenza nelle modalità di trattamento era giustificata dal diverso grado di pericolosità sociale delle due tipologie di soggetti, stante che:

[...] la misura di sicurezza in questione torna applicabile soltanto a quegli infermi di mente che, essendo stati prosciolti dall'imputazione di un reato di una certa gravità perché commesso in stato di totale incapacità di intendere o di volere, vengono dalla legge considerati socialmente pericolosi. Al comune malato di mente non è riferibile invece la commissione di alcun reato, o almeno di un reato di uguale gravità, e tanto basta a legittimare il differente trattamento normativo (39).

La particolare pericolosità del folle autore di reato richiedeva specifiche risposte da parte dell'ordinamento, le esigenze di sicurezza del resto, erano anch'esse insite nella natura delle misure di sicurezza, giustificate da ragioni di difesa sociale e per questo subordinate al requisito della pericolosità del sottoposto. Dunque, la lesione del principio di uguaglianza doveva secondo la Corte escludersi. Un trattamento diverso era giustificato dalla diversità delle situazioni che rendeva il sistema, nel complesso, ragionevole. Del resto, non potevano essere presi in considerazione i rilievi mossi nei confronti della non terapeuticità in concreto. La Corte infatti non poteva valutare le carenze materiali, le modalità di trattamento ed altri aspetti analoghi. Fuoriusciva dall'ambito di competenza della Corte trovare una soluzione al problema umano e sociale del tipo di trattamento da riservare ai malati di mente autori di reato (40).

Dunque i due sistemi, i due approcci alla malattia mentale, quello segregante, dove vigeva il primato della custodia e la forma tipica dell'istituzione totale e quello dell'assistenza, territoriale, ancorata alla volontà del malato come principio generale e vissuta nel proprio contesto sociale, continuavano a convivere senza che ciò fosse fonte di contrasti.

1.2. La presunzione di pericolosità del semi-infermo: sentenza n. 249 del 1983

Nel 1983, la Corte è intervenuta anche sulla presunzione relativa all'applicazione della misura di sicurezza dell'assegnazione ad una casa di cura e custodia, confermando l'illegittimità della duplice presunzione, anche per il semi-infermo (41).

A detta del giudice a quo la fattispecie presuntiva che operava nei confronti del semi-infermo si sarebbe dovuta ritenere ancora più irragionevole. Difatti, sembrava più probabile che la condizione di malattia del semi-infermo evolvesse nel tempo in senso positivo, trattandosi di una condizione di salute meno grave di quella del totale infermo di mente e dunque più facilmente guaribile (42). Inoltre, per l'applicazione di questa misura di sicurezza, di norma, trascorre un tempo superiore rispetto all'applicazione del ricovero in OPG, stante che il condannato per semi-infermità deve prima scontare la pena detentiva e solo successivamente si vedrà applicata la misura di sicurezza (43).

La Corte aderisce all'argomentazione del remittente e dichiara l'illegittimità della presunzione di attualità della pericolosità sociale, confermando l'indirizzo inaugurato con la sentenza n. 139 del 1982.

1.4. La presunzione di pericolosità sociale dopo le sentenze del 1982 e del 1983: la riforma dell'ordinamento penitenziario e il nuovo codice di procedura penale

Come abbiamo visto, le pronunce della Corte Costituzionale non erano giunte a dichiarare illegittimo di per sé il meccanismo presuntivo, solo nel 1986 con la legge nota come Gozzini - n. 663 del 10 Ottobre 1986 - è intervenuta ad abolire in modo definitivo e generalizzato la presunzione di pericolosità. Con l'art. 31 della suddetta legge fu abrogato l'art. 204 del Codice penale e fu stabilito che «Tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa». La nuova disciplina non fu esente da critiche. Da un lato si sosteneva, da un punto di vista formale, che la riforma, inserita in una legge che avrebbe dovuto disciplinare un'altra materia (44), fosse stata introdotta in un modo quasi clandestino, dall'altro, da un punto di vista sostanziale, rimaneva un nodo interpretativo irrisolto ed alcuni dubbi circa le modalità in cui si sarebbe dovuto svolgere l'accertamento (45). Sotto quest'ultimo aspetto si rilevava criticamente la persistenza del divieto, nel nostro ordinamento, di espletare la perizia criminologica (46). La valutazione della pericolosità sociale sarebbe rimasta affidata ad un'intuizione del giudice, coadiuvato da un perito psichiatra, nonostante gli avvisi critici riguardo alla possibilità di un perito medico di effettuare una prognosi di pericolosità dal punto di vista clinico (47).

L'aspetto sul quale si sollevavano maggiori dubbi era quello relativo al momento in cui ci sarebbe dovuta essere la valutazione di pericolosità sociale, o meglio se sarebbe stata sufficiente una singola valutazione nella fase del giudizio di cognizione, oppure si sarebbe rivelata necessaria una valutazione in due fasi, la prima condotta dal giudice di cognizione, l'altra prima dell'applicazione della misura di sicurezza dal magistrato di sorveglianza (48). A riguardo sussistevano tre diversi orientamenti. Secondo un primo filone interpretativo l'abrogazione delle presunzioni doveva intendersi come abrogazione sia di quella di esistenza che di persistenza, dunque, in tutte le ipotesi in cui si fosse dovuta applicare una misura di sicurezza si sarebbe dovuta valutare la pericolosità anche in fase di esecuzione (49). Un secondo filone, dimentico peraltro delle pronunce della Corte Costituzionale di pochi anni precedenti, riteneva che si dovessero ritenere abrogate le sole presunzioni sull'esistenza, rendendo necessario un solo momento valutativo in sede di cognizione (50). Infine, un terzo gruppo di giuristi riteneva dovessero considerarsi abrogate solo le presunzioni di persistenza e non anche quelle di esistenza, stante che l'art. 31 non aveva provveduto all'abrogazione delle singole fattispecie presuntive (51). Dunque, se in fase di esecuzione sarebbe stata necessaria una valutazione sulla persistenza della pericolosità, il giudice di cognizione avrebbe potuto continuare ad attenersi a quanto previsto dalle singole fattispecie presuntive (52).

A dissipare i dubbi in materia intervenne il nuovo codice di procedura penale del 1988 (53) che dispose l'accertamento della pericolosità sociale, nella fase di esecuzione della misura di sicurezza, da parte del Magistrato di Sorveglianza (54). A seguito della introduzione della nuova normativa, il magistrato di sorveglianza provvede all'accertamento su istanza del P.M o anche d'ufficio, ogni qualvolta debba applicare una misura di sicurezza (55) ordinata in sentenza (56) e adotta i provvedimenti consequenziali. Contro la decisione del Magistrato di sorveglianza è possibile fare ricorso al Tribunale di Sorveglianza (57). E' ammessa impugnazione contro le sentenze di proscioglimento o di condanna a pena diminuita o di non luogo a procedere, nella parte in cui dispongano in materia di misure di sicurezza (58). Su queste impugnazioni è competente il Tribunale di Sorveglianza (59).

Dunque a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale e delle riforme del 1986 e del 1988 (cui le sentenze della Corte hanno probabilmente dato impulso) non si possono ritenere più sussistenti le presunzioni di pericolosità sociale, né quelle di esistenza, né quelle di persistenza. La pericolosità dovrà essere giudizialmente accertata sia in fase di cognizione, sia in fase di esecuzione della misura.

2. Niente più OPG per i minori: sentenza n. 324 del 1998

Prima di analizzare la sentenza occorre soffermarsi su un aspetto che fino ad adesso abbiamo trascurato: l'applicazione della misura di sicurezza del manicomio/ospedale psichiatrico giudiziario ai minorenni. I minorenni, come sappiamo, sono presunti iuris et de iure non imputabili, se hanno un'età inferiore ai quattordici anni, mentre né è valutata la capacità di intendere e volere in concreto, se hanno un'età compresa tra i quattordici e la maggiore età. Per i minorenni autori di reato pericolosi il codice prevede le misura di sicurezza del ricovero in riformatorio giudiziario e della libertà vigilata (artt. 223, 224, 225, 226) (60). Nella versione originaria del codice penale, era altresì possibile applicare al minorenne, non imputabile perché infermo di mente la misura di sicurezza del ricovero in manicomio/ospedale psichiatrico giudiziario, sia in via provvisoria (art. 206 c.p.) che in via definitiva (art. 222, 4º comma c.p.). Proprio su questa possibilità è intervenuta la sentenza n. 234 del 1998.

Il Tribunale per i minorenni di Brescia aveva sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli che consentivano il ricovero del minorenne infermo di mente (artt. 206 e 222, 4º comma c.p. e 312 c.p.p.) in un OPG in quanto detta disciplina avrebbe contrastato con gli articoli 2, 3, 10, 27 e 31 della Costituzione. La questione era originata dal fatto che la misura di sicurezza del ricovero in OPG per i minorenni risultava in tutto e per tutto la stessa misura, sottoposta alla medesima normativa, prevista per gli infermi di mente autori di reato maggiorenni, andando contro all'orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 168 del 1994 (61) circa la necessità di un trattamento differenziato adeguatamente tra minorenni ed adulti (62). Il giudice a quo lamenta l'incostituzionalità della disciplina (63) rispetto al parametro dell'art. 27, sia in quanto le peculiarità relative alla condizione del minore richiederebbero la previsione di una misura diversa da quella da attuarsi in struttura chiusa, sia perché l'istituzione OPG non dispone di apposite strutture con trattamento differenziato per i minori (64). L'assenza di una differenziazione causerebbe un contrasto anche con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, stante l'illegittima uniformità nella regolamentazione di situazioni diverse e la mancata tutela dei diritti di un soggetto debole dalla personalità in via di formazione (65). Infine, il rimettente sollevava un contrasto con l'art. 10 della Costituzione, in quanto le suddette disposizioni sarebbero parse in contrasto con norme internazionali pattizie (con particolare riferimento alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 (66)).

La Corte ritiene fondata la questione e dichiara il vizio di costituzionalità della normativa confermando il proprio indirizzo precedente riguardo alla specificità del trattamento penale minorile (67). Del resto la Corte nota come la misura risulti per lo più inapplicata e inoltre interpreta la mancanza di una specifica normativa all'interno del D.P.R. 448/1998, testo di legge che aveva cercato di essere il più esaustivo possibile, come un giudizio di disvalore sulla misura di sicurezza in oggetto (68). Nelle motivazioni della Corte un passaggio ci sembra di grande rilievo, non solo per quanto riguarda l'applicazione della misura di sicurezza ai minorenni, ma per un discorso più generale sull'istituzione OPG. La Corte si esprime così:

Una misura detentiva e segregante come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, prevista e disciplinata in modo uniforme per adulti e minori, non può certo ritenersi conforme a tali principi e criteri: tanto più dopo che il legislatore, recependo le acquisizioni più recenti della scienza e della coscienza sociale, ha riconosciuto come la cura della malattia mentale non debba attuarsi se non eccezionalmente in condizioni di degenza ospedaliera, bensì di norma attraverso servizi e presidi psichiatrici extra-ospedalieri, e comunque non attraverso la segregazione dei malati in strutture chiuse come le preesistenti istituzioni manicomiali (artt. 2, 6 e 8 della legge 13 maggio 1978, n. 180). Né, più in generale, è senza significato che il legislatore del nuovo codice di procedura penale, allorquando ha inteso disciplinare l'adozione di provvedimenti cautelari restrittivi nei confronti di persone inferme di mente, abbia previsto il ricovero provvisorio non già in ospedale psichiatrico giudiziario, ma in "idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero" (art. 286, comma 1; e cfr. anche art. 73) (69).

Dunque, il ricovero in OPG è definito come una misura «detentiva e segregante», in controtendenza con gli indirizzi della scienza e della coscienza sociale, recepiti dal legislatore, in materia di cura della malattia mentale e confermati dal nuovo codice di procedura penale.

La misura di sicurezza del ricovero in OPG, è ritenuta non adeguata al minore, per questo se ne sancisce l'incostituzionalità, lasciando un vuoto normativo che spetterà al legislatore colmare (70).

3. L'OPG da misura unica ad extrema ratio: la sentenza n. 253 del 2003

L'art. 222 del c.p. è stato oggetto di un'importante sentenza della Corte Costituzionale (71), la n. 253 del 2003 (72). Il giudizio di legittimità verteva sui commi primo e terzo dell'art. 219 del codice penale e sull'art. 222.

Il giudizio a quo concerneva un imputato, ritenuto nel corso della perizia psichiatrica incapace di intendere e di volere e «non pericoloso se ricoverato in una comunità per psicotici» (73). Il rimettente aveva dunque eccepito l'incostituzionalità degli articoli suddetti in quanto non consentivano al giudice di adottare la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia o la libertà vigilata ai prosciolti per infermità di mente scarsamente pericolosi (74). Il giudice a quo riteneva che sussistessero due vizi nella disciplina codicistica: da un lato si collegava la scelta della misura di sicurezza alla gravità del reato che anziché sintomo della pericolosità sociale appare un criterio rispondente ad una logica meramente retributiva, dall'altro la tipologia di misura era collegata alla distinzione tra vizio parziale e vizio totale di mente, senza che alcun criterio scientifico facesse propendere per la minore pericolosità di un soggetto affetto da vizio parziale (75). In ragione di tali vizi, la normativa era ritenuta contrastante con l'art. 3 della Costituzione, dal momento che poneva un regime irragionevolmente differenziato tra il non imputabile ed il semi-imputabile. Si eccepiva inoltre l'illegittima differenza con le misure adottate per il minore non imputabile, misure con una valenza terapeutica ritenuta «più soddisfacente» (76). Il trattamento sarebbe stato illegittimamente differenziato in quanto, l'art. 219 e il 222 del c.p. disciplinavano due ipotesi di trattamento di soggetti affetti da un disturbo psichico per i quali era richiesta una custodia in ragione della loro pericolosità sociale e che erano sottoposti l'uno (il semi-imputabile) ad una gamma più ampia di interventi, che comprendeva anche una misura non detentiva, l'altro ad un'unica misura segregante (77), andando così a lederne il diritto alla salute.

La Corte accoglie la questione. Come il giudice remittente aveva osservato, la possibilità di applicare soltanto la misura di sicurezza del ricovero in OPG per il maggiorenne totalmente incapace e pericoloso realizzava una disparità di trattamento rispetto alla condizione e del minorenne e del semi-infermo, fondata su una presunzione di maggiore pericolosità di questo soggetto, che non ha alcun riscontro in osservazioni scientifiche (78). Questa condizione finiva per trasformare la misura di sicurezza da una misura con funzione di prevenzione speciale in una dal mero volto retributivo (79). Tale situazione non appariva tollerabile stando che l'infermo di mente è per l'ordinamento italiano un soggetto non imputabile e dunque assolutamente non responsabile per gli illeciti commessi e non suscettibile di essere sottoposto ad una misura dal «contenuto anche solo parzialmente punitivo» (80). La qualità di infermo di mente richiedeva misure dal contenuto terapeutico, non diverse da quelle in genere previste per gli altri malati di mente (81). D'altra parte la qualità di persona pericolosa, manifestata con la commissione dell'illecito e valutata dal giudice di cognizione e dal magistrato di sorveglianza, rendeva necessaria l'adozione di misure atte a contenere la pericolosità (82). La Corte dunque si riallaccia alle due finalità che giustificano, dalla sua ideazione, la misura di sicurezza, da un lato la prevenzione rispetto ad una futura condotta criminosa, dall'altro la cura, la tutela dell'infermo di mente (83). Due funzioni imprescindibili e necessarie (84). La Corte afferma l'incostituzionalità di un sistema ispirato a garantire una sola delle due finalità (85). Ma aggiunge qualcosa di più:

[...] Le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente (cfr. sentenze n. 307 del 1990, n. 258 del 1994, n. 118 del 1996, sulle misure sanitarie obbligatorie a tutela della salute pubblica): e pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell'infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze (86).

Dunque, con quest'affermazione la Corte apre ad un nuovo bilanciamento tra le due esigenze, le due funzioni, i due poli, in cui da sempre si muove la misura di sicurezza del ricovero in OPG, sancendo che qualsiasi esigenza di custodia non possa mai arrivare a giustificare una misura che danneggi la salute del soggetto sottoposto.

Se in precedenza la Corte aveva proseguito a dichiarare inammissibili le questioni proposte dato il loro carattere (si trattava di questioni meramente caducatorie oppure nelle quali si chiedeva alla Corte un intervento di carattere "inventivo" rispetto alla designata situazione normativa), la questione in oggetto consente di adottare un diversa decisione. Si sollevava infatti l'incostituzionalità del rigido automatismo che non consentiva al giudice di adottare la misura più idonea al caso (87). Del resto la condizione dell'infermo appariva assimilabile a quella del minore, in quanto anch'essa bisognosa di una specifica tutela, dunque anche per l'infermo di mente la previsione automatica di una misura segregante e totale appariva ingiustificata e contraria, innanzitutto all'art. 32 della Costituzione (88).

Con queste motivazioni la Corte accoglie la questione di legittimità in merito all'art. 222 del c.p., non altrettanto rispetto all'art. 219, al quale non si doveva aggiungere alcunché, trattandosi piuttosto di un termine di paragone (89).

L'importanza della sentenza 253 del 2003, risiede nel fatto che per la prima volta la Corte Costituzionale riconosce l'assoluta preminenza del diritto alla salute dell'internato su qualsiasi esigenza di custodia, aprendo alla possibilità di applicare all'infermo di mente pericoloso misure diverse dal ricovero in OPG, in particolare la libertà vigilata. La Corte porta a parziale compimento quel processo di riforma avviato con la legge Basaglia che aveva sancito il passaggio da un'unica tipologia di intervento sul malato di mente, il ricovero nell'asilo, ad un sistema di assistenza sanitaria dove l'intervento coattivo sul folle ricopriva un ruolo residuale. Questo sconvolgimento non aveva prodotto effetti sul manicomio giudiziario - eccetto il cambiamento nominale - che continuava a rimanere un'istituzione chiusa, simile al carcere, ove l'internato era sottoposto ad un regime persino più afflittivo e severo di quello riservato al condannato. Anche con la sentenza 139 del 1982 la Corte costituzionale pur cancellando l'automatismo con cui alla commissione del reato da parte del folle reo seguiva l'internamento in manicomio giudiziario, non aveva accolto i rilievi sul carattere afflittivo e non terapeutico della misura di sicurezza e sull'illegittimità di un trattamento tanto sfavorevole per il malato di mente autore di reato.

3.1. La possibilità di applicare altre misure anche in via provvisoria

La sentenza 253 del 2003 è stata accompagnata da altre che hanno seguito il medesimo iter argomentativo, completando quanto già stabilito da questa importante sentenza. Innanzitutto, l'anno successivo, la Corte si è trovata a decidere in merito alla tipologia di misura di sicurezza applicabile in via provvisoria (90). Il giudizio, promosso dal Tribunale di Roma con un'ordinanza del 2003, aveva ad oggetto l'art. 206 del codice penale, nella parte in cui non consentiva al giudice di adottare, in fase di applicazione provvisoria della misura di sicurezza, una misura diversa dal ricovero in OPG (91). Il remittente riteneva che la disposizione contrastasse con gli articoli 3 e 24 della Costituzione in quanto irragionevolmente non consentiva di applicare in fase cautelare una misura di sicurezza non detentiva (92). Riguardo all'applicazione provvisoria si riscontrava il medesimo rigido automatismo, che aveva condotto a dichiarare, l'anno prima, l'illegittimità costituzionale dell'art. 222 c.p. (93).

La Corte ritiene la questione fondata e richiamandosi alla precedente pronuncia, dichiara l'illegittimità dell'art. 206 nella parte in cui non consente al giudice di scegliere una misura più idonea «a soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona, da un lato, di controllo e contenimento della sua pericolosità sociale, dall'altro lato». Se valgono a riguardo le stesse motivazioni poste a fondamento della precedente pronuncia, a maggior ragione la disciplina dell'applicazione provvisoria appare non ragionevole (94), in quanto sarebbe assurdo non poter applicare in via provvisoria una misura non detentiva che è applicabile in via definitiva.

Come nota Della Casa, se questa pronuncia da un lato completa quello che è già stabilito dalla precedente e conferma l'iter argomentativo, dall'altro non è da considerare come secondaria e irrilevante (95). Infatti la magistratura di sorveglianza, per via interpretativa, era giunta ad applicare la libertà vigilata, in via definitiva, ai non imputabili ritenuti non particolarmente pericolosi (96). Si riteneva infatti, che il potere di revoca da parte del magistrato potesse essere esercitato anche prima dell'esecuzione della misura di sicurezza e che in questo potere si dovesse comprendere la possibilità di modificare la misura di sicurezza in mitius. La libertà vigilata poteva essere applicata sia in sede di riesame della pericolosità sociale ai sensi dell'art. 208 c.p., sia in sede di revoca anticipata della misura di sicurezza, sia infine nella fase di valutazione della pericolosità sociale da parte del magistrato di sorveglianza nel momento di applicazione della misura di sicurezza ordinata con sentenza. Dunque, in via interpretativa si era giunti ad applicare la misura di sicurezza della libertà vigilata in via definitiva.

Inoltre, la sostituzione della misura detentiva con altra non detentiva in fase di applicazione definitiva poteva apparire superflua qualora il soggetto fosse già stato sottoposto alla misura di sicurezza manicomiale in via provvisoria (97). Difatti, per l'applicazione provvisoria non vi era alcun limite massimo di durata e nella prassi questa poteva finire per assorbire l'intera durata minima della misura di sicurezza, producendo già quei potenziali danni alla salute tipici dell'istituzione totale.

Con le due sentenze appena esaminate si abbatte l'ultimo automatismo del regime codicistico delle misure di sicurezza, lasciando un maggiore spazio alla discrezionalità del giudice, al fine di garantire un migliore bilanciamento nel caso concreto tra esigenze di custodia ed esigenze di cura, bilanciamento che deve tener conto dell'assoluta impossibilità di comprimere il diritto alla salute, qualunque sia l'esigenza custodiale che sottende all'applicazione della misura.

3.2. Quali misure per il prosciolto folle pericoloso?

A seguito delle due sentenze esaminate, rimane aperto un nodo interpretativo, in entrambi i casi la Corte Costituzionale aveva giudicato su richieste che indicavano la libertà vigilata come misura di sicurezza da applicare in sostituzione al ricovero in OPG. Nelle motivazioni delle sentenze appare chiaro come, la nuova discrezionalità di cui gode il giudice nella scelta della misura di sicurezza più idonea al caso, sia limitata alle sole misure di sicurezza disciplinate dal legislatore (98). La Corte ha chiarito questo aspetto in entrambe le sentenze. Peraltro, una diversa lettura che consentisse al giudice di applicare misure di sicurezza diverse, non previste dalla legge, finirebbe per confliggere con l'art. 25, co. 3 della Costituzione. Infatti, ivi è confermato il principio di legalità già statuito a livello legislativo dall'art. 199 del c.p. (99). Nonostante questo la Corte di Assise di Torino con ordinanza del 2004, sottopose alla Corte una nuova questione di costituzionalità. Questa volta si chiedeva di intervenire con una sentenza di tipo creativo, che andasse ad aggiungere alle misure di sicurezza disciplinate dal Codice, una nuova misura: il ricovero in una comunità terapeutica (100). Il giudice a quo lamentava l'assenza di una misura di carattere intermedio tra la libertà vigilata, ritenuta idonea a garantire la funzione di contenimento dalla pericolosità del soggetto e la misura di sicurezza detentiva, troppo rigida e lesiva del diritto alla salute del sottoponendo.

La Corte, con l'ordinanza n. 254 del 2005, conferma un indirizzo già consolidato con alcune pronunce precedenti (101), difatti la richiesta del giudice a quo altro non sarebbe stato che non una richiesta di intervento additivo, creativo di una nuova misura di sicurezza. Tale potere la Corte ribadisce spetti soltanto al legislatore e non altresì alla Corte. Analoga questione, è sottoposta alla Corte negli anni successivi (102), anche in questi casi la Corte conferma il proprio indirizzo: il giudice può discrezionalmente scegliere, rigorosamente tra le misure indicate dal legislatore, quella che appaia la più idonea a garantire al contempo la custodia e la cura degli infermi di mente autori di reato.

Note

1. Si rinvia al cap. I, par. 4.2.2.3.

2. La presunzione di pericolosità era in linea con gli indirizzi della Scuola criminologica positivista che riconosceva la sussistenza di un nesso causale tra la malattia mentale e il crimine e che finiva per configurare il comportamento criminale come sintomatico di un vizio, di un difetto biologico. Nel corso degli anni '50 e '60 la criminologia abbandonava gli indirizzi biologisti, in favore di un approccio multifattoriale alla questione criminale. L'atavismo lombrosiano non riscuoteva più alcun successo, dunque, anche il giudizio di pericolosità sembrava necessitare di qualche elemento in più di valutazione, la condizione patologica non sembrava più sufficiente a fondare un giudizio sulla possibilità di futura commissione di reati. Intanto, a partire dagli anni '60 alcuni giudici iniziavano a sottoporre alla Corte questioni di legittimità costituzionale delle fattispecie presuntive disciplinate dagli artt. 204, 222 e 219.

3. A tale riguardo si ricorderà ad esempio che tra le categorie di soggetti che Lombroso immaginava di destinare ai manicomi criminali vi erano ad esempio coloro che avessero commesso un delitto e presentassero determinate patologie, ad esempio gli epilettici. Si veda cap. I, par. 1.5.

4. Perché cessi la presunzione di pericolosità è necessario che siano trascorsi almeno 10 anni dalla commissione del fatto nelle ipotesi di: a) fatto commesso da prosciolto per vizio di mente, sordomutismo, cronica intossicazione (art. 222) b) fatto commesso da condannato giudicato semi-infermo di mente se per il fatto è prevista una pena non inferiore nel minimo a 10 anni (art. 219). In tutte le altre è sufficiente che siano trascorsi 5 anni. Si rinvia a cap. I, par. 4.2.2.3.

5. Si veda cap. II, par. 3.

6. A. Calabria, "Pericolosità sociale", in R. Sacco (a cura di), Digesto delle Discipline penalistiche, Torino, Utet, 2002, p. 456.

7. Corte Costituzionale, Sentenza n. 1 del 1971, Giurisprudenza Costituzionale, 1971, pp. 10 e ss.

8. Ivi, p. 11.

9. Corte costituzionale, sentenza del 15 Giugno 1972, n. 106, in Giurisprudenza Costituzionale, 1972, I, pp. 1203 e ss.

10. Ordinanza del giudice istruttore del Tribunale di Firenze del 21 aprile 1976, in Giurisprudenza Costituzionale, 1976, II, pp. 1540 e ss.

11. Ivi, p. 1541.

12. Ibid.

13. Ibid.

14. Corte Costituzionale, sentenza del 23 Aprile 1974, n. 110, Giurisprudenza Costituzionale, 1974, pp. 779 e ss.

15. Corte Costituzionale, sentenza n. 139 del 1982, cit., p. 1541.

16. Ibid.

17. Ibid.

18. Ivi, p. 1542.

19. Ibid.

20. Ibid.

21. Ordinanza del Giudice istruttore di Siena del 30 giugno 1976, in Giurisprudenza Costituzionale, 1976, II, pp. 1542 e ss; Ordinanza del Giudice di Sorveglianza del Tribunale di Frosinone del 30 Agosto 1976, in Giurisprudenza Costituzionale, 1976, II, pp. 1891 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale di Firenze del 30 Ottobre 1976, in Giurisprudenza Costituzionale, 1977, II, pp. 139 e ss.; Ordinanza della Pretura di Monza del 29 Novembre 1976, in Giurisprudenza Costituzionale, 1977, II, pp. 458 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore Tribunale di Bologna del 27 Ottobre 1977, in Giurisprudenza Costituzionale, 1978, II, pp. 167 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore Tribunale di Pisa del 18 Febbraio 1978, Id., 1978, II, pp. 1090 e ss.; Ordinanza del Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Roma del 20 Maggio 1978, in Id., 1979, II, pp. 287 e ss.; Ordinanza del Procuratore della Repubblica di Potenza del 8 Maggio 1978, in Id., 1979, II, pp. 290 e ss.; Ordinanza della Corte di Appello di Bologna del 7 Dicembre 1978, Id., 1979, II, pp. 1426 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale di Milano del 29 Ottobre 1979, Id., 1980, II, pp. 517 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale di Milano del 4 Febbraio 1980, Id., 1980, II, pp. 965 e ss.; Ordinanza del Tribunale di Como del 16 Novembre 1979, Id., 1980, II, pp. 972 e ss.; Ordinanza del Tribunale di Roma del 25 Febbraio 1980, Id., 1980, II, pp. 1273 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale di Pisa del 23 Febbraio 1980, Id., 1980, II, pp. 1276 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale di Milano del 27 Maggio 1980, Id., 1980, II, pp. 1574 e ss.; Ordinanza della Pretura di San Donà di Piave del 25 Giugno 1980, Id., 1980, II, pp. 1900 e ss.; Ordinanza della Pretura di Pieve di Cadore del 20 Dicembre 1980, Id., 1981, II, pp. 453 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore Tribunale di Pisa del 4 Settembre 1980, Id., 1981, II, pp. 455 e ss.; Ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale di Milano del 29 Settembre 1980, Id., 1981, II, pp. 458; Ordinanza della Pretura di Pisa del 21 Marzo 1981, Id., 1981, II, pp.1253 e ss.; Ordinanza del tribunale di Venezia del 29 Maggio 1981, Id., 1981, II, p. 1574; Ordinanza del Giudice istruttore Tribunale di Grosseto del 20 Maggio 1981, Id., 1981, II, pp. 1575 e ss.

22. Ordinanza del Tribunale di Frosinone, 30 Agosto 1976, cit., p. 1892.

23. Ibid.

24. Ivi, p. 1893.

25. Ivi, p. 1892; Giudice istruttore Tribunale di Pisa, 18 Febbraio 1978, cit., p. 1090.

26. Si veda supra 3.4.3.

27. Ordinanza Corte d'Appello Bologna, 7 Dicembre 1978, cit., p. 1427; Ordinanza Giudice istruttore Tribunale Milano, 20 Ottobre 1979, cit., p. 518; Ordinanza Tribunale Milano, 4 Febbraio 1980, cit., pp. 967; Tribunale Roma, 25 Febbraio 1980, cit., p. 1275; Tribunale di Pisa, 4 Settembre 1980, cit., p. 455; Tribunale Milano, 29 settembre 1980, cit., p. 458; Pretura di Pisa, 21 Marzo 1981, cit., p. 1253, Tribunale Grosseto, 20 Maggio 1981, p. 1575.

28. Corte Costituzionale, sentenza del 27 Luglio 1982, n. 139, in Giurisprudenza Costituzionale, 1982, I, pp. 1220.

29. Ivi, p. 1221.

30. Ivi, pp. 1223-1224.

31. Ivi, pp. 1227-1228.

32. Ibid.

33. Ibid.

34. G. Vassalli, "A prima lettura. L'abolizione della pericolosità presunta degli infermi di mente attraverso la cruna dell'ago", in Giurisprudenza Costituzionale, 1982, I, pp. 1202 e ss.

35. Ricordiamo che il Tribunale di Roma aveva fatto derivare, con una sentenza che rappresenta un unicum, da questa disparità di trattamento, l'abrogazione della normativa in materia di misure di sicurezza, si veda supra.

36. Corte Costituzionale, sentenza n. 169 del 1967.

37. La Corte seguiva un'argomentazione analoga anche per quanto riguardava il preteso contrasto con l'art. 27 della Costituzione e la tendenza della pena alla rieducazione. Infatti, a detta della Corte, le misure di sicurezza sono ex sé, per natura, misure con funzione rieducativa. Dunque ritiene di non poter applicare l'art. 27, 3º comma a tali misure.

38. Corte Costituzionale, sentenza n. 139 del 1982.

39. Corte Costituzionale, sentenza n. 139 del 1982.

40. Ivi.

41. Corte Costituzionale, sentenza n. 249 del 28 luglio 1983, Giurisprudenza Costituzionale, 1983, 1, pp. 1498 e ss.

42. M. Pavone, Definitivamente abrogato l'art. 222 del codice penale (Ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario), in Ristretti orizzonti.

43. Ibid.

44. La legge Gozzini, intitolata «Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», aveva ad oggetto la riforma di alcuni importanti aspetti del regime penitenziario, per questo, l'abrogazione della presunzione di pericolosità sociale, parve ad alcuni autori eterogenea rispetto al principale oggetto della riforma.

45. A. Calabria, op. cit., p. 457.

46. Ibid.

47. Ibid.

48. Ivi, pp. 457-458.

49. Ivi, p. 457.

50. Ivi, p. 458.

51. Ibid.

52. Ibid.

53. D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447.

54. Per un quadro dei poteri del Magistrato di Sorveglianza in materia di misure di sicurezza si veda D. Siracusano, A. Galati, et al., Diritto processuale penale. Vol. II, Milano, Giuffrè, 1996, pp. 607 e ss.

55. Vi fa eccezione soltanto la confisca.

56. Art. 679 c.p.p.

57. Art. 680 c.p.p.

58. Art. 579 c.p.p.

59. Art. 579 c.p.p.

60. La normativa originaria prevedeva una presunzione di pericolosità sociale anche per i minorenni. I minorenni non imputabili (dunque minori dei 14 anni) che avessero commesso un fatto dalla legge punito con la reclusione non inferiore a tre anni nel massimo erano ricoverati in riformatorio per almeno 3 anni. Su questa disciplina è intervenuta la già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 1971. Dunque la presunzione di pericolosità sociale per i minori fu abrogata dalla Corte Costituzionale. Rimaneva comunque la possibilità per il giudice di applicare sia il riformatorio giudiziario che la libertà vigilata al minorenne autore di reato pericoloso. Su questo assetto è intervenuta la riforma del processo minorile D.P.R. 448 del 1988 che, all'art. 36 limita il ricorso alla misura del riformatorio giudiziario alle sole ipotesi di commissione dei reati di cui all'art. 23 del medesimo D.P.R., ovverosia quelli per i quali è ammessa la custodia cautelare. Si veda M. Ingrascì, Il minore e il suo processo, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 165 e ss.

61. Con questa sentenza la Corte Costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità dell'ergastolo nei confronti dei minori, si veda Corte Costituzionale, sentenza n. 168 del 28 aprile 1994, in Giurisprudenza Costituzionale, 1994, I, pp. 1254 e ss.

62. Corte Costituzionale, Sentenza n. 234 del 24 luglio 1998, in Giurisprudenza Costituzionale, 1998, pp. 2355 e ss.

63. Si ricorda che era già intervenuto il D.P.R. 448 del 1988 che aveva disciplinato le due misure di sicurezza del riformatorio giudiziario e della libertà vigilata per minori. La questione di costituzionalità ha origine dalla convinzione della persistenza, nonostante la nuova normativa, della possibilità di applicare al minore infermo di mente la misura di sicurezza del ricovero in OPG. Questa convinzione appariva suffragata dal vuoto normativo lasciato dal D.P.R. 448/1998 che non aveva disposto nulla riguardo al proscioglimento del minorenne infermo psichico.

64. Corte Costituzionale, sentenza n. 234 del 1998, cit., pp. 2356-2357.

65. Ivi, p. 2359.

66. In Italia la convenzione è stata ratificata e resa esecutiva dalla legge 27 maggio 1991, n. 176.

67. Corte Costituzionale, sentenza n. 234 del 1998, cit., p. 2360.

68. Ibid.

69. Ivi, p. 2361.

70. Ivi, p. 2362.

71. Per una lettura della sentenza in oggetto in rapporto alle altre sentenze della Corte in materia di OPG si veda: Famiglietti A., "Verso il superamento della pena manicomiale", in Giurisprudenza Costituzionale, 2003, 48, 2, pp.2118 e ss.

72. Corte Costituzionale, sentenza del 18 Luglio 2003, n. 253, Giurisprudenza costituzionale, 2003, 48, 2, pp. 2109 e ss.

73. Ivi, p. 2110.

74. Ivi, p. 2111.

75. Ibid.

76. Ibid.

77. Ivi, pp. 2111-2112.

78. Ivi, p. 2112.

79. Ibid.

80. Ivi, p. 2113.

81. Ibid.

82. Ibid.

83. Ibid.

84. Ibid.

85. Ibid.

86. Ibid.

87. Ivi, p. 2114.

88. Ibid.

89. Ivi, p. 2216.

90. Corte costituzionale, sentenza del 29 novembre 2004, n.367, in Giurisprudenza Costituzionale, 2004, pp. 3993 e ss.

91. Ivi, p. 3394.

92. Ivi, p. 3395.

93. Ivi, p. 3396.

94. Occorre precisare che sussiste una questione interpretativa che è prodromica alle conclusioni del rimettente, accolte dalla Corte, quella dei rapporti tra art. 286 c.p.p. e art. 206 c.p. Il rigido automatismo relativo alla tipologia di misura di sicurezza provvisoria poteva ritenersi sussistente soltanto qualora si escludesse la possibilità di applicare il ricovero in una struttura del servizio ospedaliero, previsto dall'art. 286 in luogo del ricovero in OPG, come misura di sicurezza provvisoria, ai sensi dell'art. 206 c.p. Se si fosse ritenuta tale disposizione fungibile con l'art. 206, benché la misura prevista dall'art. 286 fosse comunque di carattere detentivo, sarebbe risultato più arduo sostenere il rigido automatismo in presenza di un'alternativa legale. Si veda: F. Della Casa, "La Corte Costituzionale corregge il rigido automatismo del ricovero provvisorio nella struttura manicomiale promuovendo la libertà vigilata al rango di alternativa", in Giurisprudenza Costituzionale, 2004, p. 4001.

95. F. Della Casa, op. cit., p. 3999.

96. Si rinvia al cap. III, par. 4.1.1.

97. F. Della Casa, op. cit., p. 3999.

98. Corte d' Assise di Torino, ordinanza del 6 maggio 2004, iscritta al n. 693 del registro ordinanze del 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, anno 2004.

99. In virtù del principio di legalità non è possibile applicare una misura di sicurezza diversa da quelle previste dalla legge.

100. Corte Costituzionale, ordinanza del 2005, n. 254.

101. Corte Costituzionale, ordinanza del 21 marzo 2001, n. 88; Corte Costituzionale, sentenza del 7-11 giugno 1999, n. 228; Corte Costituzionale, ordinanza del 10-17 novembre 1994, n. 396; Corte Costituzionale, ordinanza 7-22 luglio 1994, n. 333; Corte Costituzionale, ordinanza 24 gennaio 1985, n. 24.

102. Corte Costituzionale, ordinanza n. 83 del 2007; Corte Costituzionale, ordinanza n. 117 del 2009.