ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Leonardo Basile, 2014

Storie e leggende sulle "gang" sono un argomento che mi ha sempre affascinato. La strada ed il quartiere che si mischiano al pericolo e all'avventura. Un incredibile senso di appartenenza ad un qualcosa -la forza del gruppo ed i suoi simboli- che dall'esterno è visto come indice di un comportamento deviante e antisociale.

Avevo letto della vicenda dei "Mods" e dei "Rockers", raccontata magistralmente da Stanley Cohen (1972), e mi ero appassionato alla storia di una cultura che aveva diverse origini in comune, quella skinhead. Ho trovato sempre curiosità e attrazione per quei fenomeni collettivi che hanno come teatro principale la strada, e un portato ribelle, un segno di incompatibilità verso i valori culturali egemoni. Ma mai avrei pensato di scrivere la tesi al termine del mio corso di laurea magistrale in giurisprudenza sul tema delle bande giovanili.

Nel corso della ricerca mi sono occupato di studiare il fenomeno di un'organizzazione di strada, i "Bolognina warriors", con l'obiettivo principale di comprendere i loro valori e le loro pratiche. Quando ho iniziato a prendere in mano l'argomento "warriors" credevo avrei avuto a che fare con ragazzini di tredici o quattordici anni, in linea con quanto scrivevano e argomentavano la totalità dei media locali. Come vedremo nel secondo capitolo, il nome di questo gruppo è stato accostato dalla cronaca locale al manifestarsi di una "baby-gang" di ragazzini a cavallo fra scuole medie e primi anni delle superiori. Ma è bastato fare poche domande in giro per il quartiere della Bolognina per capire che dietro questa rappresentazione giornalistica si nascondeva una situazione ben più complessa e strutturata. Ho scoperto presto che avrei dovuto relazionarmi con persone adulte, sulla soglia dei trent'anni, piuttosto che con adolescenti o pre-adolescenti.

Una situazione ambigua che mi ha obbligato a tenere assieme due piani: quello "ufficiale", che rappresentava il gruppo come una pericolosa baby-gang formata da ragazzini a cavallo tra le scuole medie e i primi anni delle superiori; e quello reale, che raccontava invece della presenza di un'"organizzazione di strada" da oltre un decennio, con la sua "base" nell'area del quartiere che va da via Corticella a via Ferrarese.

Individuato compiutamente l'oggetto della ricerca ho cercato di muovermi lungo tre linee direttrici. In primo luogo concentrandomi sul tema della soggettività, nel senso di indagare le motivazioni che gli attori danno al proprio pensare e agire collettivo. Una seconda linea di riflessione è relativa al rapporto del gruppo con il "quartiere", una relazione che possiede implicazioni tanto reali quanto simboliche. Infine, ho cercato di indagare il rapporto dei ragazzi con la tematica della devianza, con particolare attenzione a quei processi di strutturazione identitaria che si sono formati attraverso dinamiche interne ed esterne, ed in particolare con l'interazione dei mass media da un lato e la cultura hip hop dall'altro.

La metodologia che ho usato è stata di tipo esclusivamente qualitativo. Il (poco) tempo che si ha a disposizione per una tesi di laurea non mi ha permesso di entrare all'interno delle loro dinamiche collettive, e cercare di acquisire quella condizione particolare di "osservatore partecipante". O, come scrive Wacquant (2001), quella ancora più empatica di "partecipatore osservante". In ogni caso non sono mancati i momenti di confronto, o quelli in cui si è potuto costruire un clima di complicità ed empatia. Ed il nastro del mio registratore d'epoca ha raccolto svariate ore di interviste, mentre il quaderno andava riempendosi di "appunti" di ricerca. La tipologia di intervista che ho utilizzato prevalentemente, seguendo le classificazioni della Bichi (2002), è stata quella "biografica-libera". E' una tecnica che concede agli intervistati il massimo spazio per una "totalizzazione soggettiva, intesa come realtà psichica e semantica costituita da ciò che il soggetto valuta retrospettivamente rispetto al suo percorso biografico" (Bichi, 2002, pag. 35). La scelta di questo metodo implica che la relazione fra "osservatore" e "osservato" risulti simmetrica, e comporti per il primo la necessità di considerare "quelli che altrove appaiono come 'errori di misurazione', come elementi del processo sociale di costruzione della realtà, per disegnare un'idea (altra) di ragionevolezza o di razionalità arricchita, caricata di senso ..." (Bichi, 2002, pag. 41).

Questo metodo di intervista è stato del tutto spontaneo e naturale, vista anche la mia prossimità anagrafica e per molti versi culturale con gli intervistati. E, a giudicare dalla carica emotiva e relazionale di questi ragazzi, forse sarebbe stato impossibile strutturare le conversazioni in maniera più definita e ordinata. In questo senso ha assunto la sua rilevanza anche il fatto che parlassero uno strettissimo "slang" bolognese, una circostanza che mi ha costretto a domandare alcune cose anche più e più volte, quasi mi trovassi in un paese straniero. O a trascorrere ore in compagnia del registratore, nel tentativo di ricostruire il senso di frasi e parole.

Il mio lavoro si inserisce nel contesto della ricerca etnografica, intesa come il tentativo di provare a comprendere "dal basso" un fenomeno sociale e culturale riferito ad un gruppo specifico. Durante tutta la ricerca si sono in questo senso rivelati di enorme utilità gli insegnamenti di David Matza (1969), ed in particolare il concetto di "prospettiva rivalutativa". In "Becoming deviant" Matza distingue due metodi per approcciare il tema della devianza: quello correzionale e, appunto, quello rivalutativo. Il primo, osservando la devianza da un punto di vista esclusivamente patologico, non è in grado di creare con il soggetto della ricerca quello stato di empatia necessario al fine di comprenderne senso e ragioni. Il secondo, al contrario, mira a ricostruire significati e valori dalla prospettiva dell'attore, e risulta maggiormente adeguato a coglierne gli aspetti più profondi e riflessivi.

Un altro elemento significativamente riscontrato è stato quello della "funzione biografica" dell'intervista (Wacquant, 2001). La libertà delle conversazioni, la possibilità di affrontare senza veli i temi più spinosi, ha permesso in certi casi di "togliere un peso" ai soggetti intervistati. Questo aspetto sarà palese in alcuni estratti riportati nel terzo capitolo, nel quale il mio interlocutore trova per la prima volta la possibilità di raccontare "pubblicamente" la sua versione dei fatti (1).

Diverso evidentemente è stato quando si è trattato di intervistare un assistente sociale coinvolto nella "rieducazione" di un soggetto minorenne: qui il colloquio si è svolto in maniera ben più strutturata, assumendo quasi la forma di un questionario. E tuttavia vedremo come anche nel racconto di questo ragazzo sia emersa più volte la necessità di sfogarsi pubblicamente.

La metodologia utilizzata, la scelta di fare un lavoro prevalentemente "di campo", nasceva dall'esigenza di rispondere ad alcune precise domande di ricerca. Ci si domandava in particolare se vi erano, a Bologna, organizzazioni di strada simili a quanto riscontrato in altri luoghi, come ad esempio i gruppi di latinos che si sono manifestati in città come Genova o Milano. O se, eventualmente, vi fossero segnali per uno sviluppo analogo o secondo caratteristiche diverse. E poi, ancora: qual era il rapporto di queste "organizzazioni" con la violenza o con altri comportamenti illeciti? E quali carenze strutturali della società erano messe a nudo da una simile presenza?

Per raggiungere questi obiettivi di ricerca ho ritenuto opportuno dividere la tesi in quattro capitoli. Nel primo ho tentato di ricostruire parte della letteratura tradizionale e contemporanea sul tema delle "gang". Si parte con i "pionieristici" lavori della Scuola di Chicago, con un particolare "focus" sulle ricerche di Frederic Thrasher (1927), fino ad arrivare al dualismo contemporaneo fra le ipotesi della criminologia del controllo (Klein, 2001) e quelle della criminologia culturale (Queirolo Palmas, 2009, 2010; Feixa, 1998; Brotherton, 2003). Il secondo è strutturato in due parti. La prima riguarda la controversa relazione esistente fra organizzazioni di strada e mass media, da un punto di vista sia storico-teorico che contemporaneo. Nella seconda ho cercato di problematizzare il "rapporto" che si è creato fra mass-media locali e il fenomeno "Bolognina Warriors", tenendo anche conto degli strumenti teorici raccolti nel capitolo precedente. Ho passato in rassegna articoli di giornale, interviste, rapporti e documenti di varia natura che raccontavano della "baby-gang". In questa fase del lavoro l'obiettivo critico è rivolto a quella che possiamo definire la "costruzione di un nemico", sebbene i protagonisti siano ragazzine e ragazzini che, all'epoca dei fatti, non superavano ancora i quattordici anni di età. Da ultimo ho ascoltato la testimonianza di un "operatore sociale", che ha vissuto l'intera vicenda in qualità di "dipendente" (2) per una cooperativa che aveva l'incarico di "rieducare" questi minori.

Nel terzo capitolo guarderemo da vicino il gruppo "storico" dei Bolognina Warriors, cercando di ricostruirne la biografia e da una prospettiva di contesto cittadino, e da quella intersoggettiva che valorizza il loro rapporto col quartiere. Nel quarto infine, parleremo del loro legame costitutivo con l'hip-hop, ed in particolare con il filone del gangsta-rap. Qui intrecceremo racconti ed esperienze soggettive con un'analisi più generale, che vede il rap coinvolto ovunque nel mondo nella costruzione di soggettività di strada resistenti (Hagedorn, 2011).

Note

1. Il riferimento è al rapporto tra il gruppo storico dei Bolognina Warriors e quanto è apparso nei giornali per diversi mesi a proposito di una baby-gang con il medesimo nome.

2. Dipendente, fra virgolette. Il rapporto di lavoro di Albero era regolato da un contratto "a chiamata" dalla durata di sei mesi, che la cooperativa rinnovava per analoghi periodi alla scadenza.