ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
L'espulsione dello straniero nell'ordinamento italiano prima del 24 dicembre 2010

Carlotta Happacher, 2012

1. Fondamento e legittimità del potere espulsivo

La legittimazione statale ad imporre restrizioni all'ingresso ed al soggiorno dei cittadini stranieri è fuori di dubbio. In questo senso si è sempre espressa la Corte Costituzionale, fin dalle sue prime pronunce in materia, risalenti ad un momento in cui ancora non esisteva una normativa organica sulla condizione giuridica dello straniero e le questioni di legittimità sollevate riguardavano le fattispecie espulsive previste dal testo unico di pubblica sicurezza. Nella sentenza 10 luglio 1974, n. 244, con la quale veniva sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione all'articolo 152 r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (1) (Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, di seguito TULPS), la Corte ha avuto occasione di specificare che: "non può escludersi che tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto e di posizioni giuridiche tali da razionalmente giustificare un diverso trattamento nel godimento di tali diritti".

In particolare, la Corte Costituzionale, si è soffermata sulla diversità tra il cittadino e lo straniero nel rapporto con il territorio dello Stato:

le posizioni del cittadino e dello straniero nei riguardi dello Stato diversificano sostanzialmente, sol che si consideri che il cittadino ha, nel territorio dello Stato, un suo domicilio stabile sì da rappresentare, con gli altri cittadini, un elemento costitutivo dello Stato stesso. Non solo, ma ha diritto di risiedere nel territorio del proprio Stato senza limiti di tempo e non può esserne allontanato per nessun motivo. Di contro, lo straniero non ha, di regola, un diritto acquisito di ingresso e di soggiorno in altri Stati; può entrarvi e soggiornarvi solo conseguendo determinate autorizzazioni, e per lo più, per un periodo determinato, sottostando a quegli obblighi che l'ordinamento giuridico dello Stato ospitante gli impone al fine di un corretto svolgimento della vita civile.

Lo Stato ospitante può, pertanto, revocare in ogni momento il permesso di soggiorno o limitare la circolazione di esso straniero nel proprio territorio, così come l'ordinamento prevede, nella salvaguardia pur sempre dei diritti fondamentali (2).

L'orientamento assunto dalla Corte nella sentenza citata è rimasto costante, pur nel variare della disciplina normativa della condizione giuridica dello straniero. Infatti, nelle pronunce successive, tale orientamento è stato ribadito e specificato ulteriormente, precisando che:

la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione. E tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli (3).

Le posizioni generali espresse nelle citate sentenze, non sono messe in dubbio nemmeno da quella parte della dottrina che ha contestato, e contesta tuttora, più duramente le scelte compiute dal legislatore in materia di immigrazione. Infatti ad essere criticato aspramente, non è il fatto che lo Stato abbia il compito di regolamentare la presenza di stranieri nel proprio territorio e nemmeno la facoltà di disciplinarne l'allontanamento, quanto piuttosto le scelte in merito al chi espellere e al come espellere (4) e quindi il ruolo che ha, contrapposto a quello che si ritiene dovrebbe avere, l'espulsione nella gestione del fenomeno migratorio, nonché la funzione svolta dal sistema repressivo penale.

La scelta di fondo, operata dal legislatore del 1998 (5), è stata quella di fondare tutta la normativa in materia sulla netta distinzione tra la condizione di regolarità e quella di irregolarità dello straniero; distinzione che non solo è rimasta costante, ma anzi si è accentuata con gli interventi di riforma che si sono succeduti. Anche se, come è stato detto, "l'incomunicabilità è a senso unico" (6): non è possibile transitare dalla condizione di irregolare a quella opposta (7), mentre è addirittura facile il contrario (8).

2. Limiti al potere espulsivo

Nonostante la rigidità del sistema, esistono dei limiti al potere espulsivo dello Stato, dettati dall'esigenza di tutelare alcuni diritti considerati di rango superiore, in conformità con la Costituzione e gli obblighi internazionali, che quindi devono prevalere sull'interesse statale al contenimento dei flussi migratori e alla salvaguardia delle frontiere. La tutela di tali diritti (la vita e l'integrità fisica di fronte al rischio di persecuzione, il diritto alla salute, alla vita familiare, alla tutela della minore età) si traduce in alcuni speculari divieti espulsivi, che possono essere assoluti o relativi, codificati nell'articolo 19 del T.U. Immigrazione.

2.1 Divieto di espulsione per ragioni di protezione contro tortura e trattamenti inumani e degradanti

Innanzitutto, il primo comma dell'articolo 19, stabilisce che:

In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.

Trattasi del "principio di non-refoulment", sancito dall'articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 24 luglio 1954, n. 722, rispetto al quale, però, l'articolo 19 T.U. Immigrazione, copre un'area più ampia, riferendosi alle discriminazioni per motivi di sesso e lingua, oltre che di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale e opinioni politiche. Il divieto di cui all'articolo 19, deve essere letto in relazione all'articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (di seguito CEDU), che stabilendo che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamento inumani o degradanti", è stato interpretato nel senso di vietare, da un lato modalità espulsive tali da costituire tortura o trattamento inumano e degradante, dall'altro di espellere uno straniero verso un Paese in cui potrebbe subire i trattamenti contemplati dalla norma (9).

Il divieto di procedere ad espulsione o respingimento degli stranieri a rischio di persecuzione si applica a tutte le fattispecie espulsive, rivolgendosi quindi, non solo al prefetto, ma anche al ministro dell'interno. Ciò significa che, in questo caso, la tutela dell'individuo non è bilanciabile con gli interessi di ordine pubblico o di sicurezza; in altri termini, si tratta di un divieto assoluto, com'è del resto evidente dall'incipit dell'articolo 19, che stabilisce che "in nessun caso" possono essere espulsi o respinti gli stranieri che la norma intende tutelare. La prevalenza dell'interesse dell'individuo a rischio di persecuzione non viene meno neppure nel caso di espulsione disposta per motivi di prevenzione del terrorismo, quale quella prevista dall'articolo 3 comma 1 del D.L. 27 luglio 2005, n. 144 (c.d. "decreto Pisanu"), convertito con modificazioni in L. 31 luglio 2005, n. 155 ("Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale"). Questa è la posizione assunta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in una famosa decisione assunta nei confronti dell'Italia nella sentenza del 28.02.2008, Saadi c. Italia. La Corte, pur riconoscendo la necessità per gli Stati di proteggere la propria popolazione della minaccia terroristica, ribadisce l'assolutezza della protezione contro i trattamenti contemplati dall'articolo 3 CEDU.

Come affermato a più riprese dalla Corte, non esiste nessuna eccezione a questa norma [...]. Si ritiene quindi opportuno riaffermare il principio sancito nella sentenza Chahal [...] secondo cui non si può mettere sul piatto della bilancia il rischio di maltrattamenti e i motivi invocati per l'espulsione, ciò per determinare se esista la responsabilità di uno Stato sotto il profilo dell'articolo 3, anche nel caso in cui i maltrattamenti fossero perpetrati da uno Stato terzo. A tal riguardo, i comportamenti delle persone considerate, per quanto siano indesiderabili o pericolose, non devono essere presi in considerazione e ciò rende la protezione assicurata dall'articolo 3 più ampia di quella prevista dagli articoli 32 e 33 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 relativa allo status di rifugiato (10).

Incertezze si riscontrano, invece, nell'esatta individuazione degli stranieri a rischio persecuzione: a fronte di interpretazioni più restrittive, tra cui spicca una pronuncia della Corte di Cassazione, ve ne sono altre, proprie della giurisprudenza di merito e di parte della dottrina, che estendono la portata del divieto. Nella sentenza del 04 aprile 2004, n. 20938, la Corte di Cassazione (11) ha interpretato il divieto in parola nel senso di riferirlo al solo straniero che abbia non solo attivato, ma anche visto andare a buon fine, la procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Una simile lettura, ampiamente criticata in dottrina (12), finisce con l'escludere dalla tutela persino coloro che abbiano presentato richiesta di asilo, ma che si trovino nelle more del procedimento davanti alla Commissione territoriale competente. Al fine di non vanificare il contenuto della norma de quo, è stata prospettata un'interpretazione estensiva, adottata da parte della giurisprudenza di merito, che la considera appartenente a "quel corpus minimo di norme di protezione a fondamento oggettivo che tutelano la persona contro le persecuzioni" a prescindere da una richiesta diretta dello straniero interessato (13).

2.2 Altri divieti di espulsione

A differenza dell'ipotesi di cui al comma 1, quelli contemplati nel secondo comma dell'articolo 19 T.U. Immigrazione, sono divieti relativi, nel senso che non operano nel caso di espulsione disposta per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato da parte del ministro dell'interno.

Essi vietano l'espulsione o il respingimento:

  1. degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi;
  2. degli stranieri in possesso della carta di soggiorno (14), salvo il disposto dell'articolo 9;
  3. degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana;
  4. delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.

a) L'operatività del divieto di cui all'articolo 19, comma 2, lettera a), si distingue a seconda che si tratti di minore non accompagnato, ovvero di minore con genitori o affidatario irregolarmente presenti. Nel primo caso, la legge prevede il rimpatrio assistito preceduto da una valutazione del Comitato per i minori stranieri, che deve verificare la possibilità di reinserire il minore nel paese di origine (15). Durante il tempo necessario per l'espletamento della procedura, all'interessato è rilasciato un permesso di soggiorno per minore età, secondo quanto previsto dall'articolo 28, comma 1, lettera a) del Regolamento di attuazione del T.U. Immigrazione, salvo che si tratti di minore abbandonato, nel qual caso "è immediatamente informato il Tribunale per i minorenni per i provvedimenti di competenza". Se, invece, i genitori sono presenti sul territorio italiano, in caso di espulsione di questi ultimi, il minore "ha il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi" (16). In tale ipotesi, però, è possibile che venga in considerazione il superiore interesse del minore, che, in caso di "gravi motivi connessi allo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore", giustifica il rilascio di un'autorizzazione all'ingresso o alla permanenza, rilasciata dal Tribunale per i minorenni, nei confronti del familiare, ai sensi dell'articolo 31, comma 3 del T.U. Immigrazione. Tale autorizzazione può essere revocata solo allorché cessino i gravi motivi che ne hanno giustificato il rilascio, ovvero "per attività del familiare incompatibili con le esigenze del minore o con la presenza in Italia". L'eccezionalità dell'autorizzazione al soggiorno di cui all'articolo 31, comma 3, e il fatto che essa sia strettamente connessa alle esigenze di tutela del minore spiegano la non convertibilità della stessa in permesso di soggiorno per lavoro, pur consentendo, per il periodo di validità, lo svolgimento di attività lavorativa (17).

b) Per quanto riguarda i titolari del permesso CE per soggiornanti di lungo periodo, la legge prevede che essi possano essere espulsi soltanto per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, nei casi previsti dall'articolo 3, comma 1 del decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, ovvero nel caso in cui lo straniero appartenga ad una delle categorie indicate all'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ovvero all'articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, sempre che sia stata applicata, anche in via cautelare, una delle misure di cui all'articolo 14 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (18). Anche in tali circostanze però, l'adozione del provvedimento di espulsione non è automatica, imponendosi una valutazione della condizione dell'interessato, con particolare rifermento all'età ed alla durata del soggiorno, nonché delle conseguenze che un'eventuale espulsione potrebbe avere sull'interessato stesso e sui suoi familiari ed infine dell'esistenza di legami familiari e sociali nel territorio nazionale e dell'assenza di tali vincoli nel Paese di origine (19).

c) Nella versione originaria della norma in parola era prevista l'inespellibilità per i parenti fino al "quarto grado" dei cittadini italiani, ma, adesso, in seguito alla modifica apportata dall'articolo 1, comma 22, lettera p), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (l'ultimo in ordine cronologico dei cosiddetti "pacchetti sicurezza"), essa è stata circoscritta ai parenti entro il secondo grado.

La Corte Costituzionale, con ordinanza 11-20 luglio 2000, n. 313, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Vibo Valentia del divieto in esame, nella parte in cui non si estende alla convivenza more uxorio, per supposta violazione dell'articolo 3 della Costituzione. La Corte, richiamandosi ad alcune precedenti pronunce, ha ribadito "l'impossibilità di estendere, attraverso un mero giudizio di equivalenza tra le due situazioni, la disciplina prevista per la famiglia legittima alla convivenza di fatto", poiché in quest'ultima, mancano "i caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri (...) che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima", ritenendo di conseguenza pienamente legittima la scelta del legislatore di limitare il potere espulsivo soltanto di fronte all'esistenza del vincolo matrimoniale, accompagnato dall'effettività della convivenza. In ordine al requisito della convivenza, in una sua recente pronuncia, la Suprema Corte, ha accolto l'interpretazione meno formalistica data dal giudice di merito e contestata dal Ministero dell'Interno e dal Prefetto che aveva emesso il provvedimento espulsivo annullato. Nella sentenza 29 ottobre 2010, n. 22230 la prima sezione civile della Corte di Cassazione, dopo aver ribadito che l'esistenza della convivenza "non è presumibile in base all'esistenza del matrimonio e deve essere provata dall'espulso", ha proseguito affermando che tale requisito è escluso laddove esista una situazione di separazione sia legale che di fatto, "tale da determinare la cessazione dei rapporti materiali e spirituali alla base della comune organizzazione domestica, ovvero del consortium vitae". In conclusione, la Suprema Corte, ha rigettato il ricorso del Prefetto (20), affermando che il giudice di merito

con apprezzamento congruamente motivato, ha ritenuto che nella specie non v'è stata separazione giudiziale o consensuale - circostanza incontroversa - e che "la mancata convivenza al momento dipende esclusivamente da ragioni economiche", formulando un apprezzamento di fatto in ordine al carattere del tutto transeunte della mancata convivenza, implicitamente reputandola tale, da non incidere appunto sulla sussistenza del requisito, anche in considerazione delle ragioni che l'hanno determinata (21).

Infine, la giurisprudenza di merito, ha ritenuto che il divieto non operi qualora si accerti che il matrimonio sia stato contratto al solo fine di regolarizzare la posizione dello straniero. Al fine di tale accertamento è stato affermato che sia necessario che esso avvenga "all'esito di una pronuncia giurisdizionale", non potendosi riconoscere all'amministrazione il "potere di accertare la simulazione del matrimonio" (22).

d) La norma di cui alla lettera d), del comma 2, dell'articolo 19 intende tutelare, da un lato, la salute della madre in un momento tanto delicato della vita, dall'altro quella del nascituro nei sei mesi precedenti e nei sei successivi al parto, in tal senso è certamente una norma ispirata a ragioni di carattere umanitario. Con sentenza del 12-27 luglio 2000, n. 376, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma in esame, nella parte in cui non estende il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio. Nel suo intervento additivo, la Corte ha osservato che la norma in esame, nel riconoscere tutela alla donna incinta e alla madre nell'immediatezza del parto

omette tra l'altro di considerare proprio quelle ulteriori esigenze del minore e cioè il suo diritto ad essere educato, tutte le volte che ciò sia possibile, in un nucleo familiare composto da entrambi i genitori e non dalla sola madre; consentendo l'espulsione del marito convivente, come esattamente osserva il giudice rimettente, la norma mette oltretutto la donna straniera che si trova nel territorio dello Stato in una alternativa drammatica tra il seguire il marito espulso all'estero e l'affrontare il parto ed i primi mesi di vita del figlio senza il sostegno del coniuge, e questo proprio nel momento in cui si va formando quel nuovo più ampio nucleo familiare che la legge, in forza degli artt. 29 e 30 Cost., deve appunto tutelare (23).

La Corte, non ha invece, ritenuto di estendere l'ambito applicativo della norma, dichiarando la manifesta infondatezza della relativa questione, nei confronti del convivente more uxorio della donna in stato di gravidanza, che affermi di essere il padre del nascituro (24).

Note

1. L'articolo 152 TULPS, abrogato dall'articolo 13, D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito in Legge 28 febbraio 1990, disponeva: "I prefetti delle provincie di confine possono, per motivi di ordine pubblico, allontanare, mediante foglio di via obbligatorio, dai comuni di frontiera, nel caso di urgenza, riferendone al ministro, gli stranieri di cui all'articolo 150 e respingere dalla frontiera gli stranieri che non sappiano dare contezza di sé o siano sprovvisti di mezzi. Per gli stessi motivi, i prefetti hanno facoltà di avviare alla frontiera, mediante foglio di via obbligatorio, gli stranieri che si trovano nelle rispettive provincie. Gli stranieri muniti di foglio di via obbligatorio non possono allontanarsi dall'itinerario ad essi tracciato. Qualora se ne allontanino, sono arrestati e puniti con l'arresto da uno a sei mesi. Scontata la pena, sono tradotti alla frontiera".

2. Sentenza 10 luglio 1974, n. 244.

3. Sentenza 10-24 febbraio 1994, n. 62, nella quale la questione di legittimità sollevata riguardava l'articolo 7, commi 12-bis e 12-ter, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, nel testo introdotto dall'articolo 8, primo comma, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 agosto 1993, n. 296.
"12-bis. Nei confronti degli stranieri sottoposti a custodia cautelare per uno o più delitti, consumati o tentati, diversi da quelli indicati dall'articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), del codice di procedura penale, ovvero condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena che, anche se costituente parte residua di maggior pena, non sia superiore a tre anni di reclusione, è disposta l'immediata espulsione nello Stato di appartenenza o di provenienza salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali ovvero ricorrano gravi ragioni personali di salute o gravi pericoli per la sicurezza e l'incolumità in conseguenza di eventi bellici o di epidemie. Le disposizioni previste nel presente comma non si applicano nei confronti degli stranieri sottoposti a custodia cautelare o in espiazione di pena detentiva per il delitto previsto dal comma 12-sexies.
12-ter. L'espulsione è disposta, su richiesta dello straniero o del suo difensore, dal giudice che procede se si tratta di imputato e dal giudice dell'esecuzione se si tratta di condannato. Il giudice, acquisite le informazioni dagli organi di polizia, accertato il possesso del passaporto o di documento equipollente, sentito il pubblico ministero e le altre parti, decide con ordinanza. L'espulsione è eseguita dalla polizia giudiziaria con accompagnamento immediato alla frontiera. Avverso l'ordinanza può essere proposto ricorso per cassazione nelle forme e nei termini previsti dall'articolo 311, commi 2, 3, 4 e 5, del codice di procedura penale."

4. L. Pepino, Centri di detenzione ed espulsioni (Irrazionalità del sistema e alternative possibili), "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2000, 2, p. 21.

5. In realtà, alcuni dei tratti fondamentali del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 erano già rinvenibili nella legge 28 febbraio 1990, n. 39, tra questi in particolare il sistema di ingresso basato sulla predeterminazione dei flussi.

6. L. Pepino, Centri di detenzione ed espulsioni (Irrazionalità del sistema e alternative possibili), in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", cit., p. 15.

7. Un discorso a parte andrebbe fatto per il meccanismo della "sanatoria", che consiste nella regolarizzazione (in presenza di determinate condizioni) di persone già presenti irregolarmente nel territorio dello Stato. Pur rappresentando un canale d'accesso numericamente imponente, al quale si è fatto ricorso svariate volte, la sanatoria è cosa ben diversa da quello che il legislatore ha pensato quale meccanismo 'normale' di gestione dei flussi migratori. In realtà la stessa necessità di ricorrere a periodiche sanatorie non fa che confermare l'inadeguatezza dei canali d'accesso regolari di fronte alla realtà del fenomeno migratorio.

8. A. Caputo, Diseguali, illegali, criminali, "Questione giustizia", 2009, 1, p. 84. Scrive l'A.: Il "netto discrimine tra immigrati regolari e immigrati irregolari si è tradotto in una straordinaria, ma unidirezionale, rigidità della normativa sulla condizione dello straniero irregolare, cui è sempre precluso il passaggio alla condizione di regolarità; al contrario, la strada che conduce dalla condizione di regolarità a quella di irregolarità è ben facilmente percorribile, data la difficoltà del migrante di conservare le condizioni necessarie al rinnovo dei titoli abilitativi del soggiorno" (corsivi nel testo).

9. G. Savio, "Respingimento, espulsione, trattenimento e accompagnamento alla frontiera (i presupposti e le procedure), la revoca e il reingresso, la segnalazione a Schengen", in P. Morozzo della Rocca (a cura di), Immigrazione e cittadinanza. Profili normativi e orientamenti giurisprudenziali, UTET, Torino, 2008, p. 177.

10. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 28.02.2008, Saadi c. Italia, § 138, p. 34.

11. Parzialmente citata in S. Centonze, L'espulsione dello straniero, Padova, Cedam, 2006, p. 27.

12. Ivi.; G. Savio, "Respingimento, espulsione, trattenimento e accompagnamento alla frontiera (i presupposti e le procedure), la revoca e il reingresso, la segnalazione a Schengen", cit.

13. G. Savio, "Respingimento, espulsione, trattenimento e accompagnamento alla frontiera (i presupposti e le procedure), la revoca e il reingresso, la segnalazione a Schengen", cit., p. 174.

14. La dicitura "carta di soggiorno" è rimasta nell'articolo 19 per una svista del legislatore, il quale non l'ha sostituita con quella attuale di "permesso CE per soggiornanti di lungo periodo", che è oggi l'unico tipo di permesso a tempo indeterminato, introdotto dal d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 3 emanato in attuazione della direttiva 2003/109/CE.

15. S. Centonze, L'espulsione dello straniero, cit., p. 28.

16. Articolo 19, comma 2, lettera a) T.U. Immigrazione.

17. Articolo 29, comma 6, T.U. Immigrazione.

18. Articolo 9, comma 10 T.U. Immigrazione.

19. Articolo 9, comma 11 T.U. Immigrazione.

20. La Corte ha invece dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal ministero dell'interno per difetto di legittimazione, dovendo questa essere riconosciuta esclusivamente al Prefetto, in quanto autorità che ha emesso il provvedimento.

21. Corte Cassazione, I sezione civile, sentenza 29 ottobre 2010, n. 22230.

22. In questo senso: S. Centonze, L'espulsione dello straniero, cit., p. 32.

23. Sentenza 12-27 luglio 2000, n. 376, § 7.

24. Ordinanze 11 maggio 2006, n. 192 e 22 dicembre 2006, n. 444.