ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

La sofferenza, il carcere ed il re-ingresso
La mediazione, la sofferenza e la catarsi

Karina Nogueira Vasconcelos, 2013

(Abstract)

La ricerca, in cui il tema centrale è la sofferenza prima del carcere, nel carcere, dopo il carcere ed ancora nel carcere, è stata svolta in due parti: la prima, attraverso una ricerca-azione nella Colonia Penale Femminile di Recife in Brasile, più conosciuta come "Buon Pastore"; la seconda, attraverso la costruzione di una chiave di lettura del problema della recidiva e le possibilità di recupero sociale delle detenute a partire dalla proposta della Mediazione Umanista sviluppata in Francia.

Dopo gli studi sulla storia dell'istituzione carceraria nella Modernità, del suo affermarsi e della sua crisi, avvertivo la necessità di affrontare una ricerca dentro il carcere per confrontarmi con la sua routine, il suo pubblico, le sue pratiche di violenza e per conoscere da dove vengono le persone che si trovano qui ristrette, quali i reati più comuni per cui sono condannate, i tassi di recidiva, il perché della ricaduta nel delitto e le possibilità effettive di risocializzazione.

Per cercare di intendere tutto questo, ho sviluppato una ricerca-azione per due anni (2010 e 2011) nel Buon Pastore, che è il più antico carcere femminile di Recife. Al momento attuale in questo carcere sono detenute 636 donne, nonostante la capacità sia per sole 204; la struttura carceraria si compone di 35 celle, delle quali una è stata destinata alle detenute incinte e tre alle madri con prole. Le celle hanno mediamente una superficie di 12 m² e solo due raggiungono i 18 m² e contengono rispettivamente 30 e 32 recluse.

Il problema centrale della ricerca concerne la recidiva e come contenerla. La domanda iniziale: è il carcere stesso responsabile della recidiva?; a cui segue: è possibile accertare scientificamente il contributo del carcere al fenomeno della ricaduta nel delitto? E da questi primi interrogativi prende spunto ed inizio la ricerca. Sono state così intervistate circa 30 detenute invitandole a parlare di loro. Così abbiamo raccolto le storie di vita di queste donne e abbiamo colto nella condizione socioeconomica precaria e nella sofferenza i dati comuni a tutte.

La scelta delle detenute da intervistare è stata fatta in base al criterio del re-ingresso in carcere. Il criterio del re-ingresso è diverso dalla recidiva. Se la recidiva si ha quando uno delinque dopo aver già commesso un delitto, è ovvio che ciò può determinarsi senza che si determini un re-ingresso in carcere. Il re-ingresso carcerario sociologicamente coglie la reiterazione della pena detentiva. Dall'analisi preliminare compiuta, sul totale delle detenute nel carcere il Buon Pastore (636), soltanto 44 risultavano segnate dal fenomeno del re-ingresso. Di queste alcune non si trovavano più al Buon Pastore, perché altrove trasferite, altre erano evase e altre ancora si sono negate di partecipare alla ricerca, per cui, del campione delle detenute in re-ingresso in carcere, abbiamo potuto interrogarne solo 13, a cui si sono aggiunte altre 16 che non appartenevano a questo campione. Prima delle interviste si sono organizzati focus group per spiegare gli obiettivi della ricerca e per agevolare un primo processo di integrazione con le detenute. Tutta questa fase è descritta puntualmente all'Appendice III della tesi.

Le interviste sono state fatte individualmente e senza alcun controllo della polizia penitenziaria. Sono stati intervistati pure alcuni operatori del sistema carcerario.

La metodologia della ricerca, di natura prevalentemente etnografica, si è basata nell'intervista di tipo narrativo, con l'ausilio di un questionario semistrutturato, basato su uno modello di intervista che può essere consultato all'Appendice n. I.

Per registrare la condizione socioeconomica delle detenute, è stata sviluppata una ricerca apposita che utilizza serie di dati assai ampie e che sono state riportate nei grafici e nelle tabelle.

Abbiamo quindi intervistato le 29 detenute, registrato le interviste, sbobinando poi quanto registrato. L'intervista parte sempre con un invito: "Parlami di te", nell'intento di favorire il racconto di una storia di vita. Ed è attraverso questa narrazione che si può comprendere anche l'esperienza detentiva e le ulteriori ricadute nel delitto e gli eventuali re-ingressi in carcere. Ci sembra di aver colto in questi racconti la centralità dell'esperienza della sofferenza che precede il delitto e la pena stessa, ma che ci permette di capire sia il delitto, sia la recidiva, sia il re-ingresso nel carcere. L'esperienza del dolore e della sofferenza non va confusa con il dolore e la sofferenza del carcere. Certo: il carcere è anche sofferenza e dolore e quindi ciò comporta un'ulteriore aggravamento del dolore e della sofferenza pre-esistenti. Da qui l'interrogativo di fondo: è possibile pensare strategie capaci di utilizzare questo vissuto di sofferenza e di dolore come risorsa per ridurre i danni del carcere, come, ad esempio, evitare la recidiva e rendere possibile un percorso di reinserimento sociale?

La seconda parte della tesi si concentra quindi su questo aspetto: come trasformare questa sofferenza e dolore - che sono all'origine dell'esperienza detentiva stessa e della sua reiterazione - in qualche cosa che consenta di contenere e minimizzare i danni che a sua volta la pena carceraria determina.

È importante chiarire come investire sulla sofferenza non fosse l'ipotesi di partenza che ispirava la tesi, ma a questa determinazione si è giunti attraverso l'interpretazione delle storie di vita delle detenute, così come emergono dalle interviste. Dopo la ricerca-azione in cui così perentoriamente era possibile cogliere il dato comune del dolore, non si poteva sfuggire all'interrogativo: che cosa è mai possibile fare con questa sofferenza? Ed a partire da questo interrogativo che la mediazione diventava una importante strategia per convertire quel dolore in risorsa utile a un processo di liberazione.

La proposta del Reinserimento Sociale Individuale per le detenute è stata costruita a partire dei concetti e dalle esperienze in tema di resilienza e mediazione. Per costruire l'argomento della Mediazione Umanista come proposta di riduzione dei danni del carcere, ho frequentato un corso di formazione al CMFM (Centre di Médiation et di Formation à la Médiation) a Parigi. Di solito si pensa al lavoro come principale mezzo per le risocializzazione dei detenuti, però, si sa che il lavoro è solamente una possibile opportunità. Certo il lavoro sembra il mezzo più pratico e efficace allo scopo rieducativo dei detenuti, ma non è certo l'unico. Cosa fare, ad esempio, con chi trova nel vissuto e nell'esperienza del dolore la causa primaria della condotta deviante e criminale con quanto poi ne consegue? Per queste persone, la proposta della Reinserimento Sociale Individuale non può che confrontarsi con la dimensione del dolore, deve lavorare sul dolore per fare di questo una risorsa utile al processo di inclusione sociale. E la Mediazione Umanista può dimostrasi a questo fine assai proficua.

Se la sofferenza è quanto determina o aiuta la reiterazione del delitto, riconoscere e accogliere la sofferenza sono forse opportunità per interrompere la spirale che favorisce il re-ingresso in carcere? Il cuore della ricerca è sapere fino a che punto l'accoglienza della sofferenza delle detenute del Buon Pastore con la pratica della Mediazione Umanista possa aiutare, dato il processo catartico su cui si struttura il processo della mediazione, l'inserimento sociale dei detenute e, così, un'effettiva riduzione dei tassi di recidività. La Mediazione Umanista non è infatti una tecnica, ma l'arte di donare la parola, di offrire un spazio al conflitto e, per mezzo di un "gioco di specchi", permettere un'altra percezione dal conflitto stesso e forse ciò può favorire un processo di allontanamento dalle condizioni di sofferenza. Si apre un spazio così per esprimere la propria differenza e riconoscere la differenza altrui. Il "gioco di specchi" tra le parti in conflitto ed i mediatori consiste nei sentimenti ed emozioni che sono stati avvertiti dalle parti e che vengono "riflessi" dai mediatori. I mediatori infatti utilizzano espressioni del tipo: "io sento" o "io ti sento" e così offrono una possibilità perché le parti riconoscano quei sentimenti e quelle emozioni e possano quindi parlare, comunicare tra di loro.

Tre cose sono fondamentali alla Mediazione Umanista: il silenzio, il non giudicare e l'empatia. Il silenzio è centrale nella Mediazione, dato che non sono le parole che risolvono il conflitto, ma lo spazio del silenzio, come dice la Morineau. Un altro dato importante è il non giudizio, cioè, il non giudicare quello che è stato detto dalle parti. E, per quanto riguarda l'empatia, la qualità di attenzione multisensoriale, si tratta de una capacità di capire quello che l'altro sente, senza giudicare, accogliendo l'affetto dell'altro. La Mediazione Umanista si sviluppa in tre fasi: Theoria, Crisis e Catharsis. La Theoria consiste nell'accogliere le persone in conflitto, nelle esposizioni dei fatti e nel riassunto che è viene operato dopo che ognuno ha avuto la opportunità di esporre il proprio punto di vista. La Crisis origina poi dal confronto delle sofferenze, che si determina nello scontro tra punti di vista confliggenti. La Catharsis è quando si arriva alla chiarificazione, alla percezione etica e materiale del problema, alla riparazione. In questo momento si determina il riconoscimento reciproco tra persone in conflitto, il riconoscimento dei valori dell'"altro" fino a determinare uno sguardo nuovo e diverso sull'altro e sulla stessa situazione conflittuale.

Nella tesi in discussione, la Mediazione è solo una offerta, mai un'imposizione. L'obiettivo finale rimane comunque la liberazione dalla sofferenza, nella speranza di interrompere così quel circolo vizioso che porta alla recidiva e al re-ingresso in carcere.