ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

La prima volta

Irene di Valvasone, 2013

Ricordo bene la prima volta che sono entrata a Sollicciano. Un sabato mattina dal cielo coperto; una di quelle giornate in cui il sole appare e scompare all'improvviso, e in un attimo ti ritrovi bagnata da una pioggia abbondante, ma calda. Era ieri.

Lunghi mesi ad aspettare questo momento, a prepararmi per non fare figuracce coi detenuti, coi colleghi, con tutti gli amici a cui ho raccontato che sono una volontaria penitenziaria. E poi la sveglia suona: 7.30 di sabato mattina, poche ore di sonno, una settimana di poche ore di sonno... ma chi me l'ha fatto fare?!?! Dopo i primi dieci minuti di imprecazioni, realizzo: sto per entrare in un carcere. Di colpo sono sveglia, reattiva. Non ho paura, ma sono consapevole che ci vuole concentrazione, attenzione. La sensazione di andare incontro al pericolo sgranchisce le mie ossa e attiva i muscoli. La mente è incredibilmente lucida.

Sbaglio strada, lo sapevo che non avevo capito dov'era ma speravo che l'istinto mi guidasse. Ma quando mai l'istinto ti guida verso una prigione? Forse è la prima volta che il mio istinto non fa cilecca e, volontariamente, mi fa sbagliare strada. Fermo un passante, gli chiedo da che parte sia il carcere di Sollicciano e lui sgrana gli occhi. Poi, per fortuna, mi spiega molto precisamente dove devo andare. Chissà cos'ha pensato? Dico dentro di me sorridendo. La gente non sa cosa si fa in carcere, non ne parla, non pensa al carcere. Nega. Rinnega una parte di umanità.

Ed ecco aprirsi di fronte a me la visione del più brutto edificio mai costruito a Firenze e dintorni. È grottesco nella sua imitazione di un anfiteatro. Forse l'architetto voleva fare dell'ironia: qui si svolgono tragicomiche scene di vita umana. Ad ogni modo, è la bruttezza che colpisce, non le precauzioni sulla sicurezza. La recinzione è costituita da sbarre blu, come il cancello di casa mia; le torrette sono vuote, non c'è nessun uomo cattivo col mitra a controllarti dall'alto..... Le pareti degli edifici hanno lo stesso colore del cielo coperto dalle nuvole gonfie di pioggia. Il grigio non è un colore.

Voglio entrare, sono pronta. Primo controllo. Lascio tutto nelle cassette di sicurezza, tranne il mio fedelissimo codice, amico caro, nel senso che mi è costato parecchio visto che era quello col maggior numero di leggi complementari...

Ora la sento un po', l'ansia. Cosa c'è di là dal cancello? La risposta è semplice: altri cancelli. Il carcere è un labirinto di cancelli. Ma perché avranno scelto di farli color blu-Fiat-Seicento? O forse è la Fiat che si è ispirata ai cancelli di Sollicciano? Secondo controllo. Terzo controllo. Siamo dentro. Dentro il mondo chiuso della marginalità. Lontano dallo sguardo dei giusti.

Iniziamo a percorrere i corridoi, lunghissimi e gialli. Forse un tempo erano bianchi. Mi sento osservata. Ci sono telecamere ovunque, occhi dovunque. In realtà non mi fanno sentire al sicuro, ma mi mettono a disagio. Chissà chi c'è dall'altra parte a scrutare i miei passi? Cammino eretta come fossi in passerella, sento sguardi fissi su di me. Non ho mai imparato a sopportare le attenzioni.

Giudiziario, arriviamo in sezione. Saliamo, ma non so quanti piani di scale facciamo, infatti più tardi mi perderò, ed entriamo nella nostra stanzetta: un cubicolo con tre sedie, una scrivania e una finestra. Il vuoto che si respira in quella stanza non si può spiegare, non sono l'esiguità di oggetti, le pareti scrostate, il soffitto chiazzato d'umido a renderlo triste, desolante. È qualcosa di più, come se si percepisse che quella stanza non ha mai assistito a scene di felicità, le pareti trasudano brutti ricordi. È come se si sentisse che lì dentro nessuno ci ha mai fatto l'amore.

Aspettiamo che gli agenti ci portino i detenuti per fare il nostro lavoro. Eccolo entrare, il primo detenuto della mia vita. Ma neanche me ne accorgo, sono troppo concentrata a cercare di capire cosa dice e a sperare di conoscere la soluzione al suo problema. Non so perché, ma l'unica cosa che mi preoccupa è non fare figuracce. Come se poi all'uscita mi dessero un voto. Molto bene signorina lei ha passato l'esame, può tornare a casa...

Non riesco già più a ricordare i loro volti, le persone si susseguono tutta la giornata, così come le loro domande. Ma senza fretta. Quante persone abbiamo visto? 10-15? non di più, credo. Ora capisco perché siamo pieni di arretrati. Il tempo scorre diversamente in questo luogo, è più lento, nessuno corre. Il tempo si spreca, si svende, si svaluta. È una moneta inflazionata qui dentro, come il marco tedesco alla fine della seconda guerra mondiale. Chi più ne ha, più è povero. Ma poi, quando esci, cambia immediatamente valore: di nuovo è importante, prezioso al punto da farci passare tutta la vita a rincorrerlo. E quello passato qui dentro? Chiunque abbia inventato il carcere era un uomo furbo. La pena detentiva è servita ad abolire la pena di morte. Ma la pena di morte esiste ancora da noi, e in tutti quei Paesi che hanno finto di abolirla, per il disgusto nel veder scorrere il sangue. Il tempo è vita, e la pena detentiva non è altro che una privazione di tempo. Noi moderni non uccidiamo i delinquenti. Gli accorciamo la vita.

Le domande che ci pongono sono semplici, e comunque Diletta è preparatissima. A volte non sono neanche domande, sono "vi-prego-fatemi perdere-5-minuti". Ogni scusa è buona per uscire dalla cella e sgranchirsi le gambe. I detenuti bussano, entrano e sorridono imbarazzati. Ti danno la mano e si siedono in silenzio. Non parlano finché qualcuna non gli chiede qual è il problema. Mi domando cosa pensano. Alcuni di loro sembrano spaventati, confusi. Non deve essere facile trovarsi di fronte tre ragazze giovani, tra l'altro una più secca dell'altra, che ti domandano quale reato hai commesso....Ho di fronte un "criminale", lo guardo negli occhi. E lui si fida di me perché io ho studiato. Pende dalle mie labbra nell'irriducibile speranza di una buona notizia. Ma io chi sono?

Pausa pranzo. Esco con Giulia per andare a mangiare. All'ingresso c'è un nuovo arrivato, accompagnato dai carabinieri. Ha le manette. Ora capisco perché è vietato riprendere o fotografare qualcuno con le manette ai polsi. Abbasso lo sguardo, d'istinto. La privazione della libertà personale accende il mio pudore.

Il bar del carcere ha una grande varietà di pietanze: 3 panini e qualche trancio di pizza. Scelgo la pizza, pessima decisione. In compenso costa pochissimo, probabilmente meno del bar dell'università. Mi accorgo che vendono anche gadgets: dei portachiave a forma di manette. Il buongusto non è proprio di casa, qui... Mentre torniamo in sezione, vediamo un poliziotto in bicicletta per i corridoi. Avevo sentito di questa cosa a riunione, tuttavia mi fa ugualmente venire da sorridere. I detenuti che accompagna ci guardano, ma non fanno paura. Guardano come per ricordare. Ricordano che quando sei libero ci sono donne per le strade, negli uffici, nelle case. Donne che rimettono il mondo in equilibrio. Lo fanno sembrare normale.

Solo per un secondo ho paura. Gli ultimi due detenuti che ascoltiamo sono i più difficili, forse perché inizio a sentirmi stanca. Il ragazzo ha la faccia tutta butterata. È giovane; ma non così giovane. E mi vengono in mente i documentari sulla droga, quelli in cui ti spiegano che le dipendenze a lungo andare ti sfigurano il volto, ti fanno venire le bolle.

Poi entra l'ultimo detenuto. È tondo, pacioccoso. Ha le guance piene, la pelle liscia da farti venire voglia di dargli un pizzico. I suoi occhi sono lucidi, ruotano veloci sui nostri volti seri, professionali. Voleva parlarci a tutti i costi, anche se non apparteneva alla sezione che avevamo il compito di smaltire. Si vede che è preoccupato, quasi disperato. Qual è il problema? Non lo fanno chiamare a casa sua, all'estero. Vuole parlare coi suoi familiari. Allora gli chiediamo che reato ha commesso: tentato omicidio. Il mio cuore si ferma per un attimo; poi riparte a tutta velocità. Sento il caldo salire alle tempie. Ma rimango impassibile, domandandomi se si è notato qualcosa. Lo guardo negli occhi, come a sfida: io non ho paura. E mi accorgo che i suoi occhi sono ancora lucidi, ancora disperati. Quest'uomo ha cercato di uccidere un altro uomo e ora si dispera perché non può chiamare a casa. Mi vergogno del mio cuore che ha sobbalzato. Questi sono i criminali. Vogliono chiamare la mamma. Ma non mi sembra assurdo, non mi sembra ridicolo. Mi pare giusto. Queste sono le bestie. Bestie che vogliono chiamare le fidanzate, le madri, i fratelli...e io non mi sento tanto di giudicarlo, perché a volte mi sento sola quanto lui. Mi sento in gabbia quanto lui. E voglio uscire, o almeno sentire una voce familiare, amica... Eppure io sono libera di comporre un numero di telefono quando mi pare. Lui deve farsi autorizzare dal giudice. Usciamo. Il carcere alle nostre spalle. È strano, non provo nessun sollievo. Quell'edificio fatiscente che mi faceva tanto orrore la mattina, già non mi dice più nulla. L'essere umano si abitua velocemente. Forse perché io posso uscire da quel luogo, posso andare dall'altra parte della città, a casa mia. Posso chiamare tutti i numeri che voglio.

Ciao ragazze, ci vediamo martedì. E la mia vita continua. E corro via, se ne ho voglia. Nel frattempo, la pioggia è diventata sempre più forte. Goccioloni pesanti mi scivolano sui capelli, sui vestiti, e lavano la fuliggine della cattività. Sento una goccia bagnarmi le labbra. È salata.

Io sono libera.