ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
La riforma del manicomio e la nascita dell'OPG

Giulia Melani, 2014

Con questo capitolo cercheremo di ricostruire la storia recente delle istituzioni oggetto del nostro studio, dal secondo dopoguerra fino ai primi anni '80, concentrandoci in particolare su due importanti riforme, una rappresentata dalla legge n. 180 del 1978 che ha provveduto a chiudere i manicomi e l'altra la legge n. 345 del 1975, che ha mutato il nome dei manicomi giudiziari in ospedali psichiatrici giudiziari.

Nella nostra ricostruzione cercheremo soprattutto di cogliere le modifiche nel bilanciamento tra i due interessi che, sin dall'istituzione del manicomio giudiziario, hanno giustificato la misura e ne hanno costituito il contenuto: la cura e la custodia (1). In particolare cercheremo di evidenziare come tra cura e custodia a partire dagli anni '60 si profili un contrasto prima non percepito, dovuto alla critica alle istituzioni totali, alla messa in discussione dell'istituzione manicomiale e della scienza psichiatrica. Abbiamo anticipato come, durante la graduale affermazione del nuovo ordinamento repubblicano, si apra una nuova riflessione sulla legittimazione delle misure di sicurezza, in questo contesto si inseriscono i dibattiti circa la funzione del manicomio/ospedale psichiatrico giudiziario. Si riscontra, in particolare, la necessità di una differenziazione della misura di sicurezza dalla pena e al contempo si afferma il preminente obiettivo di garantire la tutela della salute dell'internato. Procederemo dunque, con l'analisi dei presupposti teorico-filosofici che fecero da sfondo all'emersione di queste teorie critiche, in particolare quelle sociologiche sulle istituzioni totali e l'antipsichiatria basagliana. Osserveremo i frutti della nuova visione della salute mentale - in particolare di quella rivoluzione rappresentata dalla legge n. 180 del 1978 meglio nota come legge Basaglia (2) - e più nello specifico ci soffermeremo sugli effetti diretti e indiretti di questa legge sull'istituzione OPG. Analizzeremo l'introduzione dell'ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975), cercando di comprendere l'impatto complessivo della riforma e della trasformazione da manicomi giudiziari in Ospedali psichiatrici giudiziari, verificheremo gli aspetti di omogeneità con l'istituzione carceraria e le eventuali peculiarità. Infine riprenderemo la storia delle critiche all'OPG, alimentate dagli scandali della fine degli anni '70, e le riflessioni circa l'opportunità di ripensare all'esistenza di questa istituzione e il persistente silenzio del legislatore nella materia.

1. Manicomi comuni e manicomi giudiziari prima della riforma dell'assistenza psichiatrica: come la funzione di cura ha giustificato la custodia dei folli

Il manicomio giudiziario fu chiamato a svolgere, fin dalla sua introduzione la duplice funzione di curare e custodire. Cura e custodia nell'ottica del legislatore del 1930 non apparivano in contrasto. Infatti Alfredo Rocco nella Relazione a S.M. il Re al Progetto del Codice penale affermava che la misura di sicurezza doveva adempiere a: «fini socialmente eliminativi, o curativi e terapeutici, o educativi e correttivi e talora [...] semplicemente cautelari» (3). Dunque le misure di sicurezza, funzionali alla prevenzione speciale, all'impedimento della ripetizione del fatto criminoso, potevano configurarsi tanto come interventi eliminativi, quanto come terapeutici, quanto come meramente escludenti e dunque cautelari poiché impeditivi. Se rileggiamo i testi dei fautori del manicomio criminale possiamo osservare come le finalità terapeutiche fossero accompagnate e si completassero con quelle custodiali, nell'ottica di una funzione generale di difesa sociale. Dunque cura e custodia apparivano perfettamente compatibili. Del resto la situazione dei manicomi comuni non sembrava poi molto distante, e la funzione terapeutica e quella di sicurezza sociale si fondevano in questa istituzione, ove ogni tipo di violenza ed aberrazione poteva trovarsi giustificata da intenzioni terapeutiche (4). Che il manicomio fosse chiamato principalmente a svolgere una funzione difensiva, lo dimostrano anche i presupposti per il ricovero previsti dalla legge manicomiale del 1904 (5). Difatti il ricovero volontario non era previsto, se non in forma residuale dal regolamento attuativo del 1909, inoltre il presupposto per procedere al ricovero coattivo era costituito dalla pericolosità del folle per sé o per gli altri. Dunque l'idea di fondo era quella di una connessione necessaria tra patologia psichiatrica e pericolosità: il malato di mente era ritenuto intrinsecamente pericoloso, perciò la società doveva provvedere a difendersi e a difendere il malato da sé stesso. Qualora il malato di mente avesse già dimostrato la sua pericolosità attraverso la commissione di atti dalla legge previsti come reati, allora si sarebbe proceduto al suo internamento nelle strutture destinate a quei folli più pericolosi di altri: i folli rei. In questa ottica la cura e la custodia si completavano, i manicomi (comuni e giudiziari) erano luoghi al contempo di trattamento per i soggetti curabili e di «immagazzinamento degli alienati reputati incurabili» (6). Anche i manicomi comuni erano in fondo luoghi dove la cura si sostanziava in un trattamento di custodia di soggetti pericolosi (7). Questi asili si distinguevano dai manicomi criminali solo in quanto era diverso il grado di pericolosità dei soggetti reclusi in queste strutture.

La scienza psichiatrica italiana, peraltro, tra XIX e inizi del XX secolo si era assestata su posizioni nettamente conservatrici dal punto di vista delle terapie, rifiutando le tecniche più recenti che prevedevano una maggiore libertà degli internati. Si pensi in particolare ai modelli dell'open door e del no restraint. Il primo, adottato inizialmente negli asili scozzesi, prevedeva che il manicomio fosse principalmente un luogo di cura dove il malato si recava spontaneamente e altrettanto liberamente poteva andarsene e dove all'interno vigeva una piena libertà di movimento (8). Il no restraint, metodo applicato dallo psichiatra inglese Conolly, escludeva il ricorso alla coercizione fisica, in favore di un utilizzo, anche nei confronti di soggetti più pericolosi di tecniche di coercizione morale (9). Entrambe le metodologie furono rifiutate dalla gran parte degli psichiatri italiani per tutto il XIX secolo (10), solo nei primi anni del XX si riscontrò una timida apertura nei confronti del no restraint, ma soltanto in una sua versione attenuata (11). La Società Freniatrica Italiana, nel corso del Congresso del 1901, si espresse, appunto, in favore della possibilità di ridurre le contenzioni fisiche, benché permanesse l'idea dell'impossibilità di evitare completamente il ricorso alle stesse (12). D'altro canto nella costante disputa sulle cause della follia, che vedeva storicamente organicisti e spiritualisti (13) dibattersi, gli psichiatri italiani si trovavano d'accordo sulle prime posizioni (14). Se da un lato non si può sostenere la completa omogeneità tra la psichiatria italiana e l'antropologia criminale lombrosiana (15), data anche la non completa adesione da parte degli psichiatri alla teoria della “degenerescenza” di Morel (16), che in una cornice evoluzionistica concepiva la malattia mentale come un difetto genetico, senz'altro si può riscontrare la riluttanza verso le tesi spiritualiste e una frequente condivisione dei temi e delle teorie della criminologia positivista (17). Se la psichiatria presenta, nella sua storia, fin dalla sua nascita, aspetti che l'avvicinano più ad una tecnica di igiene sociale che ad una scienza medica (18), la freniatria tardo ottocentesca italiana, per di più, si vedeva arroccata su un organicismo che favoriva tendenze deterministiche ed escludeva qualsiasi riflessione sulle condizioni sociali che potevano influire sul disagio psichico. Inoltre dal punto di vista delle tecniche, rifiutava le più “libertarie”, mostrando bene il suo carattere di scienza prettamente asilare. Del resto quella quota di psichiatri che, vicini alla scuola positiva, si erano ampiamente schierati a favore dell'istituzione dei manicomi giudiziari, ci mostra questa tendenza della scienza psichiatrica ad assolvere un compito più vicino alla pubblica sicurezza che alla medicina (19).

Se questa era la situazione dei manicomi e della scienza psichiatrica a cavallo tra Ottocento e Novecento, non molto diversa appariva la situazione nella prima metà del XX secolo. Dal punto di vista delle tecniche si erano manifestate delle importanti novità, che non facevano che confermare il preminente interesse custodiale di questa scienza. Difatti nel corso degli anni '30 si iniziarono a diffondere alcune tecniche che avevano come principale finalità quella di calmare le crisi di alcuni pazienti, in particolare quelli definiti schizofrenici, considerati tra i più pericolosi. Queste tecniche cosiddetta di shock, prevedevano l'induzione di un breve stato di coma, attraverso la somministrazione del virus della malaria (malario-terapia), di una determinata quantità di insulina (insulino-terapia), della corrente alternata, fatta passare dai lobi del cranio (elettroshock), al fine di riportare i pazienti più agitati in uno stato di momentanea quiete. Dal punto di vista della teoria sulle cause della follia, la Scuola italiana rimaneva saldamente ancorata alle teorie organiciste. Da un lato la revisione delle teorie di Lombroso proposta dalla Scuola costituzionalista (20) non aveva trovato ampio spazio, dall'altro, una simile reazione si poteva osservare anche per le teorie spiritualiste e in particolar modo si riscontrava ancora un rifiuto nei confronti della psicanalisi (21). Indipendentemente dalle terapie che vi si praticavano, si può osservare come il manicomio rimanesse centrale, forma di trattamento imprescindibile per gli psichiatri della prima metà del XX secolo. Non a caso gli internamenti erano in costante aumento e se si riscontrava una posizione critica nei confronti della legge sui manicomi e gli alienati del 1904, questa muoveva contro lo scarso potere attribuito al medico nelle decisioni sull'internamento e la dimissione dei pazienti nei manicomi e contro lo scarso ricorso allo stesso (22). Questo stesso contesto, dal punto di vista della scienza psichiatrica, si poteva osservare ancora nel primo decennio del secondo dopoguerra, prima dell'avvento di quel movimento, chiamato antipsichiatrico, che sconvolse la scienza psichiatrica.

1.1. Il quadro normativo dell'assistenza psichiatrica prima della riforma

Nel secondo dopoguerra l'assistenza psichiatrica era ancora regolata dalla legge n. 36 del 1904, intitolata “Legge sui manicomi e gli alienati”, approvata a seguito di un iter molto lungo (23) e che era ritenuta da molti, fin dal momento della sua emanazione, uno dei peggiori progetti elaborati in materia (24). Questa era costituita di pochissimi articoli, lasciando la gran parte della regolamentazione alla normativa di attuazione. Dalla legge emergeva in modo inconfondibile la funzione custodiale dell'istituzione manicomiale civile, infatti: il ricovero volontario non era previsto, la procedura di ammissione si avviava solo nei confronti di quei soggetti che fossero risultati pericolosi o di pubblico scandalo, lo stesso titolo della legge rinviava alle finalità di custodia dei manicomi, sempre accompagnate a quelle di cura, come del resto faceva l'art. 1, dove si poteva leggere, riguardo alle categorie di pazienti, che queste dovessero: «essere custodite e curate nei manicomi [...]». La procedura di ingresso era così regolata: su istanza di un familiare oppure di chiunque altro avesse interesse, il pretore disponeva il ricovero in via provvisoria del folle pericoloso o scandaloso (25). Al ricovero provvisorio, nel corso del quale era espletata l'osservazione del malato, faceva seguito una procedura giurisdizionale: il direttore del manicomio, all'esito dell'osservazione, inviava al Procuratore del Re (o della Repubblica a partire dal 1948) una relazione sulle condizioni dell'alienato, in base alla quale il Tribunale civile avrebbe preso la decisione del ricovero definitivo oppure della liberazione del malato (26). Anche per le dimissioni dai manicomi la procedura era di tipo giudiziale, questa poteva espletarsi solo laddove il malato fosse stato ritenuto guarito o non fosse risultato pericoloso (27). La situazione apparentemente paradossale che poteva venire a crearsi era quella che un soggetto gravemente ammalato, ma non considerato come pericoloso, fosse lasciato assolutamente privo di assistenza medica (28). Paradosso apparente per due motivazioni: innanzitutto l'inconsistenza pratica di questa ipotesi, il pregiudizio sulla connessione tra malattia mentale e pericolosità sociale risultava tanto radicato da ridurre praticamente a zero le ipotesi in cui il malato di mente accertato potesse essere ritenuto non pericoloso (29). Inoltre il paradosso è apparente in quanto, come abbiamo avuto più volte modo di sottolineare nel corso della trattazione e come negli anni '60 avevano chiaramente mostrato i lavori di Goffman e di Foucault (30), i manicomi non rappresentavano affatto un servizio posto a tutela della salute mentale dei pazienti, quanto piuttosto un'istituzione disciplinare.

La legge Giolitti, n. 36 del 1904, era completata dal regolamento di attuazione - R.D. 16 Agosto 1909 n. 615 - che interveniva dettando norme su tutti gli aspetti fondamentali dell'organizzazione e gestione dei manicomi. Si stabiliva come dovesse essere assunto il personale, quali poteri avesse il direttore, quali fossero i limiti all'utilizzo di coercizione, come fosse attuata la vigilanza sugli istituti (sia pubblici che privati). Il regolamento definiva anche le caratteristiche che la struttura avrebbe dovuto assumere, ponendo dei requisiti per le dimensioni - di norma molto consistenti - e altri per la suddivisione in reparti che doveva seguire la divisione sia per sessi che per tipo di patologie (31).

Il quadro normativo della disciplina che riguardava i manicomi e gli alienati era inoltre completato da una serie di norme che si trovavano in altre leggi. Tra queste il codice di procedura penale del 1930 che - all'art. 604 - prevedeva che il ricovero in manicomio fosse accompagnato dall'iscrizione al casellario giudiziario. L'iscrizione al casellario costituiva una vera e propria stigmatizzazione che rendeva difficile, anche in caso di licenziamento, il reinserimento nella società per l'ex internato. Diventava difficile per questi trovare un lavoro e di conseguenza potersi inserire proficuamente nel contesto sociale.

Dal punto di vista della codificazione civile, il codice del 1942 disciplinava gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione (32), istituti che limitavano la capacità di agire del soggetto (33). L'interdizione e l'inabilitazione potevano essere richiesti per l'infermo di mente maggiorenne - o minorenne ma soltanto nell'ultimo anno prima del raggiungimento della maggiore età - che versasse in una condizione tale da renderlo incapace di provvedere da solo ai propri interessi (34). A promuovere questi provvedimenti davanti all'autorità giudiziaria potevano essere il coniuge, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo, il tutore, il curatore o il pubblico ministero (art. 417). In questo contesto si inseriva la norma speciale per i ricoverati in manicomio (art. 420), che stabiliva che si dovesse nominare un tutore per l'internato, con lo stesso provvedimento con cui si disponeva il ricovero. Con quello stesso atto, se non fosse già stata richiesta l'interdizione, il Pubblico Ministero provvedeva alla richiesta. A questa normativa, che fissava un procedimento quasi automatico internamento-interdizione, si aggiungevano le conseguenze gravi previste dall'art. 2 del D.P.R. 20 marzo 1967 n.223, gli interdetti infatti, ai sensi del decreto, perdevano i diritti politici e la qualifica di elettori. Se questo era disposto per gli interdetti e l'interdizione seguiva in modo quasi automatico il ricovero in manicomio, sussisteva comunque una disposizione speciale destinata agli internati: l'art. 3 del D.P.R. stabiliva che ai ricoverati in istituti psichiatrici fosse sospeso il diritto di voto dalla data del decreto di ammissione definitiva fino al licenziamento. Il Comune, non appena ricevuta notizia del ricovero, cancellava il soggetto dalle liste elettorali e solo a seguito del decreto di licenziamento, con la prima revisione, l'ex internato sarebbe stato nuovamente iscritto.

Dunque la normativa in materia psichiatrica era caratterizzata da una stigmatizzazione del malato di mente e da una sua esclusione attraverso il ricovero in quelle istituzioni che, nonostante le finalità apparentemente curative, si erano svelate essere le “istituzioni della violenza” (35).

2. Verso il cambiamento

Prima di iniziare a ricostruire la storia del movimento antipsichiatrico (36) italiano e delle riforme legislative in tema di salute mentale, in particolare della legge n. 180 del 1978, ci sembra opportuno fare il punto su alcune teorie sociologiche che si svilupparono nel corso degli anni'60 e che ebbero una notevole influenza sul pensiero di Basaglia (37) e del movimento cosiddetto antipsichiatrico. In particolare ci soffermeremo sulla celebre opera del sociologo canadese Erving Goffman, Asylums (38) e sulle teorie foucaultiane.

2.1. La critica alle istituzioni totali: la teoria di Goffman

Per constestualizzare il lavoro di Goffman, inventore del termine istituzioni totali (39), partiamo con una breve analisi delle teorie dell'etichettamento, sviluppate da un gruppo di studiosi statunitensi a partire dalla metà degli anni '50 del XX secolo, in opposizione agli studi sulla devianza di stampo deterministico (40). I labelling theorists svilupparono la loro teoria a partire dalla messa in discussione dell'idea, dominante negli studi sulla devianza, che il comportamento deviante - sia questo criminale o folle - fosse ontologicamente diverso da quello “normale” (41). Per questi studiosi piuttosto, un comportamento è deviante quando è definito tale, per dirla con le parole di Becker: «i gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l'etichetta di outsiders» (42). A partire da questa considerazione, studiosi come Becker, si ripropongono la tradizionale domanda sulle cause eziologiche della devianza, ma partendo da un diverso presupposto. A rendere un soggetto deviante contribuiscono una pluralità di fattori, i quali non possono essere esaminati in una visione sincronica, bensì devono essere presi in considerazione ciascuno in relazione alla specifica fase che il soggetto sta intraprendendo nella sua carriera deviante (43). Tra questi fattori molti sono contingenze, fattori casuali (44). L'analisi si muove da un lato sugli elementi che influenzano la carriera del soggetto deviante, dall'altro sull'analisi dei meccanismi di controllo, fondamentali nel processo di etichettamento (45). Nella prospettiva dell'interazionismo simbolico, entro cui si muovono i Neo-chicagoans (46), la storia dell'individuo assume una posizione di centralità. Il soggetto è studiato nelle interazioni con gli altri che consentono di attribuire un determinato significato ad azioni e comportamenti, sia propri che altrui (47). In questa chiave si concepisce l'etichettamento, come processo di attribuzione di un determinato significato alle azioni di una persona che si riflette sull'estensione della medesima qualità al soggetto che l'ha compiuta (48). Il processo di etichettamento della persona finisce per costituire una «profezia che si autodetermina» (49) in quanto il deviante, a seguito dell'etichettamento, perderà lo status che aveva in precedenza nel suo gruppo sociale, per acquisirne uno nuovo che non gli consentirà facilmente di intraprendere una vita diversa. Si tratta appunto di quella definita da Lemert come devianza secondaria (50). Lemert, infatti, distingue tra la devianza primaria, violazione delle norme cui fa seguito una prima risposta di carattere sanzionatorio, da quella secondaria, ovvero il comportamento non conforme che consegue all'etichettamento primario (51). Nella prospettiva interazionista, Lemert si dedica allo studio di come le reazioni sociali al comportamento deviante contribuiscano a stabilizzare un fenomeno che sarebbe potuto essere occasionale (52). A partire da queste teorie si sviluppa un ampio filone di studi etnografici su carcere e manicomi che analizzano gli effetti di istituzionalizzazione provocati dalle istituzioni sociali deputate al controllo. Sono analizzati i fenomeni di stigmatizzazione e gli effetti delle prigioni e dei manicomi sulla vita dei soggetti internati ed è svelato il fallimento della funzione che queste istituzioni formalmente sono chiamate a svolgere (53).

In questo contesto possiamo introdurre i saggi di Erving Goffman sui manicomi, contenuti nella celebre opera Asylums. Goffman innanzitutto definisce cosa intenda con istituzione totale. Primariamente le istituzioni, in generale, sono luoghi ove si svolge una certa attività in modo regolare (54). Esistono un ampio spettro di istituzioni, ve ne sono alcune dove possono accedere tutti, altre che sono più esclusive; in alcune si svolgono attività ricreative, in altre attività di lavoro; alcune incidono sullo status delle persone che vi fanno parte, altre no (55). Un'istituzione totale è essenzialmente un luogo dove risiedono e vivono dei gruppi di persone che vi trascorrono un certo lasso di tempo, in comune, in un «regime chiuso e formalmente amministrato» (56). Carattere essenziale di queste istituzioni è che le varie attività che nella società moderna si svolgono in luoghi diversi - lavorare, divertirsi e dormire - in queste sono svolte negli stessi luoghi, sotto il controllo della medesima autorità (57). In queste istituzioni una serie di bisogni di una massa di persone si trovano ad essere filtrati dalla stessa organizzazione burocratica (58). L'organizzazione interna del manicomio mostra una netta frattura tra il personale dello staff e gli internati (59). Attraverso la rigida organizzazione gerarchica, la separazione tra staff e internati, la gestione di ogni fase della vita e di ogni bisogno da parte dell'apparato istituzionale, l'incompatibilità e dunque l'assenza delle strutture sociali del lavoro e della famiglia, il manicomio - e ogni altra istituzione totale - è chiamato a svolgere una specifica funzione: la modifica forzata della persona reclusa (60). Chiarito il significato ed i tratti essenziali dell'istituzione totale, lo studio di Goffman procede mostrandoci come tutte le istituzioni totali presentino un fine dichiarato che sistematicamente disattendono (61). Per quanto riguarda i manicomi questo fine sarebbe rappresentato dalla cura della malattia mentale (62). Goffman ci descrive la vita all'interno del manicomio, prima analizzando ciò che concerne il mondo del malato, successivamente quello dello staff. Partendo dal primo, osserva come l'organizzazione istituzionale metta in opera nei confronti dell'internato una serie di tecniche volte a produrre una modificazione del sé. In una prima fase l'internato è separato dal proprio mondo familiare e spogliato dei ruoli che ricopriva all'esterno (63). Affianco alla spoliazione e all'allontanamento da ciò che era la sua vita all'esterno, l'internato subisce una serie di mortificazioni e perdite: dall'utilizzo da parte dello staff di un gergo dispregiativo, alla contaminazione di oggetti e corpi, alla perdita di quei beni che nella società esterna sono considerati simboli della stessa identità personale, come i vestiti, il trucco o altri oggetti personali (64). Le pratiche di mortificazione del sé si sostanziano anche nella repressione di qualsiasi forma di ribellione, anche di quella quantità che nel mondo esterno è normalmente concessa come reazione ai soprusi (65). I processi di degradazione si caratterizzano in quanto vanno a colpire quelle azioni che normalmente testimoniano la capacità di un individuo di agire come una persona sana ed adulta (66). L'internato inoltre riceve istruzioni sul «sistema di privilegi» e di punizioni che vige all'interno della struttura (67). Di fronte alle pressioni istituzionali alcuni internati mettono in campo tecniche di adattamento secondario, tecniche che consentono di preservare a sé stessi la convinzione di mantenere una certa soglia di autonomia (68). Questi processi spesso conducono ad una “disculturazione”, ovvero alla perdita dei riferimenti su quelle abitudini ritenute essenziali nella vita libera (69). Fin dall'inizio l'internato è oggetto di una stigmatizzazione, lo staff lo percepisce nella misura di alcuni schemi interpretativi (70). Egli è qualificato attraverso il modello del malato, anche perché se non fosse malato la sua presenza sarebbe completamente ingiustificata (71). In un'ottica interazionista le visioni che gli altri hanno di una persona incidono sul suo stesso sé e le spoliazioni e le mortificazioni possono condurre l'alienato ad uno stato di totale “assuefazione” al mondo istituzionale. Per quanto concerne lo staff questo è chiamato a svolgere un lavoro che riguarda persone ma che sono gestite come se si trattasse di materiali (72). Da ciò deriva che trattandosi di materiale umano, l'istituzione debba sopperire ad alcuni bisogni dei suoi ospiti (73). L'istituzione dovrà, nel far ciò, garantire un livello di vita umano, anche limitando, nel presunto interesse del paziente, altre sue necessità. In questa ottica sono concepiti interventi come l'alimentazione forzata di un paziente che rifiuti il cibo o la sorveglianza continua di uno a rischio suicidiario (74).

Ma come arriva il soggetto ad essere internato? Qual è la ragione del suo internamento, semplicemente la malattia? Goffman riprende, per illustrare le tappe della vita di questo soggetto, il concetto utilizzato da Becker per la delinquenza o la violazione di alcune norme socialmente condivise, della carriera morale (75). Una serie di contingenze e le attività di alcuni agenti influiscono sulla carriera “predegente” del soggetto fino a condurre all'esito dell'internamento (76). Nel corso dell'internamento il modello di carriera continua a poter essere applicato, esistono un sistema di sanzioni e una gerarchia di reparti, da quelli più liberi a quelli per i cronici (77). L'internato potrà adattarsi alla nuova visione del sé, potrà confidare nella funzione dell'istituzione, potrà mettere in campo una serie di adattamenti secondari che gli consentiranno di utilizzare per i propri interessi le strutture pensate per un'altra finalità.

L'Autore infine si sofferma sul modello medico e il rapporto tra modello medico e psichiatria. La psichiatria non sembra infatti rispondere a questo modello. Il medico è un soggetto che svolge una prestazione di riparazione, la quale presuppone un rapporto di fiducia tra il tecnico che provvede ad effettuarla ed il cliente. Il modello medico presenta delle peculiarità rispetto al modello di servizi di riparazione standard (78). Ad esempio a differenza dei servizi di riparazione di cose, non tutte le parti del corpo possono essere riparate (79). Inoltre nella prestazione medica si potranno verificare delle situazioni in cui il medico agisce contro il consenso del cliente (80). Alla psichiatria istituzionale può applicarsi il modello medico? L'applicazione di questo modello comporta, nel caso della psichiatria istituzionale, alcune problematiche (81). Primo problema consiste nel fatto che una parte del mandato psichiatrico è di carattere di difesa sociale dal pericolo e da comportamenti fastidiosi che può esprimere il malato di mente (82). Inoltre la malattia mentale non è una malattia che viene curata e poi dimenticata, l'ex internato è stigmatizzato (83). La vita di reparto poi, appare rispondere ad un modello diverso dalla tutela della salute del paziente, infatti se la diagnosi può apparire medica molto spesso non può dirsi altrettanto del trattamento che - come visto - risponde a quel conflitto tra gli interessi del paziente e quell'interesse a mantenere uno stile di vita umano perseguito dall'istituzione. In definitiva «lo staff psichiatrico divide con i poliziotti lo strano compito professionale di educare e moralizzare gli adulti» (84). Dunque il medico psichiatra all'interno dell'asilo tende a sottoporre il paziente a pratiche disciplinari travestite da interventi medici ad interventi presentati come individuali ma che assumono piuttosto una funzione per l'istituzione (85).

Le istituzioni totali, dunque, il manicomio in particolare, si presentano come istituzioni chiuse, ove vige una disciplina ed è presente un'organizzazione burocratica, ove il soggetto che vi entra è sottoposto ad una serie di trattamenti atti a modificarne il sé. Istituzioni che si presentano come giustificate da una certa finalità, la cura per l'ospedale psichiatrico, che è posta a giustificazione di tutti i trattamenti perpetrati. Istituzioni dove lo staff etichetta il soggetto in funzione della ragione per cui vi è recluso, in pratica dove: «Si deve scovare un crimine che si adatti alla punizione e ricostruire la natura dell'internato per adattarla al crimine» (86).

2.2. La critica foucaultiana alle istituzioni manicomiali

Oltre agli studi dei sociologi americani sulla devianza secondaria e le istituzioni totali sembra imprescindibile riferirsi all'opera del filosofo francese Michel Foucault. Foucault si dedica allo studio della follia, della psichiatria e dell'internamento psichiatrico in una pluralità di opere (87). In una chiave di lettura «etnologica» (88) della cultura e della storia delle idee, il suo interesse si muove nei confronti dei settori dell'esclusione: la follia, la delinquenza, la malattia e la perversione. Foucault nella sua opera Storia della follia nell'età classica si pone l'obiettivo di ricostruire l'esperienza della follia nel periodo classico - nella storia francese quello che va dalla fine della Renaissance alla Rivoluzione francese - evitando un'interpretazione della storia in chiave di una progressione verso una crescente razionalità (89). Ricostruire la storia della follia significa non applicare un concetto costituito ad un fenomeno storicamente avvenuto, bensì cercare di cogliere come “la follia” sia stata una specifica esperienza in un determinato periodo storico (90) e attraverso l'indagine sulla follia come assenza di ragione capire come la ragione stessa si sia costituita in rapporto con il suo negativo.

La ricostruzione foucaultiana dispiega il percorso attraverso il quale nell'età classica la follia entra in rapporto con la ragione e diviene la sua forma negativa, la sragione (91). La follia, nel Medioevo era un concetto multiforme dominato dall'elemento tragico che incarnava il viaggio dell'uomo verso l'ignoto e la morte. In quella fase i folli vagabondavano, estromessi dai villaggi, nel pellegrinaggio costante rappresentato dall'immagine della stultifera navis (92). Nel corso del Rinascimento si verifica una crescita della critica della follia (93). Nel momento in cui la follia cessa di essere il simbolo della morte, ai confini del mondo, cessa anche la navigazione dei folli e la follia non esiliata ai margini della società in un costante vagabondaggio, viene accolta nell'Ospedale dei folli (94). Nel XVII secolo la possibilità di una follia ragionante e di una ragione folle sono negate (95). Il XVII secolo è anche il secolo del “Grande internamento”, con il passaggio dei compiti di assistenza dalla competenza della Chiesa a quella dello Stato (96), la perdita di quello statuto mistico delle figure del povero, dell'infelice, del misero (97), si realizza un mutamento che è una forma di «laicizzazione della carità, indubbiamente; ma, oscuramente, anche punizione morale della miseria» (98). Il Grande internamento, analizzato da Foucault nella prospettiva dell'istituzione di ospedali in Francia, Workhouses in Inghilterra e Zuchthäusern in Germania ed istituzioni simili in Spagna, Italia e Olanda, è connesso alle condizioni economiche, è uno strumento di ordine pubblico che svolge la duplice funzione di riassorbire la disoccupazione e controllare le tariffe (99). In questa fase la follia conosce uno stretto legame con la morale ed è «sentita attraverso una condanna morale dell'ozio» (100). Le istituzioni ove il Grande internamento è praticato sono istituzioni amministrative, dove è condannata la morale del soggetto recluso e proprio in questo momento si sviluppa l'idea della moralità come questione di Stato (101). Ma nella fase del Grande internamento del XVII secolo i folli condividono questa condizione con una serie di altre figure: il povero, il libertino, l'ateo, l'empio (102). Nelle istituzioni dell'età classica, popolate dalle figure più variegate, la cura e la punizione morale si fondono, si intersecano, così come convivono la follia ed il peccato (103). Con gli strumenti coercitivi e repressivi si instaura un intreccio tra medicina e morale (104). Nel corso del XVII secolo inoltre la sragione, attraverso una separazione dal mondo della ragione, una cesura, inizia ad essere suscettibile di percezione, percezione come fenomeno sociale, dunque possibilità di essere oggetto di conoscenza (105).

Nel contesto appena analizzato, ancora il medico non ha un ruolo fondamentale: le case di internamento somigliano molto a prigioni, la perizia medica non è ancora un requisito per entrarvi, gli internati sono mescolati senza alcuna divisione e sottoposti ad un trattamento di carattere correzionario (106). Del resto l'internamento svolge ancora funzioni preminenti di garanzia dell'ordine pubblico. Ma questo non deve condurre alla facile conclusione che la follia come patologia sia qualcosa che è sempre esistito ma fino ad un certo momento non è stato scoperto (107). Gli ospedali per insensati o sezioni speciali ad essi riservate, esistevano già dal XV secolo. Questo dato non deve essere interpretato come il segno di alcuni precoci scoperte della patologia psichiatrica (108). In realtà, Foucault ritiene, che coesistano nel corso dell'età classica due diversi statuti, due diversi modi di trattare la follia, quello dell'ospedale e quello della casa di correzione, ma diversamente da quanto si potrebbe ad una prima lettura pensare, quello dell'ospedale rappresenta soltanto il residuato di uno stato di cose ormai superato (109). Dal punto di vista delle condizioni che giustificavano l'internamento, per molto tempo non era stato richiesto a riguardo l'intervento di un sapere medico (110). Mentre nel diritto canonico di matrice romana, la capacità soggettiva era rimessa ad una valutazione di carattere medico (111) ed i giudizi sullo stato di alienazione del soggetto erano prodotti dal medico che doveva valutare non solo lo stato di alienazione ma anche la capacità che era stata colpita (112), l'internamento era conseguenza di un processo amministrativo che talvolta, qualora si trattasse di un soggetto che aveva commesso un delitto, poteva essere rimesso a decisione giudiziale, ma assai di rado seguiva ad un accertamento medico (113). Ciò che rilevava ai fini dell'internamento «non era tanto una conoscenza medica quanto una coscienza suscettibile di scandalo» (114). Nel corso del XVII secolo non vi era stata una tendenza a medicalizzare il procedimento, quanto piuttosto a socializzarlo (115). Il mondo dell'alienazione, dell'elaborazione della forma di alienazione relativa al concetto di soggetto di diritto e quello della sragione dell'uomo sociale che si manifestava nelle forme dell'internamento rappresentarono per tutta l'età classica forme separate ed eccentriche, l'una collegata all'idea di capacità ed incapacità, l'altra connessa ad una colpa morale (116). Se l'alienazione nella visione giuridica escludeva la colpevolezza perché colpiva la ragione, l'insensato che veniva internato era colpevole e non esisteva alcuna esclusione tra follia e colpa morale, anzi un vincolo così stretto che «la più grave delle colpe sarà alla fine follia» (117). Benché la psichiatria del XIX secolo sia convinta di aver afferrato la follia nella sua dimensione oggettiva e patologica, ha continuato ad avere a che fare con una «follia ancora tutta abitata dall'etica» (118).

Se questa era la costruzione di quella conoscenza della follia connessa all'internamento, Foucault passa ad illustrare quella «coscienza che enuncia il folle e dispiega la follia» (119), la conoscenza di carattere medico. Nel corso del XVIII secolo si verifica, nella medicina generale, quel passaggio dalla malattia definita in termini negativi ad una naturalizzazione che tende a delineare la malattia in termini positivi ed a classificarla in specie (120). In questo secolo la follia entra a far parte di questo terreno di conoscenza discorsivo, di una classificazione naturalistica, di una conoscenza positiva (121). Ma questa esperienza della follia non è la sola che si riscontra nel XVIII secolo, esiste anche una conoscenza negativa, di percezione, data dal confronto e dall'alterità con la ragione (122). E la follia, come trascendenza è sragione, assenza, un vuoto (123). E proprio la negatività della follia, la sua essenza di sragione, il suo modo di essere al crocevia tra l'onirico (124) e l'erroneo (125), la sua qualità di non essere, ci illustrano l'esperienza classica della follia e ci mostrano una particolare coerenza con le modalità dell'internamento (126). La follia nell'età classica è al contempo questa trascendenza onirico-erronea del delirio, della sragione e una dimensione organica, in un'unità di corpo e spirito che si ritrovava nelle concezioni mediche della follia e nelle stesse terapie ad essa riservate (127).

Ma come si arriva dal Grande Internamento di una popolazione variegata ed unificata dalla condanna morale dell'ozio, ad una nuova separazione dove la follia si trova unico ospite residuo dell'internamento? Da un lato nel XVIII secolo una nuova grande paura, come quella medioevale per la peste, reclamava l'intervento medico sull'internamento, ma non un intervento che era motivato dal progresso della scienza medica ma da quella concezione di «inestricabile miscuglio dei contagi morali e fisici» (128) che attraverso il ritorno di antiche immagini fantastiche alimentava la paura del contagio, dell'impurità, richiedendo un intervento sanante (129). E in questa nuova paura, in questo riaffiorare delle vecchie immagini si instaura, in una chiave nuova, il vecchio rapporto tra la follia e il circostante, che ancora non è ambiente, è forza differenziale, dunque la follia inizia ad essere in qualche modo legata con la libertà (130), con la religione (131), con la civiltà e la sensibilità (132). Nel contesto di questa coscienza della follia tardo-settecentesca, della sua distanza dal sensibile si coglie l'alienazione (133) e questa viene a rapportarsi con ciò che la circonda, l'opulenza offre più possibilità di smarrimento, il progresso più possibilità di decadenza (134). Ed è a questo punto che la follia distaccata dalla sragione assumerà il significato di qualcosa di molto vicino alla storia (135) e alla storia umana, che poi fondendosi nel XIX secolo con una concezione ad un tempo sociale e morale si caratterizzerà per il concetto di evoluzione (136).

D'altro lato però sulla nuova separazione hanno influenza altri aspetti. Vi sono alcune crisi economiche alle quali le risposte classiche di assistenza e repressione non sembrano offrire soluzioni. In quegli anni è ripensato lo statuto della povertà e della malattia e la follia rimane l'unica destinataria dell'internamento (137). La nuova separazione si sviluppa con la critica politica alla repressione e quella economica all'assistenza. L'internamento si ristruttura in luogo di verità della follia e della sua abolizione, in luogo terapeutico (138). Così nell'asilo si realizzano una serie di forme di liberazione, per ciascuna delle quali interviene una nuova forma di protezione e l'asilo nasce in questo nuovo internamento ristrutturato e nel momento di incontro, di sintesi della coscienza di follia che percepisce immediatamente la differenza e del sistema di esclusione (139). Qui la follia, in questo nuovo spazio diviene oggetto, separata e oggettivizzata può essere attratta dalla conoscenza medica (140).

Proprio in questo contesto si inseriscono le esperienze di liberazione dei folli del francese Pinel e dell'inglese Tuke (141). Tuke è ricordato per aver fondato, nel 1793 Il Ritiro, un asilo dove non erano applicate coercizioni, Pinel è passato alla storia per aver liberato, negli anni della Rivoluzione francese, le folli della Bicêtre - una delle più note case di internamento di Parigi (142). Nella ricostruzione storiografica classica, Tuke e Pinel sono ricordati come i filantropi che hanno provveduto a liberare la follia imprigionata. Foucault decostruisce il mito della liberazione dei folli, i folli negli asili di Tuke e Pinel non sono liberi, sono attinti da catene diverse; decostruisce anche il mito dell'apertura dell'asilo alla scienza e alla medicina, i due filantropi non hanno introdotto la scienza nell'asilo, vi hanno fatto invece penetrare un personaggio: il medico (143). La libertà lasciata al folle nel nuovo asilo si muove in una realtà che è più chiusa di quella dell'internamento classico, inoltre la separazione della follia dalla parentela con la colpa ed il male - per inserirla nella cornice della malattia - è attuata al caro prezzo di un'innocenza che si traduce in una completa assenza di libertà. Le catene tolte ai folli sono sostituite dal potere del medico, una figura dotata di autorità e di potere, che instaura all'interno dell'asilo una serie di meccanismi repressivi, diversi da quelli della giustizia e attinti dalla vecchie pratiche terapeutiche.

Così Foucault ci mostra che i manicomi non nascano dalla scoperta medica della malattia mentale, realtà esistente che il progresso scientifico avrebbe solo necessitato di scoprire. Il manicomio nasce come mutamento dell'internamento tipico dell'età classica, della sua strutturazione interna, quando la follia si separa dalle compagne di viaggio dell'internamento classico, quando la struttura di questo si lega alla libertà, all'idea di alcune quote di libertà all'interno dell'asilo grazie alle quali la follia avrebbe potuto mostrarsi nella sua espressione. Ed in quello spazio di libertà il medico entra, non per portare la terapia e la conoscenza medica, ma per trasformare la terapia in giustizia, per costruire quella figura assoluta del medico che troverà la sua apoteosi nella medicina positiva ma ancora di più nella psicoanalisi freudiana.

2.3. I presupposti teorico-pratici: il movimento antipsichiatrico

Noi neghiamo dialetticamente il nostro mandato sociale che ci richiederebbe di considerare il malato come un non uomo e negandolo neghiamo il malato come non-uomo [...] [F. Basaglia, L'istituzione negata]

La rivoluzione basagliana ebbe inizio con una serie di negazioni: la negazione dell'istituzione del manicomio, del ruolo dello psichiatra, semplice custode e carceriere di malati considerati irrecuperabili, la negazione della malattia - non in sé e per sé - quanto della malattia come etichetta totalizzante (144). Come afferma Franca Ongaro Basaglia nell'introduzione alla ristampa de “L'istituzione negata” del 1998, vent'anni dopo la legge 13 maggio 1978 n. 180 e trenta dopo la prima edizione del testo: «[...] ogni negazione è possibile, nella pratica, se insieme costruisci altro [...]» (145) Così, l'esperienza basagliana nasceva dalla negazione dell'assetto precedente accompagnata dal tentativo di costruzione di un nuovo modello di rapporto con la malattia mentale. La negazione della psichiatria, del ruolo dello psichiatra e dell'istituzione dove lo psichiatra esercitava il suo potere assoluto sul paziente, apparivano imprescindibili per qualsiasi approccio realmente “terapeutico”. Proprio in questa dimensione “negatrice”, Michel Foucault riconosceva la portata fortemente innovativa dei movimenti antipsichiatrici (146). Altri movimenti di depsichiatrizzazione, infatti avevano attraversato la storia della follia: il movimento di Babinski e la psicanalisi (147). Entrambe queste correnti però non erano andate ad intaccare il fondamentale assetto del potere medico (148). L'antipsichiatria invece contro l'istituzione, contro il potere della non follia di produrre la verità sulla follia, contro il potere del medico di intervenire sul malato, restituiva al folle il diritto di portare a compimento la propria follia (149). Ma procedendo per gradi vediamo qual è stata la storia di Franco Basaglia.

Nei decenni a cavallo tra gli anni '50 e gli anni'60 la psichiatria accademica italiana era ancora assestata su posizioni organicistico-neurologiche e tendenzialmente conservatrici (150). Nell'ambiente universitario l'offerta formativa era limitata agli insegnamenti tradizionali e la nuova psichiatria fenomenologica (151) non trovava alcuno spazio, tanto che chiunque avesse deciso di adottare questo indirizzo si sarebbe trovato escluso dalla carriera accademica (152). Il giovane Basaglia aveva cercato di coniugare nei suoi studi la psicopatologia con la fenomenologia (153), la psicopatologia non era infatti rifiutata, né era posta in discussione l'eziologia organica di alcuni disturbi, piuttosto Basaglia contestava il punto di vista assoluto della scienza attraverso il quale questa aveva la pretesa di invadere la vita (154). Le posizioni dello studioso distanti dall'organicismo e la neuropsichiatria dominanti, resero il suo percorso accademico abbastanza difficile e nel 1961 Basaglia decise di abbandonare la carriera clinica e si dedicò a dirigere l'ospedale psichiatrico di Gorizia. In quegli stessi anni la psichiatria accademica era distante anni luce dalla pratica manicomiale, da un lato si trovava la Grande psichiatria, così detta con linguaggio gergale, praticata negli ospedali psichiatrici dai medici che avevano avuto meno fortuna nell'ambito clinico, dall'altro la piccola psichiatria, quelle delle aule universitarie (155). Dunque l'arrivo a Gorizia, la conoscenza diretta della realtà manicomiale furono sconvolgenti (156). Questa esperienza mostrava gli effetti dell'istituzione sul malato, il malato risultava annientato da quell'istituzione che diventa corpo stesso dell'internato (157). In questo contesto si mostrava con tutta evidenza la funzione non terapeutica dell'intervento psichiatrico (158). A questa constatazione, alla scoperta della violenza dell'istituzione, si accompagnava la percezione di un divario fortissimo tra le esperienze vissute nella clinica universitaria e quelle del manicomio di Gorizia, erano diverse le pratiche della psichiatria, erano diversi i pazienti. In manicomio Basaglia scorgeva la sussistenza di una duplice esclusione, l'esclusione del malato si aggiungeva all'esclusione sociale del povero, dell'emarginato, del sottoproletario (159). Questa convinzione sarà radicata nel pensiero di Basaglia che nell'intervista a Sergio Zavoli del 1968, dichiarerà di conoscere: «[...] due tipi di psichiatria: la psichiatria per i poveri e la psichiatria per i ricchi [...]» (160).

Nel contesto della realtà riscontrata nel manicomio di Gorizia, di fronte alla constatazione della non neutralità della pratica scientifica che consente di rinchiudere un altro soggetto come folle, Basaglia dichiarava la necessità di mettere tra parentesi la malattia (161). La messa tra parentesi della malattia non rappresentava la semplice negazione dell'esistenza della stessa, piuttosto una sospensione delle domande intorno a questa (162). Queste convinzioni nascevano, come detto, nel contesto dell'esperienza goriziana. A Gorizia Basaglia aveva deciso immediatamente di intraprendere un percorso di umanizzazione, sperimentando all'interno della struttura una comunità terapeutica a modello di quella scozzese di Maxwell Jones. Le contraddizioni e le difficoltà dell'esperienza condussero alle riflessioni sul ruolo dello psichiatra e della psichiatria (163).Tanto la psichiatria organicistica quanto l'approccio fenomenologico celavano dietro al volto della scientificità il ruolo politico dello psichiatra (164). Ogni intervento di umanizzazione rischiava di tramutarsi semplicemente nella costruzione di un nuovo rapporto dominato però dalle stesse dinamiche di potere. Infatti, scrive Basaglia, a proposito della libertà che il nuovo approccio della comunità terapeutica aveva lasciato al malato, che questa: «può produrre ora in lui [il malato, N.d.A] uno stato di soggezione ancora più alienante, perché frammisto a sentimenti di dedizione e riconoscenza che lo legano al medico in un rapporto ancora più stretto» (165). Dunque appariva necessario rompere quel filo di potere che legava il malato al medico, appariva necessario annientare l'istituzione dove questo rapporto si giocava. La dimensione politica e quella tecnica si fondevano. Lo psichiatra accompagnava il folle nella lotta contro l'istituzione e facendo ciò sospendeva il suo ruolo, metteva da parte la malattia. Infatti per rispondere alla domanda “Cos'è la follia?” appariva primariamente necessario mettere tra parentesi la stessa e il ruolo dello psichiatra (166). L'incontro, il dialogo con il folle era possibile solo rinunciando al mandato dello psichiatra, abbandonando la posizione di potere. Solo nella libertà appariva possibile la conoscenza, solo fuori dall'istituzione (167). Dunque gli psichiatri, abbandonando il loro mandato, avrebbero dovuto affiancarsi ai malati come testimoni nella lotta contro “le istituzioni della violenza”. Del resto in Basaglia a questo profilo pratico e a quello di specialista si aggiungeva l'interesse storico per la psichiatria del XIX secolo. Egli indagando sui rapporti tra psichiatria e potere, aveva riscontrato come la psichiatria si fosse affermata quale scienza asilare, volta a rassicurare il consesso sociale attuando la separazione tra i comportamenti accettati e quegli «abnormi» (168). Per poter condurre un reale avvicinamento al malato occorreva primariamente smantellare la realtà dell'istituzione, il potere del medico psichiatra sul paziente psichiatrico, riqualificare tutte le professionalità che entravano in gioco in questa realtà, creare una comunità realmente terapeutica (169). Il problema veniva spostato dalla malattia al modo di rapportarsi con il malato. La malattia che finiva per rappresentare la totalità dell'essere del malato era messa da parte, doveva essere valorizzata la storia del malato che era stata occultata dalla psichiatria tradizionale (170). La scienza psichiatrica tradizionale appariva, in una lettura goffmaniana, come la scienza che aveva costruito le giuste etichette, la giusta realtà per attuare l'esclusione di alcune categorie di persone.

Mentre Basaglia metteva in pratica un esperimento di rovesciamento della realtà istituzionale e creava la prima “comunità terapeutica” dentro un ospedale psichiatrico italiano, l'intera società italiana stava vivendo un cambiamento. Il Ministro della Sanità Mariotti nel 1965 denunciava gli ospedali psichiatrici giudiziari che paragonava a “lager germanici” (171); nel 1966 a Firenze nasceva l'Associazione per la lotta contro le malattie mentali, composta da medici, infermieri, cittadini comuni. La nascita dell'Associazione mostrava come il problema delle malattie mentali gradualmente stesse diventando un problema di interesse non solo specialistico ma politico collettivo. Del resto leggendo Basaglia il problema del malato di mente non era solo il suo problema, era il problema della classe operaia, emarginata e gestita dal potere, era il problema delle molteplici istanze correzionarie che circondavano la vita dell'uomo moderno: la scuola, la famiglia, l'ospedale (172). Una serie di esercizi di potere attraverso la violenza era tipico della società a lui contemporanea e dunque, benché l'ambito anti-istituzionale psichiatrico avesse delle dimensioni di specificità, la lotta anti-istituzionale si muoveva in un ambito più ampio.

Negli stessi anni a Milano, il gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia, costituitosi informalmente dal 1960, organizza a partire dal 1962 incontri con i più illustri psicoterapeuti e psichiatri a livello internazionale e Pier Francesco Galli propose a Feltrinelli un progetto di diffusione di testi di autori internazionali per svecchiare la cultura psichiatrica italiana. Così, nel 1961 veniva edita la collana «Biblioteca di psichiatria e psicologia clinica» di Feltrinelli Editore (173) e iniziavano a diffondersi importanti testi di autori ascrivibili a quelle correnti rifiutate nel mondo accademico degli anni '60. L'innovazione si muoveva sul fronte specialistico ove emergevano nuove teorie psichiatriche: dalla psichiatria fenomenologica, alla psicoterapia, sia sul fronte di un nuovo interesse sociale alla malattia mentale ma soprattutto al suo tradizionale approccio segregante.

La pratica psicoterapica ignorata dalla psichiatria accademica si andava diffondendo. Non tutte queste esperienze di critica si muovevano sulla medesima linea di quel movimento noto come antipsichiatrico ma tutte mostravano un interesse all'innovazione in una scienza come quella psichiatrica che in Italia era stata ancorata su posizioni conservatrici. L'esperienza di Gorizia non costituì un unicum: a Gorizia si unirono un gruppo di giovani psichiatri, attratti dalla nuova impostazione che negli anni seguenti esporteranno quel modello in altre strutture, inoltre esperienze analoghe si svilupparono in altre zone del paese (174).

Nel 1971 Basaglia intraprese una nuova esperienza, fu nominato, dal Presidente della Provincia Zanetti, direttore dell'Ospedale psichiatrico di Trieste. Tra gli scopi che Basaglia da subito si pose vi fu quello di aprire ancora di più il manicomio verso l'esterno, sia favorendo la partecipazione dei “matti” alla vita della comunità, sia agevolando l'ingresso delle persone “normali” nel manicomio e la partecipazione alle attività (175). Nel novembre 1972 metà dei matti del manicomio partecipano alla festa di quartiere, con la collaborazione di Guarino, noto vignettista, nel reparto Q è aperto un laboratorio artistico e nel 1973 si tiene la sfilata di Marco Cavallo, scultura costruita dai malati con l'aiuto dello scultore Vittorio Basaglia e dello scrittore e sceneggiatore Luciano Scabia. Nel 1973 viene riconosciuta la Cooperativa dei lavoratori uniti alla quale sono affidati i lavori all'interno del manicomio. Iniziano ad essere organizzate gite, entrano nel manicomio personaggi di cultura per concerti e spettacoli da Battiato a Moni Ovadia. Nel 1977 Zanetti e Basaglia annunciano la chiusura del manicomio. Il manicomio di Trieste viene chiuso il 21 aprile 1980 (176).

Dunque la riflessione sul potere dello psichiatra, quel potere che Foucault aveva mostrato essersi sviluppato proprio con la “liberazione” dei pazzi da parte di Tuke e Pinel, sulla funzione fittiziamente terapeutica dell'istituzione totale, che Goffman aveva mostrato produrre istituzionalizzazione e disagio, conducono Basaglia ad un progetto che è politico e radicale, di cambiamento della psichiatria in modo profondo, di cancellazione del rapporto di forza, di riconduzione dell'individuo nella società che lo aveva, con la complice follia del medico, escluso, di riappropriazione da parte dell'individuo folle del diritto alla produzione della propria verità, del diritto alla propria storia.

3. La riforma dell'assistenza psichiatrica: scissione di cura e custodia

Nel corso degli anni '60 e '70, il manicomio, istituzione totale e segregante, è al centro di dibattiti e proposte di riforma. Si fa gradualmente strada una diversa idea, un diverso approccio alla questione della salute mentale. Gli stessi anni vedono fiorire le critiche al manicomio giudiziario, alimentate sia dalle nuove idee del movimento anti-psichiatrico, sia dagli scandali che colpirono alcune delle strutture italiane nel corso degli anni '70. Si apre così un processo di riforma della normativa in materia di assistenza psichiatrica che culminerà con l'approvazione della Legge nº 180 del 1978. In questo paragrafo analizzeremo la normativa previgente e le varie tappe del percorso riformatore.

3.1. L'iter di riforma della legge sull'assistenza psichiatrica: dalla legge Mariotti alla legge Basaglia

La rivoluzione culturale condotta negli anni '60 dal movimento antipsichiatrico e più in genere la diffusione di nuovi approcci nei confronti della malattia mentale, come l'approccio psicanalitico e la pratica della psicoterapia, avevano condotto ad una nuova discussione sulla legge Giolitti che da decenni sembrava necessitare di un'ampia modifica. Se con le prime critiche alla normativa Giolitti, portate avanti dagli psichiatri fino agli anni '30 del XX secolo, si lamentava il ruolo secondario rivestito dal medico nella procedura dell'internamento e un ridotto ricorso alle strutture (177), le nuove critiche si muovevano in un diverso orizzonte culturale. Un orizzonte nient'affatto uniforme, non tutte le contestazioni alla realtà manicomiale infatti, muovevano nella medesima direzione della demolizione dell'istituzione, segnata da Basaglia, alcuni attaccavano il funzionamento delle strutture e reclamavano una maggiore attenzione alla terapia piuttosto che alla custodia ma sempre all'interno di strutture chiuse (178). Al nuovo interesse verso i manicomi avevano senz'altro contribuito anche gli scandali che da sempre hanno accompagnato la storia dei manicomi italiani, scandali che riguardavano il sovraffollamento, le pessime condizioni igieniche ma anche le pratiche, ritenute violente, che vi erano perpetrate (179).

Il primo passo per una modifica della disciplina fu la legge nota come legge Mariotti (180), n. 431 del 1968. Questa fu sicuramente influenzata dalle visite che il Ministro aveva condotto nelle strutture dove aveva rilevato una presenza medica assai carente (181). Dunque il tentativo di stabilire un primato terapeutico nell'approccio statuale alla condizione della patologia psichiatrica. Questo progetto di revisione dell'assistenza psichiatrica in senso terapeutico si muoveva sia nella direzione di una modifica di alcuni aspetti inerenti le strutture manicomiali, sia su elementi esterni.

Dal primo punto di vista si cercava di rendere più dignitose le condizioni di vita interne fissando un numero massimo di posti letto in ciascuna struttura per tentare di sopperire al sovraffollamento che rappresentava ormai una costante dei manicomi. Si stabiliva a riguardo che le strutture potessero essere costituite da un numero di divisioni compreso tra due e cinque, ciascuna con un massimo di centoventicinque posti letto (art. 1). Sempre dal punto di vista della modifica delle condizioni interne al manicomio, si determinavano le professionalità mediche e più in generale sanitarie che sarebbero dovute essere presenti in ciascuna struttura, delineando anche un rapporto tra numero di degenti e numero di personale, così da assicurare una certa assistenza (art. 2). Infine in risposta al progressivo affermarsi di una serie di figure professionali che si occupavano della salute mentale, si disponeva che entrassero nell'organico degli “ospedali psichiatrici” (182) una serie di figure nuove tra tutti: psicologi, assistenti sociali, assistenti sanitari (183). Una grande innovazione fu data dalla possibilità del ricovero volontario (art. 4). La legge n. 36 del 1904, improntata ad una tutela della società dal folle piuttosto che a quella della salute mentale del malato, non prevedeva alcuna forma di ricovero volontario. Il regolamento attuativo, di cinque anni successivo, disciplinava una possibilità residuale di ricovero su richiesta dell'ammalato. Questa era prevista dall'art. 53 che disponeva che fosse possibile per i maggiorenni, coscienti della propria alienazione parziale di mente, chiedere di essere ricoverati al direttore del manicomio, il quale poteva, solo in caso di assoluta urgenza, provvedere a ricevere queste persone e sotto la propria responsabilità. L'ipotesi era residuale, dovendosi trattare di casi di parziale infermità ed inoltre potendo essere disposta solo per situazioni di assoluta urgenza e sotto la responsabilità del direttore del manicomio e comunque, data la procedura, non poteva definirsi una vera e propria ipotesi di ricovero volontario. Il direttore infatti aveva la facoltà solo di ammettere in via provvisoria il paziente, comunicandolo entro il termine di ventiquattro ore al procuratore del Re (o della Repubblica), pena una multa. Alla ricezione provvisoria del malato faceva seguito l'ordinaria procedura di ammissione, dunque nella fase dell'ammissione provvisoria si sarebbe espletata l'osservazione, all'esito della quale sarebbe stata prodotta una relazione, comunicata al Procuratore del Re (della Repubblica) che avrebbe dato impulso al procedimento davanti all'autorità giudiziaria competente, il Tribunale civile. Si sarebbe potuta definire dunque la possibilità disciplinata dall'articolo 53 del decreto attuativo, più una procedura di ricovero su impulso del diretto interessato che una vera e propria forma di ricovero volontario.

L'art. 4 della legge n. 431 del 1968 introduceva una vera e propria facoltà di ricovero volontario, su richiesta del malato stesso, con autorizzazione del medico di guardia. Questa ipotesi di ricovero era vista con favore e vi erano connessi alcuni vantaggi per il paziente. Infatti, colui che si fosse ricoverato volontariamente, non sarebbe stato sottoposto alla disciplina relativa alle ammissioni, degenza e dimissioni dei ricoverati coattivamente. Lo stesso articolo disponeva che per i ricoverati coattivamente, al momento del licenziamento, fosse disposta la comunicazione all'autorità di pubblica sicurezza. I degenti volontari dunque potevano sottrarsi a questa disposizione. Era prevista anche la possibilità di trasformare il ricovero da coatto a volontario. Attraverso questo meccanismo sarebbe stato possibile evitare al momento del licenziamento la comunicazione all'autorità di pubblica sicurezza.

Ma aspetto più importante della nuova direzione che, con la legge Mariotti, l'assistenza sanitaria andava gradualmente ad assumere era dato da un intervento esterno alla realtà degli ospedali psichiatrici. Come abbiamo visto prima di questa riforma non era prevista alcuna modalità di assistenza sanitaria per i malati di mente che non fosse, ammesso e non concesso che si potesse parlare in questi casi di assistenza sanitaria, il ricovero in manicomio. La legge Mariotti provvide invece a individuare tre perni dell'assistenza psichiatrica: 1) I centri di igiene mentale (CIM) (184), 2) gli ospedali psichiatrici, 3) i servizi psichiatrici ospedalieri congiunti a servizi geriatrici (185). Al di là dunque dei singoli interventi di modifica dell'organizzazione degli ospedali psichiatrici, ciò che, ad avviso di chi scrive, appare più rilevante nella riforma, è la predisposizione, per la prima volta, di una vera strategia di assistenza che si articola, oltre l'ospedale psichiatrico, in centri di igiene mentale, servizi territoriali, diretti da un direttore psichiatra, con personale medico, infermieristico ed ausiliario (186). La “cura” del malato mentale poteva avvalersi di un nuovo strumento, non più il ricovero in manicomio, ma servizi territoriali destinati a svolgere una funzione di terapia e prevenzione della malattia con un tessuto capillare di servizi esterni all'asilo.

Altra modifica importante intervenuta con la riforma Mariotti fu l'abrogazione dell'art. 604 del Codice di Procedura Penale relativa all'iscrizione al casellario giudiziario dei provvedimenti di ricovero in manicomio, che provvedeva ad eliminare una grave modalità di etichettamento del malato di mente.

La Sanità italiana era in quegli anni oggetto di una riforma complessiva, di modernizzazione del sistema. La Costituzione aveva stabilito che la Repubblica dovesse tutelare il diritto fondamentale alla salute, sia in una prospettiva soggettiva di diritto del singolo, sia come interesse della collettività, provvedendo altresì ad assicurare cure agli indigenti. La sanità fino alla fine degli anni '60 era stata organizzata sul modello di enti mutualistici con forme assicurative sostenute da contributi statali (187). Nel 1968, con la legge n.132 - anch'essa conosciuta con il nome del Ministro Mariotti - il sistema fu modificato, introducendo il modello ospedaliero (188). Per prima cosa con questa riforma si dette attuazione al principio costituzionale della tutela della salute, svincolando l'assistenza sanitaria dalla volontarietà (189). Vennero istituiti gli enti ospedalieri che assumevano un carattere di autonomia e venne loro attribuita la funzione di tutela pubblica della salute di cittadini e stranieri (art. 1) (190). Con la legge n. 132, gli ospedali psichiatrici venivano inseriti tra gli enti che svolgevano assistenza ospedaliera. Questo rappresentava un altro segno di una svolta in senso sanitario dell'approccio alla questione psichiatrica.

In questo assetto, intervenne 10 anni più tardi, la legge 13 maggio 1978, n. 180 nota ai più come legge Basaglia. Questa legge è figlia di una peculiare situazione politica: il partito radicale aveva promosso un referendum abrogativo della legge n. 36 del 1904, la Corte Costituzionale lo aveva dichiarato ammissibile e nel mentre era in discussione il progetto di legge istitutivo del Servizio Sanitario Nazionale che prevedeva l'abrogazione della legge n. 36 del 1904 e l'inserimento della tutela della salute mentale nel più ampio settore della tutela della salute in genere. La celebrazione del referendum appariva pericolosa sia per i detrattori della de-istituzionalizzazione in quanto in caso di esito positivo rischiava di lasciare un vuoto normativo, sia per i fautori, in quanto il suo esito era tutt'altro che certo e una conferma dell'assetto vigente da parte della popolazione (attraverso il mancato raggiungimento del quorum o, ancora peggio, con un'espressione negativa circa l'abrogazione) avrebbe reso assai ardua politicamente l'approvazione della nuova legge (191). Gli articoli del progetto della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale relativi all'assistenza psichiatrica furono stralciati e divennero oggetto di una legge autonoma (192). Questa fu discussa e approvata in tempi molto rapidi (193).

3.2. La legge n. 180 del 1978

Il 13 Maggio 1978 veniva approvata la legge n. 180, in materia di trattamenti sanitari e obbligatori, nota ai più come la legge che ha provveduto alla chiusura dei manicomi. La procedura legislativa fu rapidissima, al fine di evitare il referendum relativo alla Legge Giolitti promosso dal partito radicale. Il 23 Dicembre dello stesso anno veniva emanata la legge che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e l'articolato della legge n. 180 del 1978 era incorporato in questa legge, la n. 833 del 1978.

Analizziamo nel merito i contenuti della Legge 180 del 1978. All'art. 1, primo comma, è sancito il principio generale della volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari. I trattamenti sanitari obbligatori sono disciplinati dalle restanti disposizioni. Questi, in ottemperanza a quanto stabilito dall'art. 32 della Costituzione, che sancisce il principio di volontarietà dei trattamenti sanitari e impone la riserva di legge per quelli obbligatori, possono essere disposti solo nei casi previsti dalla legge (194). L'art. 1 enuncia una serie di principi, innanzitutto i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) devono essere eseguiti nel rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti civili e politici. Per quanto possibile, inoltre, deve garantirsi la scelta del medico e del luogo di cura (195) e questi trattamenti si devono accompagnare con iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione del soggetto sottoposto (196). Si garantisce altresì il diritto di chi è sottoposto a TSO (197) di comunicare con chi ritenga opportuno (198).

Per quanto concerne la procedura, gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori sono disposti, su proposta motivata di un medico, dal sindaco, quale rappresentante dell'autorità locale in materia sanitaria (199).

L'art. 2 si dedica alla materia di quella tipologia particolare di TSO, rappresentata dai TSO di carattere psichiatrico. Il primo comma sancisce che possano disporsi nei confronti dei soggetti affetti da patologie psichiatriche i TSO previsti dall'articolo 1 (200). Il terzo comma definisce una particolare tipologia di trattamenti sanitari obbligatori, i trattamenti sanitari obbligatori ospedalieri (TSOO). Questa tipologia di TSO è sottoposta ad un regime più restrittivo. Dal punto di vista dei requisiti necessari per potere disporre le misure, è richiesto che: il soggetto sia in uno stato di alterazione psichica tale da richiedere interventi urgenti di carattere terapeutico, il paziente rifiuti questi interventi, non sia possibile svolgere gli stessi, o diversi interventi purché idonei, in condizioni extra-ospedaliere. Dal punto di vista della procedura, inoltre, la proposta effettuata dal medico, come previsto dall'articolo precedente per i TSO in genere, deve essere convalidata da un medico della struttura sanitaria pubblica. La procedura per disporre il TSOO è completata da ulteriori garanzie: entro 48 ore il provvedimento deve essere notificato al giudice tutelare, il quale provvede alla convalida entro le successive 48 ore, oppure non convalida il procedimento, comportando così una immediata cessazione del trattamento. Al TSOO è fissata una durata massima, questo non può protrarsi, di norma, oltre i sette giorni. Nell'ipotesi in cui al termine dei sette giorni si mostrasse ancora necessario un intervento coattivo in degenza, il medico dovrebbe fare relazione al sindaco indicando la durata prevista per il trattamento, questa relazione dovrebbe essere consegnata al giudice cautelare entro 48 ore per la convalida entro le 48 successive.

L'art. 6 contiene una disposizione di particolare rilievo, vi si stabilisce infatti che gli interventi di cura, prevenzione e trattamento delle infermità psichiche siano di norma espletati dai servizi territoriali extra-ospedalieri, dunque il ricovero ospedaliero al fine della cura della patologia psichiatrica rappresenta a tutti gli effetti una soluzione residuale, volta ad intervenire nelle sole condizioni di emergenza. L'art. 7 prosegue ponendo il divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici, inoltre l'art. 11 provvede ad abrogare la previgente legge in tema di alienati e manicomi, n. 36 del 1904. A completamento delle disposizioni appena esaminate, l'art. 11 dispone l'abrogazione delle fattispecie previste dagli articoli 714,715 e 716 del codice penale, quei delitti connessi alla sussistenza di un obbligo di custodia del malato di mente, ovvero: l'omessa o non autorizzata custodia, la custodia non autorizzata in casa privata, l'omessa denuncia di persone pericolose (201).

La riforma, come avrà modo di dichiarare Basaglia, è una riforma che nasce per essere transitoria, in attesa della legge che istituisca il Servizio sanitario Nazionale (SSN) (202). Il 23 Dicembre del 1978 è emanata la legge n. 833 che istituisce il SSN. Questa legge incorpora nel tessuto della normativa sanitaria nazionale le disposizioni sui trattamenti sanitari obbligatori.

Le leggi del 1978 sono note soprattutto per aver provveduto alla chiusura dei manicomi ma gli aspetti da sottolineare appaiono molteplici. Il dato fondamentale è quello dell'inclusione dell'assistenza psichiatrica nella materia della tutela della salute e dunque la previsione di interventi nei confronti del malato di mente, non più caratterizzati da una preminenza dell'interesse pubblico ma guidati dal generale principio della terapeuticità e ispirati alla tutela del diritto costituzionalmente garantito alla salute. In questo senso devono leggersi una serie di norme che intervengono sull'assetto previgente. Innanzitutto è testimonianza di questo spirito l'introduzione delle disposizioni sugli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori nel tessuto complessivo della riforma che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Difatti con questo passaggio il legislatore abbandona la strada del trattamento del disturbo psichico come un'istanza che attiene in primo luogo alla pubblica sicurezza, affrontandolo innanzitutto come una condizione di malattia e dunque disciplinandolo assieme alle altre norme che si occupano di regolare la tutela pubblica della salute. Anche ai trattamenti psichiatrici è esteso il principio della volontarietà, così, come è da leggersi nella medesima chiave, l'inserimento delle norme sul TSO nei confronti di malati di mente, tra quelle che in generale si rivolgono a disciplinare i TSO (203). Non solo, il diverso modo di affrontare la tematica della malattia mentale si rinviene nell'estensione del principio di volontarietà dei trattamenti e nell'abbandono, per quelli obbligatori, del requisito della pericolosità, sul quale erano incardinati gli interventi (o meglio l'intervento) sugli alienati ai sensi della legge n. 36 del 1904. La differenza rispetto al modello precedente è marcata attraverso la previsione di una procedura nel corso della quale non intervengono autorità di pubblica sicurezza (204). La cooperazione tra sindaco e medico deve intendersi come una procedura che si articola con la partecipazione di due autorità entrambe sanitarie (205). Il sindaco, infatti, partecipa alla procedura come soggetto chiamato a vigilare che l'intervento medico non sia un abuso dell'autorità e nell'effettuare questa operazione è coadiuvato, per i TSOO psichiatrici, da un altro medico che si inserisce nella procedura - il medico dell'USL - convalidando il parere del collega che ha disposto il trattamento (206). Altra innovazione fondamentale è quella relativa alla creazione di un sistema di assistenza psichiatrica che è prevalentemente incentrato sulla predisposizione di servizi di assistenza territoriale e all'interno del quale l'intervento ospedaliero rappresenta solo un'eccezione, peraltro temporanea. Infine con la legge n. 180/1978 si provvede a garantire al malato di mente i suoi diritti in una dimensione complessiva che comprende quelli sociali, civili e politici, evitando di qualificarlo come un “non uomo” (207). Altro aspetto importante è l'abrogazione di quelle norme che causavano una vera e propria stigmatizzazione del malato di mente, quali: l'iscrizione al casellario giudiziale dei provvedimenti di ricovero in ospedale psichiatrico, la cancellazione dalle liste elettorali, il meccanismo quasi automatico di interdizione.

Attraverso questa nuova disciplina, si provvedeva a gettare le basi per la costruzione di un nuovo modello di assistenza psichiatrica, un modello territoriale, in cui l'intervento coattivo sul paziente assumesse soltanto una funzione residuale, in cui il malato di mente non dovesse essere preso in considerazione per la sua pericolosità o per lo scandalo delle sue condotte, bensì per il suo bisogno di assistenza. Allo stesso tempo, mentre i manicomi civili si avviavano verso la chiusura, i manicomi giudiziari, cambiavano nome, mantenendo le strutture, la loro duplice funzione di cura e custodia, il fondamento nella pericolosità sociale.

4. Il manicomio giudiziario negli anni '70

Negli anni in cui il movimento anti-psichiatrico attaccava alla radice l'istituzione manicomiale civile e gradualmente si giungeva ad una riforma radicale della Legge Giolitti, anche l'omologo giudiziario iniziava ad essere oggetto di critiche e ripensamenti. Gli anni '70 erano anche gli anni in cui si introduceva, con la legge n. 354 del 1975, l'ordinamento penitenziario e con questo l'idea di un trattamento finalizzato alla rieducazione del detenuto e consistente in atti che siano conformi ad umanità e rispettosi della dignità della persona (208). Gli anni in cui l'ordinamento penitenziario era in discussione nelle due Camere (209) coincidono con quelli di un rinnovato interesse dell'opinione pubblica per l'istituzione del manicomio criminale, gli anni dei grandi scandali che la colpirono (210). Negli stessi anni del resto, una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 110 del 1974, interveniva introducendo il potere di revoca anticipata.

4.1. I grandi scandali: Antonietta Bernardini ed il caso Trivini

I manicomi giudiziari fino ai primi anni '70 erano stati avvolti da un lungo silenzio, sia del legislatore che della collettività; solo alcuni specialisti, giuristi e magistrati, si erano occupati della realtà del manicomio giudiziario che la gran parte dell'opinione pubblica continuava ad ignorare (211). Nei primissimi giorni del 1975 la situazione mutò a seguito dello scandalo relativo alla morte della Signora Antonietta Bernardini (212). Sui giornali apparve la notizia della morte, di una quarantenne, Antonietta Bernardini, deceduta dopo quattro giorni di agonia il 31 Dicembre del 1974 (213). La donna era stata arrestata alla Stazione di Roma Termini, dove a seguito di un diverbio per questioni relative al posto tenuto nella fila di uno sportello, aveva risposto con uno schiaffo all'intervento di un agente in borghese (214). Da Rebibbia, dove era stata inizialmente reclusa in attesa di giudizio, era stata spostata all'OPG di Pozzuoli. Proprio a Pozzuoli, nei giorni a cavallo del Natale del 1974 la donna era stata legata ad un letto di contenzione per giorni, finché il letto aveva preso fuoco, non lasciandole alcuna speranza (215). La questione aveva sconvolto l'Italia, numerosi giornali avevano riportato l'evento, ma il dibattito non si era fermato all'indignazione per un fatto di cronaca, molti quotidiani e riviste avevano dedicato articoli alla necessità di profonda riforma dell'istituzione. I toni erano diversi, alcuni auspicavano fossero adottate maggiori cautele, altri mettevano in discussione la stessa esistenza di queste istituzioni (216).

Lo scandalo Bernardini non fu il solo che in quegli anni coinvolse l'istituzione oggetto della nostra analisi, anche se fu sicuramente il caso che riscosse la maggiore risonanza mediatica. Nell'anno 1974, prima del decesso di Antonietta Bernardini, Trivini, ex-internato, aveva denunciato le pessime condizioni in cui aveva vissuto nel corso del suo internamento ad Aversa (217): le condizioni igieniche precarie, l'invalso utilizzo della contenzione come pratica quotidiana con funzione punitiva, le umiliazioni subite da lui e dagli altri pazienti da parte del personale, dal rivolgersi agli internati chiamandoli con il numero di matricola, agli spostamenti da un luogo ad un altro effettuati ricorrendo ad un bastone come per un branco di animali. Alla denuncia di Trivini, si aggiunsero, con effetto domino, quelle provenienti da altri ex-internati ed ebbe inizio la vicenda giudiziaria che si concluse con la condanna di alcune persone, tra cui il direttore dell'OPG che, a seguito di questo avvenimento, si tolse la vita. Sempre nell'anno 1974 gli scandali iniziarono a toccare anche il manicomio giudiziario di Sant'Efremo (Napoli). La questione del manicomio di Napoli assumeva delle caratteristiche assai diverse dalle precedenti, infatti la vicenda era scaturita da una serie di lettere anonime giunte alla Procura per denunciare episodi di favoritismo del personale dell'OPG nei confronti di alcuni internati che provenivano da famiglie che facevano parte della criminalità organizzata campana (218).

Il primo effetto diretto di questa serie di scandali fu la chiusura dell'OPG di Pozzuoli, dove era deceduta Antonietta Bernardini (219). Ma in quell'anno era in fase di discussione l'ordinamento penitenziario (220) ed in quello stesso anno della questione dei manicomi giudiziari era stato attenzionato anche il Governo attraverso una serie di interrogazioni parlamentari che, prendendo spunto dalla tragica morte della donna, chiedevano che si aprisse una nuova riflessione su questa istituzione (221).

A partire dagli scandali che colpirono l'istituzione del manicomio giudiziario a cavallo tra il 1974 e il 1975, i riflettori si accesero sulla questione del manicomio giudiziario. La tragedia di Pozzuoli colpì, non solo per gli aspetti umani del grave evento, ma anche perché mise a nudo alcuni aspetti inquietanti dell'istituzione, mostrò ad esempio, che era possibile finire in manicomio giudiziario ben prima di una condanna definitiva, che era possibile rimanervi per un anno pur avendo commesso un fatto di una lievissima entità (222), che era possibile essere sottoposti a contenzione per ben quattro giorni. Ma l'attenzione non fu solo quella dell'opinione pubblica, ebbe inizio una presa di posizione da parte di esponenti delle istituzioni. Nella seduta della Camera dei Deputati del 29 Ottobre 1975 un gruppo di onorevoli (223) sottoposero una serie di interrogazioni al Ministro della Giustizia sul caso in questione. Le interrogazioni erano volte non solo ad ottenere chiarimenti circa le responsabilità per la morte della donna (responsabilità del Direttore, del personale che doveva svolgere la vigilanza nel corso della contenzione, del medico che aveva autorizzato la procedura) e sulla legittimità di un internamento che si era protratto ben oltre i termini per la custodia preventiva (224), ma anche se non fosse necessario rivedere la misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario (225). Il Sottosegretario di Stato di Grazia e Giustizia Dell'Andro rispondeva che occorreva proseguire ad una politica di abolizione dei manicomi giudiziari, destinando gli infermi di mente autori di reato agli ospedali psichiatrici civili (226). Di simile avviso anche il sottosegretario alla salute Franco Foschi il quale, all'indomani della vicenda della Bernardini si esprimeva per la necessità di abolire i manicomi giudiziari (227). Nonostante l'espressione dell'intenzione da parte di vari esponenti del Governo di procedere al superamento degli OPG, non vi fu alcuna sostanziale modifica dell'assetto previgente.

4.2. La revoca anticipata: la sentenza n. 110 del 1974 della Corte Costituzionale

Prima di analizzare la riforma del manicomio giudiziario introdotta con l'ordinamento penitenziario è necessario dar conto di un'importante sentenza della Corte Costituzionale che andava a modificare la disciplina relativa alla facoltà di revocare anticipatamente la misura di sicurezza.

La misura di sicurezza, come sappiamo, ha una durata minima (228). Originariamente il codice prevedeva il potere di revoca anticipata soltanto in capo al Ministro di Grazia e Giustizia. Dunque la revoca era da ritenersi un istituto di natura assolutamente eccezionale. Su questa disciplina intervenne la Corte Costituzionale con la sentenza n. 110 del 1974 (229). Il giudizio era stato provocato da un'ordinanza del gennaio del 1972 del giudice di sorveglianza di Pisa (230) che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale sulle seguenti disposizioni:

  1. quelle relative alla disciplina del procedimento con il quale il magistrato di sorveglianza applica la misura di sicurezza (artt. 635, primo comma; 636, primo, secondo e quinto comma; 637; 638, primo, secondo e quarto comma; 639; 642; 643; 645; 646; 647 c.p.p.), in quanto avrebbero violato gli artt. 24 e 3 della Costituzione per aver previsto garanzie processali minori rispetto a quelle del procedimento penale ordinario. Ciò avrebbe prodotto una disparità tra coloro ai quali la misura di sicurezza fosse stata applicata contestualmente al procedimento penale e coloro ai quali fosse stata applicata in fase successiva.
  2. quelle che disciplinano la misura di sicurezza dell'assegnazione ad una colonia agricola oppure ad una casa lavoro (artt. 215, secondo comma, n. 1, ed ultimo comma, 216; 217; 218; 223, secondo comma; 226, primo comma, secondo periodo; 231 del codice penale) contrastanti, secondo i remittenti, con gli artt. 2, 3, 13, 24, secondo comma, 111, 27, terzo comma, e 25 della Costituzione, in quanto la colonia agricola e la casa lavoro sarebbero eseguite con le stesse modalità della pena.
  3. quella relativa alla decorrenza del periodo minimo di durata della misura di sicurezza detentiva, diversa dal ricovero in manicomio giudiziario, dal giorno in cui, a seguito della sottrazione volontaria dall'esecuzione, questa riprende (art. 214 c.p.), in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 24, secondo comma, 25, terzo comma, e 111 della Costituzione. Il contrasto sarebbe derivato dal fatto che l'automatismo con cui era allungata la durata della misura non sarebbe coerente con il fine rieducativo.
  4. quella che attribuisce il potere di revocare anticipatamente la misura di sicurezza al solo Ministro di Grazia e Giustizia (art. 207) contrastante sia con gli articoli 2, 3, 24, secondo comma, 25, terzo comma e 111 della Costituzione sia con gli artt. 102 e 110. Difatti da un lato il potere attribuito al Ministro andrebbe oltre a quelli che la Costituzione gli riconosce (art. 110). Inoltre tale potere si potrebbe configurare come funzione giudiziaria, in contrasto con l'art. 102 che vieta l'istruzione di giudici straordinari e speciali.

La Corte dichiarava infondate tutte le questioni con eccezione di quella relativa alla facoltà di revoca prevista in capo al solo Ministro.

La prima questione infatti era stata già oggetto di precedenti pronunce della Corte (sentenza n. 53 del 1968) ove erano stati dichiarati parzialmente illegittimi gli articoli 636 e 637 c.p.p. ed era stato altresì stabilito che, in attesa di modifiche legislative in materia, si estendessero a questo tipo di procedimento le norme previste per la difesa dell'istruttoria sommaria (231). Quindi gli articoli citati sarebbero stati da interpretare alla luce delle precedenti pronunce non manifestando contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione (232).

La Corte riteneva altresì infondate le questioni relative alle misure di sicurezza dell'assegnazione ad una casa di lavoro e ad una colonia agricola, difatti affermava di non potersi esprimere sulla condizione in cui di fatto erano eseguite le suddette misure, sostenendo che niente in via normativa facesse propendere per un'equivalenza tra le misure e le pene (233).

Per la questione relativa alla decorrenza, in modo automatico, dei termini di durata minima della misura di sicurezza, dal momento in cui riprende l'esecuzione a seguito di una sottrazione volontaria, la Corte ritenne infondata la questione in quanto la norma sarebbe stata da intendersi nel senso di una presunzione di persistente pericolosità sociale, connessa al comportamento del soggetto che si era sottratto all'esecuzione della misura che appariva alla Corte pienamente ragionevole e rispondente al principio dell'id quod plerumque accidit (234).

La Corte accoglieva invece le censure mosse circa il potere attribuito al Ministro di Grazia e Giustizia di revocare anticipatamente la misura di sicurezza. Infatti ritenne che la norma contrastasse con una serie di articoli della Carta costituzionale:

L'art. 13 in quanto il potere di far cessare una misura limitativa della libertà personale è attribuito dall'art. 207 esclusivamente ad un organo non giurisdizionale.

L'art. 102 in quanto con il potere di revoca il Ministro va ad interferire con lo svolgimento di funzioni giurisdizionali senza poter far rientrare questa interferenza tra i poteri affidati al Ministro di Grazia e Giustizia dall'art. 110 (235).

La Corte dunque si espresse a favore dell'illegittimità del potere di revoca anticipato attribuito in via esclusiva al Ministro di Grazia e Giustizia. Ma l'illegittimità dell'art. 207 si estese anche alla mancata previsione di un potere di revoca anticipato in capo al Magistrato di Sorveglianza. Dunque si riconobbe il potere di revoca al Giudice di Sorveglianza (236), revoca che può intervenire anche prima della decorrenza del termine minimo di durata della misura.

4.2.1. L'interpretazione del nuovo potere di revoca: il potere di modifica

A partire dal 1974, il giudice di sorveglianza si vide riconosciuto il potere di revocare anticipatamente la misura di sicurezza nelle ipotesi in cui fosse venuta meno la pericolosità sociale. Da questo potere alcuni magistrati fecero derivare quello di sostituire, prima del termine minimo di durata la misura di sicurezza del ricovero in OPG con quella non detentiva della libertà vigilata. Infatti l'art. 635 del c.p.p. del 1931 stabiliva che competessero al Magistrato di Sorveglianza l'applicazione, la modifica, la sostituzione e la revoca delle misure di sicurezza. Da questa disposizione, attraverso un interpretazione analogica in bonam partem fu fatto derivare il potere, in sede di riesame della pericolosità sociale ai sensi dell'art. 208 del c.p., di sostituire la misura di sicurezza detentiva del ricovero in OPG con altra non detentiva, la libertà vigilata (237).

Questo potere “sostitutivo” si ritenne potesse operare non solo in fase di riesame della pericolosità sociale allo scadere della durata minima della misura di sicurezza, ma anche nell'ipotesi di revoca anticipata della stessa (238).

4.3. L'introduzione dell'ordinamento penitenziario: dal manicomio giudiziario all'OPG

Nel 1975, sotto l'influsso del dibattito scaturito a seguito degli scandali, fu approvato l'ordinamento penitenziario. Cosa mutava nell'ordinamento penitenziario per quanto riguarda i manicomi giudiziari? Innanzitutto il nome, è con la legge n. 354 del 1975 che queste istituzioni abbandonano il nome di “manicomi” per acquisire quello di “ospedali psichiatrici” (239). Questo mutamento nominale ha senz'altro assunto dal punto di vista simbolico il senso di indirizzare l'istituzione in una dimensione più spiccatamente terapeutica. Sono infatti gli anni degli scandali, ma anche gli anni della protesta antipsichiatrica e l'opinione pubblica sembra aver acquistato un certo interesse verso la tematica dei malati di mente e delle istituzioni che se ne occupano ed eliminare il nome di quell'istituto che per oltre un secolo aveva rappresentato un'istituzione tutta protesa alla custodia e all'esclusione, apparve simbolicamente il segno di una svolta. Occorre capire se a parte il cambiamento di denominazione, l'ordinamento penitenziario abbia rappresentato un'apertura sanitaria dell'istituzione, oppure come sostiene Margara, si sia trattato della «violazione di una regola morale» (240), quella che imporrebbe che i nomi di una qualunque cosa venissero mutati solo quando è cambiata anche la realtà alla quale quei nomi si riferiscono.

5. Gli effetti delle riforme sugli OPG

Come abbiamo avuto modo di vedere, nel secondo dopoguerra, molti giuristi si sono interrogati su alcuni nodi critici della normativa in materia di misure di sicurezza e complessivamente sulla legittimità delle stesse nell'ordinamento penale italiano (241). Progressivamente, il manicomio giudiziario venne legittimato in virtù della sua funzione terapeutica. Ma la sua duplice natura di strumento al contempo di cura e custodia fece emergere una serie di contraddizioni. Negli anni in cui il modello manicomiale era messo radicalmente in discussione, si iniziavano a riscontrare le problematiche di una struttura, l'ospedale psichiatrico giudiziario, votata alla cura e allo stesso tempo alla custodia del malato di mente autore di reato, ancora etichettato come soggetto socialmente pericoloso (242).

L'importante innovazione in materia di assistenza psichiatrica, rappresentata dalla Legge Basaglia non aveva inciso direttamente sugli ospedali psichiatrici giudiziari, infatti nessun articolo della normativa sui TSO, si occupava espressamente di queste istituzioni. Si poneva dunque il problema della permanenza di un'istituzione manicomiale, di un trattamento per il malato di mente autore di reato così distante da quello riservato al malato di mente comune.

Nel frattempo, nel 1975, era stato introdotto l'ordinamento penitenziario, con cui il manicomio giudiziario aveva mutato denominazione. Questo cambiamento suggeriva l'iscrizione dell'istituzione in nuovo orizzonte, un orizzonte terapeutico. Ma analizzando l'ordinamento penitenziario, che regolava la vita dell'internato nella struttura con norme relative al lavoro, ai colloqui con familiari e terze persone, alla disciplina, il nuovo ospedale psichiatrico giudiziario sembrava confermare il suo carattere penitenziario, la sua vicinanza alla pena.

5.1. Gli effetti dell'introduzione dell'ordinamento penitenziario

In questo paragrafo ci interrogheremo sugli effetti dell'introduzione dell'ordinamento penitenziario, cercando di capire se e in che misura la riforma abbia contribuito ad una sostanziale modifica del regime cui sono sottoposti gli internati, operando un confronto con il regime penitenziario tout court. Prima di addentrarci in questa analisi, ci soffermeremo sul settore dell'esecuzione penale esterna e in particolare sull'estensione delle misure alternative alla detenzione ai sottoposti a misura di sicurezza. L'ordinamento penitenziario infatti, sostituendosi al precedente regolamento delle carceri, ha voluto dare attuazione al principio costituzionale della tendenza della pena alla rieducazione, finalizzando il trattamento a tale funzione (243), ma anche predisponendo un meccanismo premiale che, attraverso il ricorso a misure alternative alla detenzione e benefici, consentisse di valutare le progressioni e regressioni nel processo rieducativo. Rispetto al regime penitenziario previgente autoritario e disciplinare, la nuova normativa era tesa ad affermare alcuni diritti dei detenuti, a mitigare le discipline, anche attraverso la previsione di un trattamento individualizzato e la predisposizione di misure alternative alla detenzione.

5.1.1. Misure alternative e benefici: l'esclusione degli internati

Le misure alternative alla detenzione si distinguono in misure alternative in senso proprio - affidamento in prova e liberazione condizionale - e in modalità diversificate di esecuzione della pena detentiva - semilibertà e detenzione domiciliare (244) - di cui quest'ultima fu aggiunta solo con la riforma dell'ordinamento penitenziario del 1986.

Partiamo dall'analisi dell'affidamento in prova al servizio sociale. L'affidamento è una misura alternativa che può applicarsi, intervenuta un'osservazione della personalità del detenuto per un periodo non inferiore ad un mese, in presenza dei seguenti presupposti: pena non superiore ai 3 anni di reclusione ed idoneità della misura ad evitare la recidiva, valutata sulla scorta di elementi come il reato commesso o la condotta carceraria (245). Per quanto attiene il contenuto della misura il Tribunale di Sorveglianza è chiamato a determinare le prescrizioni più idonee ad evitare il rischio di recidiva. L'esito positivo al termine della misura ha come importante conseguenza quella di estinguere la pena e gli effetti penali. Per l'internato non è prevista la possibilità di accedervi. Questa limitazione costituisce un grave nocumento, in particolare se la associamo alla disciplina della durata minima e alla presunzione di pericolosità vigente fino alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 139 del 1982 (246). Infatti il soggetto che avesse commesso un fatto-reato in uno stato di alterazione psichica, tale da escluderne la capacità di intendere e di volere, si sarebbe trovato a scontare con un meccanismo automatico l'internamento per almeno un quantum di tempo, non potendo peraltro accedere a questa tipologia di misura. In un'ottica di reinserimento sociale e di intervento terapeutico, questa misura appariva invece particolarmente compatibile con la condizione dell'internato, specie se si fosse inteso far realmente prevalere l'aspetto terapeutico su quello custodiale. Infatti questa misura avrebbe consentito di mantenere il soggetto in libertà, nel suo contesto sociale, anziché sradicarlo e trasferirlo con tutta probabilità in luoghi molto distanti dal suo contesto territoriale (247). Il tribunale di sorveglianza avrebbe potuto predisporre delle prescrizioni al fine di far intraprendere al soggetto un percorso terapeutico con il sostegno dei servizi di assistenza territoriale, sia psichiatrica che sociale. Con il ricorso a questo tipo di misura, che si svolge in stato di libertà ma al contempo prevede la possibilità da parte del tribunale di sorveglianza di adottare quelle prescrizioni che ritenga più idonee ad evitare la commissione di ulteriori reati, si sarebbe potuto effettuare un ravvicinamento tra l'assistenza psichiatrica predisposta per il malato di mente comune, specie a seguito della L. 180 del 1978, e quella per il malato di mente reo, in particolare per quei soggetti per cui il magistrato si sarebbe potuto esprimere nel senso di una ridotta pericolosità sociale. Inoltre si sarebbe potuto evitare l'impatto dell'istituzione totale, con i suoi effetti di disculturazione e di istituzionalizzazione sull'internato. Non si ritiene peraltro che il requisito richiesto per l'affidamento in prova dell'idoneità della misura alla rieducazione e alla prevenzione dalla recidiva sia contrastante con la pericolosità sociale del soggetto. In questo stesso senso, peraltro, si è espressa una giurisprudenza che, in materia di compatibilità dell'affidamento con le misure di prevenzione, ha interpretato il requisito richiesto dal comma 2 dell'art. 47 ord. pen. nel senso di un apprezzamento dell'idoneità delle prescrizioni prescelte per l'affidamento in prova a prevenire il pericolo non contrastanti con una valutazione complessiva in termini di pericolosità del soggetto (248).

Per quanto concerne la liberazione condizionale, questa era già prevista dal Codice penale (art. 176). Può essere concessa al detenuto che abbia dato prova di ravvedimento, dopo aver espiato almeno una parte della pena (249). Il soggetto ammesso alla liberazione condizionale è sottoposto al regime previsto per la libertà vigilata. Trascorso il tempo del residuo di pena (250), senza che sia intervenuta una causa di revoca, la pena si estingue. La misura può essere revocata in caso di trasgressione degli obblighi o commissione di delitti della stessa indole di quello per cui il soggetto era stato condannato e stava espiando la pena. Anche questa è esclusa per gli internati.

La semilibertà non è una vera e propria misura alternativa alla detenzione, si tratta piuttosto di una diversa modalità esecutiva della pena, o della misura di sicurezza. Al detenuto o all'internato è concesso di trascorrere una parte della giornata fuori per svolgere attività utili al suo reinserimento sociale, siano esse istruttive o lavorative (251). Come si sarà potuto notare dal riferimento alle due categorie questa rappresenta l'eccezione alla mancata estensione delle misure alternative agli internati. I requisiti per l'ammissione sono: 1. per il condannato pena residua inferiore ad un quantum oppure aver scontato una determina percentuale della pena. Questo requisito non è applicato nei confronti dell'internato che può accedervi in qualunque momento; 2. progressi compiuti nel trattamento, tali da consentire di ritenere che sussistano le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società.

A queste iniziali misure alternative la legge Gozzini del 1986 (252) aggiunse la detenzione domiciliare. I requisiti per accedervi sono la compresenza di un quantum di pena residua e di alcune condizioni personali (madre di prole di età inferiore di anni 10, padre qualora la madre sia deceduta o non in grado di assistere la prole, età superiore ai 70 anni ed inabilità, età inferiore ai 21 per esigenze di studio, lavoro, famiglia). Il condannato ammesso a questo regime espia la pena nella propria abitazione. A questa detenzione domiciliare ne furono aggiunte altre da leggi successive: una che non prevedeva i requisiti della condizione personale ma solo un quantum di pena residua e l'idoneità ad impedire la recidiva (253), una per le ipotesi del rinvio obbligatorio o facoltativo (art. 146 e 147 c.p.) (254). Nessuna di queste misure è applicabile agli internati. Gli internati possono fruire soltanto della semilibertà e delle misure alternative inserite con la legge n. 231 del 12 Luglio 1999 rivolte ai soggetti affetti da AIDS o grave immunodeficienza conclamata.

Passando dalle misure alternative ai benefici, l'ordinamento prevede: permessi premio, permessi per necessità e lavoro all'esterno (255). I permessi per necessità possono essere concessi sia agli imputati che ai condannati che agli internati. I requisiti sono rappresentati per l'appunto da situazioni di necessità: l'imminente pericolo di vita di familiare o convivente ed eventi familiari di particolare gravità. I permessi premio furono introdotti con la legge Gozzini del 1986, inserendo a pieno il permesso nella logica della rieducazione, infatti sono concessi al fine di coltivare interessi lavorativi, familiari e culturali ai detenuti che abbiano espiato almeno un quantum di pena dimostrando regolare condotta. Questa previsione non si estende agli internati. Per gli internati sono però previste le licenze, in particolare l'internato può fruire di una licenza di una durata massima di sei mesi nel periodo prossimo alla rivalutazione della pericolosità sociale, nonché di una licenza all'anno della durata di 30 giorni massimo, se sottoposto al regime della semi-libertà. Peraltro, la durata massima delle licenze per gli internati semiliberi è inferiore a quanto previsto in favore dei detenuti semiliberi, che possono fruire di licenze fino ad un massimo di 45 giorni. L'istituto delle licenze, come avremo modo di osservare, appare di notevole importanza, consente infatti al magistrato di sorveglianza di considerare la pericolosità sociale dell'individuo all'esito dell'osservazione dello stesso in uno stato che non è la condizione dell'istituzione chiusa e non è neppure la libertà tout court - il regime è quello della libertà vigilata - e dunque, forse di ridurre la prassi della conferma della valutazione della pericolosità sociale per mancanza di un'efficace programma terapeutico all'esterno (256).

Anche gli internati, infine, possono essere ammessi al lavoro all'esterno, così come previsto dall'art. 21 dell'ordinamento penitenziario. Il lavoro all'esterno è una diversa modalità di esecuzione della pena, che consente di trascorrere una parte della giornata fuori dal penitenziario per svolgere un'attività lavorativa (257).

5.1.2. Il trattamento penitenziario

Ci sembra opportuno a questo punto addentrarci nella tematica del regime cui è sottoposto l'internato in OPG. Occorre innanzitutto chiarire cosa s'intenda per trattamento (258). Con questo termine si può fare riferimento, in generale, all'insieme di norme che regolano l'esecuzione della pena detentiva (259). Ma questa accezione del trattamento penitenziario ci appare incompleta. Innanzitutto il trattamento, come insieme di norme che disciplinano le modalità di gestione degli istituti penitenziari - dai diritti riconosciuti ai detenuti, gli oneri dell'Amministrazione e al regime di vita interno - non è rivolto ai soli detenuti che scontano una pena, dunque condannati in via definitiva, bensì anche ai soggetti che si trovano detenuti in esecuzione di un provvedimento cautelare e ai sottoposti a misura di sicurezza, benché per queste due categorie sussistano delle norme ad hoc (260). Inoltre il concetto di trattamento non coincide con quello di regolamento od ordinamento penitenziario, in quanto il concetto di trattamento assume una dimensione finalistica, che nel caso del trattamento penitenziario, delineato dal nuovo ordinamento, è quella indicata dall'art. 27, comma 3 della Costituzione, la tendenza alla rieducazione (261). Per quanto concerne gli internati, ricordiamo che la misura di sicurezza trova posto in un sistema dualistico che vuole la pena rispondente ad una funzione retributiva - e tendente alla rieducazione - e la misura di sicurezza ad una diversa funzione, special-preventiva di difesa sociale, nonché terapeutica. Abbiamo avuto più volte modo di soffermarci su come questa misura finisca per essere differenziata dalla prima solo in via di principio rendendo realistica la critica della “truffa delle etichette”. Se da questo punto di vista rilevano una molteplicità di fattori, dalla similitudine delle architetture, alla presenza in entrambe di personale penitenziario, ciò su cui vorremo in questo momento concentrarci è propriamente l'aspetto trattamentale previsto per i detenuti e per gli internati per mettere in rilievo la sussistenza, ammesso che vi sia, di significative differenze tra le due istituzioni.

Ci interrogheremo, partendo dall'analisi del regime cui sono sottoposti gli internati e dal confronto con quello riservato ai detenuti, sulla natura dell'istituzione OPG, sulla sua pretesa funzione terapeutica, sull'afflittività del trattamento riservato al non imputabile.

5.1.2.1. Il trattamento penitenziario: il regime «duro» per gli internati

Le norme relative al regime cui sono sottoposti gli internati dovrebbero essere differenziate da quelle previste per i detenuti, essere tali da consentire di escludere l'afflittività del trattamento, coerenti con il fine terapeutico ritenuto elemento intrinseco nella misura di sicurezza. Sia l'ordinamento penitenziario del 1975 che il regolamento del 1976 non stabilivano molto circa il trattamento specifico riservato agli internati. Come faceva notare Padovani, questo aspetto sarebbe potuto essere letto nella chiave positiva di un intervento che, senza essere rinchiuso nelle strette maglie di una disciplina dettagliata, mostrasse quei caratteri di elasticità tali da rendere nel concreto il trattamento più adatto possibile alle esigenze individuali (262). Del resto in questo senso appariva importante che l'ordinamento penitenziario prevedesse il trattamento individualizzato (263). Questo infatti, avrebbe potuto garantire maggiormente una finalità rieducativo-terapeutica e accostato ad una disciplina maggiormente flessibile, la predisposizione di un intervento nel complesso migliore. Lo stesso Autore però dopo questo discorso - svolto in linea di principio - si rivela scettico, stanti gli aspetti «inquietanti» della normativa (264). In via generale ai detenuti e agli internati si applicava il medesimo regime detentivo, norme apposite per gli internati erano previste nelle seguenti materie: il lavoro, la corrispondenza ed i colloqui e le sanzioni disciplinari.

Per quanto concerne il lavoro gli internati - in continuità con quanto già era previsto dal regolamento delle carceri del 1931 - ai sensi del Regolamento penitenziario, nella sua prima versione del 1976, potevano esservi assegnati soltanto per finalità terapeutiche (265). L'internato lavorante sarebbe stato ricompensato con un sussidio nella misura stabilita dal Decreto Ministeriale (266). La norma inseriva il lavoro degli internati in OPG nell'antica logica della ergoterapia, quella logica che vedeva il lavoro del malato di mente in chiave terapeutica e faceva conseguire da questo modello una retribuzione inadeguata in forma di piccole ricompense o di piccoli favori (267). La logica ergoterapica, al di là delle finalità positive che si ponevano i fautori, presenta dei caratteri tali da sottrarre dignità al malato, che in quel momento prima che malato dovrebbe essere considerato un lavoratore. Agli internati erano spesso affidate mansioni di nessuna responsabilità, prive di una funzione produttiva, mansioni de-qualificate per cui veniva corrisposta una paga inferiore all'equivalente per il lavoro esterno (stabilita dai decreti ministeriali) (268). Questa logica, tipica anche delle istituzioni manicomiali era stata oggetto di aspre critiche da parte del movimento della psichiatria anti-istituzionale, risultava una logica paternalistica senza alcuna reale finalità terapeutica.

La disposizione in materia di lavoro è stata successivamente modificata dal Regolamento penitenziario del 2000, il quale all'art. 20, 4º comma, stabilisce che, i detenuti e gli internati che, a detta del sanitario, siano risultati in grado di svolgere un lavoro produttivo sono ammessi al lavoro e godono dei diritti relativi. Questa nuova formulazione pare aver apportato un'importante modifica al modello previgente, infatti si stabilisce che colui che risulti in grado di lavorare vi sia ammesso, con i diritti che conseguono. Il lavoro si può ritenere costituisca un elemento dell'intervento di risocializzazione, che l'ordinamento è chiamato a svolgere anche nei confronti dell'internato.

Per comprendere bene la disciplina della corrispondenza occorre confrontarla con quella prevista per i detenuti. Per questi ultimi la corrispondenza può essere sottoposta a visto di controllo o a controllo del contenuto delle buste senza lettura, con decreto motivato della stessa autorità che, ai sensi dell'art. 18 dell'ordinamento penitenziario, è competente ad autorizzare i colloqui (269), su proposta del P.M. o del Direttore dell'istituto. Queste misure possono essere adottate per rispondere ad esigenze investigative, preventive o di sicurezza dell'istituto ai sensi dell'art. 18 ter dell'Ordinamento penitenziario. A ciò, il Regolamento attuativo del 1976, all'art. 20 aggiungeva una disposizione specifica per gli internati, secondo la quale: la corrispondenza degli internati poteva essere sottoposta al visto controllo per esigenze terapeutiche. Dunque la funzione terapeutica poteva, come spesso nella storia delle istituzioni psichiatriche, essere utilizzata come giustificazione per la riduzione di prerogative e diritti. Delle stesse esigenze si poteva tener conto per autorizzare i colloqui e in senso restrittivo, andare a limitare il numero di colloqui mensili, consentiti in numero equivalente a detenuti ed internati.

Per quanto riguarda, la corrispondenza, nel regolamento del 2000 rimane in vita la vecchia previsione della possibilità del visto di controllo, per esigenze terapeutiche valutate dal sanitario, più esteso rispetto ai casi previsti dall'art. 18 dell'ordinamento penitenziario.

La norma relativa ai colloqui è stata modificata con il nuovo regolamento del 2000 che dispone che: nei confronti di infermi di mente, siano essi detenuti oppure internati, debbano essere attuati interventi tesi a favorire la partecipazione ad attività trattamentali, soprattutto quelle che consentano di mantenere le relazioni familiari e sociali. Il regolamento specifica che in tal senso sono possibili autorizzazioni a colloqui oltre il limite massimo, previsto dall'art. 37 a livello generale. Il nuovo regolamento designa una disciplina di maggior favore nei confronti degli internati che possono accedere, in deroga alle norme previste in generale a colloqui aggiuntivi con finalità terapeutiche.

In materia di colloqui è utile comparare la disciplina appena analizzata con quella prevista per i trattamenti sanitari obbligatori. Se è pur vero che non appare possibile assimilare in toto la normativa prevista per i TSO con la normativa in materia di misure di sicurezza, date le diverse finalità alle quali i due istituti rispondono - uno assistenza sanitaria per il soggetto che rifiuta le terapie, l'altra difesa sociale seppur nella duplice declinazione della cura e della custodia - nell'ottica di un superamento di questa natura dialettica dell'istituzione e di una progressiva sanitarizzazione della misura, fare un parallelo tra le disposizioni non appare del tutto infondato. In materia di TSO si prevede che sia consentito al paziente effettuare colloqui con chiunque desideri. La normativa in questo caso è molto distante e questa differenziazione non è, ad avviso di chi scrive, giustificata data la profonda distinzione che dovrebbe sussistere tra trattamento penitenziario e trattamento in OPG. La possibilità di derogare ai limiti ordinariamente previsti per i colloqui, sancita dall'art. 20 del nuovo regolamento rappresenta un segnale positivo ma non sicuramente un mutamento sufficiente. Il trattamento del sottoposto a misura di sicurezza dovrebbe avvicinarsi più al trattamento in TSO che a quello penitenziario, in particolare in materia di colloqui. Il contatto con l'esterno, infatti rappresenta un'importante aspetto di un percorso rieducativo e soprattutto consente di limitare l'impatto delle patologie connesse al disagio provocato dalle istituzioni chiuse e di diminuire la portata afflittiva della misura.

In materia di sanzioni disciplinari l'ordinamento penitenziario ed il regolamento prevedevano vi si potesse far ricorso, nei confronti degli internati qualora fosse attestata la capacità di comprendere il nesso tra lecito ed illecito ed il valore della punizione. Questa previsione risultava contraddittoria, in quanto lo stesso soggetto, in fase processuale ritenuto incapace di comprendere il monito del diritto penale, nella fase dell'esecuzione penitenziaria poteva essere sottoposto a punizione ove in grado di cogliere il significato del lecito e dell'illecito (270).

In materia di sanzioni disciplinari il regolamento del 2000 non ha apportato modifiche, si continua a prevedere che le sanzioni nei confronti degli internati siano applicate in presenza di una capacità naturale a comprendere il nesso finalistico colpa-pena. L'inflizione delle punizioni disciplinari non è sottoposta ad un vaglio da parte del personale medico e dunque è applicata anche se contrastante con le esigenze attinenti alla terapia. In questo come negli altri esempi si riscontra chiaramente un dato comune: non vi è l'ideazione di appositi istituti in un disegno di un trattamento specifico, il regolamento si limita ad adattare con alcune peculiarità gli istituti pensati ed elaborati per la realtà carceraria (271). In generale, come si è avuto modo di mostrare, sia analizzando la disciplina relativa alle misure alternative, che quella inerente il trattamento, dove vi sono peculiarità e differenze tra il regime destinato ai detenuti e quello riservato agli internati, queste sono sempre, o quasi, differenze a sfavore dell'internato che finisce per essere sottoposto ad un regime più restrittivo, grazie ad un utilizzo della funzione terapeutica in chiave di giustificazione di una inferiore titolarità di benefici e diritti, venendosi così a configurare quella «pena peggiore dell'ordinaria» di cui parlava già Manzini (272).

5.1.3. La contenzione

In questo paragrafo vogliamo trattare della contenzione. Il ricorso alla contenzione non riguarda esclusivamente gli OPG, infatti questa pratica è tuttora in uso anche nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) (273). Ci sembra comunque opportuno, in questa sede in cui analizziamo il trattamento degli internati anche nella prospettiva di alcune considerazioni circa la qualità terapeutica dello stesso, aprire una parentesi su questa pratica, poco regolata, poco nota, poco documentata, ma ancora presente.

Cosa intendiamo quando parliamo di contenzione? Con contenzione si fa riferimento a quell'insieme di pratiche e strumenti finalizzati ad impedire il movimento del malato (274), si tratti di un malato psichiatrico oppure di un paziente geriatrico. La letteratura in materia distingue tra quattro tipologie (275): la contenzione fisica, eseguita attraverso il ricorso a strumenti quali cinghie o cinture e volta a limitare i movimenti volontari del sottoposto, quella chimica, consistente nella somministrazione di farmaci che modificano il comportamento (276), quella ambientale che si ottiene attraverso il cambiamento dell'ambiente circostante (277) e infine quella relazionale, che mira alla riduzione di aggressività del paziente attraverso il ricorso a tecniche psicologiche e relazionali (278). Per quanto concerne la contenzione fisica, si può distinguere la contenzione fisica in sé e per sé, ottenuta immobilizzando il paziente senza il ricorso a particolari strumenti e la contenzione meccanica che prevede il ricorso a cinghie, letti di contenzione e camicie di forza (279).

In questo contesto ci limiteremo ad affrontare la tematica degli interventi di coercizione fisica, con particolare riferimento a quelli meccanici con l'utilizzo dei letti di contenzione, letti dotati di cinture da applicare ai polsi e alle caviglie del paziente. Questa scelta è motivata in primo luogo dal fatto che la contenzione meccanica rappresenti, senza ombra di dubbio, la pratica di maggiore violenza, nonché l'unica che trova, nell'ordinamento penitenziario una sua regolamentazione. Le forme di coercizione relazionale ed ambientale, volte a tranquillizzare il paziente che si trovi in uno stato di grande agitazione, sono di contro ritenute delle possibili alternative alla risposta fisica all'agitazione dell'internato.

Il ricorso alla contenzione fisica era già criticato nel corso del XIX secolo da alcune correnti psichiatriche, come ad esempio la teoria del no restraint di Connolly (280). Il ricorso a questi strumenti è oggi spesso considerato superato, dal che purtroppo consegue che sia oggetto di scarsa attenzione da parte di studiosi ed esperti (281). La contenzione è una pratica che per molto tempo della storia psichiatrica italiana, fino ai primi decenni del XX secolo (282), è stata considerata come normale e persino imprescindibile. Dal punto di vista normativo la coercizione fisica era già disciplinata dal regolamento attuativo della legge sui manicomi e gli alienati del 1909, che al comma 4 dell'art. 34 disponeva che non fosse possibile ricorrervi salvo in casi eccezionali e sempre con il permesso scritto di un medico. Già il regolamento attuativo del 1909 si limitava il ricorso alla coercizione ad ipotesi eccezionali e solo previa autorizzazione medica, vietando peraltro l'esecuzione di queste pratiche nelle case di cura private. La regolamentazione non fu comunque sufficiente ad impedire nella prassi un uso imponente dei mezzi di coercizione (283). Il regolamento del 1909 richiedeva fosse tenuto un registro ove annotare giornalmente i malati coerciti. La contenzione non era utilizzata soltanto all'interno dei manicomi e la sua disciplina era fissata anche all'interno del Regolamento delle carceri, R.D. n. 787 del 1931 che, all'art. 158, disponeva che si potesse ricorrere all'utilizzo di cinture di sicurezza solo nei casi di assoluta necessità per impedire che i detenuti producessero danno a se o agli altri e soltanto in via subordinata, qualora non avessero prodotto effetti mezzi morali (284). La competenza a disporre la coercizione era del direttore, il quale doveva ottenere il parere del medico. Ma esisteva anche una procedura d'urgenza con applicazione da parte del comandante o del capoguardia con avviso immediato al direttore (285). Il detenuto cui era applicata la misura doveva essere controllato una volta al giorno dal medico e doveva tenersi un registro giornaliero dove annotare il ricorso a tali misure (286). La materia è stata riformata dall'ordinamento penitenziario - legge n.354 del 1975 - che provvede a disciplinarlo all'art. 42, ove si regolamenta l'utilizzo della forza fisica. Il primo comma dispone che l'uso della forza, indifferentemente nei confronti di detenuti o internati, non sia ammesso se non indispensabile per prevenire o impedire la violenza o vincere la resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti (287). Ivi si stabilisce che il personale che vi abbia fatto ricorso sia tenuto a riferire al direttore il quale deve disporre gli accertamenti sanitari necessari e procedere alle indagini richieste dal caso. Si rinvia al regolamento la definizione dei mezzi di coercizione fisica utilizzabili e si limita il ricorso ai soli che vi siano disciplinati (288). Il ricorso a tali strumenti è limitato per quanto concerne le finalità, non vi si può ricorrere come mezzo disciplinare ma solo come tecnica volta a garantire l'incolumità del soggetto, quella altrui od eventuali danni alle cose (289). L'utilizzo è sottoposto a limiti temporali, benché non si tratti di limiti precisi predeterminati, bensì del tempo definito “strettamente necessario” (290). Colui che è sottoposto alla coercizione deve essere costantemente sotto controllo medico (291).

Le disposizioni dell'ordinamento penitenziario, paradossalmente, sono persino meno garantiste delle precedenti previsioni dei rispettivi regolamenti delle carceri e dei manicomi, difatti la contenzione può essere attuata solo quando risulti indispensabile, ma come sappiamo questa previsione non ha impedito, nemmeno con la vigenza dei precedenti regolamenti, la prassi di un ricorso diffuso. I mezzi di coercizione fisica possono essere solo quelli previsti dal regolamento che su questo aspetto è altamente laconico, disponendo che i mezzi siano quelli impiegati nelle strutture sanitarie pubbliche per le medesime finalità (292). La coercizione fisica si sottolinea non possa essere utilizzata a fini disciplinari, anche se questa norma non risulta sempre essere rispettata e soprattutto sappiamo come negli OPG spesso la funzione terapeutica abbia coperto finalità disciplinari. Un elemento gravissimo è rappresentato dall'assenza di un obbligo di registrare gli interventi coercitivi e soprattutto la loro durata, il che comporta l'impossibilità di conoscere e vigilare sui tempi medi di durata dello stato di contenzione (293). La contenzione in effetti ha un limite temporale ma si tratta di un limite elastico interpretabile nei modi più svariati. A dimostrazione dell'interpretazione variabile del limite, possiamo riportare la risposta del Ministro della Sanità Livia Turco ad un'interrogazione parlamentare proveniente dal deputato Francesco Caruso, in merito ad una coercizione prolungata per dodici giorni a danno dell'internato Marco Orsini. Il Ministro risponde che la contenzione è stata disposta nel rispetto delle normative, in quanto si trattava di un soggetto a forte rischio suicidiario, per il quale dunque si rivelava necessario l'intervento medico (294). Se il Ministro si esprime, affermando la totale regolarità dell'intervento, evidentemente ritiene che dodici giorni rappresentino un tempo “strettamente necessario” di contenzione. Il limite temporale di per sé è suscettibile di interpretazioni alquanto variabili, ma anche se così non fosse, la totale assenza di un registro impedisce un proficuo controllo sul ricorso alla contenzione e sulla sua durata, con l'effetto di racconti decisamente allarmanti di contenzioni che si protraggono per un tempo decisamente notevole. Entrando nello specifico della contenzione negli OPG, i sei OPG italiani non hanno un protocollo operativo unico concernente la coercizione e data la mancanza di registri in cui sia annotata la durata delle pratiche, risulta impossibile conoscerne le tempistiche (295).

La pratica della contenzione è purtroppo ancora diffusa e non si tratta di un problema esclusivo degli OPG, essendo perpetrata anche nel corso dei TSO e all'interno degli SPDC. E' una pratica di estrema violenza, che mina il diritto fondamentale dell'individuo alla libertà personale, nel suo nucleo essenziale della libertà del proprio corpo, di muoversi, diritto che deve essere garantito anche ai soggetti privati della libertà personale, seppure con limiti dovuti al fatto che si tratta di un'istituzione chiusa (296). La contenzione è una pratica rischiosa, dal punto di vista sanitario, alla quale possono conseguire patologie, quali trombosi, ischemie o asfissia e talvolta può condurre alla morte, come nel caso di Francesco Mastrogiovanni deceduto nell'agosto 2009 dopo 90 ore di contenzione nel corso di un TSO (297).

In merito al ricorso a questi strumenti si è espressa la Commissione sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale della XVI legislatura, che a seguito della visita agli OPG italiani nel 2011, osserva:

Se, da un punto di vista giuridico, la coercizione o contenzione fisica in psichiatria viene da taluni giustificata da una rigorosa interpretazione dello stato di necessità (articolo 54 del codice penale), le modalità di attuazione osservate negli OPG lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi psicofarmacologici di uso improprio rispetto alla finalità terapeutica degli stessi e alle norme AIFA di sicurezza d'uso (298).

La commissione rileva una serie di aspetti critici, se infatti la contenzione non è una pratica esclusiva degli OPG e trova ancora una giustificazione da parte degli psichiatri, come strumento di risoluzione di situazioni difficili, negli OPG italiani si riscontrano pratiche inadeguate, sia in relazione alla contenzione meccanica che a quella farmacologica.

Oltre, la commissione rileva che la contenzione non è di per sé giustificata dal fatto che il soggetto sia sottoposto a misura di sicurezza o TSO, dovendo sussistere altre specifiche ragioni, anche la necessità di impedire atti di carattere violento auto o etero diretto non è di per sé giustificatrice della pratica, difatti la Commissione ritiene necessario porre in atto interventi di carattere preventivo al fine di evitare il ricorso a tali strumenti, che debbono costituire extrema ratio e non una forma di «scorciatoia gestionale». (299) In presenza di situazioni in cui si manifesti un acuzie che comporta la necessità di ricorrervi, gli OPG devono essere attrezzati attraverso standard strutturali e di personale (300).

Quanto osservato dalla Commissione d'inchiesta, era già stato rilevato nell'OPG di Aversa dalla delegazione del European Committee for Prevention of Torture and Inhumane or Degrading Treatment or Punishment (CPT) del Consiglio d'Europa, durante la visita del settembre 2008. In particolare la delegazione aveva riscontrato che la contenzione meccanica, praticata nell'OPG di Aversa attraverso il ricorso a letti di contenzione, si protraeva per periodi molti lunghi (anche 9-10 giorni), nel corso dei quali il sottoposto a contenzione non era mai slegato, neanche nell'ora del pranzo e non veniva mai lavato. Il controllo da parte del personale sanitario delle condizioni di salute nel corso della contenzione era sporadico (due-tre visite al giorno da parte dell'infermiera, una al giorno al massimo da parte del medico). Inoltre il sottoposto restava per l'intero periodo in una condizione di assoluto isolamento. Da questi rilievi, nonché da quelli relativi alle condizioni materiali della stanza dove era eseguito il trattamento, il CPT non esitava a giungere alla conclusione che la contenzione praticata ad Aversa fosse un trattamento inumano e degradante (301).

L'utilizzo della contenzione meccanica risulta ancora piuttosto diffuso, sia negli OPG che negli SPDC, è scarsamente e laconicamente regolato benché si tratti di un intervento lesivo della dignità umana e con possibili gravi conseguenze sulle condizioni di salute del paziente sottoposto.

5.2. Le categorie giuridiche degli internati dopo la riforma del 1975

L'istituzione ospedale psichiatrico giudiziario manifestava chiaramente tutti i limiti di un'istituzione totale, patogena e de-socializzante. Le sue qualità a metà tra il manicomio e la prigione producevano gli effetti di un'istituzione che appariva peggiore delle due “cugine”. Il divario tra l'assistenza psichiatrica per i soggetti che avessero commesso un reato e per i malati di mente comuni cresceva con la riforma del 1978, smascherando la funzione meramente custodiale dell'OPG e ponendo dubbi sulla legittimità di un intervento così differenziato tra malati di mente autori di reato e non.

Come abbiamo appena visto, a seguito dell'introduzione dell'ordinamento penitenziario, il trattamento rimaneva troppo simile a quello riservato ai detenuti, e nelle ipotesi in cui si riscontravano delle differenze consistenti, queste erano a sfavore dell'internato.

La difficoltà nell'attuare un trattamento realmente terapeutico era accentuata dalla presenza di categorie disomogenee di internati, come abbiamo avuto modo di anticipare, in OPG non si trovavano solo i sottoposti a misure di sicurezza, ma anche altre categorie di soggetti. Vediamo quali erano le categorie giuridiche che si venivano a trovare negli OPG.

  1. Sottoposti alla misura di sicurezza dell'internamento in manicomio giudiziario (art. 222 c.p.) (302).

  2. Imputati a procedimento sospeso (art. 88 c.p.p. del 1931). L'istituto della sospensione del procedimento è un istituto che nasce a favore dell'imputato che affetto da una patologia psichiatrica, successiva alla commissione del crimine, non si mostri in grado di prendere parte attivamente al processo (303). Nei confronti di questo soggetto il procedimento era sospeso fino all'avvenuta guarigione, in questa fase poteva essere disposto il suo ricovero in un manicomio giudiziario (/OPG) al fine di assicurare le cure necessarie (304). Come anticipato, si trattava in teoria di un istituto a garanzia dell'imputato, finalizzato ad un effettivo esercizio del diritto di difesa (305).Soltanto teoricamente però, infatti, le istituzioni totali tendono a cronicizzare piuttosto che guarire e così, fino agli anni '70 non erano infrequenti i casi di soggetti che erano rimasti decenni in OPG con procedimento sospeso (306). Certo, l'art. 272 del c.p.p., come modificato nel 1955, prevedeva che i termini per la custodia cautelare fossero sospesi in esecuzione della perizia, non dunque in questa ipotesi (307). In teoria quindi, l'internamento dell'imputato con procedimento sospeso sarebbe potuto durare solo entro i termini previsti per la custodia preventiva (308). In questo senso, avallando l'interpretazione secondo cui il tempo trascorso in OPG in queste ipotesi poteva considerarsi tempo trascorso in custodia preventiva, e dunque allo scadere dei termini per questa previsti, l'imputato sarebbe dovuto essere liberato, si espresse nel 1970 la Corte di Cassazione (309). Nonostante ciò negli anni '70 si riscontravano ancora casi di internati in OPG da oltre 20 anni con procedimento sospeso (310).

  3. Condannati a pena sospesa (art. 148 c.p.). Si tratta di persone condannate, quindi ritenute capaci di intendere e di volere al momento della commissione del fatto, alle quali sia stata riscontrata la sopravvenienza di una patologia psichiatrica, al cui accertamento abbia fatto seguito la sospensione della pena ed il ricovero in manicomio giudiziario (/OPG). La sospensione della pena produceva gravissimi conseguenze sulla posizione giuridica dell'internato, infatti il tempo da questi trascorso in OPG non era computato nella pena espiata e poteva verificarsi la situazione di soggetti reclusi per anni in OPG anche qualora la pena residua al momento della sospensione della pena fosse stata solo di pochi mesi. Questa situazione mutò nel 1975 quando la Corte Costituzionale (311) dichiarò l'illegittimità della norma nella parte in cui prevedeva, come conseguenza del ricovero in manicomio giudiziario del condannato affetto da infermità psichica, la sospensione della pena. La Corte Costituzionale ritenne infatti, che la disciplina prevista dall'art. 148 c.p. violasse il principio di uguaglianza, sottoponendo il condannato cui fosse sopravvenuta un'infermità di mente ad un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto a quello riservato all'imputato il cui processo veniva sospeso per sopravvenuta infermità. In quest'ultima ipotesi infatti, i termini della custodia preventiva decorrevano anche nel periodo di permanenza in OPG e a seguito dell'eventuale condanna, il tempo ivi trascorso poteva essere computato a pena espiata. Diversamente, per il condannato a pena sospesa, il tempo trascorso nell'istituzione psichiatrico giudiziaria non era computato a pena espiata, con un trattamento perciò irragionevolmente deteriore per quest'ultimo.

  4. Sottoposto a misura di sicurezza provvisoria (art. 206 c.p.). Detenuti in attesa di giudizio nei confronti dei quali il giudice ritenga non improbabile la futura dichiarazione di incapacità. Si tratta di una sorta di anticipazione del giudizio di pericolosità sociale. L'art. 301 del c.p.p. del 1931 prevedeva che non fosse ammesso reclamo contro questo provvedimento, con grave nocumento del diritto di difesa dell'internato, che anche in questo caso appariva un soggetto che era dotato di una minore soggettività giuridica.

  5. Detenuti periziandi. La perizia dell'imputato detenuto poteva avvenire in carcere o in manicomio giudiziario (312). Spesso il manicomio giudiziario era prescelto per una serie di ragioni di carattere pratico. Quando la perizia infatti non era svolta direttamente da staff manicomiale, il manicomio giudiziario appariva attrezzato in modo migliore per consentire allo specialista di svolgere il suo compito (313). Non solo la normativa che prevedeva conseguenze differenziate a seconda che la perizia fosse svolta in carcere o in manicomio, con una differenziazione inconcepibile e ingiustificabile dal momento che non era oggetto di scelta da parte del periziando il luogo in cui svolgerla. Si prevedeva infatti, che in caso di proscioglimento per infermità psichica il tempo trascorso in manicomio giudiziario per espletare la perizia fosse computato nella durata minima della misura di sicurezza, mentre se la perizia fosse stata eseguita in carcere un tale effetto non si sarebbe prodotto (314). Questa normativa è incomprensibile e produce effetti gravi sulla condizione del prosciolto che abbia espletato in carcere la perizia, è ingiustificata a maggior ragione dato che il luogo ove svolgere la perizia non dipende da una scelta dell'imputato. Inoltre questa assurda previsione poteva comportare una tendenza del giudice a preferire il ricovero in manicomio giudiziario per non penalizzare troppo l'internato. Questa normativa, contribuiva a favorire la scelta della destinazione dei periziandi in manicomio/ospedale psichiatrico giudiziario.

    Con il regolamento penitenziario del 1976, si confermava l'assetto previgente, inserendo la categoria dei sottoposti a perizia tra coloro che potevano essere inviati in OPG (315).

  6. Detenuti in custodia preventiva e i condannati inviati in stato di osservazione. Questa categoria era regolata dall'art. 106 del regolamento carcerario del 1931, ove si stabiliva che il medico potesse disporre, per il detenuto che dava segni di alienazione, i provvedimenti opportuni per accertare se l'alienazione sussistesse. Questa norma aveva consentito che la categoria fosse altamente rappresentata nei manicomi giudiziari (316). Spesso si inviavano in osservazione non solo detenuti propriamente malati mentali ma semplicemente i detenuti difficili o come forma di punizione, quelli ribelli o indisciplinati (317). A volte potevano essere gli stessi detenuti ad attivare questo procedimento, non tanto perché in manicomio giudiziario ci fossero condizioni di vita migliori che in carcere, quanto perché a seguito dell'osservazione con la quale era stata attestata l'insussistenza della patologia psichiatrica era invalsa la prassi di inviare il detenuto in un carcere con un regime più umano (318).

    Per molti anni gli internati in stato di osservazione hanno rappresentato una quota significativa degli ospiti dei manicomi/ospedali psichiatrici giudiziari. Nel 1976 è entrato in vigore il regolamento penitenziario, ove all'art. 99 è stabilito che di norma l'osservazione psichiatrica debba essere espletata nel luogo dove il soggetto è detenuto o in altro istituto della medesima categoria. Soltanto per particolari motivi l'osservazione può essere svolta negli ospedali psichiatrici giudiziari o in quelli civili.

  7. Misura di sicurezza trasformata (art. 212 c.p.). Soggetti sottoposti ad una misura di sicurezza detentiva diversa dal ricovero in manicomio giudiziario affetti da una turba psichica. In questi casi la misura di sicurezza originariamente ordinata viene sospesa con una modalità di sospensione sui generis, questo in quanto, nel momento in cui non vi saranno più le condizioni di infermità che hanno dato luogo al provvedimento di sospensione, vi sarà una nuova valutazione di pericolosità sociale alla quale potranno seguire: l'applicazione di una misura detentiva, la revoca o l'applicazione della libertà vigilata (319).

  8. Sottoposti alla misura di sicurezza dell'affidamento a casa di cura e custodia (art. 219 c.p.). Il regolamento penitenziario del 1931 prevedeva che i sottoposti a questa misura di sicurezza fossero inviati negli appositi istituti ma sappiamo che nella pratica le case di cura e custodia non sono mai esistite come autonome strutture, essendo sempre state sezioni di manicomi giudiziari. Se il regolamento penitenziario del 1976 conferma l'impostazione precedente, stabilendo separatamente le categorie legali da destinare alle due tipologie di strutture, la condizione nella pratica non è affatto mutata.

  9. Condannati divenuti minorati psichici (art. 148, 5º co c.p.). Si tratta di condannati che sono stati ritenuti, nel corso della detenzione o in un periodo precedente all'inizio dell'espiazione della pena, ma successivo alla commissione del fatto, infermi di mente ma non ad un grado tale da sospendere l'esecuzione della pena, quindi sono inviati in manicomio giudiziario (/OPG) in espiazione della stessa (320).

  10. Categoria residuale prevista dall'art. 258 c.p.p. del 1931. E' un'ipotesi peculiare in quanto si va ad aggiungere alle altre modalità di applicazione della misura di sicurezza per l'imputato ritenuto incapace di intendere al momento in cui commise il fatto, tanto da non rendere chiaro in che ipotesi dovesse essere applicata. Riporto per questo integralmente il testo dell'articolo, senza parafrasarne il contenuto così da rendere evidente quanto appena esplicitato.

    Se l'imputato è persona che, nel momento in cui ha commesso il fatto si trovava in tale stato di infermità di mente da escludere la capacità di intendere e di volere, il giudice quando occorre ne dispone con decreto motivato il ricovero provvisorio in un manicomio, salvo quanto stabilito dall'art. 301.

    Lo stesso soggetto sarebbe potuto essere ricoverato in manicomio giudiziario per espletare la perizia o in misura di sicurezza provvisoria, coprendo - ad avviso di chi scrive - le ipotesi di possibile ricorso al manicomio giudiziario prima della sentenza per il soggetto che si fosse ritenuto incapace al momento in cui commise il fatto. Occorre sottolineare che l'art. 258 non indicava come struttura in cui effettuare il ricovero provvisorio il manicomio giudiziario, ma più in generale un manicomio. Nonostante questo, dato il riferimento all'art. 301 che disciplina l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, poteva essere interpretato come riferito al manicomio giudiziario.

La presenza di alcune delle tipologie di soggetti appena illustrate, rendeva impossibile in concreto il perseguimento di finalità terapeutiche. Infatti, il manicomio giudiziario è un'istituzione che per la sua stessa natura e storia tende a vedere ampliato il suo aspetto custodiale fino a soverchiare e rendere impossibile ogni pretesa terapeutica, inoltre finisce per essere sovraccaricato di una serie di funzioni ulteriori ed avulse dalla sua principale aspirazione (321). Come ci mostrano infatti Margara ed Ornato nel loro saggio del 1976, le categorie giuridiche presenti comportano una serie di deformazioni della natura dell'istituzione (322). In particolare sono due gli aspetti critici. Il primo è rappresentato dall'alta percentuale di soggetti in situazioni «sospese»: i giudicabili a procedimento sospeso, i condannati a pena sospesa, i sottoposti ad una diversa misura di sicurezza trasferiti in manicomio giudiziario (323). Questi ricoverati tendono a “sostare” nell'OPG per lassi di tempo notevoli, tanto da rendere il manicomio giudiziario piuttosto che un'istituzione funzionale al reinserimento sociale, alla rieducazione e alla terapia, una sorta di «cronicario» (324). Infatti, i soggetti che sono trasferiti dal carcere, avendo manifestato una patologia psichiatrica successiva all'inizio della detenzione, si saranno probabilmente ammalati all'interno dell'istituzione totale carcere, un'istituzione patogenetica (325). Difficilmente gli stessi soggetti sarebbero riusciti a trovare cure all'interno di un'altra istituzione chiusa quale l'OPG, con la conseguenza di rimanervi per lunghi anni (326). Una tale situazione causava una grave lesione della libertà individuale e dei diritti fondamentali di soggetti privati della libertà personale ben al di là della durata delle loro condanne o persino senza essere mai stati condannati (327). Alla situazione già drammatica di questi ospiti sospesi, si aggiungeva la negligenza, testimoniata da Margara ed Ornato, degli uffici dell'esecuzione penale nel controllo delle posizioni giuridiche dei soggetti internati ai sensi dell'art. 148 del c.p. Infatti, perché potesse esservi una sospensione, doveva esistere una pena eseguibile e di conseguenza alla stessa si sarebbero dovuti applicare gli eventuali istituti indulgenziali quali amnistie ed indulti (328). Nella pratica, come riporta Margara, questa applicazione si verificava di rado (329). La presenza per molti anni di tali ospiti nell'OPG, non produceva soltanto gravi lesioni ai diritti dei singoli, ma riverberava i suoi effetti sulla stessa istituzione. Infatti, la presenza di un gruppo numeroso di cronici in un'istituzione rigida come il manicomio giudiziario tende ad uniformare il metodo, il trattamento verso i livelli più bassi (330).

L'altro profilo critico era quello dato dalla presenza di un cospicuo numero di sottoposti ad osservazione psichiatrica: questi infatti, come abbiamo avuto modo di anticipare erano spesso quei detenuti difficili, ribelli, indisciplinati, problematici di cui l'istituzione carceraria tendeva a liberarsi (331), lo strumento era utilizzato per finalità disciplinari e sovrautilizzato, così da sovraccaricare l'istituzione di una quota parte di soggetti non affetti da patologie psichiatriche (332). Le conseguenze sono quelle di un'istituzione dalla pretesa vocazione terapeutica dove sono presenti un discreto numero di soggetti sani che sono inviati dalle carceri e che quindi tende a torcersi verso modalità più simili a quelle carcerarie (333). Abbiamo a riguardo accennato alla disciplina prevista dal Regolamento degli istituti di prevenzione e pena del 1931 che si trovava applicata in modo illegale, in quanto l'art. 106 stabiliva che il medico sottoponesse ad osservazione il detenuto che dava segni di alienazione, che ne informasse la Direzione, la quale doveva provvedere a informarne l'autorità giudiziaria competente per i provvedimenti del caso (sospensione della pena, sospensione del procedimento). Non si prevedeva la possibilità dell'amministrazione di inviare il detenuto in osservazione in manicomio giudiziario (334).

Su questa disciplina, che nonostante la mancata previsione del trasferimento per osservazione aveva consentito che si sviluppasse una prassi di ricorso massiccio, intervenne il Regolamento penitenziario del 1976 (335). Ivi, all'art. 99 si stabiliva che di norma l'osservazione fosse fatta nell'istituto penitenziario dove si trovava il detenuto e con lo stesso spirito, la medesima legge imponeva la presenza in ogni istituto di pena di almeno un esperto in psichiatria (336).

Come abbiamo visto la presenza di una molteplicità di categorie giuridiche ha caratterizzato il manicomio giudiziario fin dalla sua istituzione, i suoi teorizzatori avevano pensato che vi dovessero trovare ospitalità i prosciolti folli, i condannati con infermità sopravvenuta ed i giudicabili infermi di mente. La qualificazione delle categorie, come immaginata dal Codice Rocco produce degli effetti sulla struttura, sul funzionamento e sulla funzione stessa dei manicomi/ospedali psichiatrici giudiziari.

5.3. Legge n. 180 del 1978 e gli OPG

Abbiamo analizzato la disciplina del trattamento penitenziario riservato agli internati, mettendo in luce, i caratteri di afflittività della misura di sicurezza dell'internamento in OPG. Cerchiamo adesso di cogliere gli effetti che la legge n. 180 del 1978 ha avuto sull'istituzione manicomiale giudiziaria.

In primo luogo occorre domandarsi se il divieto di disporre nuovi ricoveri negli ospedali psichiatrici (OP), a partire dall'entrata in vigore della legge, debba intendersi analogicamente esteso anche agli OPG (337) e più in generale se la riforma dell'assistenza psichiatrica abbia prodotto effetti diretti sulla normativa in materia. Abbiamo visto come nessuna disposizione della Legge n. 180 del 1978 si riferisca espressamente a queste istituzioni, inoltre, le norme del codice penale che regolano la misura di sicurezza sono rimaste invariate a seguito della riforma dell'assistenza psichiatrica. Alla luce di queste osservazioni, nonché dell'indirizzo interpretativo che si è affermato nella giurisprudenza e nella dottrina maggioritarie, si può escludere che la legge n. 180 del 1978 abbia prodotto direttamente delle modifiche al funzionamento o alla normativa che concerne gli OPG (338).

Attestato che la legge n. 180 del 1978 non produsse l'effetto di abrogare la normativa codicistica relativa alle misure di sicurezza, ci interroghiamo sulla possibilità che la stessa abbia prodotto altri effetti sull'istituzione oggetto del nostro studio. A tale scopo appare opportuno fare preliminarmente il quadro delle connessioni esistenti, prima della riforma, tra OP e OPG.

5.3.1. I punti di connessione tra OP e OPG prima della Legge Basaglia

Prima della legge n. 180 del 1978 tra gli ospedali psichiatrici civili e quelli giudiziari si presentavano una serie di connessioni sia sul piano pratico che su quello teorico. Come ci mostra Pelissero, i due sistemi di trattamento della malattia mentale - dal punto di vista teorico - erano entrambi fondati sulla concezione del folle come un pericolo sociale (339). Su tale percezione del folle si radicava un trattamento (sia per i folli comuni che per quelli criminali) di carattere prevalentemente custodiale (340). Ma le connessioni non si limitavano ai presupposti teorici delle due misure. (341) Sul piano pratico, il manicomio civile e quello giudiziario presentavano forti interconnessioni sia nel momento dell'ingresso che in quello dell'uscita dalle strutture. Nella fase di ingresso, quando il malato di mente commetteva reati di lieve entità, che pure rientravano nel limite edittale previsto dall'art. 222 c.p. (342), nella prassi accadeva che si evitasse l'inoltro della denuncia a patto che una struttura manicomiale civile fosse disposta ad accogliere il malato (343). Questa possibilità consentiva di attenuare la rigidità del sistema delle misure di sicurezza - ricordiamo che nel nostro ordinamento vigeva, nei confronti del malato di mente autore di reato, una presunzione assoluta di pericolosità sociale - e di lasciare che, per fatti di lieve rilevanza, il malato fosse affidato alle strutture esterne al sistema penale (344). In fase di revoca della misura si verificava spesso che, nella valutazione circa la permanenza della pericolosità del soggetto, si tenesse conto della possibilità di affidarlo ad un ospedale psichiatrico. Questa pratica consentiva una più facile liberazione del sottoposto a misure di sicurezza. Era anche possibile disporre la proroga della misura e concedere una licenza finale di esperimento che poteva anche svolgersi nelle strutture dell'ospedale psichiatrico civile (345). A questa rete di connessione e a queste pratiche di collaborazione si aggiungeva, con l'art. 100 del regolamento penitenziario - R.D. 431 del 1976 - la possibilità di stipulare apposite convenzioni tra l'amministrazione e gli ospedali psichiatrici civili per il ricovero in queste ultime strutture dei soggetti destinati all'OPG.

Anche sul piano delle proposte di modifica del regime dell'internamento in manicomio giudiziario alcuni prospettavano un superamento del sistema vigente attraverso l'incremento dei rapporti tra le strutture psichiatriche ospedaliere civili e giudiziarie. Coloro che sostenevano l'esigenza di un superamento del sistema vigente si potevano distinguere, fondamentalmente, in due categorie: alcuni miravano alla modifica della struttura delle misure di sicurezza con l'obiettivo di tornare al sistema previsto dal Codice previgente; altri propendevano per la chiusura delle strutture, attraverso lo spostamento dai manicomi giudiziari ai manicomi civili e proprio in questo senso si muoveva l'introduzione dell'art. 100 del D.P.R. n. 431 del 1976 (346). Con l'intervento della legge n.180 l'esperimento di depotenziamento dell'OPG attraverso la destinazione dei sottoposti a misure di sicurezza agli ospedali civili, si bloccò a causa del divieto di nuovi ricoveri nelle strutture ospedaliere psichiatriche (347). La collaborazione aveva consentito di sperimentare, soprattutto a Castiglione delle Stiviere, un modello, che attraverso la cooperazione tra manicomio civile e manicomio giudiziario aveva teso ad incrementare l'aspetto terapeutico della misura di sicurezza (348). Come sostiene Daga la legge n.180, benché abbia inevitabilmente frenato il processo di trasferimento, dei prosciolti sottoposti a misura di sicurezza nelle strutture manicomiali civili, non essendo possibile disporre nuovi ricoveri nelle istituzioni in corso di superamento, non impediva l'attuazione di una nuova forma di collaborazione da parte del sistema penale e penitenziario con le strutture deputate, dopo la legge n.180, all'assistenza psichiatrica del malato mentale (349). Per esempio, per quanto concerne le dimissioni dall'OPG, i dipartimenti di salute mentale (DSM) avrebbero potuto adoperarsi per mettere in campo progetti ad hoc per i dimittendi dagli OPG, al fine di facilitarne il reinserimento sociale e inoltre favorire il buon esito della valutazione sulla pericolosità sociale dell'internato (350).

Come ci mostra Margara nel post 180 si svilupperanno, tra le persone intenzionate a procedere ad una revisione del modello dei manicomi giudiziari, due distinti filoni di intervento: alcuni riterranno necessario procedere sulla strada dell'abolizione delle misure di sicurezza, altri su quella dell'abolizione del concetto di imputabilità (351).

5.3.2. Effetti indiretti: un potenziamento?

Se la legge n.180 non ha intaccato la realtà degli OPG in modo diretto, molti hanno sostenuto gli effetti indiretti della nuova normativa sanitaria sulla realtà delle ultime strutture manicomiali rimaste nel nostro paese. Soprattutto nel periodo immediatamente seguente all'approvazione della riforma si ventilava un potenziamento degli OPG. Questo sarebbe stato effetto, a seconda degli autori, di diversi fattori: alcuni sostenevano che vi sarebbe stato un incremento dei reati commessi dai disagiati psichici in assenza di strutture contenitive diverse da quella penale (352). Altri ritenevano che il potenziamento fosse la conseguenza di un fallimento nell'attuazione della legge n. 180 del 1978: essendo poco efficienti e funzionali i servizi psichiatrici territoriali ed essendo sufficiente anche la commissione di reati bagatellari per far scattare il meccanismo della misura di sicurezza, si sarebbe verificato una sorta di effetto idraulico per cui gli ex-pazienti degli ospedali psichiatrici civili sarebbero diventati ospiti di quelli giudiziari.

Vediamo meglio come, in teoria, le carenze dei servizi psichiatrici avrebbero potuto produrre effetti indiretti sulle presenze in OPG. Possiamo riprendere la schematizzazione delle connessioni esistenti tra ospedali psichiatrici civili e giudiziari prima della riforma, per cercare di spiegare come si sarebbe potuto verificare un effetto di trasferimento (353).

In primo luogo, prendiamo in considerazione la fase dell'ingresso. La misura di sicurezza può essere applicata anche per reati di scarsa offensività. I requisiti per l'applicazione della misura di sicurezza sono, in generale: la commissione di un reato e la pericolosità sociale. La misura può essere applicata per delitti non colposi per i quali sia prevista una pena edittale superiore nel massimo a due anni. In questa categoria rientrano una serie di reati di lieve entità, dalla commissione dei quali può avere origine l'applicazione di una misura di sicurezza, dunque risulta possibile procedere per fatti che in altre condizioni non avrebbero innescato le procedure di controllo. Riprendendo le teorie di Becker e dei labeling theorist, possiamo osservare come il processo di attribuzione della qualità di deviante ad un determinato comportamento ed il conseguente etichettamento del soggetto che lo ha commesso, siano il frutto di una serie di contingenze. I meccanismi di controllo, dalla denuncia al procedimento penale, non sono prodotto, come spesso siamo portati a pensare, di un meccanismo automatico e necessitato per cui alla commissione del fatto segue sempre comunque la definizione dello stesso come deviante e/o criminale. Anche in questa fase incidono una serie di fattori contingenziali. Non sempre alla commissione di un fatto astrattamente ascrivibile ad una fattispecie penale segue sempre l'avvio ed il compimento del processo di etichettamento. Come abbiamo visto in precedenza, nella procedura che dalla commissione di un reato da parte di un soggetto infermo di mente conduceva all'applicazione della misura di sicurezza, si verificava spesso un'interruzione e si apriva un percorso alternativo. Accadeva nella prassi che di fronte alla denuncia di comportamenti che in astratto potevano configurare un reato ma di scarso allarme sociale e di lieve offensività, si preferisse ricoverare il soggetto in un ospedale psichiatrico civile.

Dopo la riforma, questa strada alternativa non risultava più percorribile. Questo aspetto non era il solo che poteva causare una criminalizzazione della follia. Infatti, a seguito della riforma, a causa del ritardo nell'attuazione e dell'inefficienza dei servizi psichiatrici territoriali, le famiglie dei malati psichiatrici si trovarono a caricarsi il peso della gestione del disturbo psichico in una condizione percepita come un abbandono da parte delle istituzioni (354). Dunque i familiari, non potendo ricorrere al ricovero in ospedali psichiatrici di un proprio caro sofferente psichico, avrebbero potuto procedere con la denuncia, magari per comportamenti aggressivi tenuti nei loro confronti, al fine di ottenere un ricovero in OPG, percepito come l'unica misura di sostegno effettivo per il disagio psichico (355).

La legge n. 180 del 1978 potrebbe aver prodotto effetti di incremento degli internati anche riducendo il numero di dimessi dagli OPG. Al termine della durata minima della misura di sicurezza, la pericolosità sociale è oggetto di una nuova valutazione alla quale possono far seguito le dimissioni dall'OPG oppure una proroga della loro durata, ai sensi dell'art. 208 c.p. Prima dell'entrata in vigore della legge Basaglia, si era consolidata la prassi, soprattutto presso alcuni degli OPG italiani (356), di disporre le dimissioni dell'internato, condizionandole al trasferimento dello stesso presso una struttura psichiatrica civile.

Dunque, la riforma che ha condotto alla chiusura dei manicomi civili potrebbe aver prodotto un effetto di potenziamento dell'OPG, di incremento di presenze e di stabilizzazione delle stesse, attraverso una sorta di trasferimento “idraulico” della popolazione internata da una struttura manicomiale all'altra. Questo effetto, collegato all'interruzione dei percorsi sperimentati di collegamento tra le strutture civili e quelle penali, potrebbe essere stato incrementato da eventuali carenze dei servizi psichiatrici territoriali. Infatti, come abbiamo anticipato, la percezione dell'abbandono da parte delle famiglie dei sofferenti psichici potrebbe aver favorito la tendenza alla denuncia di comportamenti aggressivi e d'altro canto, la mancanza di servizi esterni disponibili a prendersi carico dell'internato avrebbe potuto spingere i magistrati di sorveglianza a ritenere persistente la pericolosità sociale in fase di riesame.

Per valutare se questo effetto si sia verificato procederemo con un'analisi dell'andamento del numero di internati, che confronteremo con quello dei pazienti ricoverati in manicomio negli stessi anni.

Nella tabella seguente riporteremo i dati relativi alla popolazione internata in OPG tra il 1950 ed il 2000 (357). Saranno separatamente indicati i dati relativi alla presenza maschile e a quella femminile.

Tabella 1: Popolazione internata 1950-2000
Anno Uomini Donne Totale Anno Uomini Donne Totale Anno Uomini Donne Totale
1950 1665 260 1925 1967 1586 198 1784 1984 1421 93 1514
1951 1901 211 2112 1968 1526 200 1726 1985 1270 91 1361
1952 2011 206 2217 1969 1448 188 1636 1986 1155 83 1238
1953 1964 198 2162 1970 1367 175 1542 1987 1214 79 1293
1954 1917 213 2130 1971 1379 159 1538 1988 1227 80 1307
1955 1919 212 2131 1972 1341 155 1496 1989 1215 72 1287
1956 1921 211 2132 1973 1303 150 1453 1990 1090 64 1154
1957 1894 228 2122 1974 1230 124 1354 1991 966 56 1022
1958 1914 276 2190 1975 1158 98 1256 1992 998 73 1071
1959 1961 232 2193 1976 960 75 1035 1993 958 75 1033
1960 1924 203 2127 1977 1037 79 1116 1994 953 58 1011
1961 1969 222 2191 1978 1068 81 1149 1995 989 55 1044
1962 1885 225 2110 1979 1180 100 1280 1996 979 60 1039
1963 1788 211 1999 1980 1332 92 1424 1997 927 59 986
1964 1798 183 1981 1981 1415 97 1512 1998 924 53 977
1965 1781 177 1958 1982 1499 101 1600 1999 993 76 1069
1966 1648 165 1813 1983 1416 95 1511 2000 1077 79 1156

Come possiamo notare (Tabella 1), tra l'anno 1978 e il 1979 si registra un incremento delle presenze in OPG. Difatti, le presenze maschili subiscono un incremento del 10,5% circa, passando da 1068 internati a 1180. Lo stesso anno le presenze femminili segnano un notevole incremento (23,5 % circa) da 81 internate a 100, in termini assoluti. Se prendiamo in considerazione il dato complessivo - senza distinguere le presenze maschili da quelle femminili - possiamo notare come continui a registrarsi un incremento fino al 1982, quando si riscontra la presenza di 1600 internati a fronte dei 1116 del 1977 (con un incremento percentuale del 43% in 5 anni). A partire dal 1983 il dato decresce, per assestarsi nel corso degli anni '90 sulle 1000-1050 unità circa.

Il grafico che riporteremo potrà chiarire meglio l'andamento della popolazione degli OPG nel corso del cinquantennio (1950-2000).

Figura 1: Popolazione internata 1950-2000

In primo luogo, possiamo notare come, a partire dagli anni '60 vi sia un costante decremento, fino a giungere ad un picco minimo di presenze nel 1976. A partire da quell'anno gli internati tornano a crescere fino al 1982. Osservando questi dati, non sembra trovare conferma l'ipotesi di un sostanziale incremento delle presenze in OPG a partire dall'entrata in vigore della legge sui trattamenti sanitari obbligatori. Infatti, la crescita del numero di internati non si verifica a partire dal 1978, ma ha origine due anni prima, nel 1976, inoltre, già pochi anni dopo l'entrata in vigore della riforma, il dato torna a decrescere progressivamente.

Come anticipato, ci sembra utile un confronto con altri dati numerici, come con l'andamento della popolazione internata nei manicomi civili. Vediamo nella tabella sottostante il numero di pazienti ricoverati in Ospedale psichiatrico nel 1978, data in cui fu emanata la legge sui trattamenti sanitari obbligatori e nel 1996 (358).

Tabella 2: Ricoverati in Ospedale psichiatrico
Anno Ricoverati in Ospedale psichiatrico
1978 52000
1996 17000

Il primo elemento da chiarire per condurre questo confronto appare quello relativo all'attuazione della riforma. Sarebbe un errore ritenere che dall'anno 1978 i manicomi siano chiusi. La riforma psichiatrica ha richiesto tempi di attuazione molto lunghi, con differenze significative da Regione a Regione. Basti considerare che il Progetto obiettivo sulla salute mentale 1994-1996, annoverava ancora tra gli interventi essenziali il superamento del residuo manicomiale (359). Infatti, nel 1996, quasi 20 anni dopo la legge che disponeva la chiusura dei manicomi civili, erano presenti 17.000 ricoverati in ospedale psichiatrico, rispetto ai 52.000 pazienti del 1978, circa il 33% (Tabella 2), nonostante, con la finanziaria del 1995, legge n. 724 del 23 Dicembre 1995, si fosse stabilito quale termine ultimo per il superamento degli ospedali psichiatrici civili, il 31 Dicembre 1996.

Da quanto appena visto, si possono trarre due considerazioni. La prima concerne il periodo che è necessario valutare quando cerchiamo di cogliere gli effetti della Legge 180 del 1978. Infatti, per quanto riguarda il possibile “trasferimento” dei pazienti degli ospedali psichiatrici civili in via di superamento agli ospedali psichiatrici giudiziari, questo si sarebbe dovuto produrre in un lasso di tempo che non sia limitato agli anni immediatamente successivi all'approvazione della riforma. Se prendiamo in esame un periodo più ampio, possiamo notare come, a partire dal 1982, le presenze in OPG subiscano una progressiva diminuzione e nel corso degli anni '90 si assestino sul migliaio di pazienti, contro gli oltre 2000 presenti fino alla metà degli anni '60 (vedi Tabella 1).

La seconda considerazione da fare riguarda le grandezze numeriche. Se prendiamo in esame il numero di pazienti degli ospedali psichiatrici civili nel 1978, 52000 (Vedi Tabella 2) e lo confrontiamo con l'incremento di internati negli anni successivi alla riforma (484 tra il 1977 e il 1982), vediamo come si tratti di dimensioni numeriche difficilmente comparabili.

Da tutte le osservazioni appena fatte vorremmo trarre una conclusione. Ciò che ci sembra emergere è che non vi sia stato, a seguito della legge Basaglia, un incremento degli internati delle dimensioni immaginate da alcuni autori negli anni immediatamente successivi alla riforma. Vi è stato un aumento delle presenze, che ha avuto inizio nel 1976 e si è interrotto nel 1982 (Figura 1). Un incremento che non è rapportabile a quello che negli stessi anni ha riguardato la popolazione delle nostre carceri (360).

Con questo non si vuole però negare che esistano connessioni tra la qualità dei servizi psichiatrici territoriali e la popolazione internata, neppure negare che alcuni ex-pazienti delle strutture psichiatriche civili abbiano subito una sorta di trasferimento verso le istituzioni penali (361). Del resto, sui numeri appena esaminati, possono avere avuto un impatto molti altri fattori. Ad esempio, nel 1974, è intervenuta una pronuncia della Corte Costituzionale che ha esteso il potere di revoca anticipata oltre che al Ministro della Giustizia, anche al magistrato di sorveglianza (362), mentre nel 1982 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità sociale (363). La legge n. 180 del 1978 potrebbe aver prodotto alcuni effetti sulla quantità della popolazione presente in OPG ma ci sembra possibile affermare che complessivamente non vi sia stato negli anni '80 e '90 un potenziamento significativo dell'istituzione OPG.

5.3.3. Effetti indiretti: Si può parlare di funzione terapeutica?

La legge n. 180 ha posto le basi per un nuovo approccio terapeutico alla malattia mentale, un approccio che privilegia l'intervento capillare e territoriale e limita il trattamento ospedaliero. Questa affermazione non ha scalfito, però, la struttura delle misure di sicurezza che sono sopravvissute integre alla riforma del trattamento della salute mentale. Dunque la situazione che si è presentata a partire dal 1978 è stata quella della sopravvivenza di un'unica, ultima istituzione manicomiale, che conservava ancora le caratteristiche sia del manicomio che della prigione: l'Ospedale psichiatrico giudiziario.

Già nel corso del secondo capitolo abbiamo avuto modo di sottolineare come l'istituzione del manicomio/ospedale psichiatrico giudiziario presentasse, fin dall'introduzione della Carta Costituzionale profili di contrasto con la tutela del diritto alla salute. In particolare, dall'analisi dello scritto di Padovani (364), apparivano evidenti i seguenti profili di contrasto:

  1. Disomogeneità tra le modalità di assistenza psichiatrica civile e giudiziaria (strutture con aspetto assolutamente incompatibile con quello ospedaliero, personale non appositamente qualificato, mancata estensione agli ospedali psichiatrici giudiziari di alcune normative in materia di assistenza psichiatrica, etc.);
  2. Dimensione afflittiva e carattere carcerario (somiglianza delle strutture alle carceri, trattamento equivalente, impiago di personale penitenziario, etc.);
  3. Aspetti particolari della normativa penale sulle misure di sicurezza, in particolare, concernenti la presunzione di pericolosità sociale.

Se la misura di sicurezza del ricovero in OPG appariva, sia nella dimensione normativa che in quella pratica, per molti aspetti confliggente con la tutela della salute, come sancita dall'art. 32 della Costituzione, tale contrasto assumeva toni più decisi con l'approvazione della legge n. 180 del 1978. La misura di sicurezza del ricovero in manicomio/ospedale psichiatrico giudiziario, fin dalla sua origine, si presentava come una misura dal doppio volto, dalla duplice funzione, tra carcere e manicomio, tra cura e custodia. Fino all'approvazione della legge n. 180 del 1978 la situazione del malato di mente non autore di reato non appariva molto differenziata. Il manicomio civile era una struttura, come abbiamo visto, che manteneva una duplice funzione di cura e custodia. Anche la funzione terapeutica si declinava in un'accezione custodiale, difatti la terapia aveva come primaria funzione quella di restituire alla società soggetti innocui. In questa prospettiva dunque il ricovero nelle due strutture manicomiali non presentava notevoli differenze, dal punto di vista del trattamento riservato. Ma con l'approvazione della legge Basaglia, l'ingresso della psichiatria nella più vasta area dell'assistenza sanitaria, l'attuazione del disposto di cui all'art. 32 della Costituzione e l'equiparazione della salute mentale a quella organica, dal punto di vista della tutela, con l'abbattimento del binomio follia-pericolosità sociale e l'eliminazione della funzione custodiale da quelle psichiatriche civili, tra trattamento del malato di mente autore di reato e trattamento del malato di mente non autore di reato si apriva un divario.

Questo portò alcuni magistrati di Sorveglianza a sollevare la questione di legittimità alla Corte Costituzionale. Appariva infatti, un'illegittima lesione del principio di uguaglianza e del diritto alla salute la previsione di un trattamento tanto differenziato tra malati di mente dipendente dal solo fatto della commissione di un reato. Su queste si espresse la Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 139 del 1982, con la quale approntò una fondamentale modifica al regime della misura di sicurezza del ricovero in OPG, stabilendo l'onere per il giudice di valutare l'attualità della pericolosità sociale in sede di applicazione della misura. Ma rigettò le questioni relative al contrasto tra art. 32 e 3 della Costituzione e la disciplina in materia di misure di sicurezza (365).

Una parte della dottrina ha ritenuto che dall'introduzione della legge n. 180 del 1978 la misura di sicurezza del ricovero in OPG dovesse intendersi come un trattamento sanitario obbligatorio. La posizione era già sostenuta, prima dell'approvazione della Legge n. 180 del 1978 da autori come Padovani, nell'ambito di un ragionamento che si può inserire in quel filone di analisi che si sviluppa a partire dalla riflessione circa l'ammissibilità di un sistema dualistico, sostenendo de iure condito che il doppio binario è legittimo ad una sola condizione, cioè che la misura di sicurezza abbia una funzione diversa da quella della pena, nel caso dell'ospedale psichiatrico giudiziario la funzione terapeutica. Partendo da questo assunto e dal mantenimento della non imputabilità si ricava che: la misura di sicurezza non deve avere natura punitiva e la commissione del fatto-reato è mera occasione per la valutazione della pericolosità sociale e la conseguente applicazione della misura di sicurezza. Dunque la misura di sicurezza di sicurezza è un trattamento sanitario, rivolto ad un soggetto che in quanto ha commesso un reato è ritenuto non solo socialmente pericoloso ma persino bisognoso di cure diverse, maggiormente specializzate, ed è obbligatorio in quanto non richiesto ed espletato per volontà del soggetto sottoposto. Questa tesi non ci pare del tutto peregrina, peraltro da questo Padovani ricava il divieto di trattamenti contrari alla dignità, facendo riferimento all'art. 32 della Carta Costituzionale.

Da questa considerazione dunque potrebbero muovere riflessioni circa le qualità, anche in concreto, del trattamento in OPG che comunque presenta sempre il limite del rispetto della dignità della persona umana.

Note

1. I termini cura e custodia non sono assolutamente casuali, una delle due misure di sicurezza che si occupano dei soggetti etichettati pazzi e delinquenti si chiama proprio assegnazione a casa di cura e custodia, disciplinata dall'art. 219 del Codice penale, si rinvia a proposito al par. 2.3.2 del capitolo I del presente lavoro.

2. La denominazione viene qui riportata in quanto correntemente utilizzata per riferirsi a questa legge sia nei mezzi di comunicazione di massa che in articoli e commenti di carattere specialistico (sia psichiatrico che giuridico). Si ritiene tuttavia che questa non sia l'espressione più corretta. Normalmente si ricorda una legge con il nome di uno degli estensori (ad esempio la legge Pinto), del Presidente della Commissione che in una delle Camere si è occupata della stesura del testo, del Ministro competente nella materia (ad esempio i codici penali ricordati rispettivamente per i nomi di Zanardelli e Rocco). Basaglia non contribuì alla stesura del testo, né fu tra i promotori della legge. L'accostamento del suo nome a queste disposizioni fu dapprima utilizzato dagli oppositori alla legge, soprattutto provenienti da movimenti di destra, successivamente fu fatto proprio anche dai fautori della riforma e dai movimenti e dalle associazioni vicine alle posizioni di Basaglia. Si veda B. Orsini, Vent'anni dopo, in Psychiatry on line Italia.

3. A. Rocco, Progetto definitivo del Codice penale con Relazione a sua Maestà il Re del Guardasigilli, cit., p. 244.

4. I racconti delle violenze perpetrate nelle istituzioni manicomiali sono ormai noti, Basaglia in alcune opere riporta la testimonianza di alcune pratiche in uso nei manicomi civili. Ad esempio, egli descrive la pratica della cosiddetta strozzina, una procedura violenta con la quale gli infermieri erano soliti tranquillizzare un paziente agitato apponendo un asciugamano bagnato sul collo fintanto che questo gesto non provocava lo svenimento del soggetto (F. Basaglia, “Le istituzioni della violenza”, in F. Basaglia (a cura di), L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, pp. 4-5).

5. G. Simonetti, Ospedale psichiatrico giudiziario, cit.

6. R. Canosa, Storia del manicomio, cit., p. 43.

7. Ivi, p. 46.

8. Ivi, p. 78.

9. Ivi, pp. 77-78.

10. Ibid.

11. Ivi, pp. 79-80.

12. Ivi, pp. 84-85.

13. Con organicismo si fa riferimento a quelle teorie psichiatriche che individuavano la causa della patologia psichiatrica in un difetto organico, in particolare nel XIX secolo era stato individuato il cervello come l'organo che difettandosi causava la follia. Le teorie spiritualiste individuavano nell'anima e nelle sue afflizioni le cause della follia. Alle due diverse concezioni corrispondevano diverse terapie, dirette rispettivamente al corpo o alla mente. R. Canosa, op. cit., p. 49.

14. R. Canosa, op. cit., pp. 49-65.

15. Ivi, pp. 70-74.

16. Benedict Augustin Morel fu uno psichiatra del XIX secolo che elaborò la teoria della degenerescenza, secondo la quale la malattia mentale rappresenterebbe una regressione nel percorso evolutivo dell'uomo. I caratteri della malattia sarebbero genetici e quindi trasmissibili alla prole. La teoria ha precorso quella che sarebbe stata, rispetto alla criminalità, la teoria lombrosiana dell'atavismo. Si veda la voce Degenerescenza nel Dizionario di medicina, Treccani, 2010.

17. R. Canosa, op. cit., pp. 49-65.

18. M. Foucault, Gli anormali, cit.

19. Si veda a riguardo capitolo I, par. 1.5.

20. Il Costituzionalismo fu una corrente della scienza medica che si sviluppò nei primi decenni del XX secolo e che, in medicina generale, rintracciava le cause delle patologie in determinate condizioni concernenti la costituzione del soggetto, dunque qualcosa di innato. Si rinvia alla voce Costituzionalismo nel Dizionario di medicina Treccani, 2010.

21. R. Canosa, op. cit., pp. 135 e ss.

22. Ibid.

23. R. Canosa, Storia del manicomio, cit.

24. G. Simonetti, L'ospedale psichiatrico giudiziario, op. cit.

25. Articolo 2, comma 2, Legge n. 36 del 1904.

26. Art. 2, co. 2, L. 36/1904.

27. Art. 3 L. 36/1904.

28. G. Pillo, A. Del Vecchio, La fine del manicomio. Riflessioni non definitive intorno alla follia in Italia prima e dopo la legge n. 180, Foggia, Cooperativa Sociale Futura, 1998, p. 28.

29. Ibid.

30. Si veda infra, par. 2.1. e 2.2.

31. Art. 3 R.D. n. 615 del 16 Agosto 1909.

32. La conoscenza giuridica della follia in rapporto alla capacità e al soggetto giuridico, come ci mostra Foucault, hanno una tradizione molto antica. Concetti propri del diritto canonico, elaborati per tutto il corso del Medioevo attraversano l'età classica e se ne può riconoscere la loro origine in un'elaborazione romana (Si veda M. Foucault, Storia della follia, cit., pp. 219 e ss. e pp. 232 e ss.). Gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione rispondono proprio a questa storia della follia, questa forma di conoscenza giuridica che connette la follia alla concezione di capacità e che si può far rientrare nell'immagine dell'alienazione come perdita di fuitas. M. Foucault, Storia della follia, cit.

33. Per capacità di agire si intende la capacità di compiere atti giuridici che producano regolarmente effetti in termini di obblighi e diritti. Si rinvia per una trattazione completa a G. Alpa, Manuale di diritto privato, Padova, Cedam, 2007, pp. 242 e ss.

34. Si ricorda che la normativa in tema di limitazioni alla capacità di agire è rimasta pressoché invariata fino al 2004. Nel 2004 con la legge n. 6 del 9 Gennaio è stata introdotta una nuova forma di tutela per l'incapace più attenuata che non comporta l'ablazione totale della capacità come gli storici istituti di interdizione ed inabilitazione che anche con la riforma non sono stati oggetto di sostanziali modifiche. Si veda A. Vecchiarutti, Amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione dopo la legge 6/2004, in Altalex.

35. L'espressione è ripresa dal titolo del saggio di F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, cit.

36. Una riflessione potrebbe aprirsi sull'utilizzo, ormai ampiamente diffuso, del termine antipsichiatria per delineare il pensiero di Basaglia e di quel gruppo di giovani psichiatri che nel corso degli anni '60 misero in pratica una diversa concezione della psichiatria attraverso interventi volti ad aprire i manicomi e incidere sul rapporto “gerarchico” medico-paziente, carattere fondamentale della cultura e della pratica psichiatrica fino a quel momento. Il dubbio sull'utilizzo di questo termine deriva dal confronto delle teorie-azioni basagliane con l'antipsichiatria di matrice anglosassone, cui massimi esponenti furono Cooper e Laing, Cooper peraltro coniò il termine antipsichiatria. Cooper e Laing promossero una riforma dell'istituzione psichiatrica volta a metterne in discussione le pratiche dominanti. Dal momento che la psichiatria si poneva come funzione quella di curare la malattia mentale e aveva fallito nel suo compito, la nuova corrente di pensiero vi si contrapponeva, auspicando un ricorso a tecniche terapeutiche diverse da quelle psichiatriche, senza però mettere in discussione la concezione di malattia mentale ed il ruolo dello psichiatra come tutore del sapere medico utile alla guarigione. Benché Basaglia conoscesse il pensiero del collega inglese il suo indirizzo si declinava in una dimensione diversa. Basaglia infatti, proponeva di mettere da parte le domande circa la sussistenza dei disturbi psichiatrici, fintanto che non si fosse provveduto ad abolire le istituzioni manicomiali e rompere quel rapporto tra psichiatra e paziente che aveva caratterizzato la storia di asili e follia fin dal XIX secolo. La sua critica muove dalla volontà di riportare il paziente psichiatrico in una dimensione sociale, così da rompere il “gioco di potere istituzionale” tra malato e medico. Mentre la strategia di Cooper si muoveva all'interno della stessa istituzione manicomiale, dove venivano gradualmente scardinati i presupposti dei rapporti di potere, attraverso il ricorso alla comunità terapeutica, la strategia basagliana era ispirata dallo scopo finale di rinunciare completamente all'asilo. Peraltro contro l'utilizzo del termine antipsichiatria gioca il rifiuto dello stesso da parte di tutti coloro che così furono etichettati. Il termine fu respinto da Cooper, che lo aveva coniato, fu respinto da Basaglia e anche da Thomas Szasz. Sembra più opportuno dunque riferirsi al movimento italiano di rivoluzione delle istituzioni psichiatriche con il termine di movimento anti-istituzionale. Dato però, l'uso diffuso del termine antipsichiatria, per semplicità si ricorrerà spesso all'utilizzo dello stesso. Per una comprensione delle differenze tra il pensiero di Cooper e Basaglia si vedano C. Bianchino, Malati di mente. Ma pur sempre uomini. Ecco tutte le parole per cercare di “capire l'incomprensibile”, in Ristretti orizzonti; M. Foucault, “Le pouvoir psychiatrique”, in Annuaire du Collège de France, 74e année, Histoire des Systèmes de pensée, année 1974-1975, Parigi, 1974, tr. it., “Il potere psichiatrico”, in Antologia. L'impazienza della libertà, Milano, Feltrinelli, 19, pp.27 e ss.; P. Colacicchi, “Conversazione con Thomas S. Szasz sul pensiero e la pratica di Giorgio Antonucci”, in Collettivo R, 26-28, 1982, Firenze. Per quanto concerne il rifiuto dell'appellativo di “antipsichiatri” da parte di Basaglia si veda l'intervista di Piero Del Moro a Franco Basaglia, presente nel reportage “psichiatria e potere”, reperibile su Forum salute mentale. Infine per quanto concerne il riferimento a Basaglia come uno dei maggiori esponenti della corrente antipsichiatrica italiana sia sufficiente il rinvio, a titolo di esempio alle voci “antipsichiatria” e “Franco Basaglia” su Enciclopedia Treccani. Si rinvia infine a E. Venturini, “I nostri conti con Basaglia” in Aut aut, 341, 2009.

37. Basti pensare che la prima versione italiana del noto studio di Erving Goffman, Asylums, fu curata da Franca Ongaro Basaglia, moglie di Franco Basaglia e compagna delle battaglie anti-istituzionali dello psichiatra veneto.

38. E. Goffman, Asylums. Essay on the social situation of mental patients and other inmates, Anchor Books, Doubleday & Company, Inc., New York, 1961, tr. it., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 2010.

39. Ivi, p. 29.

40. Si vedano: S. Sbordoni, Devianza primaria e devianza secondaria. Il caso del trattamento sanitario obbligatorio, Tesi di laurea in Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, a.a. 1998; E. Santoro, Carcere e società liberale, cit., pp. 63 e ss.; A. Del Lago, La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo, Verona, Ombre corte, 2002, pp. 90 e ss.

41. E. Santoro, Carcere e società liberale, cit., p. 66.

42. H. S. Becker, Outsiders. Studies in the Sociology of Deviance, Glencoe, The Free press of Glencoe, 1963, tr. it., Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1987, p. 22.

43. Ivi, pp. 31-32.

44. Ibid.

45. In questo senso offre un ottimo esempio il testo di Becker divisibile in due parti, una prima ove trova spazio lo studio delle carriere di due categorie di devianti il suonatore di jazz e il fumatore di marijuana, una seconda dedicata alle procedure di controllo. H. S. Becker, Outsiders, cit.

46. Neo-Chicagoans è un altro nome con cui è conosciuta la teoria dell'etichettamento di Becker, Lemert e altri. Il nome è dovuto al riconoscimento di un connessione con le teorie dei Chicagoans, scuola sociologica sviluppatesi nella West Coast americana a partire dagli anni '40, che aveva prediletto uno studio dei devianti attraverso un approccio diretto di condivisione e dialogo. Il collegamento tra le due teorie può rintracciarsi proprio nella predilezione di un metodo micro-sociologico e nell'attribuzione di valore ai discorsi e pensieri dei soggetti che sono studiati. Per l'esame delle teorie e delle prospettive della Scuola di Chicago si rinvia a S. Santoro, op. cit., pp. 42 e ss.

47. H. Blumer, Symbolic Interactionism, Berkeley, University of California, 1969, tr. it., “Interazionismo simbolico”, in M. Ciacci (a cura di), Interazionismo simbolico, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 63-64.

48. H.S. Becker, op. cit., pp. 18.

49. Ivi, pp. 38.

50. S. Sbordoni, Devianza primaria e devianza secondaria, cit.

51. Ivi.

52. Ivi.

53. E. Santoro, Carcere e società liberale, cit., pp. 70 e ss.

54. E. Goffman, Asylums, cit., p. 33.

55. Ibid.

56. Ivi, p. 29.

57. Ivi, p. 35.

58. Ivi, p. 36.

59. Ivi, p. 39.

60. Ivi, p. 42.

61. Ivi, p. 102.

62. Ibid.

63. Ivi, pp. 44-45.

64. Ivi, pp. 43 e ss.

65. Ivi, pp. 69-71.

66. Ivi, p. 74.

67. Ivi, pp. 76 e ss.

68. Ivi, pp. 87 e ss.

69. Ivi, p.100.

70. Ivi.

71. Ivi.

72. Ivi, p. 103.

73. Ibid.

74. Ivi, pp. 107-108.

75. Ivi, pp. 162 e ss.

76. Ibid.

77. Ivi.

78. Ivi, p. 355-356.

79. Ivi, p. 356.

80. Ivi, p. 360.

81. Ivi, p. 367.

82. Ibid.

83. Ivi, p. 368.

84. Ivi, p. 380.

85. Ivi, pp.395-396.

86. Ivi, p. 113.

87. Si rinvia ad alcune delle opere in cui il filosofo francese si occupa della follia: M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, cit.; M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit.; M. Foucault, Follia e società, cit.; M. Foucault, Gli anormali, cit.

Per un introduzione all'opera del grande filosofo francese si rinvia a: S. Catucci, Introduzione a Foucault, Roma-Bari, Laterza, 2000; P. Veyne, Foucault, Paris, Edition Albin Michel, 2008, tr. it, Foucault. Il pensiero e l'uomo, Milano, Garzanti, 2010; H. Fink-Eitel, Michel Foucault zur Einführung, Hamburg, Junius Verlag, 1990, tr. it., Foucault, Roma, Carocci Editore, 2002.

88. Foucault utilizza il termine etnologico, in quanto storicamente gli etnologi, in particolare Levi-Strauss, sono stati i primi a spiegare fenomeni sociali non in termini positivi di valori condivisi, à la Durkheim, bensì in termini di negazioni ed esclusioni. Negli stessi termini di negazioni il filosofo francese si muove alla ricerca di ciò «in una società o in un sistema di pensiero, vien rifiutato e escluso», M. Foucault, Follia e società, cit., pp. 65-66.

89. S. Catucci, Introduzione a Foucault, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 7.

90. Ivi, p. 9.

91. M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, cit. pp. 98, 100, 110.

92. Ivi, p. 91.

93. Ivi, p.92.

94. Ivi, pp. 110-111.

95. Ivi, p. 116.

96. Ivi, p. 129.

97. Ivi, p. 131.

98. Ibid.

99. Ivi, p. 146.

100. Ivi, p. 150.

101. Ivi, p. 153.

102. Ivi, pp.158 e ss.

103. Ivi, pp. 168-169.

104. Ivi, p.169.

105. Ivi, p. 191.

106. Ivi, pp. 206-207.

107. Ivi, pp.210-211.

108. Ivi, p. 212.

109. Ivi, p. 216.

110. Ivi, p. 221.

111. Ivi, p. 219.

112. Ivi, p. 220.

113. Ivi, p. 221.

114. Ivi, p. 223.

115. Ivi, p. 224.

116. Ivi, p. 231.

117. Ivi, p. 235.

118. Ivi, p. 267.

119. Ivi, p. 286.

120. Ivi, pp. 302-303.

121. Ivi, pp. 303 e ss.

122. Ivi, pp. 293 e ss.

123. Ivi, p.380.

124. Ivi, pp. 366 e ss.

125. Ivi, pp. 367 e ss.

126. Ivi, p. 380.

127. Ivi, p. 494.

128. Ivi, p. 515.

129. Ivi, pp. 515 e ss.

130. Ivi, pp. 524 e ss.

131. Ivi, pp. 527 e ss.

132. Ivi, pp. 529 e ss.

133. Ivi, pp. 533.

134. Ivi, pp. 539 e ss.

135. Ibid.

136. Ivi, pp. 541 e ss.

137. Ivi, pp. 566, 570-580.

138. Ivi, pp. 614-615.

139. Ivi, pp. 642 e ss.

140. Ivi, p. 644.

141. Ivi, pp.686 e ss.

142. M. Colucci, P. Dell'Acqua, R. Messina, “La comunità possibile” in A. Ferrata et al., La comunità terapeutica tra mito e realtà, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998.

143. Ivi, p. 702.

144. F. Basaglia (a cura di), L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, pp.4-5.

145. F. Ongaro Basaglia, “Introduzione”, in L'istituzione negata, op. cit., p. 5.

146. Considerati qui nella loro globalità come tutti i movimenti che vengono così qualificati, non solo dunque il movimento di Basaglia ma anche quello degli anglosassoni Laing e Cooper e quello di Szasz.

147. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., pp. 24-26.

148. Ivi, p. 26.

149. Ivi, pp. 26-27.

150. Si veda a tale proposito il brano di Edoardo Balduzzi sul clima degli anni '50 nell'ambito accademico, riportato nel libro V. P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 135.

151. La psichiatria fenomenologica è stata quella teoria psichiatrica che, in contrapposizione all'indirizzo organicistico e deterministico diffuso tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo, cercava di non ridurre il fenomeno della malattia mentale alla semplice disfunzione o anomalia organica e soprattutto di non ricondurre l'intera essenza dell'uomo malato di mente al solo vizio della sua psiche. Con la diffusione della psichiatria fenomenologica, lo psichiatra si avvicina anche ad altre scienze sociali, quali la filosofia e la sociologia. L'oggetto della psichiatria fenomenologica cessa di essere il cervello e inizia ad essere la vita interiore, la soggettività dei pazienti, la loro rete di interazioni. Per questo nell'ottica della fenomenologia psichiatrica ha inizio il ripensamento del manicomio, della istituzione totale manicomiale, che appare come un 'istituzione che non cancella il disagio, anzi lo alimenta. Si veda L. Scoppola, Psicopatologia (voce), Dizionario di medicina, Treccani, 2010.

152. V. P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, cit., p.179.

153. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Milano, Mondadori, 2009, pp. 49 e ss.

154. Ivi, p.51.

155. Ivi, p. 17.

156. Ivi, p. 86.

157. F. Ongaro Basaglia, “L'itinerario di Franco Basaglia attraverso i suoi scritti”, Sapere, Novembre-Dicembre 1982, p.11.

158. Ibid.

159. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, cit., p. 86.

160. Intervista a Franco Basaglia nel documentario di Sergio Zavoli “I giardini di Abele” all'interno del settimanale Tv7, 1968.

161. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, cit., p. 87.

162. Ibid.

163. Ivi, p. 91.

164. Ibid.

165. F. Basaglia, La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, in F. Ongaro Basaglia (a cura di), Scritti, Vol. I, Torino, Einaudi, 1981, pp. 256 e ss.

166. Ibid.

167. Ivi, p.90.

168. F. Ongaro Basaglia, “L'itinerario di Franco Basaglia”, op. cit., p.11.

169. Ibid.

170. Ivi, p.12.

171. Un frammento del discorso del Ministro Mariotti nel Convegno dell'Avis del 20 Settembre 1965 è riportato in V. P. Babini, Liberi tutti, op. cit., p. 207.

172. F. Basaglia, “Le istituzioni della violenza”, cit.

173. La ricostruzione di questi avvenimenti è debitrice di alcuni testi, in particolare: V. P. Babini, Liberi tutti, op. cit., cap. IV; F. Ongaro Basaglia, “L'itinerario di Franco Basaglia”, op. cit., B. Saraceno, “Psichiatria Democratica: cronaca di una lotta”, Sapere, Novembre Dicembre 1982, pp. 21 e ss.

174. A Perugia, a partire dal 1965, un gruppo di psichiatri, in accordo con l'amministrazione provinciale, pone in essere un esperimento volto a svuotare il manicomio attraverso la creazione di una rete territoriale di centri di igiene mentale. A Nocera Superiore in un ospedale psichiatrico privato il Materdomini, Piro, giunto nel 1959 inizia ad apportare alcune modifiche, elimina la pratica - già desueta - dell'elettroshock, sostituisce l'insulinoterapia con gli psicofarmaci e con gli ansiolitici, apre un atelier di pittura, limita le pratiche di contenzione meccanica. Nel 1968 Piro apre all'interno del Materdomini una comunità terapeutica, esperimento che durerà pochissimo, dato che nel 1969 verrà licenziato. A Cividale del Friuli, sotto la direzione di Edelweiss Ciotti, avrà inizio un esperimento di spedale psichiatrico aperto, che durerà pochissimi mesi nell'anno 1968. A Parma, nel 1965, è nominato assessore alla sanità Mario Tommasini, operaio, con una scarsa scolarizzazione, quando per la prima volta visita il manicomio di Colorno rimane sconvolto, fa approvare in Consiglio una mozione per “l'umanizzazione” dell'ospedale psichiatrico e decide di istituire una commissione di esperti, inizia a fare spola tra Parma e Gorizia per apprendere un diverso “modo di guardare le cose”. Nel 1969 un gruppo di studenti universitari che già frequentava - attraverso il volontariato - il manicomio di Colorno decide di occuparlo. Nel 1970 Basaglia è nominato direttore, l'esperienza durerà poco data la difficoltà di Basaglia nel vedere accolte le proprie iniziative. Alcuni degli psichiatri che avevano assistito Basaglia a Gorizia si spostano in altre strutture italiane, da Arezzo, a Ferrara, a Pordenone. Si veda a riguardo, V. P. Babini, Liberi tutti, cit., pp. 241 e ss.

175. V. P. Babini, op. cit., pp.278- 279.

176. Ivi, p. 280.

177. Si veda supra par. 1.

178. V. P. Babini, op. cit., pp. 184 e ss.

179. R. Canosa, op. cit.

180. Legge Mariotti dal nome del Ministro della Sanità, lo stesso Mariotti che tre anni prima, attirandosi le critiche di molti psichiatri aveva avuto l'ardire di paragonare i manicomi a lager, la legge è la n. 431 del 18 marzo 1968.

181. V. P. Babini, op. cit., pp. 209 e ss.

182. Le strutture psichiatriche civili avevano mutato denominazione da manicomi ad ospedali psichiatrici già a partire dagli anni '20 del XX secolo, come risulta in tutta evidenza dalla definizione che Filippo Saporito dà di manicomi nel 1934: «Termine con il quale un tempo si designava il luogo di ricovero e di cura dei malati affetti da alienazione mentale. Solo in medicina legale ancora si parla di manicomio giudiziario o criminale; nella pratica civile si adopera invece il termine “ospedale psichiatrico”», F. Saporito, Manicomio (voce), in Enciclopedia italiana, Treccani, 1934.

183. Articolo 2, Legge n. 431 del 1968.

184. Istituiti e disciplinati dall'art. 3 della stessa legge.

185. E. Monzeglio, C. Romeo, L'assistenza psichiatrica e la legge 180/1978: il caso Torino, Torino, Cult, 1996, p.4.

186. Art. 3 della Legge n. 431 del 1968.

187. S. Podesva, Manuale di legislazione sanitaria, Napoli, Simone, 2013, pp. 8-9.

188. Ibid.

189. Ibid.

190. Ibid.

191. V. P. Babini, op. cit., pp. 288 e ss.

192. Ibid.

193. Come riportato da Babini nella sua ricostruzione storica delle vicende che condussero alla riforma dell'assistenza psichiatrica, per la discussione e l'approvazione occorsero 24 giorni compresi gli adempimenti, V.P. Babini, op. cit., p. 289.

194. Art. 1 comma 2 Legge 13 Maggio 1978, n. 180.

195. Art. 1 comma 3 L. 180/1978, cit.

196. Art. 1 comma 6 L. 180/1978, cit.

197. TSO è l'acronimo di trattamento sanitario obbligatorio, nella prosecuzione si utilizzerà la sigla per riferirvisi.

198. Art. 1 comma 4 L. 180/1978, cit.

199. Art. 1 comma 7 L. 180/1978, cit.

200. Art. 1, co. 1, L. 180/1978 cit.

201. Si veda F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale. Volume 2, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 58 e ss.

202. F. Stefanoni, Manicomio Italia. Inchiesta su follia e psichiatria, in La Stampa, 12 Maggio 1978.

203. Il Trattamento sanitario obbligatorio può essere infatti disposto anche in situazioni diverse da quella del disagio psichico, tipico esempio può essere rappresentato dalle malattie infettive. Un medico potrebbe disporre il TSO nei confronti di un soggetto affetto da una patologia infettiva.

204. Si ricorda che ai sensi della legge n. 36 del 1904 l'autorità di pubblica sicurezza poteva disporre direttamente il ricovero in casi di urgenza.

205. L'art. 1, 5 comma della L. 180/1978 chiarisce che il Sindaco interviene nella qualità di autorità sanitaria locale.

206. S. Sbordoni, op. cit.

207. Ivi.

208. Articolo 1 Legge n. 354 del 1975.

209. Ricordiamo che il progetto Gonella risaliva a ben dieci anni prima.

210. A. Manacorda, Manicomi giudiziari, op. cit., pp. 132 e ss.

211. Ivi, pp. 6-7.

212. Ivi, p. 9.

213. Ibid.

214. Ivi, p. 10.

215. Per la ricostruzione della drammatica vicenda di Antonietta Bernardini è possibile consultare: A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, pp. 10 e ss.; D.S. Dell'Aquila, Se non ti importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari, Napoli, Filema, 2009, pp. 53 e ss.; A. Ferraro, Materiali dispersi. Storie dal manicomio criminale, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2010, pp. 139 e ss.

216. Ivi, p. 11.

217. Per una ricostruzione della vicenda giudiziaria che seguì la denuncia dell'ex internato Trivini si rinvia a: D.S. Dell'Aquila e A. Esposito, Cronache da un manicomio criminale, Roma, Edizioni dell'asino, 2013; A. Ferraro, op. cit., pp. 42 e ss.

218. Le vicende di Napoli ed Aversa sono ricostruite in C.A. Romano, I. Saurgnani, L'ospedale psichiatrico oggi tra ideologie e prassi, in Rassegna italiana di criminologia, 12, 3-4, 2011, pp. 506-507, nonché in A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit., pp. 87 e ss.

219. A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit., pp. 110-111.

220. La riforma sarà approvata il 26 Luglio del 1975.

221. Il 29 Ottobre del 1975, dopo l'approvazione dell'Ordinamento penitenziario, un gruppo di deputati sottopose un interrogazione al Ministro della salute. Prendendo spunto dalla vicenda Bernardini, si sollevavano principalmente due questioni: a. La prima riguardava il fatto che in OPG si potesse rimanere prima della fine del procedimento, dunque, in fase “cautelare”, per un tempo apparentemente indeterminato; b. La seconda voleva aprire ad un dibattito finalizzato alla revisione completa dell'istituzione (Atti parlamentari, Camera dei Deputati, VI Legislatura, 416, Seduta del 29 Ottobre 1975, pp. 24318 e ss.).

222. Ricordiamo che la Bernardini era stata accusata di oltraggio a pubblico ufficiale per aver schiaffeggiato un agente in borghese che, intervenendo in un litigio tra lei e un'altra signora in fila ad uno sportello della Stazione di Roma Termini, l'aveva spinta. Si rinvia alla trattazione all'interno nel par. 2.2. del Cap. II del presente lavoro.

223. I deputati erano Noya Maria Magnani (PSI), Venero Accreman, Franco Coccia, Ugo Spagnoli, Carla Bentivegna Capponi, Adriana Fabbri Seroni, Anna Maria Ciai Trivelli, Livio Stefanelli, Tommaso Perantuono, Vetrano, Gianfilippo Benedetti, Salvatore Riela (PCI) e Clemente Manco (MSI).

224. Come avremo modo di osservare nel par. 4.3., la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2979 del 1970 ha chiarito che i termini per la custodia cautelare decorrono regolarmente nelle ipotesi di sospensione del procedimento ed invio in un manicomio giudiziario.

225. La deputata Anna Maria Noyan esprimeva così la sua istanza sul punto: «L'interrogante chiede inoltre se consideri compatibile con la presunzione di innocenza dell'imputato (la Bernardini era in attesa di giudizio per un reato di oltraggio) e con la funzione rieducativa della pena nonché con il principio del ricupero e del reinserimento sociale del malato di mente la situazione attuale dei manicomi criminali ove la violenza repressiva e distruttiva delle istituzioni si manifesta in tutta la sua brutalità». Il gruppo dei deputati del PCI, che avevano sottoscritto la medesima interrogazione, esprimevano la richiesta sul punto così: «se più in generale non ritenga di rivedere tutto i l sistema dei manicomi giudiziari al fine di consentire una loro collocazione nel sistema sanitario nazionale, problema questo grave, non preso in esame dalla recente riforma penitenziaria», Atti parlamentari, Camera dei Deputati, VI Legislatura, 416, Seduta del 29 Ottobre 1975, p. 24318.

226. Ivi, p. 24319.

227. A. Manacorda, op. cit., p. 16.

228. Vedi capitolo I, par. 2.3.5.

229. Corte Costituzionale, sentenza del 23 Aprile 1974, n. 110, Giurisprudenza Costituzionale, 1974, pp. 779 e ss.

230. Giudice di Sorveglianza del Tribunale di Pisa, ordinanza del 24 Gennaio 1972, n. 58 del Registro delle ordinanze 1972, pubblicata in Giurisprudenza Costituzionale, 1972, pp. 592 e ss.

231. Corte Costituzionale, n. 110/1974, cit., pp. 784-785.

232. Ivi, pp. 784-785.

233. Ivi, p. 787.

234. Ibid.

235. Ivi, pp. 787-788.

236. Si ricorda che fino all'introduzione dell'ordinamento penitenziario esisteva un giudice di sorveglianza, figura introdotta con il regolamento carcerario del 1931, con funzione di vigilanza sugli istituti penitenziari. Delle funzioni di sorveglianza era incaricato annualmente un magistrato del Tribunale che le svolgeva assieme ad altre funzioni attribuitegli. Il giudice di sorveglianza era competente per i provvedimenti relativi alle misure amministrative di sicurezza. (G. La Greca, “Magistratura di Sorveglianza” (voce), in Enciclopedia del diritto, Annali II, Vol. 2, 2008). Soltanto con la legge n. 354 del 1975 fu istituita la magistratura di sorveglianza come organo giurisdizionale.

237. Si veda in tal senso l'Ordinanza del 21 Maggio 1979 dell'Ufficio di sorveglianza del Tribunale di Mantova, estensori Garibaldi Bonora, ricorrente Comini, in Rassegna Penitenziaria e criminologica, 1-2, 1981, pp. 209 e ss.

238. Brambilla L., “Misure di sicurezza: problemi attuali sulla loro applicazione. Ipotesi di modifica o soppressione”, in Quaderni CSM, 80, 1995, pp. 759 e ss.

239. Anche se nella legge penale la misura di sicurezza resta denominata “ricovero in manicomio giudiziario”.

240. A. Margara, Manicomio giudiziario e 180, cit., pp. 116.

241. Si rinvia all'intero cap. II.

242. Ricordiamo che era ancora vigente la presunzione di pericolosità nei confronti dell'infermo di mente autore di reato che avesse commesso un delitto non colposo, punito con una pena superiore nel massimo edittale a due anni. Si rinvia al cap. I par.2.3.3.

243. Art. 1 legge 354/1975, cit.

244. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Milano, Giuffrè, 2006, p. 241.

245. Per un inquadramento della misura, M. Canepa, S. Merlo, op. cit., pp. 246 e ss.

246. Sulla sentenza n. 139 del 1982 della Corte Costituzionale si veda il cap. IV par. 1.

247. Gli OPG italiani sono in tutto 6 e fino alla riforma della sanità penitenziaria avviata nel 1999 non esistevano regole che imponessero l'invio nel manicomio giudiziario più vicino alla località da dove proviene il soggetto. Per l'analisi della riforma si rinvia al cap. V, par. 3.1.

248. L. Filippi e S. Spangher, op. cit., pp. 108-109.

249. La liberazione condizionale, misura che comporta una sospensione della pena e l'applicazione del regime di libertà vigilata, è concessa, ai sensi dell'art. 176 del c.p. come modificato dall'art. 2 della L. 25 novembre 1962, n. 1634, in presenza di requisiti oggettivi e soggettivi. I primi, relativi alla quantità di pena espiata e alla restante parte, sono i seguenti:

  1. Residuo pena non superiore a 5 anni, aver espiato almeno 30 mesi e comunque almeno la metà della pena comminata;
  2. Se è stata applicata la recidiva aggravata o reiterata, la pena espiata deve essere di almeno 4 anni e almeno 3/4 della pena inflitta;
  3. Se la condanna era all'ergastolo il soggetto deve avere scontato almeno 26 anni di detenzione;
  4. Se la condanna è relativa ad uno dei reati previsti dall'art. 4bis dell'ordinamento penitenziario, fermi restando i requisiti di cui alla lettera a), la pena espiata dovrà essere pari a due terzi. (Questo requisito è stato aggiunto dall'art. 2 del D.L. 13/5/1991, n. 152, convertito in legge 12/7/1991, n. 203).

Per quanto concerne i secondi, l'istante dovrà:

  1. Aver tenuto una condotta dalla quale si possa dedurre il sicuro ravvedimento;
  2. Avere assolto alle obbligazioni civili derivanti dall'illecito, salvo comprovata impossibilità.

Si veda: R. Perotti, La liberazione condizionale, 2006.

250. Se il liberato era stato condannato alla pena dell'ergastolo, lo stesso effetto si produce decorsi 5 anni dalla concessione della liberazione condizionale.

251. L. Filippi e S. Spangher, op. cit., pp. 335 e ss.

252. Legge n. 663 del 10 Ottobre 1986.

253. Art. 47 ter comma 1 bis, introdotto dalla Legge n. 165 del 27 maggio 1998.

254. Art. 47 ter comma 1 ter, introdotto dalla Legge n. 165 del 27 maggio 1998.

255. Rientrano tra i benefici anche: la remissione del debito e la riabilitazione ma questi sono per natura non applicabili alla misura di sicurezza dell'internamento in OPG non essendo questa una pena, quindi non ci sembra necessario affrontarli in questo contesto. Si rinvia comunque alla lettura di M. Canepa, S. Merlo, op. cit., pp.187 e ss.

256. M. Niro, Esecuzione delle misure di sicurezza. Il punto di vista della Magistratura di Sorveglianza, 2008.

257. Il lavoro all'esterno nasce non tanto come un beneficio quanto come una diversa modalità di organizzazione del lavoro penitenziario. Questa caratteristica si coglie dalla stessa ubicazione originaria della normativa. Infatti, prima della legge Gozzini del 1986, il lavoro all'esterno era disciplinato in un articolo che si occupava di “modalità di lavoro” e apriva alla possibilità per l'amministrazione penitenziaria di organizzare il lavoro dei detenuti sia internamente al carcere che al di fuori (V. Furfaro, Il lavoro penitenziario. Aspetti giuridici e sociologici, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Giurisprudenza, a.a. 2008).

258. Parliamo in generale di trattamento, propriamente però, affrontando il tema anche in una prospettiva storica, occorre sottolineare che è corretto parlare di trattamento penitenziario solo dopo la legge n. 345 del 1975, istitutiva dell'ordinamento penitenziario. Infatti è con la suddetta legge che si introduce il concetto di trattamento, assente nel regolamento del 1931, in attuazione dell'art. 27, 3º comma Costituzione.

259. L. Filippi, G. Spangher, Manuale di diritto penitenziario, Milano, Giuffrè, 2011, p. 68.

260. Ibid.

261. Sul trattamento come concetto dotato di un intrinseco contenuto finalistico identificato con la copertura di un decifit che si presume sia presente negli individui criminali si veda M. Pavarini, Atti del seminario “Il trattamento penitenziario”, in Ristretti orizzonti.

262. T. Padovani, L'ospedale psichiatrico giudiziario, cit., pp. 250-251.

263. Si veda M. Canepa, S. Merlo, op. cit., pp. 214.

264. Ibid.

265. Articolo 20, 4 co. Ord. penit.

266. T. Padovani, L'ospedale psichiatrico giudiziario, cit., p. 251.

267. Sul tema dell'ergoterapia e del lavoro all'interno degli ospedali psichiatrici si vedano: V. Sarli e A. Gaglio (a cura di), “Le mistificazioni dell'ergoterapia e le risposte date all'O.P. di Trieste”, in Fogli di informazione, 23-24, (1975), pp. 317 e ss.; C. Bondioli, “L'ergoterapia”, in Fogli di informazione, 17, (1974), pp. 440-441.

268. A riguardo si rinvia a: A. Bonazzi, Squalificati a vita. Inchiesta e testimonianze sui manicomi criminali italiani, Torino, Gribaudi, 1975, pp. 63 e ss; I. Cappelli, “Il manicomio giudiziario”, in Quale giustizia, 9-10 (1971), p. 48.

269. Si tratta dell'autorità procedente fino alla pronuncia di primo grado e del Magistrato di Sorveglianza negli altri casi.

270. T. Padovani, L'ospedale psichiatrico giudiziario, cit., p. 253.

271. Ivi, p. 252.

272. V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano. II, 1920, cit. in T. Padovani, L'ospedale psichiatrico giudiziario, cit., p. 248.

273. I servizi psichiatrici di diagnosi e cura sono una delle articolazioni in cui si organizzano i Dipartimenti di salute mentale (DSM), a partire dall'approvazione del Progetto Obiettivo “Tutela salute mentale 1994-1996”, approvato con D.P.R. 7 aprile 1994. Il progetto prevede infatti che ogni DSM si doti delle seguenti strutture:

  1. Un Centro di Salute Mentale (C.S.M.), sede organizzativa e di coordinamento, nonché luogo ove si svolge attività ambulatoriale e si organizza quella domiciliare;
  2. Un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (S.P.D.C.), dove si provvede ad eseguire quei trattamenti che necessitano del ricovero in ambiente ospedaliero. E' la struttura destinata allo svolgimento dei TSO;
  3. Struttura semi-residenziale, centro diurno o day-hospital;
  4. Strutture residenziali.

274. L. Grassi, F. Ramacciotti, La contenzione dell'infermo di mente e del tossicodipendente, in Ristretti orizzonti.

275. D.S. Dell'Aquila, Se non ti importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari, Napoli, Filema edizioni, 2009 p. 56.

276. Ibid.

277. Ibid.

278. Ibid.

279. L.Grassi, F. Ramacciotti, op. cit.

280. Connolly è uno psichiatra inglese del XIX secolo che, nella chiave di una riforma filantropica della psichiatria, proponeva la rinuncia all'adozione di strumenti di contenzione, Si veda L. Toresini, “L'SPDC aperto e senza legature, la sfida alla cura”, in Fogli di informazione, 203, 2004, pp. 69-70.

281. D. S. Dell'aquila, Se non ti importa il colore degli occhi, cit., p. 56.

282. Al congresso della Società freniatrica italiana del 1901, il relatore Tambroni, sosteneva, in merito al no restraint che: «il no restraint assoluto, benché rappresenti nel trattamento dei pazzi, un metodo ideale, è almeno nelle condizioni attuali di difficile applicazione nei nostri manicomi.» R. Tambroni, “Relazione al Congresso della Società freniatrica italiana”, in Rivista sperimentale freniatria, 1902, pp. 143 e ss., alcuni estratti della relazione sono riprodotti nel testo R. Canosa, op. cit., pp. 79-81.

283. D. S. Dell'Aquila, Se non ti importa il colore degli occhi, cit., pp. 61-62.

284. Ivi, p. 59.

285. Ibid.

286. Ibid.

287. Art. 42 legge n. 354 del 1975.

288. Ivi, p. 75.

289. Ibid.

290. Ibid.

291. Ibid.

292. Ibid.

293. Ivi, pp. 68-69.

294. Ivi, p. 70.

295. Ivi, pp. 70 e ss.

296. L. Grassi, F. Ramacciotti, op. cit.

297. G. Turano, “Così hanno ucciso Mastrogiovanni”, in L'Espresso, 28 Settembre 2012.

298. Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Commissione d'inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, Relazione sulle condizioni di vita e di cura all'interno degli Ospedali psichiatrici giudiziari, Relatori Senatori M. Saccomanno e D. Bosone, Approvata il 20 Luglio 2011, Documento XXII bis n.4, pp. 3-4.

299. Ivi p. 7.

300. Ivi p. 7.

301. Report to the Italian Government on the visit to Italy carried out by the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) from 14 to 26 September 2008, Strasbourg, 20 April 2010, in CPT, pp. 60 e ss.

302. Per un'analisi della normativa relativa a questa misura di sicurezza, si rinvia al cap. I par. 3.2.

303. A. Manacorda, op. ult. cit., p. 51.

304. Ibid.

305. Ibid.

306. Ivi, pp. 52-53.

307. Ibid.

308. Ibid.

309. Corte di Cassazione, sentenza n. 2979 del 16 Dicembre 1970.

310. A. Manacorda, op. ult. cit., pp. 53 e ss.

311. Corte Costituzionale, sentenza n. 146 del 19 Giugno del 1975, in Giurisprudenza costituzionale, 1975, pp. 1372 e ss.

312. A. Manacorda, op. ult. cit., pp. 63 e ss.

313. Ivi, pp. 63 e ss.

314. Ivi, pp. 64-65.

315. Art. 98, D.P.R. del 29 aprile 1976, n. 431.

316. Ivi, pp. 65 e ss.

317. Ivi, pp. 66-67.

318. Ivi, pp. 67-68.

319. Margara definisce la trasformazione di una misura di sicurezza come una forma di sospensione sui generis. A. Margara, “Manicomio a vita”, cit., pp. 568-569.

320. Ivi, p. 70.

321. A. Margara e P. Ornato, “Manicomi giudiziari”, in M. Cappelletto e A. Lombroso, Carcere e società, Venezia, Marsilio, 1976, p. 321.

322. Ibid.

323. Ibid.

324. Ivi, pp. 322-323.

325. Sul carcere come istituzione patogenetica ci permettiamo di rinviare a D. Gonin, La santé incarcérée. Médecine et condition de vie en détention, L'Archipel, 1991, tr. it., Il Corpo incarcerato, Torino, Gruppo Abele, 1994.

326. Ibid.

327. Ivi, p. 323.

328. Peraltro il ricorso ad amnistie ed indulti è stato molto frequente in una buona parte della storia repubblicana, per avere un quadro si rinvia a F. Piraino, Amnistia, indulto e popolazione detenuta nell'Italia repubblicana, tesi di laurea, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2007.

329. A. Margara e P. Ornato, op. cit., p. 323.

330. Ibid.

331. Ad avviso di chi scrive la tendenza ad utilizzare l'ospedale psichiatrico giudiziario come deposito di detenuti difficili non deve suscitare particolare stupore. Infatti, se ricordiamo le modalità con cui questa istituzione è stata introdotta, come istituto penitenziario speciale e le motivazioni che nella Circolare del Ministero dell'interno del 1872 erano addotte per introdurle, evitare il turbamento delle case penali, l'invio dei detenuti indisciplinati verso questi istituti appare in linea con l'originario modo di essere del manicomio giudiziario.

332. Ivi, pp. 326-327.

333. Ibid.

334. Ivi, pp. 327-328.

335. Art. 99 Regolamento esecuzione ordinamento penitenziario, D.P.R. 431 del 1976.

336. Ibid.

337. La legge n. 180 del 1978, stabiliva, all'art. 6, in relazione ai TSO per malattia mentale che questi dovessero essere di norma eseguiti in ambito extraospedaliero. Qualora si fosse reso necessario un trattamento ospedaliero, questo non avrebbe dovuto aver luogo negli OP. Soltanto i soggetti già ricoverati in OP, prima dell'entrata in vigore della legge, potevano, in via eccezionale, ai sensi dell'art. 8 rimanere nelle preesistenti strutture, ma a seguito della produzione da parte dei primari di relazioni motivate da comunicare al sindaco del comune di residenza del degente. Negli OP potevano altresì essere ricoverati, qualora ne facessero richiesta, coloro che vi erano stati ricoverati prima dell'entrata in vigore della legge. Dunque, a seguito della Legge n. 180 del 1978, non potevano essere disposti nuovi ricoveri nei manicomi.

Gli ospedali psichiatrici, inoltre, ai sensi dell'art. 64 della Legge n. 833 del 1978, dovevano gradualmente essere superati, attraverso la predisposizione di appositi programmi regionali.

338. Un indirizzo contrario ma rimasto isolato, si può osservare nella sentenza del Tribunale di Roma, 2 aprile 1979, presidente Nardelli, estensore Viglietta. Il Tribunale di Roma disapplicò l'art. 222 c.p., ritenendolo norma implicitamente abrogata dalla Legge n. 180 del 1978. L'art. 11 di questa legge, infatti, elencava una serie di articoli di varie leggi che sarebbero stati abrogati al momento dell'entrata in vigore della stessa, inoltre stabiliva che fossero altresì abrogate tutte le disposizioni incompatibili con la nuova normativa. Il Tribunale di Roma ritenne che l'art. 222 c.p. fosse incompatibile con i contenuti della riforma (A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit., p. 170).

La sentenza del Tribunale di Roma rimase un unicum, piuttosto come avremo modo di vedere in seguito, la strada percorsa da alcuni magistrati di sorveglianza, a seguito dell'entrata in vigore della legge Basaglia, fu quella di sollevare alla Corte questione di legittimità costituzionale.

339. M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di incapacitazione, Giappichelli, Torino, 2008, p. 86.

340. Ibid.

341. Ivi, p. 87.

342. Si ricorda che la pericolosità sociale, requisito soggettivo per l'applicazione della misura di sicurezza, era in alcune ipotesi presunta. Tra le fattispecie presuntive rientrava quella del non imputabile per vizio totale di mente che avesse commesso un delitto non colposo per il quale fosse prevista una pena edittale superiore nel massimo a due anni, si veda supra cap. I par. 4.2.2.3.

343. M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario, cit., p.87.

344. Ibid.

345. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario, cit., p. 86.

346. A. Margara, “Manicomio giudiziario e legge 180”, in Fogli d'informazione, 2008, 5-6, pp. 116-117.

347. In realtà fu prevista, dal D.L. 28.2.1981, n. 37, come norma temporanea, un'estensione della deroga prevista dall'ultimo comma dell'art. 8 della legge n.180 del 1978, dunque, era possibile per l'internato che fosse già stato in passato ricoverato in ospedale psichiatrico civile al termine della misura di sicurezza fare richiesta per essere ricoverato in deroga al divieto di nuovi ricoveri. Si veda in proposito A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, p. 152.

348. Daga, op. cit., p.12.

349. Ibid.

350. Come avremo modo di approfondire in seguito, la totale assenza di legami e progettualità all'esterno - si tratti di una famiglia disponibile a prendersi cura del proprio caro, oppure di servizi pubblici che offrano percorsi riabilitativi - contribuisce ad una valutazione negativa da parte del Magistrato di Sorveglianza, portato a confermare la pericolosità sociale del soggetto.

351. I progetti di riforma saranno esaminati nella prima parte del cap. V.

352. Ad esempio R. Castiglioni, “Il ritorno del Mariolino. Ovvero dell'insostituibile funzione del manicomio criminale”, in Rassegna penitenziaria, 1-3, 1986, pp. 130-131.

353. Nel senso del potenziamento delle strutture psichiatriche giudiziarie si vedano: R. Castellani, R. Correani, “Ospedale psichiatrico giudiziario: sottosistema penitenziario”, in Rassegna penitenziaria, 2-3, 1983, p. 790; A. Manacorda, manicomi giudiziari, cit., pp. 108 e ss. Alcuni sostengono che alla legge n. 180 avrebbe fatto seguito una criminalizzazione della malattia mentale che non sarebbe andata a riversarsi solo sugli OPG ma anche sulle carceri, G. Russo e L. Salomone, “Il malato di mente nel sistema giudiziario”, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 2-3, 1999, pp. 127 e ss.

354. A riguardo è possibile leggere le testimonianze delle famiglie sul sito dell'associazione vittime della 180. Si precisa che chi scrive non condivide molto di quanto riportato nel sito. Soprattutto si ritiene che le descrizioni del pensiero di Franco Basaglia siano semplificate e non sempre rispondenti a quanto si può dedurre dagli scritti dell'Autore. Non si condividono inoltre le posizioni manifestate circa la pericolosità dei malati di mente, la necessità di un trattamento custodiale degli stessi e persino la beneficità di trattamenti quali l'elettroshock (sic!). Si ritiene però che le testimonianze riportate possano offrire un quadro circa la sensazione di abbandono provata dalle famiglie nel post-180.

355. Sempre l'Associazione vittime della 180 oggi sostiene una campagna contro il superamento degli OPG.

356. A riguardo Manacorda nota come l'OPG di Barcellona Pozzo di Gotto presentasse una percentuale di dimessi al termine della durata minima della misura, di gran lunga superiore, rispetto alla media di altri OPG italiani. Proprio nella realtà siciliana era invalsa questa prassi di operare il trasferimento dell'infermo di mente dal manicomio giudiziario a quello civile (A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit.).

357. I dati di seguito riportati sono presi da V. Andreoli (a cura di), Anatomia degli ospedali psichiatrici giudiziari, Roma, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio studi e ricerche, 2002.

358. Questi dati sono stati ricavati da: V. Andreoli, “Manicomi, addio senza rimpianti”, in La Repubblica, 31 Dicembre 1996.

359. Decreto del Presidente della Repubblica 7 aprile 1994, (Gazzetta Ufficiale n. 93 del 22.04.1994), Approvazione del Progetto obiettivo “tutela salute mentale 1994-1996”.

360. L. Daga, op. cit., p. 12-13.

361. Esempio di un caso di questo genere si può trarre dall'articolo di Castiglioni Il ritorno del Mariolino. L'Autore racconta la storia di Mario un paziente che ha trascorso la sua vita, fin dalla tenera età tra il manicomio e la libertà, con ricoveri di durata variabile, talvolta più lunghi, talaltra più brevi. Alla chiusura del manicomio dove era stato spesso ricoverato e che rappresentava per lui una sorta di “casa”, la soluzione che viene trovata all'esuberanza e anche aggressività di Mario è quella della denuncia e dell'apertura dell'iter penale che lo conduce all'OPG. R. Castiglioni, Il ritorno del Mariolino, cit.

362. Si veda supra par. 4.1.

363. Si veda cap. IV, par. 1.

364. Padovani T., “L'ospedale psichiatrico giudiziario e la tutela costituzionale della salute” in U. Breccia e F.D. Busnelli et al., Tutela della salute e diritto privato, Milano, Giuffrè, 1978, pp. 242-243.

365. Per l'analisi delle motivazioni sul punto si veda infra cap. IV, par. 1.