ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Non c'è giustizia senza un carcere umano

Massimo Niro (*), 2012

Abbiamo bisogno di innovatori coraggiosi, come è stato Franco Basaglia nel campo della psichiatria, come è stato Sandro Margara - e con lui Mario Gozzini - nel campo della giustizia e del carcere.

Oggi è un tempo di crisi senza sbocchi, di penuria di ideali, di burocrazia imperante: e la situazione della giustizia e delle carceri è, oggi, molto più grave che nel 1986 (l'anno della legge Gozzini), ma in campo politico pare che se ne siano accorti solo i Radicali, invocando un provvedimento di amnistia e di indulto.

E tra gli operatori della giustizia cosa accade?

Tra i magistrati, in generale, c'è un assordante silenzio, come se all'Associazione Nazionale Magistrati non importi molto della situazione invivibile delle carceri italiane, della violazione della dignità delle persone recluse, dell'eccessivo uso della custodia cautelare in carcere.

Tra gli avvocati si muove un po' la Camera Penale, denunciando il sovraffollamento e i trattamenti inumani e degradanti inflitti ai detenuti, ma nel complesso anche l'avvocatura appare poco sensibile e attenta al tema, che invece è - a parere di chi scrive - di primaria importanza.

Occorrono una consapevolezza culturale ed una capacità propositiva che non si trovano, attualmente, né tra gli operatori del diritto né, tanto meno, tra i politici (con la rammentata eccezione dei Radicali): forse un aiuto può venire, in questa direzione, dai teorici del diritto, dalla dottrina giuridica.

Ma anche l'Università oggi versa nella situazione critica che conosciamo e, malgrado il Governo tecnico dei "Professori", non pare che si profilino all'orizzonte tempi più luminosi -

in termini di risorse ma pure di considerazione sociale - per l'Università e il mondo della ricerca.

Comunque, è solo dalla sensibilità culturale della dottrina, penalistica ma anche costituzionalistica, che può giungere un sussulto di coscienza e, insieme, uno sforzo progettuale all'altezza della situazione: che è non solo critica, ma piuttosto drammatica ed irrecuperabile, se non si corre subito ai ripari e non si inverte la rotta.

Enfasi retorica? Non credo: un sistema penale e processuale che "produce" un numero così elevato e fuori controllo di detenuti, in custodia cautelare e in espiazione di pena, detenuti costretti a vivere in Istituti assolutamente privi degli standard di "vivibilità" delineati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (v. caso Sulejmanovic c. Italia e numerosi altri analoghi), non è un sistema conforme alla civiltà né tanto meno un sistema efficace (non uso volutamente il termine "efficiente", oggi tanto abusato quanto spesso privo di significato effettivo).

Qui è in questione la credibilità del nostro impianto costituzionale, dove è scritto chiaramente che "l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva" (art. 27 comma 2) e che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27 comma 3).

Lasciamo da parte, per il momento, la finalità rieducativa che deve orientare la pena (anche se così mettiamo tra parentesi tutti gli istituti dell'ordinamento penitenziario di cui alla legge 354 / 1975 e alla legge c.d. Gozzini 663 / 1986): concentriamo l'attenzione sulla prima parte dell'art. 27 comma 3, quella sul divieto di pene o trattamenti contrari al senso di umanità, quasi del tutto coincidente con un'altra disposizione normativa di grande importanza, contenuta nell'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ("Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti").

Quanto è disattesa questa disposizione costituzionale nella realtà odierna degli istituti di pena italiani, stipati fino all'inverosimile, con attività trattamentali e rieducative ridotte all'osso, con operatori dell'area educativa in numero risibile, con personale di Polizia Penitenziaria largamente insufficiente, con assistenza sanitaria gravemente carente con punte di manifesta violazione del diritto alla salute proclamato dall'art. 32 Cost.?

Lo sanno - o dovrebbero saperlo - i magistrati di sorveglianza, con organici fortemente sottodimensionati, la cui attività è ampiamente burocratizzata così da relegare in secondo piano la vigilanza sulle carceri ed i contatti diretti con le persone detenute, che invece dovrebbero essere elementi caratterizzanti di questa particolare funzione giudiziaria.

Ma dovrebbero saperlo anche i pubblici ministeri, i giudici per le indagini preliminari, i giudici monocratici di Tribunale del settore penale, che pure il carcere ogni tanto frequentano e di cui verificano - o dovrebbero verificare - l'illegalità, rispetto al parametro costituzionale dell'art. 27 comma 2 e ai criteri codicistici della custodia in carcere come "extrema ratio".

Invece, come si è detto sopra, regna il silenzio, l'indifferenza rispetto a questa situazione di fatto, che dovrebbe scuotere le coscienze.

E talvolta gli operatori più sensibili e più motivati vengono emarginati, messi da parte, sempre nel nome - beninteso - dell'efficienza burocratica.

Ma se non reagiamo, anzitutto come cittadini, a questa deriva in cui stanno scivolando la giustizia penale e la realtà carceraria nel nostro Paese, ci rendiamo complici di questa situazione di violazione della Costituzione e dei diritti umani.

Una situazione che i politici si ostinano a non considerare urgente, se un esponente di lungo corso e di grande esperienza come Luciano Violante si limita a disapprovare la proposta radicale di amnistia, con l'argomento che non servirebbe ad affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri (v. "Corriere della Sera" del 22 agosto 2012, pag. 10).

Ma l'On. Violante non dice quali sarebbero gli strumenti adatti per affrontare e risolvere il suddetto problema: non c'è fretta, evidentemente, per indicarli.

Eppure i suicidi in carcere aumentano, anche tra il personale di Polizia Penitenziaria, il malessere di detenuti ed operatori carcerari cresce, i ricorsi alla Corte europea di Strasburgo aumentano e si profilano altre possibili condanne per l'Italia: ma la politica non si muove, magistrati ed avvocati per lo più tacciono, la dottrina è fievole.

Di carcere come "extrema ratio" si parla però, tra gli studiosi più avvertiti, da vari decenni, così come di pene alternative alla detenzione, di pene prescrittive o interdittive, limitative ma non privative della libertà personale (ricordate le varie Commissioni ministeriali per la riforma del codice penale ed i relativi elaborati?).

Nel 2012 siamo ancora, sostanzialmente, nella situazione del Codice Rocco del 1930, cioè della pena carceraria come principale e preferita sanzione penale, anche per reati di modesto spessore. E siamo ancora ad invocare provvedimenti di clemenza (amnistia ed indulto), in mancanza di interventi strutturali di sorta.

Che tristezza, per chi crede in uno Stato democratico di diritto ...

*. Magistrato di sorveglianza, Firenze.