ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
Carcere e tossicodipendenza

Raffaella Tucci, 2011

SOMMARIO: 3. Carcere e tossicodipendenza - 3.1. Lo speciale regime detentivo per i tossicodipendenti: la parabola degli I.C.A.T.T. - 3.2. Realtà e problemi dell'assistenza terapeutica ai tossicodipendenti reclusi. - 3.3. La riforma della sanità penitenziaria.

3. Carcere e tossicodipendenza

Dal quadro normativo tratteggiato emerge chiaramente come l'intento del legislatore, dal 1975 in poi, sia stato quello di rendere la presenza dei tossicodipendenti in carcere del tutto marginale e residuale. La strategia incentrata su criminalizzazione della diffusione delle droghe e sfruttamento delle sanzioni che colpivano i suoi utenti per avviare i percorsi terapeutici si è però costantemente mostrata fallimentare ai fini del conseguimento di un'effettiva decarcerizzazione dei tossicodipendenti. Come detto, la loro presenza in carcere è cresciuta costantemente in modo esponenziale e dall'inizio degli anni 1990 del secolo scorso i tossicodipendenti hanno rappresentato ogni anno circa un terzo della popolazione detenuta, che a sua volta è cresciuta in maniera vertiginosa fino a sfiorare oggi i settantamila detenuti.

Ingressi, detenuti presenti, detenuti tossicodipendenti (T.d.) in numeri assoluti e percentuali alla luce degli interventi normativi (1)
Anni Ingressi Presenze (al 31/12) Var. pres. T.d. % T.d. Interventi normativi
1990 64.722 29.133 DPR 309/90 (T.U. Stupefacenti); L. 39/1990 (martelli)
1991 75.786 35.469 6.336 11.540 32,53%
1992 93.328 47.316 11.847 14.818 31,31%
1993 98.119 50.348 3.032 15.135 30,06% Referendum abrogativo criminalizzazione uso personale
1994 98.245 51.165 817 14.742 28,81%
1995 88.415 46.908 -4.257 13.488 28,75% L. 332/95 (conversione Decreto Biondi sulla custodia cautelare)
1996 87.649 47.709 801 13.859 29,04%
1997 88.305 48.495 786 14.074 29.02%
1998 87.134 47.811 -684 13.567 28.37% L. 165/98 (Simeone-Saraceni); D.Lgs 286/1998 (T.U. Immigrazione)
1999 87.862 51.814 4.003 15.097 29,13%
2000 81.397 53.165 1.351 14.440 27,16%
2001 78.649 55.275 2.110 15.442 27,93%
2002 81.185 55.670 395 15.429 27,82% L. 189/2002 (Bossi-Fini)
2003 81.790 54.237 -1.433 14.501 26,73% L. 207/2003 (Indultino)
2004 82.275 56.068 1.831 15.558 27,74%
2005 89.887 59.523 3.455 16.135 27,10% L. 251/2005 (ex-Cirielli)
2006 90.714 39.005 -20.518 8.363 21,44% L. 241/2006 (Indulto); L. 49/2006 (Fini-Giovanardi)
2007 90.441 48.693 9.688 13.424 27,56%
2008 92.900 58.127 9.434 14.743 (2) 26,77% (3)
2009 88.066 64.791 6.670 n.r. n.r.
2010 44.140 (4) 69.155 4.364 n.r. n.r.

Questa tabella mostra chiaramente che negli anni immediatamente successivi all'entrata in vigore del T.U. del 1990 la curva di crescita della popolazione carceraria, ed in particolare dei detenuti tossicodipendenti, subisce un'impennata. Fra il 1990 ed il 1992, i detenuti presenti all'interno circuito penitenziario quasi raddoppiano: passando da poco meno di 26 mila del 1989 ad oltre 47 mila. I tossicodipendenti aumentano nella stessa proporzione da poco più di 7 mila arrivano a sfiorare le 15 mila unità. Nel 1991 32,5%, cioè quasi un terzo, dei detenuti presenti negli istituti di pena italiani, sono assuntori di sostanze stupefacenti. Questa resterà la più alta percentuale mai registrata di utenti della droga ristretti in prigione: da allora in poi essa si stabilizzerà poco sotto al 30% fino al 1998, anno in cui l'entrata in vigore del meccanismo automatico di sospensione pena porterà ad abbassare la percentuale dei tossicodipendenti, facendola stabilizzare intorno al 27%.

E' indubbio quindi che il capovolgimento dell'atteggiamento verso chi faceva uso di droga, voluto dal legislatore dispieghi i suoi effetti diretti e soprattutto indiretti (5): l'apparato penale recepisce il messaggio che tanto il traffico di stupefacenti quanto la condizione di tossicodipendenza va sanzionata duramente. Analizzando l'andamento dei tassi di cancerizzazione a livello nazionale e internazionale si è, infatti, sostenuto da più parti (6) che sull'andamento della popolazione detenuta influisce, oltre e più delle singole modifiche del quadro normativo di riferimento, il processo di criminalizzazione primario, cioè il modo in cui il sistema, complessivamente inteso (e quindi ricomprendendo in esso le valutazioni discrezionali della magistratura e delle altre agenzie repressive e preventive), interpreta la domanda di rassicurazione dalla criminalità proveniente dal tessuto sociale e recepita dal legislatore (7).

Più che i percorsi di decarcerizzazione tratteggiati dal T.U. rileva la scelta di ripristinare il rigore punitivo della legislazione del 1954, sanzionando la detenzione di una sostanza indicata, come illecita, nelle tabelle allegate alla legge n. 162 del 26 giugno 1990. Anche l'esito della consultazione referendaria del 18 aprile 1993, come accennato fu, di fatto, neutralizzato dall'atteggiamento del legislatore, come mostra il fatto che alla data del 31 dicembre 2001, risultavano detenuti per uno dei reati di cui all'art. 73 del T.U. del 1990, poco meno del 40% del totale dei detenuti presenti nei carceri italiani, dei quali, a sua volta circa il 40%, vale a dire 7.480 su 20.295 detenuti, erano tossicodipendenti. Sempre all'inizio degli anni novanta del secolo scorso, parallelamente alla criminalizzazione dei tossicodipendenti, il legislatore da inizio alla politica di criminalizzazione dei migranti non comunitari che entrano nel territorio nazionale senza i richiesti visti amministrativi. Anche questa politica mostra i suoi effetti: il 31 dicembre 2001 gli stranieri non comunitari in carcere erano 16.294, circa il 25% del totale, di questi più del 50% erano detenuti per uno dei reati di cui all'art. 73 del T.U. del 1990 (8).

Queste considerazioni sono asseverate dai dati, parzialmente diversi riportati nella Relazione al Parlamento del 2010 del Senatore Carlo Giovanardi, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia, al contrasto delle tossicodipendenze e al servizio civile. In essa si trova la "Tabella I.4.1: Ingressi di soggetti negli istituti penitenziari, soggetti in carcere con problemi socio-sanitari droga correlati, detenuti assistiti dai Ser.T. e detenuti per reati DPR 309/90. Anni 2002 - 2009" (9) di seguito riprodotta:

Anno Totale ingressi Soggetti con problemi socio-sanitari droga correlati Ingressi per art. 73 DPR 309/1990 Detenuti in carico ai Ser.T. Affidati ex art. 94 DPR 309/90
2002 81.185 24.356 24.959 16.661 3.189
2003 81.790 23.719 21.765 18.392 3.109
2004 82.275 24.683 21.392 19.805 3.058
2005 89.887 25.168 25.921 17.105 3.329
2006 90.714 24.493 25.399 18.075 2.799
2007 90.441 24.371 26.985 15.790 982
2008 92.800 30.528 28.865 16.798 1.382
2009 88.066 25.180 28.369 17.166 2.047

Da questa tabella emergono molti dati rilevanti. In primo luogo la percentuale degli ingressi per violazione in carcere dell'art. 73 T.U. sul totale degli ingressi in carcere. La tabella si limita a riportare i numeri assoluti che sono già impressionanti, ma i calcoli sono presto fatti: gli ingressi per violazione dell'art. 73 rappresentano il 30,74% degli ingressi nel 2002; il 26,61% nel 2003; il 26% nel 2004; il 28,83% nel 2005; il 28,16% nel 2006 (anno dell'indulto); il 29,83% nel 2007; il 32,89 nel 2008 e il 28,59% nel 2009. Dati dai quali emerge che la riforma del 2006, e ha invertito un trend decrescente e che, come mostrano i dati del 2005, il sistema penale era già stato influenzato dal clima che l'ha prodotta.

Il secondo dato preoccupante che emerge è quello dei soggetti detenuti con problemi socio-sanitari droga correlati e di quelli in carico ai Ser.T. entrambi superiori ai soggetti che il D.A.P. nelle sue statistiche indica come tossicodipendenti reclusi. Che i soggetti con problemi socio-sanitari droga correlati siano più di quelli considerati tossicodipendenti può apparire normale data l'ampiezza della nozione di "problemi socio-sanitari droga correlati", mentre il fatto che i soggetti reclusi che per il D.A.P. sono tossicodipendenti siano meno dei detenuti in carico ai Ser.T. deriva dalla già ricordata patologica discrasia dei modi di rilevazione dello stato di tossicodipendenza. La tabella contenuta nella relazione di Giovanardi non contiene il dato dei detenuti presenti in carcere, se incrociamo questo dato con quello dei "soggetti con problemi socio-sanitari droga correlati" e quello dei "detenuti in carico ai Ser.T." viene fuori un quadro delle condizioni sanitarie della popolazione carceraria ancora più allarmante.

Anno Presenze Soggetti con problemi socio-sanitari droga correlati e loro percentuale su popolazione detenuta Detenuti in carico ai Ser.T. e loro percentuale su popolazione detenuta Percentuale detenuti tossicodipendenti secondo il D.a.P.
2002 55.670 24.356 (43,68%) 16.661 (29,92%) 27,82%
2003 54.237 23.719 (43,73%) 18.392 (33,91%) 26,73%
2004 56.068 24.683 (44,02%) 19.805 (35,32%) 27,74%
2005 59.523 25.168 (42,28%) 17.105 (28,73%) 27,10%
2006 39.005 24.493 (62,79%) 18.075 (46,34%) 21,44%
2007 48.693 24.371 (50,05%) 15.790 (32,42%) 27,56%
2008 58.127 30.528 (52,51%) 16.798 (28,89%) 26,77% (10)
2009 64.791 25.180 (38,86%) 17.166 (26,49%) n.r.

I dati dei soggetti in carico ai Ser.T. non sembrano indicare alcuna chiara tendenza, mentre se si guarda ai detenuti con problemi socio-sanitari droga correlati le percentuali relative all'impatto della riforma della normativa è devastante: la percentuale di questi soggetti, che nei precedenti quattro anni era stata comunque elevatissima, oscillando tra il 42 e il 44%, balza oltre il 62% (11) per poi collocarsi nei due anni successivi sopra il 50%. Poi, come sempre accade, nel sistema penale (12), scatta una oscura e mai studiata reazione omeostatica per cui la percentuale crolla nel 2009 al dato più basso in assoluto (13).

Questa situazione rende importantissime quelle norme sul trattamento dei tossicodipendenti in carcere introdotte nel 1975, all'epoca, come abbiamo visto, molto osteggiate da dottrina e amministrazione penitenziaria, e poi ridefinite, come accennato, dagli articoli 95 e 96 T.U. del 1990 lasciati inalterati dalla riforma del 2006 (14).

3.1. Lo speciale regime detentivo per i tossicodipendenti: la parabola degli I.C.A.T.T.

Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, l'Amministrazione penitenziaria fu costretta a rivedere il suo sdegnoso rifiuto di dare attuazione alla previsione del 2º comma dell'art. 84, legge 685/75 e inizia a sperimentare un trattamento differenziato per i soggetti tossicodipendenti detenuti all'interno di sezioni all'uopo dedicate ricavate in strutture penitenziarie comuni (presto denominate Sezioni aperta per il trattamento dei tossicodipendenti - Se.A.T.T.), ovvero presso istituti penitenziari interamente adibiti a questa funzione (denominati Istituti a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze - I.C.A.T.T.). Il cambio di atteggiamento non fu dovuto solo alla crescita esponenziale dei detenuti tossicodipendenti ma anche al fatto che questo fenomeno era tragicamente amplificato dal sopravvenire della diffusione dell'AIDS e delle infezioni correlate al virus dell'HIV.

Per gestire gli effetti esplosivi che l'immissione nell'ambiente carcerario di soggetti tossicodipendenti poteva provocare, l'Amministrazione penitenziaria nell'autunno del 1989 dà vita all'esperimento presso la II Casa Circondariale di Firenze (più tardi dedicata alla memoria di Mario Gozzini), "Solliccianino". Questa soluzione mira a definire un modello di esecuzione differenziata della pena per i soggetti tossicodipendenti presso appositi istituti o reparti carcerari predisposti ad hoc, nei quali offrire un trattamento terapeutico e orientato al recupero sociale. Lo strumento utilizzato per dare concretezza operativa all'esperimento è quella della convenzione con le competenti autorità regionali e provinciali e con le autorità sanitarie indicate dall'art. 92 della legge 685/75.

Il protocollo da cui prende vita l'esperienza fiorentina era stato sottoscritto dalla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, presso il Ministero di grazia e giustizia, e dalla regione Toscana, dalla provincia e dal comune di Firenze il 15 giugno del 1989 e fu utilizzato come base per la stipula di protocolli istitutivi di strutture a custodia attenuata, regolamentate in modo strutturale a seguito dell'emanazione del D.P.R. 309/90. Infatti, sotto la pressione ancora una volta dell'emergenza, neanche un anno dopo l'avvio di questo esperimento, il legislatore con il T.U. del 1990 riprende la normativa della legge 685/75 e la completa e perfeziona, dettando le linee guida relative alla predisposizione di uno speciale trattamento penitenziario per i tossicodipendenti, individuati come una categoria di utenti del carcere bisognosi di un'assistenza sanitaria specialistica da svolgere in reparti o sezioni predisposti ad hoc, che già l'amministrazione penitenziaria, nel dar vita all'esperienza di Solliccianino, aveva definito a "custodia attenuata".

Merita di essere sottolineato che questa sperimentazione viene inquadrata dall'Amministrazione penitenziaria non nell'ambito della legge 685/75, ormai chiaramente al tramonto, ma in quello dell'attuazione, fino a quel momento considerata fallimentare, dell'Ordinamento penitenziario che prevedeva la modulazione dell'esecuzione della pena detentiva sulla scorta delle necessità di trattamento emerse dai risultati dell'osservazione "scientifica" della personalità dei detenuti. Chiara testimonianza che la legittimazione giuridica delle strutture a trattamento penitenziario differenziato, e in particolare a "custodia attenuata", viene tratta dall'Ordinamento penitenziario è il fatto che alla prima pagina del protocollo d'intesa stipulato tra l'Amministrazione penitenziaria, la regione Toscana e gli Enti locali fiorentini nel giugno del 1989, per dare vita al primo progetto I.C.A.T.T., i contraenti facevano riferimento ad un "positivo spirito di collaborazione finalizzato a promuovere concrete condizioni per l'effettiva attuazione dei principi affermati dalla L. 354/75 - così come innovata dalla L. 663/86 - e dal regolamento di esecuzione approvato con il D.P.R. 431/76" (15), senza menzionare la legge 685.

A detta dei promotori (16), la nuova realtà penitenziaria dava concretezza all'"individualizzazione del trattamento" prevista dall'art. 13 o.p. costituendo una prima realizzazione di quanto previsto dai successivi articoli 14, 42 e 64 o.p., in tema di specializzazione degli interventi trattamentali e diversificazione tipologica delle strutture penitenziarie in base alle caratteristiche degli utenti. Il 1º comma dell'art. 14 o.p. dispone che "Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l'individualizzazione del trattamento" (17). L'art. 64 o.p. dispone che "i singoli istituti devono essere organizzati con caratteristiche differenziate in relazione alla posizione giuridica dei detenuti e degli internati e alle necessità di trattamento individuale o di gruppo degli stessi". Il 2º comma dell'art. 14 o.p., specificando i criteri da impiegare per la destinazione dei detenuti agli istituti ed alle sezioni, stabilisce che le assegnazioni sono disposte con riguardo, oltre che alle esigenze di sicurezza e alla necessità di facilitare i colloqui con i familiari, "alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all'esigenza di evitare influenze nocive reciproche" (18). Sulla base di queste norme si immaginava di costruire un ventaglio di tipologie di strutture detentive. Ad un estremo di questo ventaglio dovevano stare gli istituti destinati a ricevere i soggetti caratterizzati da un indice di pericolosità rilevante, da sottoporre al regime di sorveglianza particolare previsto dall'art. 14-bis o.p., la vita nei quali sarebbe stata caratterizzata dal prevalere delle esigenze contenitive su quelle trattamentali. L'estremo opposto avrebbe dovuto essere rappresentato dalle strutture a custodia attenuata in cui collocare soggetti detenuti che, sulla base del titolo di reato, del fine pena, della carriera detentiva pregressa (ammessi, ad esempio, ad usufruire dei permessi premio ex art. 30-ter o.p.), richiedono una sorveglianza minima o, comunque, tale da consentire lo svolgimento dell'attività trattamentale senza troppi condizionamenti da parte delle esigenze custodiali. Questo disegno trovava la propria definitiva consacrazione, sul piano normativo, nella disposizione del 1º capoverso dell'art. 16 o.p. secondo cui "in ciascun istituto il trattamento penitenziario è organizzato secondo le direttive che l'amministrazione penitenziaria impartisce con riguardo alle esigenze dei gruppi di detenuti ed internati ivi ristretti".

Per far funzionare questo sistema si pensava di attribuire al circuito detentivo ordinario soprattutto la funzione di luogo in cui vagliare i detenuti per determinare il circuito differenziato a cui devono essere assegnati. Anche questo ruolo sostanzialmente residuale di quegli istituti che fino ad allora avevano rappresentato la pressoché totalità delle strutture detentive trovava fondamento in una previsione normativa, l'allora Regolamento di esecuzione della L. 26 luglio 1975, numero 354, recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà approvato con Decreto Presidente Repubblica 29 aprile 1976, n. 431, che al suo art. 30 (Assegnazione dei detenuti e degli internati agli istituti) disponeva che i condannati e gli internati, all'inizio dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, fossero "provvisoriamente assegnati" in un istituto destinato all'esecuzione del tipo di pena o di misura cui sono stati sottoposti, situato nell'ambito della regione di residenza (comma 1), dove venissero espletate le attività di osservazione "scientifica" della personalità previste dall'art. 13 della legge (comma 2) e che, sulla base di esse, si procedesse alla formulazione del programma di trattamento individualizzato e venisse "disposta l'assegnazione definitiva".

Attuando i principi innovati dell'Ordinamento Penitenziario, la creazione del circuito detentivo differenziato a "custodia attenuata", da un lato, si proponeva di dar vita ad una realtà carceraria che puntava a ricostruire un significativo collegamento fra il detenuto e il contesto territoriale nel quale doveva essere reinserito (19). Dall'altro voleva rispondere sollecitazioni dello stesso ordinamento penitenziario verso il perseguimento dell'obiettivo di assegnare alla pena detentiva una prospettiva più umanizzante e presentare una nuova realtà detentiva in cui il trattamento penitenziario fosse "finalizzato" (20) a restituire al condannato in primo luogo la propria dignità. Grazie alla differenziazione dei circuiti il carcere ambiva dunque a dismettere il carattere di organismo meramente custodiale all'interno del quale adottare misure trattamentali strumentali al reinserimento sociale del deviante. Sulla carta la valorizzazione del principio della differenziazione degli istituti di pena e del trattamento in essi praticato, in relazione al grado di sicurezza richiesto dalle diverse tipologie dei detenuti, doveva consentire di creare articolazioni custodiali in cui le modalità trattamentali potessero rispondere in maniera adeguata alle problematiche sociali e personali omogenee. Grazie ad essa gli operatori penitenziari, dell'area custodiale e quelli dell'area educativa, avrebbero potuto trovare le condizioni ambientali ed operative ideali, per dar vita al trattamento rivolto tanto ad umanizzare le condizioni della detenzione quanto a favorirne il reinserimento sociale. La differenziazione inoltre avrebbe potuto consentire di allocare le risorse operative, finanziarie e strumentali, secondo le diverse esigenze della popolazione detenuta e, di conseguenza, del contesto sociale esterno.

Poiché i dati statistici sui detenuti tossicodipendenti evidenziavano drammaticamente l'apparire di nuova tipologia di detenuto, il consumatore di sostanze stupefacenti, per lo più incensurato, compreso tra i diciotto e i trenta anni, gli I.C.A.T.T. furono riservate all'espiazione della pena di una particolare porzione di utenti dell'universo carcerario, i "giovani-adulti" (compresi entro una fascia di età tra i diciotto e i trent'anni) con problemi di dipendenza. Ciò che li distingueva, rispetto al normale circuito detentivo era il fatto che al loro interno, le istanze di sicurezza cedevano almeno parzialmente il passo alle esigenze terapeutico-trattamentali. L'intento dichiarato era quello di costruire, attorno ad individui ancora sufficientemente recettivi degli stimoli esterni e la cui personalità non era del tutto strutturata, una realtà penitenziaria capace di portarli a trovare la motivazione necessaria per intraprendere il percorso di recupero. Si voleva, come scrisse un po' enfaticamente l'allora Direttore generale del D.A.P. Niccolò Amato, creare un ambiente carcerario capace "rendere durante e attraverso l'internamento l'uomo che ne esce migliore di quello che vi è entrato" (21).

L'attuazione di un circuito detentivo a trattamento differenziato per i tossicodipendenti nasce dunque con due finalità preminenti. In prima battuta, la scelta custodiale differenziata muove dal presupposto secondo il quale, di là dalle connotazioni intrinsecamente negative della reclusione dovute principalmente alle pressoché perenni condizioni di sovraffollamento, alle precarie condizioni igieniche dei locali e alla limitazione forzata dalla capacità di movimento del detenuto, l'ambiente carcerario deve offrire al ristretto un luogo avulso da interferenze devianti ed orientato verso il superamento di stili di vita e di comportamenti socialmente screditati. Da altra parte, il progetto detentivo elaborato alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, sulla suggestione della letteratura che esaltava l'approccio terapeutico, mira ad avviare un percorso riabilitativo che permetta a ciascun utente di recuperare le proprie potenzialità produttive, dotandolo di strumenti di riflessione capaci di stimolare un radicale cambiamento nonché di riattivare un rapporto costante e costruttivo tra il recluso ed il contesto sociale esterno, quale, la famiglia, il mondo del lavoro, la comunità d'inserimento terapeutico, il Servizio pubblico che ha accolto la richiesta di assistenza. Dal punto di vista tecnico-operativo, il raggiungimento di tali finalità era affidato alla creazione, mediante appositi protocolli d'intesa con gli Enti locali, con le Aziende sanitarie locali, con l'associazionismo ed il volontariato presenti sul territorio, di un rapporto concreto ed efficace, capace di garantire la più ampia partecipazione di questi organismi alla vita dell'istituto ed all'attuazione degli interventi trattamentali e terapeutici che l'Amministrazione penitenziaria ha voluto realizzare in seno a tali realtà penitenziarie (22).

Le linee guida, che avevano costituito la base dell'esperimento fiorentino e che furono estese a tutto il territorio nazionale prevedevano che in questi carceri si cercasse di limitare il più possibile le differenze ambientali con il contesto sociale esterno, che i detenuti fossero raggruppati in base a caratteristiche ed esigenze trattamentali comuni, che il rapporto con lo staff penitenziario fosse tale da incoraggiare i propositi partecipativi all'attuazione dei piani trattamentali individuali e dall'effettiva applicazione di regole improntate al rispetto dei diritti e dei doveri sanciti dalle legge. L'idea di un circuito con un trattamento differenziato e mirato si innestava, dunque, su quella di una forte territorializzazione della pena (dovuta anche all'organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, che seguiva le terapie per la disintossicazione, in USL e poi ASL) capace, attraverso il coinvolgimento degli enti locali, di favorire l'integrazione del detenuto con il contesto sociale esterno in cui sarebbe andato ad inserirsi il tossicodipendente al termine del suo percorso detentivo.

La differenziazione dei circuiti detentivi e la creazione delle I.C.A.T.T. era dunque in sostanza vista come il cavallo di Troia attraverso cui trasformare l'istituzione carceraria italiana caratterizzata, come aveva anche dimostrato la reazione all'art. 84 della legge 685/75, dalla più completa autoreferenzialità, in un "organismo sociale" capace di accogliere, nel rispetto delle esigenze di sicurezza, gli stimoli provenienti dal contesto territoriale circostante trasformandoli in risorse capaci di caratterizzare l'attività trattamentale astrattamente configurata dalla legge. E' perciò significativo che a dieci anni di distanza dalla sperimentazione fiorentina, nonostante che, come vedremo, il progetto predisposto per la loro diffusione avesse incontrato notevoli difficoltà, non da ultimo di tipo finanziario, per cui invece che a un sistema organico diffuso su tutto il territorio nazionale, si era giunti alla creazione di singoli Istituti sparsi sul territorio nazionale, il nuovo Regolamento di esecuzione approvato con il D.P.R. 230/00 desse pieno riconoscimento a questi istituti e alla logica che li sottende.

Come accennato, il 1º comma dell'art. 95, D.P.R. 309/90, prevede che chi si trovi in stato di detenzione "per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza o sia ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o che comunque abbia problemi di tossicodipendenza" ha diritto ad espiare la pena presso "istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi". Il successivo 2º comma, poi, ha rimandato ad un decreto del Ministro di grazia e giustizia il compito di individuare e destinare case mandamentali, al trattamento detentivo dei soggetti tossicodipendenti anche non definitivi. Queste indicazioni legislative furono interpretate dall'Amministrazione penitenziaria, per quello che erano: un endorsement ufficiale della modalità detentiva differenziata "a custodia attenuata" da espletarsi nell'ambito di autonomi istituti di pena, così come si stava sperimentando a Firenze, ovvero presso sezioni autonome a ciò destinate. Per dare loro concretezza vennero quindi emanate rapidamente agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, tutta una serie di provvedimenti ufficiali adottati ora dal Ministero di grazia e giustizia, come i decreti del 10 maggio ed 8 giugno 1991, ora dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria (D.A.P.) tutta una serie di norme secondarie.

Il primo passo verso la costituzione del circuito degli Istituti a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze fu una lettera inviata dall'allora Direttore generale del D.A.P. Amato ai responsabili degli Enti locali (23). Nella lettera si sottolineava con chiarezza la preoccupante situazione dei penitenziari, specialmente di quelli delle grandi aree metropolitane, dovuta alla crescita esponenziale dei tossicodipendenti. Per fronteggiare questa situazione il direttore del D.A.P. chiedeva agli enti locali di attivarsi per dare rapida attuazione agli artt. 95 e 96 del nuovo T.U. in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope. Questi infatti negli articoli dal 113 e al 116 affida in primo luogo alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano il compito di disciplinare l'attività di prevenzione, cura e riabilitazione delle tossicodipendenze. Più concretamente chiama in causa comuni, comunità montane, i loro consorzi ed associazioni, i servizi pubblici per le tossicodipendenze costituiti dalle unità sanitarie locali, singole o associate, eventualmente con la collaborazione di gruppi di volontariato e delle comunità terapeutiche, perché si attivino per la prevenzione della emarginazione e del disadattamento sociale mediante la progettazione e realizzazione, in forma diretta o indiretta, di specifiche attività di sostegno.

Amato sostanzialmente ricordava ai suoi interlocutori che dovevano preoccuparsi non solo dei tossicodipendenti presenti sul territorio, ma anche di quelli detenuti. In particolare sottolineava: 1) la necessità di organizzare un ambiente penitenziario idoneo a favorire, attraverso tipologie trattamentali diversificate, la rieducazione ed il recupero sociale dei tossicodipendenti detenuti; 2) la necessità di una maggiore apertura del contesto sociale al reinserimento dei soggetti colpiti da una pena detentiva in modo da favorire la concessione delle misure alternative o sostitutive alla detenzione previste dal T.U., ed infine, 3) la necessità di predisporre condizioni detentive sanitarie capaci a dare piena attuazione al diritto alla salute così come affermato e garantito dall'art. 32 della Costituzione, richiamando non solo i trattamento terapeutico e socio-riabilitativo degli stati di tossicodipendenza ma anche la necessità di strategie di prevenzione e cura dell'AIDS e delle infezioni da HIV.

Alla lettera il direttore del D.A.P. allegò due documenti: uno schema di convenzione ed una bozza per la stipula di un protocollo d'intesa, che definivano gli strumenti per dare concreta attuazione ai percorsi trattamentali, accompagnati da prestazioni socio-sanitarie, riservati ai tossicodipendenti detenuti secondo la previsione dell'art. 96 del T.U. Era dunque pacifico che in ogni istituto o sezione a custodia attenuata le modalità esecutive potessero essere differenziate, sulla base dei differenti accordi raggiunti in tema di condizioni di ammissione agli istituti.

Il primo dei due documenti indicava le modalità attuative del principio espresso dal 3º comma dell'art. 96 nell'ambito del circuito penitenziario ordinario, organizzando le prestazioni mediche in favore degli assuntori di droga da parte del Servizio pubblico per le tossicodipendenze, dell'unità sanitaria locale territorialmente competente ad operare all'interno del penitenziario, in raccordo al servizio sanitario interno. In particolare, per quanto atteneva alla stipula delle convenzioni, si prevedeva che queste dovessero essere sottoscritte dal direttore dell'istituto di pena, dal Presidente della singola Unità sanitaria locale o dal rappresentante del gruppo di Unità associate allo scopo. Il protocollo d'intesa (24), riprendendo le linee guide del protocollo d'intesa con cui si era data vita alla prima struttura penitenziaria a "custodia attenuata" a Firenze, dettava le direttive per l'esecuzione della cura e della riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti presenti nel circuito differenziato a custodia attenuata. La stesura d'entrambi gli accordi richiedeva la necessaria partecipazione dei rappresentanti, a livello territoriale e locale, dell'Amministrazione penitenziaria, delle regioni, province e comuni (25).

Per dare vita alla circuito a custodia attenuata, e quindi alla differenziazione dei circuiti penitenziari, in attuazione del 2º comma dell'art. 95, T.U., venne emano il D.M. del 10 maggio 1991 che istituì sezioni per condannati od imputati tossicodipendenti presso vari istituti penitenziari (N.C. di Rebibbia e Regina Coeli a Roma, Sollicciano a Firenze, Poggioreale a Napoli, ecc.) e destinò integralmente alcuni istituti all'accoglienza di questi particolari utenti del carcere (Casa di Reclusione di San Severo - Foggia, Casa lavoro di San Giuliano - Modena, Istituto di osservazione per minorenni di Messina, Istituto a custodia attenuata per il trattamento della tossicodipendenze di Eboli). Con esso furono inoltre acquisite dall'Amministrazione penitenziaria 27 case mandamentali (Pontremoli, Palestrina, Iglesias, ecc.), nelle quali attuare un trattamento penitenziario ulteriormente differenziato riservato ai detenuti tossicodipendenti meno pericolosi (26). Se il decreto avesse avuto piena attuazione si sarebbero dovute istituire 58 sezioni maschili e 23 sezioni femminili riservate all'espiazione della pena per soggetti tossicodipendenti. Inoltre sarebbero dovute essere istituite speciali sezioni in tutte le case circondariali maschili e femminili deputate alla detenzione degli imputati tossicodipendenti.

Pochi giorni dopo la pubblicazione del decreto ministeriale, fu inviata una nuova lettera ai rappresentanti degli Enti locali e delle Unità sanitarie locali con l'esplicite indicazioni operative dei passi da compiere per dar vita al circuito penitenziario a custodia attenuata per tossicodipendenti, per la cui realizzazione era necessaria la stretta collaborazione di questi enti. Contestualmente a questa lettera il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria il 31 maggio del 1991 invia ai direttori degli istituti penitenziari la circolare n. 3317/5767 che riprendeva le indicazioni contenute nel decreto ministeriale del 10 maggio, ribadendo che il circuito penitenziario per detenuti tossicodipendenti doveva caratterizzarsi come "circuito differenziato in senso positivo cioè in senso trattamentale, della prevalenza delle esigenze di recupero e reinserimento sociale su quelle, pur importanti e irrinunciabili della custodia e della sicurezza". In particolare era individuato un sottocircuito differenziato, istituti o sezioni a custodia attenuata od aperti, in cui l'intervento principalmente terapeutico riservato ai tossicodipendenti doveva essere affiancato da una decisa attività trattamentale capace di soddisfare le esigenze di recupero e di reinserimento sociale di coloro che vi erano reclusi (27).

A circa un mese dal decreto del Ministro della giustizia, in data 8 giugno 1991, viene emanato il decreto interministeriale previsto dall'art. 135, D.P.R. 309/90 che affida al Ministro di grazia e giustizia, di concerto con i Ministri della sanità e per gli affari sociali, il compito di approvare programmi finalizzati alla prevenzione ed alla cura dell'AIDS, al trattamento socio-sanitario, al recupero ed al successivo reinserimento dei tossicodipendenti detenuti, in espiazione pena ovvero sottoposti ad un provvedimento che ne dispone provvisoriamente la custodia in carcere, se del caso, realizzati in virtù di specifiche convenzioni, anche presso strutture non ricadenti sotto la competenza dell'Amministrazione penitenziaria. Con questo decreto si cercò di predisporre le misure sanitarie e trattamentali idonee a contenere e contrastare il fenomeno della diffusione delle sintomatologie connesse alle infezioni da HIV/AIDS in carcere, che alla data del 15 dicembre 1989 interessavano oltre il 6% della popolazione detenuta, registrando 2.132 casi d'infezioni da HIV e 125 casi di AIDS (28). Nel decreto si prevede anche l'organizzazione di corsi d'addestramento e riqualificazione del personale dell'Amministrazione penitenziaria, impegnato nell'esecuzione dei progetti relativi ai tossicodipendenti.

La parte più importante del decreto è però quella in cui si detta lo schema degli interventi terapeutici e socio-riabilitativi da predisporre in favore dei tossicodipendenti detenuti. Il programma d'intervento sanitario era ripartito in tre parti che corrispondevano alle fasi attraverso le quali gli operatori deputati all'assistenza sanitaria all'interno del carcere prendevano coscienza della condizione psico-fisica del paziente ristretto, elaboravano, in relazione ad essa, i percorsi curativi idonei e predisponevano le misure idonee ad assicurare un efficace reinserimento sociale dell'individuo. Tramite la visita medica generale d'ingresso, prevista dal 5º comma dell'art. 11 o.p., era accertato lo stato di tossicodipendenza del nuovo detenuto, che doveva poi concordare con gli operatori del Ser.T., assistiti dai medici ed infermieri penitenziari, un programma terapeutico e socio-riabilitativo individualmente strutturato sulla base delle informazioni cliniche e psicologiche fornite dal paziente o già in possesso dello stesso Ser.T., volto tra l'altro a ricostruire intorno al detenuto quelle condizioni relazionali che sarebbero poi state necessarie alla sua reintegrazione nel tessuto sociale.

All'interno di questa struttura di sostegno trattamentale, il decreto interministeriale individuava, inoltre, due modalità alternative di interventi sanitari, approntati dall'Amministrazione penitenziaria in favore degli individui tossicodipendenti, che, all'interno del medesimo assetto operativo, dovevano procedere simmetricamente: un intervento definito "di primo livello" e un trattamento "di secondo livello" od "avanzato", da applicarsi in luogo del primo ove ne ricorressero i presupposti. Il trattamento di base era rivolto a tutti gli individui che al momento dell'ingresso nel circuito penitenziario risultavano consumare, abitualmente o meno, sostanze stupefacenti. Il secondo tipo di intervento, quello denominato "avanzato", era rivolto invece ai soggetti che al momento dell'ingresso in carcere si trovavano nelle more di un programma terapeutico e socio-riabilitativo presso una struttura autorizzata ovvero che, sulla base delle risultanze emerse dall'attuazione dell'intervento trattamentale di base, apparivano incentivati a proseguire il percorso riabilitativo già intrapreso all'interno del circuito penitenziario ordinario.

I decreti attuativi delle disposizioni di cui agli artt. 95 e 135 del T.U. in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, adottati il 10 maggio e l'8 giugno del 1991, rimasero però lungamente disattesi a causa della mancanza di risorse umane e finanziarie. L'acquisizione di strutture da destinare interamente alla realizzazione di istituti di pena a regime penitenziario differenziato, "a custodia attenuata", rivolti ad accogliere detenuti tossicodipendenti non fu mai completata. Le sezioni "a custodia attenuata", che sulla base del provvedimento del 10 maggio dovevano trovare collocazione presso ogni Casa Circondariale o di reclusione, maschile e femminile, deputata alla detenzione di soggetti tossicodipendenti, furono realizzate solo in una trentina di carceri italiani.

Ancor prima dell'emanazione dei decreti ministeriali, nell'aprile del 1991 era stata istituita, presso la Casa Circondariale di Rimini, la Sezione aperta per il trattamento dei tossicodipendenti. Nel settembre del 1992, vide poi la luce un secondo istituto interamente destinato all'attuazione di regime custodiale differenziato, la III Casa Circondariale di Rebibbia a Roma. Questo I.C.A.T.T. avrebbe dovuto ospitare 90 detenuti, ma a causa della mancanza di fondi, non ci sono mai stati oltre quarantacinque detenuti con trattamento sperimentale. In effetti non è facile seguire nel decennio successivo l'evolversi del circuito di strutture a "custodia attenuata" dato che spesso mancano atti amministrativi che qualifichino ufficialmente il circuito a cui le strutture penitenziarie devono essere ascritte e il relativo trattamento che vi si deve praticare. All'inizio di questo millennio il D.A.P. istituì un gruppo di lavoro (29) per fare il punto sull'effettivo funzionamento del circuito a custodia attenuata per i tossicodipendenti che produsse nel giro di un anno uno studio che dava, finalmente, un quadro compiuto di tutte le esperienze a "custodia attenuata" esistenti all'epoca. Da esso risultavano solo cinque I.C.T.T. maschili -- la Casa Circondariale "Maio Gozzini" di Firenze, la III Casa Circondariale di Roma - Rebibbia, la Casa di Reclusione per tossicodipendenti di San Severo (FG), la Casa di Reclusione di Eboli, la Casa Circondariale di Lauro (AV) - e uno femminile, la Casa Circondariale di Empoli (FI). Per quanto riguarda le sezioni a "custodia attenuata" per il trattamento dei tossicodipendenti, dopo quella pioneristica di Rimini, ne risultavano realizzate soltanto altre 12 (30).

Come accennato, nonostante questa realizzazione non certo esaltante, il progetto di un circuito differenziato a custodia attenuata per tossicodipendenti, con le caratteristiche che aveva assunto in forza dei decreti del 1991, fu pienamente recepito dal nuovo Regolamento di esecuzione approvato con il D.P.R. 230 del 30 giugno del 2000. E' in particolare il 3º comma dell'articolo 115 (Distribuzione dei detenuti ed internati negli istituti) del nuovo regolamento ad avvallare il progetto sorto alla fine degli anni ottanta del secolo scorso prevedendo che "per i detenuti e internati di non rilevante pericolosità, per i quali risultino necessari interventi trattamentali particolarmente significativi, possono essere attuati, in istituti autonomi o in sezioni d'istituto, regimi a custodia attenuata che assicurino un più ampio svolgimento delle attività trattamentali predette". Il 6º comma sottolinea che se viene scelto di instituire la custodia attenuata in una sezione, invece che in un intero istituto, questa deve essere "sufficientemente autonoma". Il 4º comma di questo stesso articolo dispone che questa collocazione sia adoperata per "i detenuti e gli internati che presentino problematiche di tossicodipendenza o alcooldipendenza e quelli con rilevanti patologie psichiche e fisiche e, in particolare, con patologie connesse alla sieropositività HIV". Il generale tenore della disposizione lascia però intendere che la custodia attenuata, naturalmente riempita di contenuti diversi dal trattamento terapeutico, si può adattare ad altre tipologie di utenti del carcere. Stando all'art. 31 2º comma dello stesso regolamento si potranno, per esempio, creare custodie attenuate per detenute che non presentano profili di pericolosità sociale rilevanti e per i "giovani adulti" (cioè soggetti maggiorenni che non hanno più di 25 anni).

Il 1º comma dello stesso articolo 115 menziona espressamente per la prima volta il principio della "territorializzazione" della pena, che come abbiamo visto era uno dei punti cardini del circuito delle I.C.A.T.T. All'interno del precedente regolamento, infatti, il principio poteva essere al più ritenuto sotteso al 1º comma dell'art. 102, ai sensi del quale ogni regione doveva differenziare, in termini custodiali, le realtà penitenziarie presenti all'interno del proprio territorio. Questa disposizione, ammesso e non concesso che da essa potesse essere desunta un'indicazione in favore della territorializzazione dell'esecuzione penale, non era certamente in grado di fornire un criterio normativo in base a cui individuare uno stabile collegamento tra il circuito detentivo e le risorse sociali, finanziarie e strutturali, fornite dall'ambiente circostante. Mentre con l'art. 115 si sancisce che l'esistenza di un tessuto territoriale ricettivo, aperto alla creazione di occasioni di scambio professionale, oltre che culturale, con le strutture penitenziarie, rappresenta un pilastro essenziale per lo sviluppo di qualsiasi ipotesi di reinserimento sociale dei detenuti. Si certifica l'acquisizione della consapevolezza che nessun reinserimento è possibile senza uno stretto collegamento con il contesto sociale nel quale il detenuto ha i suoi riferimenti familiari e sociali e nel quale immagina la sua vita da soggetto nuovamente libero.

3.2. Realtà e problemi dell'assistenza terapeutica ai tossicodipendenti reclusi

Più o meno nello stesso periodo dell'entrata in vigore del nuovo regolamento di esecuzione, il già ricordato "Gruppo di lavoro" istituito dal D.A.P. per avere il quadro degli interventi penitenziari in favore dei detenuti tossicodipendenti, monitorò la diffusione e la modalità degli interventi terapeutici negli istituti di pena nel biennio 2000-2001. Anche questo monitoraggio mostrò che gli eventi che avevano segnato l'evoluzione del panorama carcerario italiano negli anni novanta del secolo scorso, avevano comportato che gli ambiziosi propositi avanzati dal legislatore e del governo erano stati, solo parzialmente, attuati e che le problematiche connesse al trattamento dei soggetti tossicodipendenti detenuti rimanevano drammatiche.

Dalla rilevazione risultò che all'interno delle strutture penitenziarie a circuito ordinario dove l'art. 96 T.U. aveva trovato attuazione (31), il percorso terapeutico e socio-riabilitativo concordato dai medici e gli altri operatori del presidio sanitario pubblico con gli assuntori di stupefacenti si articolava in interventi farmacologici e poche azioni di supporto psicologico e educativo.

Le attività terapeutiche svolte dal personale medico ed infermieristico dei servizi sanitari, penitenziario ed esterno, operanti presso il carcere, si svolgono prevalentemente secondo due modalità. In primo luogo essi effettuavano prestazioni terapeutiche di primo soccorso somministrando farmaci sostitutivi idonei a prevenire possibili crisi di astinenza. Questo intervento si rende necessario soprattutto per i soggetti che giungono in carcere per un provvedimento giudiziale non definitivo che ne dispone temporaneamente la carcerazione. Gli operatori sanitari presso il penitenziario competenti ad effettuare la visita medica generale obbligatoria all'atto d'ingresso, di cui al 5º comma dell'art. 11 o.p., stante l'assenza di idonea documentazione clinica al riguardo, versano spesso nell'impossibilità pratica di valutare e, se del caso, adottare terapie atte a prevenire eventuali crisi d'astinenza (32).

L'identificazione degli individui tossicodipendenti al momento del loro ingresso in istituto nel 70% dei casi risultava effettuata, ai sensi del sopra richiamato 5º comma dell'art. 11 o.p., dal medico di guardia, dipendente dell'Amministrazione penitenziaria, sulla base di molteplici criteri normalmente non formalizzati, che generalmente includevano la dichiarazione del detenuto, la presenza di segni e sintomi di astinenza, la presenza di eventuali accertamenti medici o, infine, il semplice sospetto clinico. Nel caso in cui fosse rilevato qualcuno di questi indici il sanitario di guardia provvedeva, di solito entro le ventiquattro ore dall'identificazione dell'individuo in matricola, alla segnalazione d'ufficio al personale del Ser.T. operante in seno all'istituto che, secondo le possibilità consentite dal proprio orario di servizio, interviene normalmente entro le ventiquattro-settantadue ore successive. Secondo i dati raccolti dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria un'elevata percentuale di visite (il 22% circa) era svolta dal presidio Ser.T. interno con un ritardo di oltre sette giorni dalla richiesta (33). Per il restante 30% dei detenuti, l'individuazione della tossicodipendenza non era effettuata durante il colloquio di ingresso e rimessa ai medici dell'équipe trattamentale del Ser.T. penitenziario (34).

Gli operatori del Ser.T. penitenziario chiamati a svolgere i controlli urinari sui nuovi giunti (35) anche solo sospettati di avere assunto quantità significative di droga (prevalentemente di eroina od altri oppiacei), devono attendere i referti urinari, che in media pervengono loro dopo altre ventiquattro/settantadue ore, per poter determinare chi ha necessità di un trattamento terapeutico con farmaci sostitutivi. Questi lunghi periodi di attesa, che si estendono in particolare per chi fa ingresso in carcere immediatamente prima del fine settimana, espone i tossicodipendenti al rischio di gravi disturbi fisici derivanti dall'improvvisa interruzione del consumo di una sostanza che ne ha modificato bio-chimicamente l'organismo. Questo rischio risultava particolarmente alto per i cittadini non-comunitari tossicodipendenti che, credendo di semplificare la loro posizione giuridica, negavano d'essere assuntori di droghe (36) esponendosi, specialmente se spacciatori e quindi non abituati ad essere privi di sostanze, a violentissime crisi d'astinenza. Questa situazione nasceva dal fatto che spesso la capacità dei Ser.T. operanti nelle strutture penitenziarie, definita dalla convenzione sottoscritta dall'Azienda sanitaria territoriale e la direzione (37), risultava insufficiente, per numero di operatori ed orari di apertura del servizio, a far fronte a tutte le esigenze sanitarie concernenti i soggetti con problemi di dipendenza che giungevano presso l'apparato penitenziario dalla condizione di liberi.

L'esigenza di arginare questa rischiosa situazione, in alcuni casi, ha indotto il personale del Servizio pubblico per le tossicodipendenze, operante all'interno degli istituti di pena italiani, ad elaborare, in accordo con le direzioni e i sanitari del servizio penitenziario, soluzioni terapeutiche urgenti, suffragate da procedure d'accertamento tempestive alle quali sottoporre volontariamente i nuovi giunti. L'adozione di queste prassi operative è indispensabile per ottenere riscontri medici in tempo reale e fornire un'appropriata assistenza sanitaria. In caso di esito positivo del riscontro si procede comunque ai controlli di routine, nel rispetto dei tempi d'attesa stabiliti, ma nel frattempo si può prevenire la crisi di astinenza, mediante la somministrazione di una dose iniziale di farmaco sostitutivo, se del caso rinnovabile. In questo modo si evita che gli individui consumatori di sostanze assuefanti privati per un periodo significativo delle stesse, si espongano, fino all'effettivo contatto con il personale del Ser.T., a conseguenze degenerative altamente dannose per la propria salute e, data la difficoltà di gestire la mancata soddisfazione del bisogno compulsivo di consumare droga all'interno di un'istituzione che realizza coattivamente condizioni di convivenza collettiva, in grado di incidere negativamente anche sugli altri detenuti. I kit rapidi per la tempestiva verifica della positività all'assunzione di droga risultavano però utilizzati in pochissime realtà penitenziarie (38), finendo per essere disponibili per solo l'1% della popolazione reclusa.

In alcune realtà penitenziarie, come ad esempio presso il N.C.P. di Sollicciano in Firenze, per fronteggiare l'accoglienza dei soggetti tossicodipendenti, quando il Ser.T. interno non è attivo, si è pensato di stralciare la posizione di coloro che risiedono nel territorio provinciale. Nel caso in cui la presa in carico del tossicodipendente deve gravare sull'Azienda sanitaria provinciale e questi sia già stato in carico del Ser.T. territoriale, risulta nella banca dati contenente lo screening di tutti i tossicodipendenti residenti nell'area, e quindi è possibile fornire in tempo reale agli operatori sanitari, informazioni cliniche sull'interessato e, se del caso, indicazioni in merito ad un intervento con farmaci sostitutivi. Per i soggetti che non risultano nella banca dati, gli accertamenti e gli eventuali interventi sanitari di sostegno farmacologico sono approntati dal medico del servizio sanitario penitenziario competente a svolgere la visita medica obbligatoria all'atto d'ingresso. Lo stralcio di tossicodipendenti noti al servizio contribuisce a rendere leggermente più celere le prestazioni anche per i soggetti non residenti nel territorio provinciale.

Questa secondo prassi è quella ordinariamente seguita nei vari istituti: per le situazioni d'urgenza, nel caso in cui il presidio del Servizio pubblico presso il penitenziario non è operativo, il trattamento con farmaci sostitutivi è prescritto e compiuto, previo accordo con i responsabili sanitari del Ser.T., dal personale sanitario, medico ed infermieristico, del servizio penitenziario. Dalla rilevazione risultava che il medico penitenziario è chiamato a far fronte alle crisi di astinenza più frequentemente (nel 62% dei casi) degli altri sanitari operanti presso le strutture penitenziarie (il medico incaricato e il medico del Ser.T.). Le prescrizioni farmacologiche riscontrate consistevano nella maggioranza dei casi nel metadone cloridrato sciroppo e in sedativi, mentre ridotto risultava il ricorso ad altre terapie. Mentre risultava che in circa il 75% delle strutture penitenziarie venivano svolte terapie farmacologiche a base metadonica, con dosaggio a scalare o a mantenimento. Solo due terzi di esse delle direzioni degli istituti penitenziari dichiarava di avere in deposito metadone, nonostante che le linee guida specifichino che presso ogni istituto di pena deve essere garantita la conservazione e lo stoccaggio di entità variabili, in ragione della tipologia della popolazione detenuta, di farmaci per il trattamento sostitutivo degli stati di tossicodipendenza, allo scopo di garantirne la tempestiva somministrazione (evitandone naturalmente ogni utilizzazione indebita). La fornitura, lo scarico e il carico, la registrazione, la prescrizione e l'approvvigionamento dei farmaci, sono a carico dell'Azienda sanitaria provinciale.

Superata la fase di emergenziale, costituita dal momento dell'ingresso, il colloquio con il sanitario del Servizio pubblico segna la vera presa in carico terapeutica del soggetto da parte dell'istituzione carceraria. La cornice del colloquio psicologico consente al tossicodipendente di far emergere le paure e le ansie legate alla sua condizione personale di sofferenza fisica e psicologica. L'operatore sociale cerca dal canto suo di utilizzare questa comunicazione per capire quali motivazioni possono indurre il soggetto ad intraprendere un percorso disintossicante e riabilitativo. E' sulla base delle informazioni fornite dallo stesso tossicodipendente nel colloquio che il medico concorda con lui la linea terapeutica da seguire e prende, ove il soggetto risulti già in carico ad un servizio territoriale, contatto con questo. La presa in carico del soggetto comporta l'apertura di una cartella clinica personale od il raccordo con quella eventualmente già esistente, all'interno della quale sono inserite gli elementi necessari alla formulazione del programma terapeutico e socio-riabilitativo "integrato" che tenga in debito conto i riferimenti territoriali. Gli interventi concordati con il paziente, in ragione delle sue specifiche esigenze, devono infatti, oltre che far fronte alla dipendenza fisica, affrontare il condizionamento psicologico derivante dalla droga, per arrivare, quantomeno, ad una consapevole convivenza con la terapia. Gli operatori del Ser.T. penitenziario normalmente mettono in atto interventi di supporto psicologico e, se del caso, educativo, attraverso i quali acquisire le informazioni necessarie alla ricostruzione della vicenda personale che ha portato l'individuo ad assumere droga.

Gli interventi farmacologici penitenziari vengono definiti dagli operatori del Ser.T. penitenziario in collaborazione con il servizio sanitario interno, su indicazione del Ser.T. territoriale esterno, se il tossicodipendente era stato da questo preso in carico prima della detenzione, e comunque consultando il Ser.T. esterno per tutti quei soggetti che risultano residenti nel territorio limitrofo al carcere e quindi è presumibile che al momento della liberazione, continuino ad essere seguiti da questa struttura. In particolare è sottoposto al vaglio del servizio territoriale competente il programma terapeutico d'intervento che prevede la somministrazione di una dose periodica di farmaco sostitutivo, con una terapia di mantenimento. Mentre l'implementazione delle terapie farmacologiche di mantenimento o "a scalare" è, di norma, salvo che il Ser.T. territoriale non chieda esplicitamente di provvedervi attraverso suoi operatori, compiuta dall'équipe sanitaria del Ser.T. penitenziario. Anche gli interventi di tipo riabilitativo per combattere la dipendenza psicologica sono concordati con l'unità territoriale che aveva in precedenza in cura il paziente, o con il presidio sanitario distrettuale chiamato ad intervenire nei confronti dei soggetti tossicodipendenti al momento della scarcerazione, al fine di concordare la prosecuzione del programma socio-riabilitativo già intrapreso all'esterno o definire l'attuazione di un nuovo percorso di recupero.

Il problema maggiore emerso dal rilevamento, negli istituti dove erano stati attivati i programmi terapeutici, era rappresentato dai casi in cui i Ser.T. territorialmente competenti si erano dichiarati contrari al trattamento con farmaci sostitutivi o, addirittura, alla disposizione di un programma socio-riabilitativo in favore dei tossicodipendenti detenuti, non ravvisando, spesso a causa della posizione giuridica del tossicodipendente e delle sue conseguenze, l'esistenza delle basi per avviare un intervento di terapeutico o di recupero. Queste situazioni erano (e sono) affrontate in modo diverso in ogni realtà penitenziaria, sulla base di differenti linee guida cui fanno riferimento gli operatori dell'équipe dipartimentale competente per la cura e la riabilitazione degli stati di tossicodipendenza e sulla base di singole convenzioni stipulate tra l'Azienda sanitaria provinciale e il carcere.

Comunque, a fronte dell'opposizione da parte del Servizio pubblico territoriale all'attivazione di un percorso di sostegno farmacologico, risultava che, generalmente, il Servizio pubblico operante presso il carcere si faceva carico dell'onere di assicurare al paziente detenuto, i trattamenti farmacologici sostitutivi attuati con modalità terapeutiche a scalare o, se del caso, di mantenimento, cosa che appare doverosa alla luce non solo dell'art. 32 Cost. ma anche dello stesso art. 96 T.U. che prevede il "diritto" del tossicodipendente recluso alle cure mediche e all'assistenza sanitaria.

In alcuni istituti, in particolare a S. Vittore - Milano ed Empoli, a fronte dell'inerzia del Ser.T. territorialmente competente, quello penitenziario, quando lo riteneva opportuno prendeva direttamente in carico i tossicodipendenti, inserendoli in un programma terapeutico che, se necessario, proseguiva, in misura alternativa o dopo il fine pena, come un programma comunitario in una struttura esterna (della cui retta si faceva carico sempre il Ser.T. Penitenziario) o in un programma residenziale. Questa soluzione non è stata adottata da molte Aziende sanitarie per i costi che essa comporta, per cui generalmente gli interventi si limitano alla risoluzione delle situazioni d'emergenza sanitaria, con terapie d'intervento farmacologico a scalare od eventualmente a mantenimento, mentre non vengono predisposti programmi socio-riabilitativi orientati alla concessione di una misura alternativa alla mera detenzione.

Sotto questo profilo, particolarmente rilevante è l'esperimento condotto presso il Nuovo Complesso di Rebibbia in cui, a partire dal 1994 (anno del riassetto amministrativo delle UU. SS. LL. in Aziende sanitarie locali) l'équipe trattamentale interna, è stata sostituita da uno specifico Servizio pubblico per le tossicodipendenze "Istituti penitenziari di Rebibbia" dell'Azienda USL Roma B" dedicato, in via esclusiva, alla cura ed assistenza di tutti i tossicodipendenti presenti all'interno del complesso penitenziario. Questa scelta è sicuramente quella che meglio garantisce il principio dell'effettività dell'offerta terapeutica per tutti i tossicodipendenti detenuti. Essa, infatti, determina la competenza del Ser.T. sulla base dello stato di detenzione, a prescindere dalla residenza. Il Ser.T. è quindi tenuto a prendere in carico, a predisporre e a seguire i percorsi socio-riabilitativi esterni per, chiunque, cittadino italiano, ovunque residente o senza fissa dimora, straniero comunitario od extracomunitario, eventualmente irregolarmente presente sul territorio dello Stato, sia detenuto presso il N.C. di Rebibbia ed abbia problemi di dipendenza da droga. A quasi dieci anni dalla sua costituzione, tuttavia, contrariamente a quanto auspicato dai propugnatori, l'esperienza, che possiamo definire "universalistica" del Ser.T. "Istituti penitenziari di Rebibbia" era rimasta del tutto isolata. Con la conseguenza che rimangono privi di un vero programma socio-riabilitativo, e quindi della possibilità di accedere alle misure alternative alla pena detentiva previsti dal T.U. per le quali un tale programma è una precondizione sine qua non, tutti coloro che non sono stati ritenuti idonei ad intraprendere un percorso di recupero dai Servizi pubblici operanti nel distretto di residenza o che non hanno la possibilità d'individuare un Ser.T. territoriale di riferimento, in quanto non risultano residenti nel territorio dello Stato (39).

Dalla rilevazione risultava infine che il 24% dei detenuti con problemi di dipendenza nella fase immediatamente precedente alla scarcerazione erano ammessi a fruire di terapie farmacologiche a base di naltrexone, un antagonista chimico che evita la dipendenza fisica. Il tipo di intervento e la sua estensione numericamente limitata appariva al Gruppo di lavoro del tutto inadeguato a contrastare il fenomeno delle morti per overdose, collegate alla delicata fase di transito da un sistema rigidamente custodiale ad un altro in cui l'individuo riacquista la libertà di movimento e azione. La relazione si concludeva ritenendo fondamentali per un complessivo miglioramento dell'assistenza sanitaria prestata ai detenuti tossicodipendenti detenuti auspicando: la presenza di unità Ser.T. in ogni istituto penitenziario; la stesura di protocolli operativi fra le Aziende USL e le direzioni degli istituti di pena, con la definizione delle competenze e funzioni; la presa in carico da parte del Ser.T. del detenuto tossicodipendente, mediante la sottoscrizione di programmi terapeutici, a prescindere da un suo collegamento con la realtà territoriale circostante; l'incremento di metodologie riabilitative diversificate, prescindenti i soli interventi farmacologici; la continuità terapeutica da assicurare con particolare riferimento all'atto di dimissione dal carcere; il monitoraggio annuale degli interventi (40).

Dopo questa indagine non sono più state fatte ricerche sistematiche sull'assistenza dei tossicodipendenti in carcere. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha fornito fino al 2008 alcuni dati frammentati, relativi alla presenza dei tossicodipendenti in carcere. Dopo il giugno del 2008 anche questi dati non sono più stati resi pubblici, probabilmente per la ricordata disputa relativa alla definizione di tossicodipendente, disputa, che come accennato, non è meramente teorica, ma ha rilevanti conseguenze economiche, dato che dalla definizione che viene data di tossicodipendente dipende la quantità di soggetti che devono essere presi in carico dai Ser.T. e per i quali devono essere stanziati i fondi per il trattamento carcerario e in misura alternativa.

Gli unici dati disponibili successivi a quelli forniti dall'indagine del D.A.P. sono quelli ricostruiti, mettendo insieme le pochi fonti disponibili, da Alessio Scandurra per il numero de I quaderni di Fuoriluogo relativo ai primi tre anni di applicazione della legge 49/2006 (41). Rielaborando questi dati, relativi al periodo compreso tra il primo gennaio 2006 e il 30 giugno 2008, emerge che la percentuale di detenuti tossicodipendenti in trattamento metadonico, che era solo di poco più del 12% nel primo semestre del 2006, si era stabilizzata nel secondo semestre del 2007 e nel primo del 2008 intorno a poco più del 16%, una percentuale comunque preoccupantemente bassa. Quasi l'84% dei detenuti considerati dall'amministrazione penitenziaria tossicodipendente non aveva alcun trattamento farmacologico, percentualmente.

Detenuti presenti in carcere (a Luglio 2006 fu approvato l'indulto)
Data Detenuti presenti Detenuti tossicodipendenti Detenuti in trattamento metadonico Detenuti alcool dipendenti
Uomini Donne Totale Uomini Donne Totale Uomini Donne Totale (% su detenuti tossicodipendenti) Uomini Donne Totale
30/06/2006 58.341 2.923 61.264 15.546 599 16.145 1.899 144 2.043 (12,65%) 1.435 61 1.496
31/12/2006 37.335 1.670 39.005 8.107 256 8.363 1.208 70 1.278 (15,28%) 752 22 774
30/06/2007 42.035 1.922 43.957 9.960 315 10.275 1.634 125 1.759 (17,11%) 857 40 897
31/12/2007 46.518 2.175 48.693 12.995 429 13.424 2.017 150 2.167 (16,14%) 1.167 31 1.198
30/06/2008 52.647 2.410 55.057 14.211 532 14.743 2.264 188 2.452 (16,63%) 1.250 39 1.289

Rielaborazione dei dati A. Scandurra I quaderni di Fuoriluogo, "Libro bianco sulla Fini-Giovanardi"

3.3. La riforma della sanità penitenziaria

Alla fine del secolo scorso il trattamento dei tossicodipendenti detenuti si è intrecciato, per la verità più sul piano formale che sostanziale, con la complessa e tormentata questione del riordino della medicina penitenziaria, riordino che allora prese le mosse e che non si è ancora compiutamente concluso.

Il diritto del cittadino detenuto di ricevere cure in caso di necessità fu affermato chiaramente e specificamente per la prima volta dalla legge n. 740 del 1970, emanata, come sempre, per far fronte ad una grave emergenza: le insalubri carceri italiane dell'epoca erano afflitte dall'incontrollabile diffusione della tubercolosi. Pochi anni dopo, l'Ordinamento Penitenziario (art. 11 legge di n. 354 del 1975) istituì il servizio sanitario penitenziario. Il primo comma dell'art. 11 o.p. dispose che "ogni istituto penitenziario è dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico, rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati; dispone, inoltre, dell'opera di almeno uno specialista in psichiatria" (42).

Nel caso in cui la cura o gli accertamenti diagnostici non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti di pena, ai sensi del 2º comma dell'art. 11 o.p., i condannati o gli internati sono trasferiti, con provvedimento dall'autorità giudiziaria di sorveglianza o procedente, presso ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura. Il magistrato di sorveglianza è competente a disporre il trasferimento del soggetto imputato già condannato in primo grado, nel solo caso in cui gravi sull'interessato un provvedimento di custodia cautelare in carcere; diversamente, laddove l'imputato sia agli arresti domiciliari, la competenza ad adottare il provvedimento è, ai sensi dell'art. 279 c.p.p., dell'autorità giudiziaria procedente. Nei casi di assoluta urgenza, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 17 del regolamento di esecuzione, il trasferimento del detenuto o dell'internato presso un luogo esterno di cura è disposto con provvedimento del direttore dell'istituto, che successivamente dovrà darne immediata comunicazione all'autorità giudiziaria competente, nonché al Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria ed al provveditore regionale.

L'art. 11 o.p. prevede tassativamente anche tre casi in cui i detenuti sono esposti ad interventi sanitari obbligatori. Ai sensi del 5º comma, al momento dell'ingresso in istituto i soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale devono sostenere una visita medica generale, che accerti eventuali malattie fisiche o psichiche. La norma è posta con l'evidente fine di consentire all'Amministrazione penitenziaria di acquisire le informazioni necessarie per la predisposizione di interventi assistenziali in grado di prevenire il sorgere di situazioni patogene che possono mettere in pericolo la salute collettiva dei soggetti ristretti all'interno dell'istituto. In tal senso il 7º comma consente ai competenti organi penitenziari di provvedere, senza indugio, ad isolare i detenuti o gli internati che siano anche solo sospettati di essere affetti da una malattia contagiosa. Sempre il 5º comma conferisce ai medici l'onere di controllare con periodici e frequenti riscontri lo stato di salute dei singoli utenti, anche prescindendo da una specifica richiesta. Il successivo 6º comma, infine, impone al personale sanitario del servizio interno di segnalare la presenza di malattie che richiedono cure specialistiche e di controllare periodicamente la capacità lavorativa dei soggetti ristretti in relazione alle mansioni alle quali sono adibiti (43). Infine l'art. 80 o.p. previde la figura dei sanitari specialisti a contratto e diede vita al servizio infermieristico degli istituti penitenziari.

Tre anni dopo, la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (S.S.N.), n. 833 del 23 dicembre 1978, ignorò totalmente il problema della tutela della salute dei detenuti, dando luogo in un primo momento a una qualche incertezza sulla legittimità di un servizio sanitario penitenziario autonomo. L'incertezza nasceva dall'impostazione universalistica adottata dalla legge n. 833 che non menzionava esplicitamente alcuna specificità dell'organizzazione delle prestazioni sanitarie per i detenuti, che quindi si dovevano plausibilmente ritenere parificati a tutti gli altri soggetti in forza del 3º comma del'art. 1, secondo cui "Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio". Questo stesso comma stabilisce il decentramento amministrativo del S.S.N. affidando "l'attuazione del servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali". A questi ultimi, e segnatamente ai Comuni, in qualità di enti competenti alla gestione locale del servizio sanitario ex art. 15, avrebbe dovuto essere affidata la diretta responsabilità dell'assistenza medica all'interno delle carceri, che l'Ordinamento penitenziario aveva attribuito agli operatori sanitari penitenziari. Il silenzio della legge 833 fu invece interpretato e vissuto come la disposizione di una netta separazione tra mezzi predisposti per la tutela della salute di questi soggetti e quelli destinati alla tutela della salute dei cittadini liberi. E' in questa situazione quindi che prese il via la sperimentazione della custodia attenuta per i tossicodipendenti e che vide la luce il T.U. del 1990 sugli stupefacenti.

Le fondamenta del percorso per modificare questa situazione vengono posto con la legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l'adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) che al comma 1º del suo art. 5 delegava il Governo "ad emanare, entro il 22 giugno 1999 uno o più d.lgs. di riordino della medicina penitenziaria". La delega fu esercitata, l'ultimo giorno utile con l'emanazione del d.lgs. 22 giugno 1999, n. 230 (Riordino della medicina penitenziaria a norma dell'articolo 5, della legge 30 novembre 1998, n. 419). Questo decreto legislativo al 1º comma dell'art. 8 dispose il pressoché immediato (doveva avvenire entro il 1º gennaio 2000) trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie relative ai soli settori della prevenzione ed assistenza ai detenuti e agli internati tossicodipendenti. Fu invece deciso di effettuare il passaggio di tutte le altre competenze in modo graduale. Il provvedimento assegnava ad una serie di decreti attuativi, la cui emanazione per opera delle amministrazioni interessate era sottoposta a scadenze temporali stringenti, il compito di individuare e trasferire il personale sanitario e le risorse strutturali ed economiche dal Ministero della giustizia al Ministero della sanità, di predisporre un "progetto obiettivo" per la tutela della salute in ambito penitenziario, di indicare alcune regioni in seno alle quali attuare la fase sperimentale di progressivo trasferimento di tutte le altre funzioni sanitarie, ed, infine, di costituire un contingente sanitario dell'Amministrazione penitenziaria affiancato al personale medico dipendente dal Ministero della sanità.

Il primo dei decreti ministeriale previsti, per la cui redazione fu istituita presso il Dicastero una commissione consultiva interministeriale, fu adottato dal Ministero della sanità, il 20 aprile 2000 e individuò le regioni (in un primo momento la Toscana, Lazio e Puglia, a cui con successivo D.L.vo 433/00 furono aggiunte la Campania, l'Emilia Romagna e il Molise) in cui dare corso al trasferimento, in forma sperimentale, di tutte le restanti funzioni sanitarie all'interno degli istituti penitenziari per la durata del periodo di sperimentazione. Il giorno dopo fu promulgato un nuovo decreto del Ministro della sanità con il quale veniva definito lo schema di "progetto obiettivo", predisposto della commissione consultiva presso il Ministero della sanità, in ordine al quale le regioni in cui era stata avviata la sperimentazione del passaggio di tutte le funzioni sanitarie penitenziarie, dovevano fissare gli obiettivi della tutela della salute in ambito penitenziario periferico, cosa a cui provvide una sola delle sei regioni individuate, la Puglia.

Come accennato il 22 dicembre 2000 fu promulgato un nuovo decreto legislativo, il n. 433, che prorogò la sperimentazione in corso nelle prime tre regioni al 30 giugno 2002 ed estese la sperimentazione ad altre tre regioni, Emilia Romagna, Molise e Campania, che avevano fatto espressa richiesta di essere incluse in essa. Il decreto ministeriale, inoltre, istituì un "Comitato per la Valutazione ed il Monitoraggio della Fase sperimentale del Trasferimento delle Funzioni sanitarie dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale" (44). Dopo questo atto, a causa della complessità della materia da riordinare, anche per la necessità di coinvolgere nelle decisioni varie articolazioni della Pubblica amministrazione, e soprattutto per il venire meno della volontà politica di effettuare tale riordino, la completa attuazione del D.L.vo n. 230, cioè il passaggio alla struttura amministrativa del Servizio sanitario nazionale, tramite i decreti attuativi previsti dagli articoli 6 e 7 del D.L.vo 230/99, del personale sanitario operante presso gli istituti penitenziari, dei beni strumentali connessi all'esercizio delle funzioni sanitarie e, infine, delle risorse assegnate al Ministero di grazia e giustizia e destinate alla sanità penitenziaria, si bloccò per quasi un decennio. Causa non ultima di questa stasi fu la graduale acquisizione della consapevolezza dell'impossibilità di dar vita ad una riforma organica della medicina penitenziaria italiana a costo zero, che non prevedesse un adeguato capitolato di spesa in seno al bilancio dello Stato (45).

Per quanto attiene alle funzioni sanitarie relative alla cura ed assistenza dei detenuti od internati tossicodipendenti trasferite, alla data del 1º gennaio 2000, al Servizio sanitario nazionale, il decreto legislativo n. 230/1999 aveva puntualmente disposto l'organizzazione dell'attività in favore dei tossicodipendenti ristretti, ribadendo le prescrizioni generali dell'Ordinamento penitenziario. A fronte però di questo trasferimento di mansioni, il personale sanitario è rimasto inquadrato nell'Amministrazione penitenziaria, così come ad essa sono rimasti assegnati i locali, le attrezzature e gli altri beni strumentali. Infatti, all'individuazione del personale sanitario penitenziario, delle aree mediche, psicologiche ed infermieristiche, da inquadrare organicamente nelle A.S.L, avvenuta con il D.L.vo 433/00 (46), non ha fatto seguito l'effettivo trasferimento.

Concretamente l'unica cosa che cambiò fu il rapporto tra i Ser.T. e l'amministrazione penitenziaria. L'assistenza sanitaria prestata all'interno degli istituti carcerari a custodia attenuata da parte dei Ser.T., che prima del D.L.vo 230/99 era regolata da convenzioni, a partire del 1º gennaio 2000 fu assicurata direttamente dai Ser.T. territorialmente competenti. L'assunzione di responsabilità gestionali da parte delle Aziende sanitarie provinciali, ed in seno alle stesse dei Servizi pubblici per le tossicodipendenze operanti negli istituti penitenziari, si è limitato a definire uno specifico ambito funzionale in cui il personale addetto alla prevenzione ed all'assistenza dei soggetti tossicodipendenti detenuti, organicamente inserito all'interno dell'Amministrazione penitenziaria, si è trovato, per l'esercizio delle funzioni sanitarie trasferite al S.S.No., formalmente responsabile dinanzi a questo e soggetto ai poteri di coordinamento e vigilanza delle A.S.L. sulle attività compiute.

Fortunatamente il decreto legislativo n. 230/99 aveva introdotto l'obbligo giuridico per i due servizi, quello sanitario penitenziario e quello sanitario nazionale, di collaborare per ciò che attiene l'elaborazione e la realizzazione degli interventi terapeutici nel settore della prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope (47). L'esigenze di coordinamento tra le due amministrazioni furono anche oggetto della circolare n. 578455/14 del 29 dicembre del 1999 sottoscritta dal Direttore generale del D.A.P. ed adottata di concerto dai Ministri della sanità e della giustizia, che cercò di definire un quadro che assicurasse un agevole ed efficace intervento degli operatori sanitari dei Ser.T. negli istituti penitenziari garantendo la piena autonomia funzionale degli interventi socio-sanitari e terapeutici attuati, salve le particolari esigenze cautelari che eventualmente rendessero opportuno verificare con la direzione del carcere l'esistenza di possibili soluzioni alternative. Le precisazioni contenute nel documento riguardavano gli spazi adibiti all'espletamento delle attività terapeutiche e profilattiche, l'individuazione di giorni, orari e modalità d'accesso degli stessi in istituto e la tempestiva comunicazione agli operatori del Ser.T. dell'ingresso in istituto di individui tossicodipendente. A tutt'oggi, la riforma del sistema sanitario penitenziario, tradotta all'interno dei provvedimenti di cui è stata data una celere elencazione, non ha trovato concreta attuazione.

Note

1. Tabella elaborata sulla base dei dati forniti dal D.A.P.

2. Al 30 giugno, ultimo rilevamento reso noto dal D.A.P. sulla presenza dei tossicodipendenti in carcere.

3. I detenuti presenti al 30 giugno erano 55.057, la percentuale di tossicodipendenti si riferisce a quella data.

4. Dato riferito al primo semestre, il D.A.P. non ha ancora fornito quello relativo all'intero anno.

5. Le norme incriminatrici del T.U. del 1990 incidono in maniera diretta soprattutto per l'aumento delle pene che esse prevedono, infatti, nel decennio successivo l'aumento dei detenuti sembra dovuto soprattutto all'aumento della lunghezza delle pene, in questo periodo, infatti, il numero d'ingressi dalla libertà non ha registrato lo stesso vertiginoso incremento ma si è mantenuto su parametri quantitativi analoghi a quelli del decennio precedente.

6. M. Tonry, N. Morris, Crime and Justice: An Annual Review of Research, vol. 2, University of Chicago Press, Chicago, 1999; D. Melossi, "Immigrazione e devianza: osservazioni su identità e controllo sociale nella costruzione di una "nuova" democrazia europea", in Dei delitti e delle pene, 1993, fasc. 3 (dicembre), pp. 7-17.

7. M. Pavarini, "Bisogni di sicurezza e politica criminale", in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1994, fasc. 4 (ottobre), pp. 435-462.

8. Dati D.A.P.

9. La tabella si trova a p. 117 della Relazione. Fonti a cui la relazione rinvia: Per le prime tre colonne, cioè "Totale ingressi", "Soggetti con problemi socio-sanitari droga correlati" e "Ingressi per art. 73 DPR 309/1990" Ministero della giustizia - Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato; per la quarta colonna "Detenuti in carico ai Ser.T", Ministero della salute - Direzione generale prevenzione Sanitaria; per l'ultima colonna "Affidati ex art. 94 DPR 309/90", Ministero della giustizia - Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Direzione generale dell'esecuzione penale esterna.

10. I detenuti presenti al 30 giugno erano 55.057, la percentuale di tossicodipendenti si riferisce a quella data.

11. Questo dato è ancora più impressionante se si considera che l'indulto dovrebbe aver fatto uscire dal carcere molti soggetti tossicodipendenti che di solito non hanno pene molto alte.

12. Questi fenomeni di autocorrezioni apparentemente inspiegabili del sistema penale sono frequentissimi, basti pensare che nei primi sei mesi del 2010 (come era avvenuto nei primi sei mesi del 2009) la popolazione penitenziaria cresceva ogni mesi di quasi mille unità, passando da 64.971 detenuti a 68.258 (nei primi sei mesi del 2009 era passata dal 58.127 a 63.630) facendo temere che il sovraffollamento raggiungesse un livello tale da provocare una crisi umanitaria nelle carceri. Arrivati però alla soglia (psicologica?) dei 70.000 detenuti, come era accaduto nell'anno precedente, la crescita si è improvvisamente bloccata, senza che sia intervenuta alcuna variazione normativa. Se nel 2009 questo blocco aveva comportato un aumento nei secondi sei mesi dell'anno di soli 1.161 detenuti, nel 2010 nel secondo c'è stato addirittura un decremento di poco meno di 300 detenuti. Tanto che il disegno di legge sulla detenzione domiciliare che prima dell'estate sembrava dovesse essere adottato in via di urgenza e in una formula che consentisse la scarcerazione di alcune migliaia di detenuti, è stato approvato con tutta calma solo a dicembre e con una formulazione che sta consentendo la scarcerazione di poche centinaia di soggetti. Per sapere se il leggero decremento è a lui imputabile è necessario aspettare i dati sull'aumento delle detenzioni domiciliari.

13. Questo dato, visto che comunque il numero dei soggetti con problemi socio-sanitari correlati alla droga è il più alto in assoluto dopo quello del 2008, trova, sicuramente, spiegazione anche nelle nuove norme che hanno accentuato la carcerazione di alcune altre categorie di soggetti.

14. Nel 2006 è stato introdotto solo il comma 6 ter dell'articolo 96 T.U. che dispone sulla copertura finanziaria per i trattamenti non carcerari dei minori tossicodipendenti sottoposti a misura penale.

15. Protocollo d'intesa del 15 giugno 1989, stipulato dalla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, presso il Ministero di grazia e giustizia, e la regione Toscana, la provincia e il comune di Firenze, p. 1.

16. M. G. Grazioso, "Solliccianino": prima esperienza italiana di struttura penitenziaria a custodia attenuate per detenuti tossicodipendenti, in Bion, Bollettino Informativo dell'Osservatorio Nazionale, n. 2, agosto 1993, p. 52. L'autrice è la fondatrice e, dall'autunno del 1989 ad oggi, la direttrice del progetto I.C.A.T.T. realizzato presso la II Casa Circondariale "Mario Gozzini" di Firenze.

17. Questa disposizione trovava riscontro nell'art. 31 (Raggruppamento nelle sezioni) dell'allora Regolamento di esecuzione (D.P.R. 431/76) che disponeva che "gli istituti penitenziari, al fine di attuare la distribuzione dei condannati e degli internati secondo i criteri indicati nel secondo comma dell'art. 14 della legge, sono organizzati in modo da realizzare nel loro interno suddivisioni in sezioni che consentano raggruppamenti limitati di soggetti".

18. A livello internazionale, già le regole minime per il trattamento dei detenuti ONU del 1955, all'art. 63, comma 1, lett. c, prospettavano un sistema penitenziario in cui i detenuti, ripartiti per gruppi, erano destinati ad istituti distinti, sotto il profilo della sicurezza, in ragione del diverso trattamento penitenziario di cui abbisognavano. Le regole penitenziarie europee, adottate dal Consiglio d'Europa nel 1973, all'art. 64 postulavano l'individualizzazione del trattamento da adottare in seno ad istituti differenziati in termini di sicurezza. Analogamente, le reg. min. ONU accolte nel 1985, successivamente recepite dal Consiglio d'Europa nel 1987, all'art. 13 richiamano la differenziazione degli istituti ed, in ordine a questi, prevedono all'art. 67 che l'esecuzione dei detenuti debba avvenire secondo regimi penitenziari diversificati.

19. M. G. Grazioso, "La sperimentazione trattamentale negli Istituti a - custodia attenuata - prospettive e problematiche", D.A.P., Roma, 1989-90, pp. 15-16.

20. Il riferimento era al 1º comma dell'art. 1, legge 354/75. Parte della dottrina, considerando come ordinate gerarchicamente le caratteristiche che secondo l'art. 27 3º della Costituzione deve rivestire la pena, "non consistere in trattamenti contrari al senso di umanità" e "tendere alla rieducazione del condannato", sottolineava che il rispetto della dignità dell'individuo limitato nella propria libertà personale, in forza di un provvedimento giudiziale di condanna ad una pena detentiva, doveva essere considerato preminente, mentre il perseguimento di istanze rieducative, rivolte ad assicurare il successivo reinserimento sociale del detenuto, doveva essere considerato come un corollario conseguente all'attuazione del principio sancito dall'art. 13 della Costituzione. Gli autori che sostenevano questa posizione parlavano di una "concezione finalistica" e non "strumentale" delle attività trattamentali. Cfr., N. Amato, "Diritto, Delitto e Carcere", Giuffrè, Milano, 1987, pp. 267 e ss.

21. N. Amato, op. cit., p. 171.

22. R. Durano, I. Del Grosso, M. G. Grazioso, P. Giubbotti, M. Mariani, F. Terenzi, op. cit., p. 83.

23. N. Amato, Lettera del 22 dicembre 1990 del Direttore generale dell'Amministrazione penitenziaria ai responsabili degli enti locali, in Ministero di grazia e giustizia D.A.P. 2, Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti:compiti dell'Amministrazione penitenziaria, 1991.

24. Allegato alla Lettera del 22 dicembre 1990.

25. Lo schema di convenzione da stipularsi tra il singolo istituto ed il Servizio pubblico per le tossicodipendenze, afferente l'Azienda sanitaria locale, territorialmente competente ad approntare le prestazioni sanitarie in seno alla nuova struttura custodiale, insieme all'intero progetto di struttura detentiva a "custodia attenuata" furono approvati dalla Commissione nazionale consultiva e di coordinamento per i rapporti con le regioni e gli Enti locali del 10 marzo 1994.

26. Cfr. G. Amato, "Droga e attività di polizia", cit., p. 208.

27. R. Durano, I. Del Grosso, M. G. Grazioso, P. Giubbotti, M. Mariani, F. Terenzi, "Criteri per l'individuazione del circuito penitenziario della custodia attenuata", in Bollettino Informativo dell'Osservatorio Nazionale, n. 1-3, dicembre 1997, pp. 82-83.

28. G. Amato, "Droga e attività di polizia", cit., p. 210.

29. "Gruppo di lavoro sugli interventi specificamente mirati sui detenuti tossicodipendenti", presieduto dal consigliere Gianfrotta, istituito con provvedimento del Direttore generale del D.A.P. del 2 febbraio 2000.

30. La Sezione "Arcobaleno" della Casa Circondariale "Le Vallette" di Torino, la Sezione maschile a custodia attenuata della Casa Circondariale di S.M. Maggiore e la Sezione a custodia attenuata della Casa di Reclusione femminile "La Giudecca", entrambi ubicati sull'isola della Giudecca (VE), la Sezione a custodia attenuata della Casa Circondariale di Forlì, il "Reparto Verde" presso il Complesso penitenziario di Secondigliano (NA), la Casa Circondariale di Giarre, concepita come sezione staccata della Casa Circondariale di Catania, la Sezione a custodia attenuata della Casa di Reclusione di Padova, la Sezione sperimentale presso la Casa Circondariale di Monza, la Sezione a custodia attenuata della Casa Circondariale di Genova - Marassi, la Sezione a custodia attenuata presso la Casa Circondariale di San Remo ed, infine, la Sezione a custodia attenuata realizzata nella Casa Circondariale di Verbania.

31. Le unità Ser.T. penitenziarie risultavano presenti all'interno di circa l'81% del totale degli istituti di pena presenti sul territorio nazionale, con una media operativa di quattro giorni alla settimana.

32. L'uso della scala di Wang, come strumento per la valutazione e certificazione della tossicodipendenza, non risultava ad esempio diffuso tra gli operatori sanitari penitenziari e, in alcuni casi, neppure ad essi noto. Cfr. Atti della Conferenza nazionale di Genova, del 28/30-11-2000, e S. Falchini, M. Orsi (a cura di), "Tossicodipendenza e carcere. Dossier carcere e salute", Ce.S.D.A., dicembre 2001, p. 63.

33. Questi tempi, che a fronte di una crisi di astinenza, sono lunghissimi sono generalmente determinati da problematiche inerenti all'organizzazione del Servizio e della sua integrazione nell'ambiente penitenziario. E' in particolare fondamentale che le direzioni degli istituti mettano a esclusiva disposizione del Ser.T. locali idonei per lo svolgimento dei programmi diagnostici, terapeutici e riabilitativi e di ogni altra forma di attività prevista. Il loro apprestamento e la fornitura delle strutture necessarie sono stati posti a carico all'amministrazione penitenziaria con il D.L.vo 230/99.

34. Molte testimonianze indicano che la situazione odierna è, per molti versi e in molte realtà, analoga a quella di dieci anni fa.

35. Il controllo tramite drug-test urinari al momento del primo ingresso risultava abituale per circa il 70% degli istituti di pena presenti sul territorio nazionale, gli esami erano di norma effettuati dai medici penitenziari, con successivo ricorso ad analisi esterne.

36. La cultura penitenziaria sembra aver messo fine a questa tendenza: oggi anche i cittadini non comunitari arrestati sembrano consapevoli della convenienza, anche ai fini dell'esecuzione penale, di dichiararsi tossicodipendente.

37. Solo nel 29% degli istituti di pena i protocolli d'intesa regolamentavano l'attività del personale sanitario impegnato nella cura ed assistenza verso i tossicodipendenti.

38. Le procedure più strutturate di accertamento diagnostico per i nuovi giunti con problemi di dipendenza risultavano quelle dei due istituti di detenzione di Padova, la Casa Circondariale e la Casa di Reclusione dove il medico di guardia incaricato provvedeva, previa autorizzazione dell'interessato, al compimento di riscontri urinari tramite appositi "stick" in grado di verificare in tempo reale la sussistenza di una condizione di dipendenza da sostanze stupefacenti e somministrare, se del caso, farmaci sostitutivi in grado di far regredire possibili crisi di astinenza.

39. La portata della problematica risultava leggermente contenuta dall'opera di strutture di esistenza del privato sociale che si facevano carico della cura e della riabilitazione degli intossicati da sostanze stupefacenti indipendentemente dall'intervento economico delle Aziende sanitarie pubbliche.

40. Ministero della giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, Gruppo di lavoro sugli interventi specificamente mirati sui detenuti tossicodipendenti - Relazione Finale, D.A.P., Roma, 2001, pp. 8-9.

41. I quaderni di Fuoriluogo, Libro bianco sulla Fini-Giovanardi: Tre anni di applicazione della legge 49/2006 sulle droghe. Illustrazione e commento dei dati sulle conseguenze penali e sulle sanzioni amministrative. I riflessi sull'amministrazione della giustizia e sul carcere.

42. Gli articoli da 17 a 20, 23, 99 e 100 dell'allora Regolamento di esecuzione (DPR. 431/1976) contribuirono a definire un quadro di insieme essenzialmente terapeutico agli interventi di carattere medico e paramedico.

43. Queste visite sanitarie obbligatorie tutelano anche interessi del singolo detenuto, non è infrequente, infatti, che la visita medica generale obbligatoria compiuta all'atto d'ingresso o le altre visite sanitarie alle quali il soggetto ristretto è sottoposto permettano di accertare maltrattamenti che il detenuto ha subito nel corso della cattura o nel carcere, oppure rilevare l'esistenza di cause di incompatibilità con lo stato detentivo che possono determinare, per il medesimo, un rinvio dell'esecuzione.

44. Il Comitato, delegato a redigere, per conto del Governo, una valutazione d'impatto sull'attività sanitaria condotta all'interno degli istituti di pena in cui era avvenuto il trasferimento sperimentale di tutte le funzioni sanitarie al Servizio sanitario nazionale, espresse un parere lusinghiero sui risultati raggiunti, anche in considerazione delle difficoltà gestionali incontrate. Non è chiaro su quali basi fosse fondato questo giudizio dato che la sperimentazione in pratica non è avvenuta neppure nelle sei regioni deputate alla sperimentazione, per la mancata pubblicazione del decreto legislativo 433/2000 che doveva operare il trasferimento del personale sanitario penitenziario al S.S. nazionale. La verifica logicamente si sarebbe, infatti, dovuta fare sull'esecuzione delle prestazioni sanitarie, negli istituti di pena, in via generale, da parte del personale del Servizio sanitario nazionale, e, residualmente, per opera del contingente sanitario dell'Amministrazione penitenziaria, che pure doveva essere determinato dal decreto legislativo 433/2000.

45. Basti pensare che in Francia il riordino della sanità penitenziaria realizzato a partire dal 1994 fu accompagnato da un forte investimento iniziale di 400 milioni di franchi, pari a 62 milioni di euro.

46. Questo decreto legislativo ha definito il contingente sanitario dell'Amministrazione penitenziaria, chiamato ad operare, al momento del trasferimento del personale sanitario interno in seno al S.S.N., in sinergia con gli operatori del servizio sanitario pubblico.

47. Aveva previsto anche un analogo obbligo, almeno relativamente ad alcune realtà penitenziarie ex lege individuate in via sperimentale, per quanto riguarda le prestazioni sanitarie destinate a tutti i detenuti.