ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
Chi è il tossicodipendente?

Raffaella Tucci, 2011

SOMMARIO: 2. Chi è il tossicodipendente? - 2.1 La definizione di droga - 2.1.1. Le Convenzioni internazionali - 2.1.2. L'affermarsi del sistema tabella nella normativa italiana - 2.1.2.1. Il sistema tabellare del T.U. del 1990 - 2.1.2.2. La riforma del sistema tabellare operata dalla legge 49/2006 - 2.2. Quando si è tossicodipendente? Uno sguardo comparativo - 2.2.1. La definizione di tossicodipendente un problema tutt'altro che teorico - 2.3. Sono penalmente sanzionabili (tutti) i tossicodipendenti? - 2.3.1. La misura di sicurezza per il tossicodipendente non imputabile.

2. Chi è il tossicodipendente?

I regimi speciali di esecuzione della pena per i soggetti "tossicodipendenti" sono stabiliti dagli articoli dal 90 al 96 del T.U. Questi articoli distinguono due percorsi che si possono variamente intrecciare: uno di decarcerizzazione, imperniato sulla sospensione della pena e sull'affidamento in casi particolari, articoli dal 90 al 94 del T.U., e uno speciale regime detentivo (articoli 95 e 96 T.U.). Prima di entrare nel dettaglio di questi percorsi e degli istituti e del regime che li caratterizzano è necessario stabilire chi sono i loro destinatari. La definizione di tossicodipendente è, infatti, molto problematica. E' pacifico che per l'individuazione del "tossicodipendente" ai fini dell'applicazione di queste norme non abbia rilievo la "cronica intossicazione", richiesta dall'art. 95 c.p. per sancire la non imputabilità dell'utente delle droghe. Infatti, i soggetti afflitti da cronica intossicazione, essendo non imputabili, non vengono assoggettati a pena, ma a misura di sicurezza, se pericolosi.

Che il regime detentivo speciale previsto dal TU del 1990 sia rivolto ai soggetti tossicodipendenti (ed alcool dipendenti (1)) è chiaramente desumibile già dalla rubriche dei due articoli che lo predispongono e che suonano rispettivamente: "Esecuzione della pena detentiva inflitta a persona tossicodipendente" e "Prestazioni socio-sanitarie per tossicodipendenti detenuti". Per i percorsi non detentivi di esecuzione pena non è la rubrica, ma il contenuto degli articoli a specificare che le misure sono predisposte per i tossicodipendenti: l'art. 90 riserva la sospensione pena alle persone che devono "espiare una pena detentiva inflitta per reati commessi in relazione al proprio stato di tossico-dipendente", mentre l'art. 94 parla di pena detentiva che "deve essere eseguita nei confronti di persona tossicodipendente o alcool dipendente". (2). Il primo comma dall'art. 95 definisce a chi è rivolto il regime detentivo speciale senza dare alcuna indicazione utile all'individuazione della figura del tossicodipendente. Esso sancisce, infatti, solamente che "la pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi".

Queste tre norme non danno quindi elementi per ricavare la definizione di tossicodipendente. Da esse si evince solo che i percorsi speciali di esecuzione pena per i tossicodipendenti non sono riservati solo a chi è tossicodipendente al momento dell'esecuzione pena, ma anche a chi era tossicodipendente al momento della commissione del reato. Tale scelta è comprensibile con riferimento all'istituto della sospensione pena, dato che questa misura, richiedendo in origine che il percorso terapeutico fosse quantomeno già stato intrapreso, ed essendo oggi riservata esclusivamente a chi lo ha concluso, più che accompagnare il soggetto che intraprende la cura, mira a premiare la sua scelta terapeutica, assumendo che essa ha fatto scemare la pericolosità, ritenuta strettamente connessa allo stato di dipendenza (3). Più problematico appare capire perché il legislatore richieda che avvenga "in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi" l'esecuzione della pena detentiva nei confronti di un soggetto che non necessariamente è tossicodipendente al momento in cui la pena viene eseguita.

La spiegazione di questa apparente anomalia probabilmente la si trova nel primo comma del successivo art. 96 T.U., che è la prima norma che fornisce qualche indicazione in più per definire il "tossicodipendente". Tale norma, infatti, definisce in modo ampio l'ambito dei soggetti che hanno diritto ai trattamenti terapeutici e socio-riabilitativi in carcere, aggiungendo, oltre ai soggetti che hanno compiuto reati "in relazione al proprio stato di tossicodipendenza", chi "sia ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o che comunque abbia problemi di tossicodipendenza" (4). Quest'ultima categoria crea una sorta di presunzione in base alla quale si ritiene che: chi al momento della consumazione del reato era tossicodipendente, inevitabilmente, al momento dell'esecuzione della pena, anche se è trascorso molto tempo e non è più tossicodipendente in senso stretto, avrà "problemi di tossicodipendenza". Questa presunzione deriva probabilmente dalla consapevolezza che l'eliminazione totale degli effetti della dipendenza psichica derivante da sostanze stupefacenti o psicotrope richiede di norma tempi lunghissimi e per alcuni soggetti si rivela una chimera (5). Si è, in altre parole, voluto includere tra i destinatari dell'assistenza in fase esecutiva anche chi, superato lo scoglio della dipendenza fisica, "versi ancora in quella condizione di equilibrio e di psicolabilità per la quale è necessario che la terapia prosegua" (6).

L'aggiunta della categoria dei soggetti che comunque abbiano "problemi di tossicodipendenza" è indice della volontà di ampliare la categoria dei destinatari della tutela terapeutica. Essa, infatti, rappresenta la variazione più significativa rispetto al primo comma dell'art. 84 della legge 685 del 1975, che riservava il diritto alle cure mediche e l'assistenza necessaria alla riabilitazione a chi era "ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope". Dal primo comma dell'art. 96 T.U. desumiamo che per la definizione della platea dei soggetti che hanno diritto ai programmi terapeutici e socio - riabilitativi il legislatore ha accolto una nozione di soggetto tossicodipendente estesa. La ratio della normativa è di garantire servizi assistenziali creati ad hoc non solo ai detenuti le cui azioni criminose siano riconducibili allo stato di tossicodipendenza ma anche a coloro che, pur essendo al momento dell'esecuzione pena tossicodipendenti, abbiano commesso reati che non hanno nessuna relazione con la condizione d'intossicato da sostanze stupefacenti e a coloro che all'epoca dei fatti non fossero neppure dediti all'uso di sostanze stupefacenti. Non solo, la norma almeno in riferimento ai detenuti, non sembra limitare il sostegno terapeutico al tossicodipendente o al consumatore abituale, che cita espressamente, ma, mediante la menzione dei soggetti che comunque abbiano "problemi di tossicodipendenza", sembra conferire il diritto ad ottenerlo, oltre che ai soggetti che sono stati tossicodipendenti in un passato più o meno remoto, anche a consumatori occasionali.

Se è evidente la volontà del legislatore di estendere il sostegno terapeutico e riabilitativo a tutti coloro che hanno problemi derivanti dall'uso di sostanze "stupefacenti e psicotrope", è anche evidente che la normativa si dibatte in un circolo vizioso in cui lo nozione di "tossicodipendente" è definita sulla base dello stato di tossicodipendenza. Questa difficoltà non è esclusiva del legislatore italiano, l'indagine comparata evidenzia la difficoltà di mettere a punto una terminologia precisa attraverso cui classificare le diverse modalità di consumo di sostanze stupefacenti. In verità le difficoltà nascono ancora prima di affrontare il problema di definire le diverse modalità d'uso delle droghe: non esiste, infatti, una definizione standard di sostanza ad azione stupefacente o psicotropa, in grado di ricomprendere nella propria estensione le numerose, e continuamente crescenti, tipologie di essenze presenti sul mercato.

Queste difficoltà emergono con chiarezza dalla ricerca condotta nel 2001 dall'European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction (EMCDDA -Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze) di Lisbona in collaborazione con il Cranstoun Drug Services di Londra, che mirava a fornire un quadro delle condizioni dei tossicodipendenti ristretti in esecuzione pena e dei regimi carcerari appositamente disposti per loro nei paesi dell'Unione Europea (7). I ricercatori hanno dovuto costatare che un quadro esaustivo dell'esecuzione penale detentiva non poteva essere fatto per la grande difficoltà di definire e confrontare il target della popolazione tossicodipendente destinataria degli specifici regimi penitenziari.

2.1. La definizione di droga

Tutta l'evoluzione della normativa sulle droghe è caratterizzata dall'impossibilità di fornire una definizione tecnica ed unitaria di sostanza "stupefacente" o "psicotropa" (i due termini a cui, convenzioni internazionali e normativa nazionale hanno fatto ricorso in modo precipuo) basata sulla composizione, sul contenuto e sugli effetti delle sostanze stesse (8). Nel linguaggio comune sono invece definite genericamente "droghe" le sostanze che, reperite in natura o prodotte artificialmente, sono assunte per soddisfare un piacere fisico o psichico, poiché capaci di esplicare un'azione psicotropa, di temporanea alterazione dello stato psicologico, sull'individuo (9) e sono in grado di produrre una tossicomania se autosomministrate, prescindendo dal loro uso medico-terapeutico. La terminologia giuridica e amministrativa attualmente in uso definisce normalmente, (per l'argomento che ci interessa, si veda primo comma dell'art. 96), queste sostanze con il termine "stupefacenti o psicotrope". L'espressione "stupefacente" è introdotta nell'ordinamento italiano dalla legge n. 396 del 18 dicembre 1923, "Provvedimenti per la repressione dell'abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente", che diede concreta attuazione agli impegni che il nostro paese aveva assunto con la ratifica della Convenzione sull'oppio dell'Aja del 23 gennaio 1912 (10). Con questa legge furono, per la prima volta, sottoposte a controllo la morfina, la cocaina nonché, appunto, le "sostanze velenose che in piccole dosi danno azione stupefacente". In breve tempo, i tossicologi osservarono che la definizione di "stupefacente", non era corretta giacché non tutte le sostanze che venivano ricondotte nell'alveo della definizione legislativa provocavano l'insorgenza di un ottundimento psicomotorio assimilabile allo stupor (11). Anche per ovviare a queste osservazioni, le sostanze cui la legge 396 faceva riferimento furono individuate e ricomprese in un elenco a cura del Ministero dell'interno, dando così avvio al sistema tabellare di individuazione delle droghe a tutt'oggi in uso. La definizione di "stupefacente" per connotare le droghe non fu però completamente abbandonata dal legislatore, che è ricorso alla locuzione di "stupefacenti e sostanze psicotrope", adottata per la prima volta nell'ormai lontano 1975 e non più abbandonata, per indicare le sostanze il cui consumo voluttuario è vietato (12). Essa è sempre stata, pacificamente, ritenuta idonea a ricomprendere nella propria estensione semantica tanto le sostanze di derivazione naturale quanto quelle prodotte attraverso processi di sintesi chimica.

Il dato più rilevante che accomuna queste sostanze sembra essere la loro capacità di provocare dipendenza di carattere psichico o fisico. Dal punto di vista medico-farmacologico esse infatti sono catalogate in relazione agli effetti che provocano sull'assuntore. I tossicologi distinguono effetti "diretti" ed "indiretti". Gli effetti diretti sono quelli che il consumatore ricerca assumendo la sostanza. Con riferimento ad essi, ancora oggi, è riconosciuta valida la classificazione proposta da Lewin nel lontano 1927 (13), che ha tenuto conto delle conseguenze che l'assunzione di sostanze stupefacenti e psicotrope può provocare nell'organismo del consumatore. Sulla base degli effetti, essa classifica le droghe in cinque categorie: "euphorica" (oppio, morfina, codeina, cocaina) in cui sono raccolte le sostanze che diminuiscono l'emotività e alcune percezioni; "phantastica" (peyotl, canapa indiana, solanacee, ecc.) che ricomprende le sostanze che determinano illusioni; "inebriantia" (alcool, solventi volatili, ecc.) che riunisce le sostanze che determinano eccitazione seguita da depressione; "hypnotica" (principalmente sonniferi e barbiturici) ed "excitantia" (tabacco, cacao, kat, caffè, ecc.) alle quali sono assegnate le sostanze che stimolano l'attività psichica. Successivamente, Henri Ey (14) ha proposto di aggiungere a quelle definite da Lewin una sesta categoria residuale, non a caso denominata "altre droghe", per raccogliere tutte le sostanze, come antipiretici, analgesici, antiparkinsoniani, antinfiammatori, anoressizzanti, ecc., che sfuggono alle cinque categorie della classificazione originaria.

L'organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha invece adottato la tassonomia elaborata da Jean Delay che distingue sulla base degli effetti specifici diretti, desiderati dall'assuntore, tre tipologie di droghe: droghe depressive (psicolettiche), che deprimono e/o calmano l'attività cerebrale, fra le quali alcool, oppiacei, analgesici, sonniferi, tranquillanti, ecc.; droghe stimolanti (psicoanalettiche), che stimolano l'attività cerebrale e che comprendono coca, cocaina, tabacco, khat, betel, farmaci stimolanti come le amfetamine, farmaci antidepressivi, ecc.; droghe psichedeliche (psicodislettiche), che determinano alterazioni della percezione o dell'interpretazione della realtà, che includono mescalina, funghi allucinogeni, peyotl, cannabis e diverse sostanze sintetiche come LSD e MDMA (15).

L'OMS ha anche classificato le sostanze stupefacenti, come fanno quasi tutte le legislazioni nazionali, in funzione del grado di controllo che a suo parere è necessario esercitare sul commercio e sull'uso delle sostanze. Secondo questa classificazione le droghe sono distinte in tre gruppi (uno dei quali suddiviso in due sottogruppi): un "gruppo a" che comprende sostanze (essenzialmente allucinogene) ritenute di grande utilità terapeutica; un "gruppo b", che riunisce le sostanze che hanno utilità terapeutica, ma il cui uso può causare seri danni alla salute. Le sostanze del "gruppo b" sono suddivise, a loro volta, nel sottogruppo b1 che ricomprende le sostanze dai moderati effetti terapeutici, come le anfetamine, e nel sottogruppo b2 che è costituito dalle sostanze ritenute più efficaci dal punto di vista terapeutico, come ad esempio i barbiturici ed alcuni ipnotici; un "gruppo c" che ricomprende le sostanze dal valore terapeutico certo e con un rischio di effetti collaterali moderato, benché non trascurabile (tranquillanti, ipnotici, sedativi e numerosi altri) (16).

Gli effetti indiretti invece consistono nelle ripercussioni che più o meno velocemente l'assunzione ha sul soggetto provocando la dipendenza psichica e fisica da essa, innalzando la soglia della sua tolleranza e causando la compulsione psicologica verso di essa. Al di là degli specifici effetti diretti di ogni sostanza, tutte le essenze considerate droghe producono vere e proprie patologie fisiche o psichiche collaterali all'azione psicotropa che la sostanza produce nel soggetto (ipotensione arteriosa, edemi polmonari, disfunzioni dell'apparato cardio-circolatorio, disturbi o alterazioni, ecc.). Ci sono poi altri effetti indiretti cosiddetti "generici": si tratta di tutta una serie di affezioni derivanti, non dalle sostanze, ma dai mezzi con cui vengono assunte (epatite, infezioni da HIV, flebiti, infiammazioni delle mucose, ecc.).

La dottrina penalistica ha sempre sottolineato che né le ricordate impostazioni farmacologiche che catalogano le varie essenze in dipendenza degli effetti che producono, né quelle che provano a classificare le droghe in base alla composizione chimica sono in grado di fornire un concetto unitario soddisfacente sul piano giuridico. E' opinione comune che la locuzione "sostanze stupefacenti e psicotrope" utilizzata dal nostro legislatore non consenta che una generica identificazione di sostanze capaci di agire nocivamente sull'organismo dell'assuntore, la cui pericolosità appare probabilisticamente alta e che, infine, la comune coscienza sociale valuta come negative (17).

2.1.1. Le Convenzioni internazionali

Dato che il carattere empirico della definizione di sostanza "stupefacente" e "psicotropa" e l'alea che questo carattere lascia intorno ai vari casi particolari creano notevoli difficoltà a raggiungere l'accordo su una definizione generale ed astratta, capace di delimitare in modo chiaro la categoria delle droghe, in molti paesi e a livello internazionale si è deciso di rimettere l'individuazione di queste sostanze ad elenchi ufficiali che continuamente aggiornabili. Questa procedura ha la funzione essenziale di dare certezza su cosa sia "droga", certezza assolutamente necessaria, non tanto per determinare la platea titolare del diritto ai trattamenti sanitari e assistenziali, quanto per conferire alle fattispecie incriminatrici la tassatività necessaria.

A livello internazionale questa scelta è stata sancita dalla "Convenzione unica sugli stupefacenti stipulata" a New York il 30 marzo 1961, modificata dal Protocollo di emendamenti del 25 marzo 1972 (18), che ha risolto, almeno sul piano metodologico, il problema definitorio, redigendo quattro tabelle ognuna contenente un elenco di sostanze raggruppate in base agli effetti e, disponendo che l'inserimento in una tabella di una nuova sostanza possa avvenire solo previo parere dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Questa deve attestare che esistano ragioni sufficienti per ritenere che l'assunzione incontrollata della sostanza possa provocare un problema di salute pubblica e di rilevanza sociale tale da giustificare il controllo internazionale sulla sua diffusione, in quanto la sostanza può provocare dipendenza e deprimere il sistema nervoso centrale in modo tale da originare allucinazioni, disordini delle funzioni motorie o delle facoltà di giudizio ovvero altri effetti nocivi comparabili a quelli prodotti dalle sostanze già ricomprese nella tabella in cui se ne chiede l'inserimento. La bontà del sistema tabellare è poi stata ribadita dalla Convenzione di Vienna del 1971, recepita in Italia con legge del 25 marzo 1989 n. 385, quindi, nuovamente, nell'approssimarsi della riforma della disciplina in materia adottata con la legge n. 162 del 26 giugno 1990 e, dalla più recente Convenzione del 20 dicembre 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, la cui ratifica avvenne con la legge 5/11/1990, quindi dopo l'approvazione non solo della legge 162/90 ma anche del D.P.R. 309 del 9/10/1990 contenente il "Testo Unico delle leggi in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope".

La convenzione di New York del 1961 (19), attualmente in vigore in 150 Stati, ricomprendeva nelle 4 tabelle, sottoponendole così a controllo internazionale, più di un centinaio di stupefacenti. La convenzione di Vienna del 1971 (20), attualmente in vigore in 146 Stati, ribadendo il principio del divieto di utilizzo di sostanze "psicotrope" (non più "stupefacenti") al di fuori di necessità mediche e scientifiche e disciplina, sottoponendo ad un controllo analogo a quello previsto dalla Convenzione del 1961, anche se meno rigoroso, un altro centinaio di sostanze non contemplate dalla convenzione precedente, quali gli allucinogeni, le anfetamine, i barbiturici. La Convenzione del 1988, di cui sono attualmente parte 138 Stati e l'Unione Europea, prevede il monitoraggio dei precursori e delle sostanze chimiche essenziali alla fabbricazione delle droghe, elencati in due nuove tabelle annesse (21). Questa convenzione suscitò subito un grande dibattito, perché integrando e rafforzando le Convenzioni precedenti, sancisce che "compatibilmente con i propri principi costituzionali e i concetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico, ciascuna Parte adotta le misure necessarie per attribuire la natura di reato, nella sua legislazione interna, qualora l'atto sia stato commesso intenzionalmente, alla detenzione ed all'acquisto di sostanze stupefacenti e psicotrope, alla coltivazione di stupefacenti destinati al consumo personale" (art. 3, comma 2º).

Merita di essere sottolineato che la definizione delle sostanze illecite da parte delle convenzioni internazionali ha rappresentato un atto di imperialismo culturale. Attraverso queste convenzioni i paesi occidentali, ed in primo luogo gli Stati Uniti (22), hanno imposto al mondo intero la loro concezione di droga. Nella misura in cui, come ha sottolineato Francesco Palazzo, un elemento decisivo che portare ad inserire nelle tabelle, ed in una di esse piuttosto che in un'altra, delle sostanze psicotrope e stupefacenti, una essenza piuttosto che un'altra è la valutazione della "coscienza sociale", è chiaro che una definizione delle droghe operata a livello internazionale, porta all'imposizione a livello planetario della "coscienza sociale" dei paesi che guidano l'operazione di reazione di queste tabelle. Questo spiega perché nelle tabelle redatte non compaiono sostanze di comune uso nel mondo nord-occidentale come gli alcoolici e la caffeina, che pure i tossicologi ritengono sostanze psicotrope o stupefacenti e che nel caso dell'alcool, hanno effetti criminogeni evidenti e ben noti, mentre compaiono sostanze come la coca e il kat che sono di comune in uso in paesi diversi.

2.1.2. L'affermarsi del sistema tabella nella normativa italiana

L'evoluzione della normativa italiana in tema di stupefacenti ha risentito in modo evidente delle difficoltà di elaborazione di una definizione capace di ricomprendere in modo sicuro in via generale tutte le tipologie di sostanze, che vengono, e verranno, all'attenzione degli operatori, che l'ordinamento intende perseguire come illegali. Prima della legge n. 396/1923 che puniva con pene detentive brevi, la vendita, la somministrazione e la detenzione di "sostanze velenose aventi azione stupefacente" da parte di persone non autorizzate nonché, con una multa, la partecipazione "a convegni in fumerie" adibite all'uso di stupefacenti, la disposizione del codice Zanardelli del 1889 che vietava la vendita e la circolazione di "cose pericolose per la salute umana" non si riteneva potesse far riferimento alle droghe. Anzi, in conformità al sentimento liberale che animava lo spirito di quegli anni, l'assunzione di allucinogeni o stimolanti veniva "considerata una scelta non sindacabile del singolo individuo, senza interferenze dello Stato o dell'autorità pubblica" (23). La legge 396 del 18 febbraio del 1923, si inquadrava comunque in questo spirito e considerava il consumo di droga come un "vizio" prevedendo la punibilità del consumatore solo qualora la sua condotta potesse rappresentare un pericolo per l'ordine pubblico.

Con l'entrata in vigore del Codice Rocco del 1930, l'espressione "sostanze stupefacenti" divenne autonoma e distinta rispetto all'espressione "sostanze velenose". La disciplina concernente gli stupefacenti venne prevista negli artt. 446, 447, 729 e 730 c.p.; fattispecie incriminatici che perseguivano l'obiettivo di tutelare più adeguatamente l'incolumità pubblica, sanzionando penalmente le condotte di commercio clandestino e fraudolento, di agevolazione dolosa dell'uso di sostanze stupefacenti, di abuso di tali sostanze e, infine, di somministrazione delle stesse ai minori di anni sedici. Il Codice Rocco però non richiamò l'elenco di sostanze definito dal Ministero degli interni negli anni successivi all'approvazione della legge 396/1923 né fornì un criterio al giudice per definire quali sostanze dovessero essere considerate illegali, costringendolo a rifarsi all'accezione corrente del termine e alla cultura socialmente diffusa (stante la mancanza di standard scientifici condivisi). Al sistema analitico tabellare della precedente normativa si affiancò, dunque, la "definizione codicistica di sintesi". In poche parole, e limitatamente alle fattispecie di cui agli artt. 446, 447, 729 e 730, questa soluzione, pur non consentendo una specificazione delle varie tipologie di sostanze, rimetteva all'interpretazione del giudice il compito di concretizzare la nozione caso per caso, senza richiami espressi o meno agli elenchi ministeriali. In concreto, con il codice Rocco prese vita un sistema doppio ed integrato: le fattispecie sopra richiamate trovavano applicazione ogni volta che l'autorità giudiziaria riteneva di dover qualificare come stupefacenti sostanze non richiamate dalle tabelle amministrative. Come è stato osservato in questi anni "la droga rimane legata ad una immagine di trasgressione riservata a delle ricche élite dedite al piacere ed al vizio" (24). Come la legge n. 396/1923, il codice penale non puniva il consumo di stupefacente in quanto tale, ma solo le ipotesi in cui tale fenomeno si rifletteva negativamente sull'ordine pubblico (cfr., per es., art. 447, comma 2, c.p. - partecipazione del consumatore ai convegni tenuti nelle così dette "fumerie"), più in generale esso assumeva rilevanza in una prospettiva prevalentemente orientata alla repressione del "vizio" (cfr., ad es., art. 729 c.p.: "essere colto in grave stato di alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti").

Un'ipotesi di intervento per il trattamento del tossicodipendente che fosse stato colto in stato di grave alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti fu introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento con il r.d.l. 15 gennaio 1934 n. 151 (art. 12), convertito nella legge n.1145/1934 contenente "Nuove norme sugli stupefacenti" (25): trattamento individuato nel "ricovero coatto" in una "casa di salute" al fine di essere sottoposto ad una cura disintossicante. Nella sostanza però "nell'Italia del ventennio fascista e della ricostruzione post bellica la tossicomania rimane, in effetti, una patologia rara, più simile a certe malattie esotiche e tropicali, appannaggio di viaggiatori facoltosi, piuttosto che un fenomeno sociale largamente diffuso come la malaria o la silicosi" (26).

Con il progressivo aumento del fenomeno dell'uso delle droghe, questa impostazione apparve sempre più insostenibile. Con la legge 22.10.1954, n. 1041, "Disciplina della produzione del commercio e dell'impiego degli stupefacenti", si ebbe una radicale svolta nella disciplina degli stupefacenti, caratterizzata da una forte impostazione repressiva. Si decise, infatti, di punire severamente, senza alcuna graduazione in relazione al fatto o alla pericolosità della sostanza, tutte le possibili condotte riguardanti le sostanze stupefacenti, compresa la mera detenzione non autorizzata di droga, tanto se finalizzata alla cessione quanto se per uso esclusivamente personale (27). Il ricorso al ricovero coatto in ospedali psichiatrici fu mantenuto nei confronti "di chi, a causa di grave alterazione psichica per abituale abuso di stupefacenti, si rende comunque pericoloso a sé e agli altri o riesce di pubblico scandalo". Con questa normativa per la prima volta, dunque, il consumatore di sostanze stupefacenti assumeva lo status di delinquente al pari dello spacciatore e del produttore, a prescindere dalle sue caratteristiche soggettive e dalla quantità oggettiva della sostanza detenuta (28). A fronte di questa connotazione dell'utente delle "droghe" si impose, con forza, l'esigenza, già del resto manifestasi al tempo della normativa del 1923, di definire in modo rigoroso le sostanze allora dette "stupefacenti": il generico rinvio ad una nozione diffusa di "droga", infatti, apparve subito non in grado di determinare in modo preciso le fattispecie penali.

Per non dar vita ad una situazione che sembrava lesiva dell'art. 1 del codice penale e dei principi costituzionali, il legislatore con l'art. 3 della legge n. 1041/1954, rinviava l'individuazione analitica delle sostanze ritenute capaci di esplicare un'azione stupefacente a tabelle la cui compilazione era rimessa all'allora Alto commissariato per l'igiene e la sanità pubblica (oggi Ministero della sanità), sentito il parere del Consiglio superiore di sanità. La disposizione del codice Rocco ed il meccanismo predisposto dalla legge 1041/54 hanno convissuto in Italia fino al 1975 quando l'art. 108 della legge 685 non ha espressamente abrogato l'art. 446 c.p. (29). Fino a quel momento fermo restando il primato della normativa speciale, rimaneva in capo al giudice l'ampio potere discrezionale di determinare se altre sostanze, non espressamente previste dalle tabelle, potessero essere considerate droghe e integrassero quindi la fattispecie penale di commercio o detenzione di stupefacenti.

Dal 1954 in poi l'adozione del sistema analitico-elencativo, non a caso adottato anche a livello internazionale, è stata ritenuta da dottrina e giurisprudenza la soluzione più rispettosa del principio costituzionale di legalità e dei corollari principi di tassatività e determinatezza della norma penale, visto che le definizione sintetico-unitario non essendo in grado di fornire né definizioni legali né, tantomeno, liste tassative delle sostanze vietate, avrebbe lasciato all'interprete troppi margini di discrezionalità (30). In effetti prima della sua definitiva affermazione avvenuta con la legge 686/1975, il metodo del rinvio alle tabelle era stato contestato in quanto configurante una violazione della riserva di legge: si contestava la legittimità per contrasto con l'art. 25, comma 2 della Costituzione, di un meccanismo che affidava ad un organo amministrativo il compito di redigere l'elenco delle sostanze e dei preparati ad azione psicotropa (31). Secondo questa tesi la facoltà di includere una sostanza negli elenchi avrebbe attribuito in capo ad un'autorità amministrativa il potere di definire l'elemento oggettivo del reato e quindi di integrare il precetto penale. Si affidava ad una fonte non avente rango di legge il compito di individuare le sostanze stupefacenti e quindi si violava il principio di legalità. L'Alto commissario per l'igiene, competente ad emanare il decreto che individua le sostanze illegali, di fatto, esercitava il potere di creare un illecito penale e di modificare un titolo di reato, mediante l'inserimento negli elenchi richiamati dalla legge di una sostanza o di un preparato. La Corte Costituzionale ha rigettato questa tesi e riaffermato la piena legittimità dell'art. 3 della legge n. 1041, del 22 ottobre 1954, sostenendo che il rispetto dell'articolo 25 della Costituzione era garantito dalla precisazione legislativa dei presupposti, del contenuto e dei limiti dei provvedimenti dell'Alto Commissario, e ricordando, tra l'altro, come il sistema tabellare fosse previsto da vari accordi internazionali. Fu esclusa anche la possibilità che il giudice contestasse la qualità di stupefacente di una sostanza inclusa nell'elenco da parte dell'Alto Commissariato.

Fu dunque con il conforto della giurisprudenza costituzionale e della Convenzioni di New York del 1961, emendata nel 1972, e di Vienna del 1971 che il legislatore nel 1975, abrogò definitivamente l'art. 446 c.p. e riprodusse agli articoli 11 e 12 della legge 685/75 il meccanismo previsto dall'art. 3 della legge 1041/54. Meccanismo che pressoché integralmente è poi stato travasato negli articoli 13 e 14 del T.U. in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope del 1990 che si limitavano a indicare i criteri in base ai quali il Ministro della sanità di concerto con il Ministro della giustizia e sentito il parere dell'Istituto superiore di sanità e del Consiglio superiore di sanità, doveva provvedere a formare le sei tabelle contenenti l'elenco di tutte le sostanze stupefacenti e psicotrope.

2.1.2.1. Il sistema tabellare del T.U. del 1990

Il legislatore del 1990 decise di portare a sei le tabelle, rispetto alle solo 3 previste dal legislatore del 1975. L'articolazione delle tabelle era guidata dal criterio degli effetti della droga: in due tabelle, la I e la III, erano inserite le sostanze in grado di causare i danni di maggiore rilevanza ed il cui consumo era ad elevato pericolo di dipendenza (le così dette "droghe pesanti" o "dure"); in altre due, la II e la IV, figuravano, invece, quelle sostanze i cui effetti erano ritenuti scientificamente diversi ed attenuati rispetto alle sostanze pesanti o dure ("droghe leggere" o "morbide"); nelle Tabelle V e VI, infine, erano inserite le sostanze usate per scopi terapeutici. Le tabelle non elencavano le singole sostanze, ma soltanto i gruppi di riferimento a cui fanno capo le stesse: la tabella I ricomprendeva l'oppio, le foglie di coca e i loro derivati, le sostanze anfetaminiche e gli allucinogeni; la tabella II i derivati della cannabis indica; la tabella III le sostanze di tipo barbiturico; la tabella IV le sostanze di corrente impiego terapeutico che possono provocare dipendenza fisica o psichica, sia pur d'intensità minore rispetto a quelle provocate dalle sostanze elencate nelle tabelle I, III. Infine le tabelle V e VI registravano rispettivamente le preparazioni, contenenti le sostanze richiamate nelle prime quattro tabelle, che non si prestano ad abuso ed i prodotti ad azione ansiolitica, antidepressiva o psicostimolante che possono indurre a farmacodipendenza. La soluzione del T.U. in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, oltre che collocarsi nel solco di una tradizione che era ormai ultra trentennale, ricalcava, come già ricordato, le Convezioni internazionali. La distinzione, operata dall'articolo 14, che definiva i criteri per la formazione degli elenchi, tra "sostanze" e "preparazioni" era, infatti, ricavata da queste ultime. Le "sostanze stupefacenti" e "sostanze ad azione psicotropa" di origine naturale o di sintesi, ricomprese dal legislatore nelle prime 4 tabelle, erano già definite dalla Convenzione unica sugli stupefacenti di New York del 1961, poi furono elencate in quella di Vienna del 1971, modificata, poco prima del varo del T.U. dalla convenzione stipulata nella stessa sede nel 1988, resa esecutiva in Italia con legge 328/90. La definizione di "preparato" infine era data dall'art. 1, lett. f), della convenzione del 1971 che parla di soluzione o miscuglio contenente una o più sostanze psicotrope.

Gli elenchi dei singoli composti considerati droghe non erano contenuti nelle tabelle, ma riportati in decreti ministeriali il cui aggiornamento è rimesso alla competenza dell'autorità amministrativa in materia sanitaria. Il legislatore del 1990 innovò rispetto a quello del 1975 liberalizzando le procedure per l'inclusione negli elenchi di nuove droghe. Mentre nel 1975 i composti proibiti erano rigidamente ancorati alle elencazioni contenute nelle convenzioni e negli accordi internazionali, il T.U. del 1990 definì un meccanismo tabellare "aperto" soggetto a controlli e revisioni continue ogni qualvolta lo richiedono le "nuove acquisizioni scientifiche".

Data questa ulteriore riduzione dei vincoli, in dottrina (32) si ripropose la tesi che attribuire ad un'autorità amministrativa la competenza in ordine alla formazione e alla modifica delle tabelle configura le fattispecie penali in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope come "norme penali in bianco", nelle quali solo la sanzione è determinata con atto legislativo mentre la condotta illecita è solo in parte descritta dalla legge, necessitando di una specificazione a mezzo di un decreto ministeriale relativo la disciplina delle singole sostanze. In conformità con l'orientamento della Corte Costituzionale, l'opinione dottrinale dominante sostenne che non vi era alcuna lesione del principio costituzionale di legalità, in quanto per il rispetto di tale principio basta che la legge, così come avviene per la disciplina degli stupefacenti, indichi con sufficiente precisione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità amministrativa che integrano la fattispecie (33). Venne, comunque, nuovamente riproposta alla Corte la questione dalla legittimità costituzionale del metodo tabellare. La Corte con la sentenza n. 333 del 1991 (34) ribadì che il sistema era pienamente rispettoso della riserva di legge di cui all'art. 25, comma 2, Cost., affermando che gli articoli 75 e 78 del D.P.R. 309/90 erano capaci di indicare, con chiarezza, la condotta vietata e l'oggetto materiale del reato; mentre gli art. 13 e 14 lasciavano all'autorità amministrativa una competenza meramente tecnica. Il dispositivo congegnato dal legislatore, ruotante attorno al decreto ministeriale adottato, sentiti i pareri dell'Istituto superiore di sanità e del Consiglio superiore di sanità, dal Ministro della sanità di concerto col Ministro di grazia e giustizia, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica ed inserito nell'elenco della Farmacopea ufficiale (art. 13 T.U. emanato con D.P.R. 309/90) sembrò soddisfare l'esigenza di garantire di ponderatezza, pubblicità e certezza. La Corte ribadì inoltre che le continue evoluzioni tecnologiche, richiedevano aggiornamenti frequenti e puntuali degli elenchi delle sostanze stupefacenti e psicotrope da sottoporre a controllo, esigenza che l'iter del procedimento amministrativo aveva dimostrato di saper soddisfare.

2.1.2.2. La riforma del sistema tabellare operata dalla legge 49/2006

Il meccanismo tabellare di definizione delle droghe è stato modificato, ancora, con il decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272 convertito poi nella legge 21 febbraio 2006, n. 49 recante "Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309" (35). Questa normativa, che ha modificato sostanzialmente il T.U. del 1990, in primo luogo, parificando sul piano sanzionatorio delle condotte illecite di produzione, traffico e detenzione di sostanze cosiddette "pesanti" e "leggere" (36), non ha apportato novità sostanziali alla materia che qui ci interessa, cioè i meccanismi di individuazione delle sostanze psicotrope il cui uso non terapeutico definisce il tossicodipendente, limitandosi ad accorpare le tabelle originariamente previste dal T.U. del 1990, con pensanti conseguenze sanzionatorie e quindi sull'esecuzione penale.

L'equiparazione sotto il profilo sanzionatorio tra droghe "leggere" e "pesanti" è stata operata, modificando gli articoli 13 e 14 del DPR 309/1990 semplicemente nella parte in cui indicano come accorpare le sostanze al fine di comporre le Tabelle. L'art. 4-vicies ter, comma 32 D.L. 272/2005 convertito in legge 49/2006 ha ridotto le tabelle di riferimento delle sostanze ad effetto drogante, allegate al D.P.R. 309/1990, da sei a due. Nella Tabella I sono state inserite le sostanze, in origine contenute nelle tabelle I, III (droghe pensanti), e II e IV (droghe leggere), per le quali non è previsto alcun impiego terapeutico e che, quindi, non possono essere prescritte, né in alcun modo commercializzate. Nella Tabella II figurano, invece, i medicinali registrati in Italia che possono essere oggetto di prescrizione medica; ma il cui commercio illecito può determinare anche sanzioni penali o amministrative. Oggi quindi la tabella I comprende sostanze e principi attivi individuati come stupefacenti e psicotrope soggetti ad abuso; la tabella II è suddivisa in cinque sezioni, contenenti principi attivi e composizioni medicinali con diverso potere di indurre dipendenza e con diversa modalità prescrittiva: la Sezione A comprende principi attivi e composizioni medicinali prescrivibili con una nuova ricetta a ricalco; in questa sezione ricadono quasi tutti i farmaci di cui alla Legge 12/01 per la terapia del dolore acuto dovuto a patologia neoplastica e degenerativa (continuano ad essere identificati come farmaci dell'allegato III-bis); la Sezione B comprende sostanze per preparazioni galeniche e le composizioni a base di sodio oxibato: ricetta normale da rinnovarsi volta per volta; la Sezione C comprende composizioni medicinali prescrivibili con ricetta normale da rinnovarsi volta per volta; la Sezione D comprende composizioni medicinali prescrivibili con ricetta normale da rinnovarsi volta per volta e alcuni farmaci (composizioni a base di determinati quantitativi di codeina o di idrocodeina per uso diverso da quello parenterale) che se utilizzati nella terapia del dolore acuto dovuto a patologia neoplastica e degenerativa (allegato III-bis) devono essere prescritti con la ricetta a ricalco; e infine la Sezione E comprende composizioni medicinali ad uso diverso da quello iniettabile, prescrivibili con ricetta normale ripetibile.

Il trattamento sanzionatorio delle condotte aventi ad oggetti le sostanze contenute nella Tabella I è indifferenziato rispetto al tipo di sostanze. Mentre per le condotte relative alle sostanze indicate dalla Tabella II il legislatore ha previsto sanzioni differenziate a seconda delle sezioni (A, B, C, D ed E) della Tabella in cui sono riportate: quando la condotta ha oggetto le sostanze della sezione A la sanzione è quella prevista dall'art. 73 primo comma, anche se ridotta da un terzo a metà, mentre le condotte illecite relative alle sostanze indicate nelle altre sezioni sono assoggettate alle sole sanzioni amministrative.

All'uniformazione del trattamento sanzionatorio per i comportamenti penalmente rilevanti, a prescindere dalla tipologia di sostanza, si è accompagnata l'articolazione delle condotte perseguite nei commi 1 e 1-bis dell'art. 73, e la reintroduzione di un parametro quantitativo delle sostanze illecite detenibili ad uso personale. Il legislatore ha, infatti, frazionato le 22 condotte in origine previste nel comma 1 dell'art. 73 all'interno di due nuovi commi, 1 e 1-bis. In quest'ultimo, in particolare, sono confluiti i comportamenti di importazione, esportazione, acquisto, ricezione a qualunque titolo e detenzione illecita di stupefacenti (cioè dell'attuale Tabella I) e sostanze psicotrope o di medicinali compresi nella Tabella II, Sezione A. Questa operazione trova il proprio fondamento nel desiderio di fornire indicazioni positive per distinguere le condotte che possono essere compatibili con il consumo personale di sostanze stupefacenti (comma 1-bis), tali da poter essere assorbite dalla fattispecie sanzionatoria amministrativa di cui al successivo art. 75, così modificato dall'art. 4-ter legge 49/2006 , dalle condotte che rivestono esclusiva rilevanza penale (comma 1), ritenute non riconducibili a finalità di consumo personale. Di conseguenza le condotte previste dall'art. 73 primo comma (37) sono sempre perseguibile, mentre le citate condotte indicate dal comma 1-bis lettera a) sono perseguibili quando le "sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale".

Circa il trattamento sanzionatorio, va sottolineato che il limite edittale minimo previsto dall'art. 73, commi 1 e 1-bis, 6 anni di reclusione, risulta, da un lato, sensibilmente ridotto in relazione alle medesime condotte contenute nel previgente comma 1 riferito alle Tabelle I e III, per le quali il limite edittale minimo era 8 anni, dall'altro, enormemente elevato in riferimento alle condotte che nella previgente disciplina rientravano nel comma 3 dell'art. 73, in quanto relativi a sostanze munite di efficacia drogante contenuta (di cui alle Tabelle II e IV), per le quali il comma 4 dell'art. 73 comminava la pena della reclusione da 2 a 6 anni e la multa da €. 5.164 a €. 77.468. Il legislatore del 2006 ha dunque sensibilmente aggravato la pena prevista per fatti in origine dotati di una nocività ed un allarme sociale ritenuti originariamente non eclatanti. Per valutare l'impatto di questa disposizione va sottolineato che, secondo le statistiche, la grande maggioranza di condanne per reati di droga comportava l'irrogazione di una pena inferiore ai tre anni di reclusione.

E' prevista invece la non punibilità delle sostanze detenute per uso personale, ma il quantitativo di sostanze corrispondente all'uso personale è fissato "con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento nazionale per le politiche antidroga" (38). Questa previsione ha sollevato qualche perplessità riproponendo la questione della legittimità costituzionale di una scelta normativa che rimette a un decreto ministeriale la fissazione di un quantitativo di sostanze che determina l'elemento oggettivo della fattispecie penale. E' ormai pacifico che, se il legislatore definisce in modo sufficientemente preciso la fattispecie nei suoi elementi essenziali e i criteri per l'individuazione delle sostanze, possa lasciare al Ministero della Sanità il compito di definire le sostanze "stupefacenti o psicotrope" esercitando una mera discrezionalità tecnica, diagnostica e medico-legale. Cosa diversa appare però la fissazione della quantità oggetto della condotta penalmente perseguita, specialmente visto che nel testo normativo attualmente in vigore non è rintracciabile alcuna indicazione che circoscriva la discrezionalità amministrativa né sull'individuazione dei limiti massimi entro cui qualificare l'uso personale (per esempio che imponga di fissarne per ciascun tipo di sostanza) né sull'indicazione del parametro temporale a cui ricollegarli (quantità destinata all'uso personale per una giornata, più giorni, mesi e così via).

Il legislatore del 2006, ha in effetti restaurato una previsione, quella del limite quantitativo di sostanza illecita detenibile per consumo personale, già bocciata dalla consultazione popolare del 1993 (39), però anche già vagliata dalla Corte Costituzionale che con sentenza 133/1992 (40) ritenne manifestamente infondata la questione della legittimità - all'epoca - degli articoli 73, 75 e 78 D.P.R. 309/1990, nella parte in cui, fra le altre, "demandano ad un decreto del Ministro della sanità la determinazione dei limiti quantitativi massimi di principio attivo per le dosi medie giornaliere, in riferimento all'art. 25, 2º comma, Cost.". Nonostante ciò, la problematicità del rinvio ad una fonte amministrativa per la determinazione dei limiti quantitativi massimi delle droghe riconducibili ad un uso esclusivamente personale è riemersa in tutta la sua evidenza con la vicenda del decreto ministeriale del 4 agosto 2006, che determinava i limiti quantitativi massimi di sostanza detenibile. In particolare, nell'evidente tentativo di mitigare l'impatto sanzionatorio della normativa, con riferimento all'hashish ed alla marijuana, il decreto, adottato dal Ministro della salute di concerto con il Ministro della giustizia, correggeva il moltiplicatore previsto dal precedente decreto ministeriale, fissandolo a 40, anziché a 20; così aumentando la quantità massima detenibile di cannabis indica espressa in principio attivo (THC) da 500 a 1.000 mg.

Il decreto è stato impugnato dinanzi al TAR Lazio, che, con ordinanza 1155/2007 del 14 marzo 2007, lo ha annullato sul presupposto che l'art. 73, comma 1-bis, lett. a) D.P.R. 309/1990 non conferiva al decreto interministeriale un potere politico di scelta in ordine all'individuazione dei limiti massimi delle sostanze stupefacenti detenibili senza incorrere in comportamenti penali; bensì un potere di discrezionalità meramente tecnica, riferita allo stato attuale delle conoscenze scientifiche. Il TAR ha contestualmente affermato che la nuova normativa, e il decreto che essa prevede, non pregiudica il principio costituzionale di cui all'art. 25, comma 2 Cost., di riserva assoluta di legge in materia penale, allorché individua "i limiti massimi di quantità di principio attivo di sostanza stupefacente detenibile ad uso esclusivamente personale" in applicazione di una discrezionalità tecnica basata sullo stato delle conoscenze scientifiche, quale indice vincolante desumibile dal combinato disposto degli articoli 13 e 14 D.P.R. 309/1990. Ha dunque sanzionato non il sistema tabellare, ma il suo utilizzo improprio. Il giudice amministrativo ha ritenuto, in altre parole, che, non essendo stata la scelta del Ministero della salute supportata da alcuna istruttoria tecnica tale da giustificare il raddoppio del parametro moltiplicatore, si era utilizzato il decreto come strumento politico a contenuto altamente discrezionale con il quale aggirare il ricordato precetto costituzionale.

Resta il problema di determinare in modo esatto la valutazione della quantità di principio attivo presente nella sostanza detenuta, essendo il dato quantitativo rilevante la percentuale di principio attivo presente nello stupefacente, dato che da essa dipende l'incidenza tossicologica della sostanza oggetto della condotta penale. Sotto il profilo pratico, nell'immediatezza del fatto, l'unico strumento utilizzabile dagli organi di polizia per misurare il quantitativo di sostanza detenuta risulta essere il narcotest, idoneo ad evidenziare soltanto se quanto sequestrato sia o meno stupefacente; ma non a calcolare la quantità di principio attivo in essa presente, che può essere verificata soltanto a seguito di accertamenti tecnici tossicologici disposti dell'autorità giudiziaria. La riforma normativa pone quindi notevoli problemi all'operato dell'autorità giudiziaria e delle forze di polizia, sia nel momento in cui sono chiamate a distinguere le ipotesi di confine tra l'illecito penale (art. 73) e quello amministrativo (art. 75), ma anche nel momento di individuare la fattispecie prevista dall'art. 73, 5º comma, cioè la condotta di lieve entità, desumibile tra l'altro dalla "qualità e quantità delle sostanze". L'impossibilità pratica di valutare con celerità la rilevanza quantitativa della sostanza illecita detenuta ha, come vedremo, un impatto significativo sulla scelta della misura pre-cautelare da applicare al caso concreto e sull'adozione delle misure cautelari.

2.2. Quando si è tossicodipendente? Uno sguardo comparativo

Una volta stabilito quali sono le "droghe", o meglio quali sono le sostanze "stupefacenti e psicotrope", il problema è stabilire che tipo di loro uso concretizza la categoria di "tossicodipendente". Una verifica dell'uso, anche a livello internazionale, di questo appellativo mostra subito che esso ha connotazione ed intensità mutevoli. Le diverse accezioni del lemma dipendono dalle numerose variabili che concorrono alla definizione della condizione di tossicodipendente. Quando si definisce lo status di tossicodipendente, trascurare alcune variabili, privilegiarne o considerarne secondarie altre determina scelte politiche diverse e anche costi diversi per le varie agenzie. Non è dunque un caso che la già ricordata ricerca dell'EMCDDA (41) mostri come la stessa definizione dell'assuntore di droga e poi, a maggior ragione, la valutazione dello stato di compromissione psichica e fisica del soggetto da assistere, acquisiscono connotati diversi a seconda delle specifiche competenze dell'organo o dell'ente chiamato a definirlo.

Solo per fare alcuni esempi tratta dall'indagine condotta dall'EMCDDA, per il Ministero della giustizia belga consumatore di sostanze stupefacenti è "qualsiasi assuntore di sonniferi in pillole, di narcotici e di altre sostanze psicotrope che possono generare dipendenza, per il quale la somministrazione avvenga al di fuori di una prescrizione medica". L'omologo ministero danese, in un documento del 3 luglio 2000, definisce come tossicomani "tutte le persone che hanno consumato occasionalmente ovvero che hanno fatto regolarmente uso di una o più sostanze euforizzanti nei sei mesi antecedenti l'incarcerazione". Secondo il rapporto redatto da Charlotte Trabut del "Gruppo Pompidou" in Francia è invece rilevante ai fini del trattamento penitenziario l'uso di droga o di farmaci psicoattivi avvenuto nell'anno precedente all'incarcerazione. In Germania la situazione è diversa da Land a Land, dato che sia il regime penitenziario che i servizi assistenziali sono rimessi alle legislazione locale. In Westfalia, il termine tossicomane è utilizzato per indicare qualunque consumatore di droghe la cui condizione biologica lo rende potenzialmente dipendente da un punto visita fisco o psichico dalle stesse. In Portogallo e Spagna, invece, si definisce tossicomane chiunque fa uso di sostanze psicoattive legali od illegali. In Svezia alle autorità penitenziarie sono segnalati come tossicomani tutti i soggetti che hanno fatto abuso di farmaci, cioè hanno assunto sostanze psicoattive senza una prescrizione medica, durante i dodici mesi prima della privazione della libertà (42).

Nella letteratura e nella prassi si distinguono tradizionalmente tre tipi di utenti delle droghe. La definizione di tossicodipendente in senso stretto, drug-addict nella terminologia dell'OMS, probabilmente dovrebbe essere limitata a quei soggetti periodicamente o permanentemente intossicati a seguito dell'uso ripetuto di una sostanza psicotropa, naturale o sintetica che hanno sviluppato uno stato di dipendenza psichica o fisica dalla sostanza stessa. Questa figura è caratterizzata dal desiderio incontrollabile, e quindi soggettivamente dalla necessità, di continuare ad assumere la sostanza; dalla circostanza che la reazione organica che si sviluppa a seguito all'uso della sostanza, seppure variabile in base alle caratteristiche congenite e acquisite dell'assuntore, è di tolleranza verso la stessa, con la conseguenza che il suo successivo uso comporta la tendenza ad aumentare le dosi per raggiungere l'effetto ricercato, quindi il suo bisogno aumenta in modo esponenziale; dalla dipendenza psichica e poi anche fisica dagli effetti della sostanza. Si ha dipendenza psichica quando l'assunzione della droga è dovuta e, circolarmente, al tempo stesso alimenta l'impulso psicologico al consumo della stessa allo scopo di procurarsi, temporaneamente, piacere. Si ha invece dipendenza fisica dalla sostanza, a cui si associa sempre la dipendenza psichica, quando, oltre al disagio psicologico, l'interruzione del suo uso provoca "crisi d'astinenza", cioè disturbi fisici dovuti ad un'alterazione dello stato fisiologico causato da modificazioni biochimiche dell'organismo provocate dall'uso della sostanza stessa. La "crisi d'astinenza" si ha in altre parole quando il sistema nervoso centrale si è adattato all'assunzione della sostanza così che la sua interruzione provoca sintomi psicofisici, specifici per ogni tipo di droga, che si dissolvono rapidamente con una nuova assunzione. La dipendenza fisica, e quindi la "crisi d'astinenza", è provocata esclusivamente da sostanze il cui uso induce tolleranza nell'organismo, effetto che non hanno tutte le "droghe". Le complesse alterazioni sintomatiche che la provocano sono quindi dovute allo sviluppo contemporaneo della tolleranza e della dipendenza fisica verso la droga, per cui sono necessarie dosi sempre più elevate e frequenti per ottenere gli effetti gratificanti ricercati e per evitare l'insorgenza dei sintomi di astinenza. La dipendenza fisica è facilmente accertabile perché presenta caratteristiche cliniche oggettive osservabili tanto nell'ipotesi dell'intossicazione temporanea quanto in quella di intossicazione cronica da droga. Inoltre l'intensità dell'effetto bio-chimico che la brusca interruzione dell'assunzione determina nell'assuntore è misurabile, entro certi limiti esponenziali, sulla base della cronicità della crisi d'astinenza. Gli effetti fisici della crisi di astinenza da alcune sostanze, fra i quali gli oppiacei, l'alcool etilico, alcuni ipnotici e psicofarmaci, possono essere combattuti mediante l'assunzione di antagonisti dei narcotici.

Ad un gradino di compromissione inferiore rispetto al "tossicodipendente" è collocato il "consumatore abituale" o "tossicofilo" (43). Questa figura è stata tratteggiata dall'OMS nel 1957 come soggetto caratterizzato da drug-abituation, connota chi ha il desiderio di assumere una sostanza per puro piacere, senza generalmente tendere ad aumentare le dosi ed è legato alla stessa da una dipendenza puramente psicologica che non sfocia in quella fisica. Da alcuni lustri l'OMS ha ricompreso la drug-addiction e la drug-habituation sotto la dizione onnicomprensiva di drug-dependence, definita come uno stato psicofisico conseguente a somministrazioni di droghe periodiche o continuative, variabilmente incidenti sull'individuo in relazione alla tipologia delle sostanze assunte (44). In Italia la giurisprudenza ha raccolto la raccomandazione dell'OMS definendo la tossicomania come la situazione di mera reiterazione del consumo di una sostanza la cui assunzione può essere nociva per l'organismo, indipendentemente dalla sussistenza della dipendenza psico-fisica da questa dell'assuntore. Sulla linea tracciata dall'OMS si sono subito posti anche i servizi sanitari che hanno assunto la nozione allargata di tossicodipendenza, considerando i casi di dipendenza in senso stretto come la sua condizione più dannosa.

Per quanto riguarda l'esecuzione della pena (detentiva), come accennato, vista la terminologia utilizzata dall'art. 96 del T.U., non ci sono dubbi che il riferimento ad un soggetto "ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o che comunque abbia problemi di tossicodipendenza" rinvia alla definizione di dipendenza in senso ampio. In dottrina sembra essersi raggiunto un accordo sul fatto che per tossicodipendenza debba intendersi "una condizione di intossicazione cronica o periodica prodotta dall'uso ripetuto di una sostanza chimica naturale o di sintesi, che si risolve in uno stato di soggezione alla sostanza stupefacente, le cui caratteristiche sono il desiderio incontrollabile di continuare ad assumere la sostanza e di procurarsela con ogni mezzo; la tendenza ad aumentare la dose per ottenere gli stessi effetti (cosiddetta "tolleranza"); e infine la dipendenza psichica e fisica dagli effetti della sostanza" (45).

Questa definizione pone il problema se debba essere considerato tossicodipendente l'ultima figura di assuntore di droghe: il "consumatore occasionale". Con questa definizione si indica chi, assumendo la droga saltuariamente per gioco o sfida, in dosi innocue, è in grado di astenersi dal suo uso senza che ciò provochi in lui alterazioni psichiche, e tantomeno fisiche, e di condurre una vita sociale che non risente assolutamente del suo consumo. Nella misura in cui si mette l'accento sulla dipendenza e la tendenza ad aumentare le dosi da assumere, questa figura sembra non rientrare nella definizione di tossicodipendente, un discorso diverso, ma complicato dal punto di vista tossicologico, potrebbe essere fatto se si mette l'accento sulla "tolleranza" che l'uso occasionale e ludico di sostanze stupefacenti e psicotrope provoca in lui. Se poi si ritiene che la definizione di tossicodipendenza debba essere funzionale alla difesa sociale si potrebbe sostenere che il consumatore occasionale di droghe è tossicodipendente nella misura in cui il suo consumo occasionale da luogo a reati per procurarsi le sostanze o per la frequentazione del gruppo dei consumatori.

Nel senso dell'equiparazione, in fase di esecuzione della pena, o comunque di misure cautelari detentive, tra "tossicodipendente" e "assuntore occasionale" sembra tendere anche il comma 5º dell'art. 73 T.U. introdotto dalla legge 49/2006 che prevede che il giudice, quando il reato sia stato commesso "da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope", nei casi in cui sia applicabile il 5º comma dell'art. 73, (circostanza attenuante della "lieve entità"), può sostituire la condanna a pena detentiva e pecuniaria con quella a svolgere un lavoro di pubblica utilità.

2.2.1. La definizione di tossicodipendente un problema tutt'altro che teorico

Di là dalle considerazioni legali e tossicologiche, in fase di esecuzione della pena detentiva, la definizione di utente della droga o consumatore di sostanze stupefacenti, dal punto di vista strettamente epidemiologico, presenta soluzioni incongruenti che risentono delle diverse modalità procedurali attraverso le quali i dati sono rilevati. Il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria effettua due rilevazioni annue (30 giugno, 31 dicembre) e definisce tossicodipendente ogni detenuto che effettua terapie con farmaci sostitutivi. Le Aziende ASL effettuano, per il Ministero della sanità, quattro rilevazioni annue di cui due puntuali e considerano tossicodipendente tutti coloro che effettuano un programma socio-riabilitativo successivo alla disintossicazione o anche senza averla effettuata. Appare evidente che l'utilizzo di una terminologia condivisa permetterebbe di rilevare lo stesso fenomeno e non due situazioni distinte, e principalmente consentirebbe di adottare nei confronti dei medesimi soggetti ristretti strategie riabilitative univoche che non soffrano la differenziazione tra soggetti in trattamento sanitario e non in trattamento (46).

Il problema della definizione del soggetto tossicodipendente non è una questione meramente teorica. La sua standardizzazione da un lato è fondamentale per valutare l'impatto delle politiche penali e degli interventi socio riabilitativi. Dall'altro dalla definizione che si adotta dipende anche l'ammontare delle risorse finanziarie necessarie ad approntare gli interventi terapeutici necessari sia all'interno delle carceri, sia per le misure alternative. Non è un caso che negli ultimi anni, nell'ambito della Conferenza Stato-Regioni, si sia aperta una discussione molto accesa tra Regioni, a cui fanno capo i Ser.T., e il Dipartimento per le Politiche antidroga presso la Presidenza del Consiglio, che deve erogare i fondi per il contrasto al fenomeno delle tossicodipendenze, relativamente all'inserimento degli utenti occasionali della droga tra i soggetti tossicodipendenti e a dove deve essere posto il confine tra utenti occasionali e tossicodipendenti. E', infatti, evidente che più si estende la nozione di soggetto tossicodipendente, maggiori sono le risorse necessarie per la loro gestione. La discussione nasce dalla tendenza dei Ser.T. a farsi carico, come prevede la normativa, di qualsiasi soggetto detenuto che "comunque abbia problemi di tossicodipendenza" e quindi di una popolazione molto vasta, a fronte di risorse finanziarie sempre più scarse. A questa tendenza si contrappone l'atteggiamento del Dipartimento per le Politiche antidroga presso la Presidenza del Consiglio che considera di sua pertinenza solo i soggetti "tossicodipendenti" in senso stretto, sostenendo che è tenuto a provvedere i finanziamenti per gli interventi relativi solo a questi soggetti.

2.3. Sono penalmente sanzionabili (tutti) i tossicodipendenti?

Se si accetta la definizione sopra tratteggiata degli assuntori di sostanze stupefacenti e psicotrope potrebbe sembrare che, almeno una parte di essi, i tossicodipendenti in senso stretto, cioè quelli che soffrono di dipendenza psichica e soprattutto fisica, non possano essere ritenuti penalmente responsabili delle azioni criminose compiute, dato che la dipendenza esercita una forza coartante sul loro volere che quindi ben difficilmente può considerarsi libero (47). Lo stato di soggezione definito "dipendenza" (psichica quanto fisica) può influire in due modi sulla volontà: facendo perdere il controllo al soggetto che non risponde più per i comportamenti tenuti oppure, più comunemente, spingendolo a compiere l'azione criminosa per procurarsi la dose o i mezzi per comprarla (48).

Le scelte operate dal legislatore in materia d'imputabilità hanno stabilito che il consumo di sostanze stupefacenti, a seguito del quale l'assuntore non subisce una modificazione dell'equilibrio biochimico in grado di provocare una permanente alterazione dei processi psichici, non lo sottrae alle conseguenze penali che l'ordinamento giuridico predispone a carico di chi commette un reato. Secondo il codice il tossicodipendente può essere considerato non imputabile solo quando sia affetto da un'intossicazione cronica da sostanze stupefacenti (art. 95 c.p.) che esclude o fa "grandemente scemare" la sua capacità di intendere e di volere. Per il consumatore di stupefacenti, eccettuati i casi di assunzione per caso fortuito o per forza maggiore, anche se non è un consumatore occasionale, e il suo comportamento rientra nella categoria che l'OMS definisce drug habituation, o addirittura è un tossicodipendente (drug addict), vale in forza degli articoli 92-93 c.p. la presunzione della piena capacità di intendere e di volere, per cui graverà su di lui l'onere di provare di essere stato incapace di intendere e di volere al momento della commissione del reato (49). La giurisprudenza della Corte di Cassazione non ha in alcun modo attenuato il rigore di questa impostazione escludendo costantemente che lo stato di tossicodipendenza possa incidere sull'imputabilità, a meno che questo status non si risolva in una patologia, come nel caso dell'intossicazione cronica (50). Nel nostro ordinamento la repressione rappresenta dunque la risposta principale agli atteggiamenti devianti dei tossicomani.

Il codice penale dedica, all'interno del libro I, capo I, titolo IV, gli articoli dal 91 al 95 all'impatto del consumo di sostanze stupefacenti, ed alcoliche sull'imputabilità. Queste disposizioni, che, come accennato, risentono inevitabilmente dell'impostazione repressiva che impregna l'intera impalcatura normativa del codice, hanno resistito ai mutamenti epocali che hanno caratterizzato l'uso delle droghe, alle discussioni che essi hanno comportato in diversi settori, dalla tossicologia alla sociologia, dalla criminologia alla scienza giuridica, e, non ultimo, alla copiosa produzione normativa che a partire dal 1954 ha riguardato la materia.

Riguardo alla tecnica normativa adottata dal codice, si osserva che il legislatore ha predisposto delle norme che regolano l'impatto dell'ubriachezza sull'imputabilità e poi stabilito che esse si applicano anche ai soggetti che commettono il reato "sotto l'azione di sostanze stupefacenti" (51). Questa scelta pone due problemi: il primo relativo all'equiparazione di assuntori di alcool e di droghe; il secondo relativo alla definizione delle droghe. Per quanto riguarda il primo punto, che nell'economia del discorso sviluppato in questo lavoro non è il caso di approfondire, questa scelta fu evidentemente condizionata da contingenze storiche particolari e da una conoscenza molto approssimativa del fenomeno della tossicodipendenza. Per quanto riguarda il secondo problema, come già accennato, il nostro codice penale fa riferimento ad una nozione aperta, socialmente determinata di droga. Questo ha, lo abbiamo già ricordato, sollevato molti problemi con riferimento alla tassatività delle fattispecie incriminatrici ed è stata abbandonata dal legislatore a favore del metodo che si era nel frattempo affermato a livello internazionale, della tassativa indicazione tabellare delle sostanze che devono essere considerate droghe. Quindi si pone un problema di coordinamento tra definizione "aperta" e il sistema tabellare. La prima questione che sorge, dato il divieto di analogia in materia penale, deriva dal fatto che il codice fa riferimento solo alle "sostanze stupefacenti" e non anche a quelle psicotrope, che invece rivestiranno un ruolo prevalente nella legislazione degli anni successivi. Come ricordato, i tossicologi hanno sostenuto che questa connotazione non è incapace di includere tutte le "droghe" o comunque le sostanze incluse successivamente nelle tabelle, perché molte di esse non provocano l'insorgenza di un ottundimento psicomotorio assimilabile allo "stupor". Più in generale si è discusso negli ultimi vent'anni sul come far convivere le norme che regolamentano l'imputabilità con le tabelle (allora quattro oggi due) previste dall'art. 13 del D.P.R. 309/90, T.U. in materia di stupefacenti, e redatte secondo i criteri indicati dal successivo art. 14.

In dottrina e giurisprudenza, una corrente di pensiero, sia pure minoritaria, ha sostenuto che l'ipotesi di cronica intossicazione da sostanze stupefacenti di cui all'art. 95 del codice penale andasse valutata con riferimento al sistema tabellare, introdotto dalla legislazione speciale (52). Richiamandosi a questa tesi, una giurisprudenza, ormai risalente, della Corte di Cassazione ha ritenuto che, ai fini della restrittiva normativa codicistica in tema di responsabilità dei tossicodipendenti per integrare la fattispecie dell'art. 95, lo stato di compromissione psico-fisica richiesto dovesse essere dovuto esclusivamente all'abuso delle sole essenze indicate dalle tabelle (53). Questa impostazione ha l'apprezzabile fine di limitare la restrittiva disciplina codicistica in materia di incapacità dei tossicodipendenti esclusivamente ai problemi per la capacità di intendere e volere, derivante dall'uso di sostanze riportate nelle tabelle ministeriali. Come è stato fatto notare, una siffatta impostazione, che fonda la disciplina dell'imputabilità del tossicodipendente sul parametro tabellare, pone anche il problema di come considerare le nuove sostanze psicotrope, rectius stupefacenti, non ancora inserite nelle tabelle ministeriali (54). La posizione prevalente in dottrina ammette invece che, ai fini dell'art. 95 c.p. si debba prendere in considerazione il consumo cronico di qualsiasi sostanza in grado di produrre effetti stupefacenti (55), giungendo a equiparare alla tossicodipendenza la farmacodipendenza (56). Merita di essere sottolineato che questa linea è stata sposata da numerose sentenze che, per evitare di doverlo considerare penalmente responsabile ai sensi dell'art. 87 ("Stato preordinato di incapacità di intendere e di volere"), hanno ritenuto, in quanto cronicamente intossicato, del tutto incapace o solo parzialmente capace, ai sensi dell'art. 95, di intendere e volere l'individuo colpevole di un delitto che aveva consumato uno psicofarmaco che, pur non essendo incluso nelle tabelle ministeriali, era in grado di produrre effetti di "eccitazione inebriante seguiti da obnubilazione della coscienza, stato crepuscolare, confusione mentale, torpore e paresi mentale" (57). Queste tesi hanno suscitato però molte perplessità perché, pur essendo utilizzate dalla giurisprudenza ai fini di escludere la responsabilità del reo, finiscono per estendere la rigorosa disciplina che il codice penale, agli artt. da 91 a 95, riserva al solo consumatore di sostanze stupefacenti, operando di fatto un'analogia in malam partem idonea a colpire anche il consumatore di sostanze non strettamente stupefacenti, vulnerando il principio di tassatività.

In astratto, l'impianto del codice è chiaro: l'art. 85 fissa il principio che la capacità di intendere e di volere è il parametro dell'imputabilità penale. All'assenza di questa capacità corrisponde la non imputabilità del soggetto, alla sua parziale compromissione corrisponde una responsabilità attenuta a cui deve corrispondere una pena ridotta. Questo principio è immediatamente attenuato dagli articoli successivi che compiono tre operazioni. In primo luogo, si rende penalmente responsabile del reato commesso dalla persona incapace, chi lo ha reso incapace al fine di fargli commettere un reato (art. 86). In secondo luogo, si considera responsabile chi ha provocato la propria incapacità al fine di commettere un reato o di predisporsi una scusante (art. 87). In terzo luogo, si stabilisce che l'incapacità di intendere e di volere per escludere o ridurre l'imputabilità deve dipendere da "infermità" (articoli 88-89). Per quanto riguarda i tossicodipendenti (e gli alcool dipendenti), il principio generale viene ulteriormente derogato. Infatti, gli articoli 93 e 94 danno vita ad una presunzione d'imputabilità in capo a chiunque commette il fatto criminoso sotto l'azione di sostanze stupefacenti volontariamente o abitualmente assunte.

Il codice, attraverso il rinvio agli articoli 91 e 92 operato dall'articolo 93, stabilisce che a escludere o diminuire la punibilità dell'autore di un reato è solo lo stato d'alterazione psichica dovuta ad un'assunzione accidentale o causata da forza maggiore di sostanze stupefacenti. L'assunzione volontaria di sostanze stupefacenti preordinata alla commissione di un reato rende, quindi, pienamente imputabile l'autore di un reato commesso in condizioni d'alterazione psichica per gli effetti da essa provocati. Per il consumatore abituale è addirittura previsto un aggravamento di pena e, nei suoi confronti, infatti, opera una presunzione legale assoluta: non può neppure dimostrare che l'assunzione di sostanze stupefacenti è dovuto a forza maggiore o a caso fortuito ed è sanzionato con un aumento di pena rispetto a quanto normalmente previsto per il reato commesso come se avesse preordinato il suo stato al fine di commettere un reato (art. 94). La responsabilità è esclusa del tutto o parzialmente, solo per l'autore di un reato la cui capacità d'intendere e volere, causata da un'alterazione permanente dipendente da una cronica intossicazione da stupefacenti, è totalmente esclusa o grandemente scemata al momento della commissione del fatto. Questo è l'unico caso in cui l'assunzione di stupefacenti è paragonata all'infermità e, ai sensi degli articoli 88 e 89 c.p., influisce sull'imputabilità (58). E' evidente che, dal punto di vista sanitario, questa valutazione è molto diversa da quella alla base della legge del 1975 e che è tutt'ora alla base del T.U. sugli stupefacenti. È certamente difficile conciliare l'idea che solo il tossicodipendente afflitto da un'alterazione permanente delle capacità intellettive dipendente da una cronica intossicazione da stupefacenti è un "infermo" con un meccanismo di esecuzione penale volto a far intraprendere un percorso terapeutico ai semplici assuntori volontari, anche occasionali, di droghe.

Il nodo delle disposizioni codicistiche è rappresentato dal problema della dipendenza, non casualmente non citato dalle norme in materia di imputabilità e, da quello ad esso strettamente connesso della crisi di astinenza i cui peculiari caratteri e le cui problematiche non sembrano essere state prese in considerazione dal legislatore del 1930. La giurisprudenza maggioritaria, attenendosi alla lettera e allo spirito delle disposizioni sull'imputabilità degli assuntori di sostanza stupefacenti, esclude la rilevanza dello stato d'astinenza, non considerandolo un indice univoco della cronica intossicazione da sostanze stupefacenti. Il giudice di legittimità ha distinto tra l'alterazione della volontà e delle capacità intellettive che, transitoriamente, subisce il soggetto tossicodipendente in crisi d'astinenza e la permanente compromissione delle facoltà psichiche in ragione della cronica intossicazione da stupefacenti. Sulla base di questa distinzione ha precisato che la crisi di astinenza, seppur può essere considerata una condizione, patologica non provoca un'alterazione dell'equilibrio biologico del soggetto in grado di provocare una permanente alterazione dei processi intellettivi e volitivi. Pertanto la crisi d'astinenza non è configurabile come una malattia mentale e non esclude, quindi, la responsabilità per il reato commesso (59). La Cassazione ha confermato tale orientamento in più occasioni, chiarendo che, per quanto concerne l'imputabilità, non vi è necessaria coincidenza fra gli stati di tossicodipendenza e la condizione di soggetto cronicamente intossicato da droga, dato che è solo in questo soggetto che l'abuso può influire sulla capacità d'intendere e volere se e in quanto comporta un'alterazione permanente che causa una malattia mentale (60).

Altri hanno sostenuto che, anche se, certamente, la crisi di astinenza è provocata da una condizione biochimica transeunte, non può essere ricondotta all'ipotesi di cui all'art. 95 del codice penale, bensì produce un'infermità in grado di escludere temporaneamente, in tutto o in parte, la capacità d'intendere e di volere ai sensi degli artt. 88 e 89 del codice (61). Al di là di questa posizione che in qualche modo mira a scardinare l'impianto del codice teso a non considerare rilevante per il vizio di mente la semplice assunzione di stupefacenti, il nodo centrale è se veramente il loro consumo, quando la mancata assunzione provoca una crisi di astinenza, si può considerare volontario e non dovuto a forza maggiore. Un indirizzo dottrinale minoritario ha sostenuto che il tossicodipendente, che non è cronicamente intossicato, deve in generale essere considerato pienamente capace, ma deve essere ritenuto parzialmente o totalmente incapace, quando compie reati, quali il piccolo spaccio (la detenzione finalizzata al commercio illecito di droga), direttamente finalizzati ad assicurargli la disponibilità della sostanza stupefacente di cui "ha bisogno" (62).

Questa tesi interpretativa delle norme sull'imputabilità, come vedremo, è sicuramente in linea con la ratio delle norme T.U. del 1990 sull'esecuzione penale nei confronti dei tossicodipendenti e in particolare con l'art. 90, che invita a tener conto tanto delle caratteristiche soggettive dell'agente quanto del contesto e della finalità del reato commesso. Essa però contrasta il disegno del codice e apre la strada dell'esclusione della responsabilità per tutti i reati finalisticamente orientati a soddisfare il subitaneo bisogno di droga percepito dal tossicodipendente (63). Questa linea interpretativa, tuttavia non è mai stata affermata in modo costante e uniforme dalla giurisprudenza che al più è arrivata a ritenere non imputabile un soggetto tossicomane in crisi d'astinenza, responsabile di un reato di danneggiamento commesso a seguito di ripetuti rifiuti di ricovero ospedaliero, non pienamente motivati, da parte di diverse strutture sanitarie, a fronte di una richiesta del medesimo suffragata dal convincimento di voler intraprendere un trattamento terapeutico presso le stesse (64).

Al contrario, è invece prevalsa la tesi che l'utente della sostanza stupefacente, spinto dalla dipendenza a procurarsi dosi sempre crescenti di droghe deve essere ricondotto nella categoria del consumatore abituale. Questo orientamento trova il proprio fondamento nelle tesi di chi sostiene che il tossicodipendente non perde mai del tutto la capacità di cui all'art. 85 del codice penale, presupposto essenziale per la valutazione della sua responsabilità penale (65), per cui deve essere considerato non imputabile solo nei casi, rientranti nella sfera applicativa dell'art. 95, in cui manchi del tutto la coscienza della condotta e questa fuoriesca dalla "signoria della volontà" (66).

La situazione di tossicodipendenza che influisce sulla capacità di intendere e di volere è solo quella che, per il suo carattere ineliminabile e per l'impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un'azione strettamente collegata all'assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica In questo senso si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità (67).

La prevalenza di questo orientamento ha confinato la discussione sull'imputabilità del soggetto tossicodipendente all'interpretazione dell'art. 95 del codice. Il quadro generale è stato delineato dalla nota sentenza della Corte di Cassazione, del 29 ottobre 1987, che espose, per la prima volta con chiarezza, la distinzione tra intossicazione acuta, rilevante solo se accidentale, uso abituale di sostanze stupefacenti ed intossicazione cronica. La Suprema Corte prima mappò la normativa codicistica, osservando che essa distingue tre situazioni tra loro diverse:

intossicazione "acuta", la quale provoca alterazioni transitorie delle facoltà intellettive e volitive dell'agente, attribuendo ad essa rilevanza sotto li profilo degli artt. 88 e 89 del codice, quando sia accidentale e cioè attribuita a caso fortuito o forza maggiore; l'intossicazione derivante dall'uso abituale di sostanze stupefacenti, configurata quale aggravante, alla duplice condizione che l'imputato abbia commesso il delitto sotto l'influenza della droga e sia dedito all'uso di essa, di cui al 3º comma dell'art. 94; l'intossicazione cronica, prevista dall'art. 95 del codice, che il legislatore considera uno stato patologico assimilato all'infermità totale o parziale di cui agli artt. 88 e 89 del codice.

Alla luce di questa tripartizione la Corte rimise l'individuazione della linea di demarcazione tra l'ipotesi del consumo abituale e quella dell'intossicazione cronica agli accertamenti medici da condursi sul consumatore. Data la delicatezza delle indagini necessarie "per discernere i due stadi in quanto l'uso di sostanze stupefacenti protratto nel tempo conduce, nella maggior parte dei casi, all'intossicazione, anche se le due situazioni sono ben distinte", la Corte riconobbe che, già nello stadio psicopatologico iniziale od intermedio, connesso all'assunzione di stupefacenti, possono verificarsi casi di alterazioni permanenti della capacità di intendere e volere, che a loro volta possono entrare in relazione con la commissione di reati compiuti per reperire la droga (68).

Questa decisione aprì un piccolo spiraglio per indebolire l'impostazione del legislatore del 1930 che aveva accolto la massima di comune esperienza che distingue lo stato di tossicodipendenza dalla cronica intossicazione da sostanze stupefacenti ed esclude l'imputabilità nel solo caso in cui sia accertato, previa perizia psichiatrica, l'esistenza di una patologia capace di alterare permanentemente la capacità di intendere e volere del reo (69). Essa sembrò, infatti, recepire, almeno parzialmente, quegli orientamenti che suggerivano di valutare l'imputabilità dell'autore di un reato, abitualmente dedito a, o cronicamente intossicato da, sostanze stupefacenti, lasciando libero il giudice di stabilire nel caso concreto l'esclusione o la diminuzione della capacità di cui all'art. 85 del codice (70). Parte della dottrina sottolineò che la decisione della Corte permetteva di superare l'impostazione codicistica, basata sulla presunzione legale assoluta ascrivente sic et simpliciter la piena capacità di intendere e volere al consumatore abituale di stupefacenti non affetto da una patologia permanente, che impediva di valutare i procedimenti volitivi dell'autore di un reato, consumatore abituale di sostanze stupefacenti. La decisione della Cassazione, secondo questi autori, ovviava alla mancanza di una norma che imponesse al giudice di accertare, per mezzo di perizia psichiatrica (71), la sussistenza di un disturbo mentale, sia pur transeunte, nel soggetto tossicodipendente sottoposto al suo giudizio (72), consentendo così di tener conto della condizione di soggetto tossicodipendente, accertata per mezzo degli esperimenti peritali, e di disporre nei suoi confronti l'attenuazione di pena prevista dall'art. 89 del codice (73). L'accertamento peritale cui la Corte attribuiva grande rilevanza consentirebbe in altre parole di superare la disparità di trattamento che, in contrasto con il principio fissato dall'art. 24 Cost., grava sull'imputato tossicodipendente, costretto a soddisfare l'onere probatorio relativo alla causa della sua incapacità d'intendere e volere di là da un accertamento giudiziale (74).

2.3.1. La misura di sicurezza per il tossicodipendente non imputabile

Merita di essere sottolineato che la prospettiva di essere riconosciuto non imputabile, oggi, è sul piano terapeutico molto importante per il tossicodipendente. L'evoluzione della normativa sulle misure di sicurezza configura, infatti, in modo totalmente diverso, rispetto all'originaria normativa codicistica, le conseguenze di una dichiarazione di non imputabilità, anche laddove il tossicodipendente, come è probabile in virtù del suo stato, fosse ritenuto socialmente pericoloso. Il meccanismo originario, tracciato dagli articoli 199 e ss. del codice penale, prevedeva, come è noto, un automatismo giudiziale che poggiava sulla presunzione di pericolosità disposta a carico del soggetto ritenuto, con provvedimento definitivo di condanna o di internamento, pericoloso socialmente. Le sentenze della Corte Costituzionale, n. 9 del 1982 (75) e n. 249 del 1983 (76), e, in virtù di una deroga espressa, l'art. 31 della legge n. 663 del 1986, che ha abrogato l'art. 204 del codice penale, hanno eliminato la presunzione legale assoluta. Il 2º comma dell'art. 31, legge 663/86, fa sì ché tutte le misure di sicurezza personali che limitano la libertà del soggetto autore di un reato e del tutto incapace, o parzialmente capace, di intendere e volere, sono ordinate previo accertamento, da parte del giudice procedente o del magistrato di sorveglianza, da compiersi in concreto al momento dell'applicazione, che chi ha commesso il fatto è una persona socialmente pericolosa.

Nell'ipotesi di cronica intossicazione da sostanze stupefacenti, di cui all'art. 95 del codice, è necessario accertare se il consumo abusato di una sostanza illecita, abbia causato nel soggetto agente, responsabile di un reato, l'insorgere di una patologia permanente in grado di condizionare le sue capacità intellettive e volitive in misura parziale o totale. In quest'ultimo caso interviene una pronuncia giudiziale di assoluzione che dispone il proscioglimento del soggetto in ragione della sua non imputabilità, ai sensi dell'art. 88 del codice penale. Il giudice che, in base alle circostanze del reato e alla capacità a delinquere dell'autore del fatto, avesse ritenuto il soggetto prosciolto persona socialmente pericolosa doveva provvedere, secondo quanto dispone l'art. 222 c.p., ad ordinare il suo ricovero presso un ospedale psichiatrico giudiziario. Laddove, invece, il soggetto cronicamente intossicato da sostanze stupefacenti è condannato, per un delitto non colposo, a pena diminuita in ragione della sua parziale infermità mentale ed è persona pericolosa socialmente, l'art. 219 c.p. prevede il ricovero presso una casa di cura e custodia.

Nell'ipotesi di condanna, se il soggetto giudicato responsabile di un delitto commesso sotto l'influsso di sostanze stupefacenti è ritenuto, ai sensi dell'art. 94 del codice penale, abitualmente dedito all'uso di tali sostanze, l'art. 221 c.p. prevede il ricovero in una casa di cura e custodia in luogo di una condanna ad una pena detentiva superiore ai tre anni. Nel caso in cui sia comminata una condanna detentiva per un delitto non colposo, non superiore a tre anni, il giudice può considerare la possibilità di sostituire la misura di sicurezza contenitiva con la libertà vigilata.

Su questo quadro normativo è intervenuta la Corte Costituzionale. In un primo momento la Corte (n. 9/1982 e n. 249/1983) ha subordinato l'applicazione delle misure di sicurezza al sussistere della pericolosità al momento della loro applicazione (anche se si tratta di applicazione provvisoria) (77). In coerenza con le disposizioni e lo spirito del T.U. del 1990 si deve ritenere che non sia pericoloso il tossicodipendente che ha ultimato con successo e si è sottoposto ad un programma di disintossicazione. Per cui in questi casi non dovrebbe sussistere la pericolosità e quindi, a fronte di una sentenza di proscioglimento, non si dovrebbe dare luogo alcuna misura di sicurezza. La successiva sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 18 luglio 2003 (78) ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 222 c.p. "nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale". Questa sentenza dovrebbe consentire oggi al tossicodipendente che intenda intraprendere un programma terapeutico di vedersi applicare una libertà vigilata con un programma con contenuto terapeutico che può essere un programma comunitario o domiciliare analogo a quelli che si danno agli affidati.

Note

1. L'opportunità di assimilare il fenomeno della tossicodipendenza e dell'alcool dipendenza, data la significativa differenza tra le due manifestazioni patogene, ha suscitato qualche perplessità cfr. G. Grasso, "Misure alternative alla detenzione", in G. Vassalli (a cura di), Dizionario di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1986, p. 666.

2. Merita di essere ricordata la posizione di chi in dottrina (G. Pighi, "L'affidamento in prova al servizio sociale dopo la riforma", Legalità e giustizia, 1988, p. 168) ha ritenuto che l'affidamento in casi particolari non sia rivolto a tutti i tossicodipendenti ma solo a coloro per i quali si ritiene possibile predisporre un programma terapeutico di disintossicazione, dato che il presupposto implicito della concessione della misura è che essa possa portare al recupero del soggetto.

3. Per la formulazione della norma, che ricalca quella dell'art. 84 della legge 685/1975, non è ininfluente che in origine anche la custodia cautelare presso la comunità e l'affidamento terapeutico potevano essere concessi a chi aveva già in corso un programma di riabilitazione.

4. Merita ricordare che la Convenzione di Vienna 1971, al già citato art. 20 (Misure contro l'abuso delle sostanze psicotrope), sollecitava gli Stati firmatari a prendere "tutte le misure che possono servire" non solo "per la cura, la rieducazione" dei tossicodipendenti, ma anche per il loro "dopo-cura, il riadattamento e la reintegrazione sociale".

5. Questo dato è stato presto stato assunto come punto fermo anche dalla giurisprudenza (Cass. Pen., sez. 1, 22 maggio 1986, Carminati, in Cassazione penale 1987, p. 1819) che, per l'affidamento terapeutico, ha ricordato che "non può il giudice rigettare l'istanza in base al semplice richiamo al lasso di tempo trascorso (nella specie due anni) dal periodo di assunzione della sostanza stupefacente; ciò perché non vi sono criteri precisi ed universalmente recepiti per determinare quanto tempo uno stato di tossicodipendenza possa sopravvivere al periodo di sistematica assunzione della droga. In tal caso il giudice deve disporre adeguato accertamento tecnico, il quale potrà essere posto a base della decisione insieme con gli altri elementi legislativamente previsti (idoneità del programma terapeutico in corso, non preordinazione del medesimo o dello stato di tossicodipendenza al conseguimento del beneficio)".

6. E. Fassone, "Commento all'art. 4 ter del D.L. 22/4/1985 n. 44, convertito nella legge 21/6/1985 n. 297", in Legislazione penale, 1986, p. 51 nonché G. Grasso, "Misure alternative alla detenzione", cit., p. 667.

7. EMCDDA Scientific Report, An Overview Study: Assistance to Drug Users in European Union Prisons, Cranstoun Drug Services, London, 2001.

8. Cfr. G.M. Flick, Droga e legge penale. Miti e realtà di una repressione, Milano, Giuffrè, 1979, p. 45.

9. M. Fallani, Medicina Legale, Società Editrice Esculapio, Bologna, 1998, p. 311.

10. In League of Nations, Treaty Series, vol. 8, p. 187 ss.. Questa Convenzione fu poi sostituita in parte dalla Convenzione per limitare la fabbricazione e regolarmente la distribuzione degli stupefacenti (Ginevra, 13 luglio 1931, ibid., vol. 139, p. 301ss.) e dalla Convenzione per la repressione del traffico illecito di droghe nocive (Ginevra 26 giugno1936, ibid., vol. 198, p. 299 ss.).

11. M. Fallani, op. cit., p. 311.

12. Il legislatore italiano segue nell'adozione della nuova definizione le convenzioni internazionali: l'accordo stipulato a New York nel 1961, fu denominato "Convenzione unica sugli stupefacenti", mentre quello stipulato a Vienna dieci anni dopo reca come titolo "Convenzione sulle sostanze psicotrope". L'uso delle due terminologie congiunto si trova nell'ultimo accordo stipulato in ambito ONU, la "Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope", adottata a Vienna il 20 dicembre 1988.

13. Cfr. U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 1994, pp. 311-314.

14. H. Ey, Manuel de Psychiatrie, 6ª éd. revue et corrigée, Masson, Paris, 1989, tr. it. Masson, Milano, 1990, pp. 422-426.

15. Merita di essere ricordata anche la classificazione elaborata alla fine del secolo scorso dall'American Psychiatric Association (1996) che ha raggruppato le sostanze stupefacenti e psicotrope in 11 classi: a) alcool; b) amfetamine o simpaticomimetico ad azione simile; c) caffeina; d) cannabis; e) cocaina; f) allucinogeni; g) inalanti; h) nicotina; i) oppiacei; l) fenciclidina (PCP) o arilcicloexilaminici ad azione simile; m) sedativi, ipnotici o ansiolitici.

16. Cfr. J. Bergeret, Lo psicoanalista in ascolto del tossicomane: riflessioni sul tema, Borla, Roma, 1983, p. 10).

17. F. C. Palazzo, op. cit. pp. 42-45.

18. Merita di essere sottolineato che questa convenzione fu ratificata, con le modifiche introdotte del Protocollo, solo poco prima dell'approvazione della legge 685/75, con la legge 5 giugno 1974, n. 412.

19. Per il testo della Convenzione vedi United Nations Treaty Series, vol. 520, p. 151 ss.

20. Per il testo della Convenzione vedi United Nations Treaty Series, vol. 1019, p. 175 ss.

21. Scelta questa subito (ancor prima della ratifica della Convenzione) seguita dal legislatore del 1990.

22. Esiste un'ampia letteratura sugli interessi, spesso economici o di criminalizzazione di fasce di immigrati, che hanno portato gli Stati Uniti a fare grandi pressioni sull'ONU per la proibizione di sostanze quali la cannabis, gli oppiacei e la cocaina.

23. E. Fortuna, "Stupefacenti", in Enciclopedia del Diritto, Vol. XLIII, 1990, p. 1185.

24. C. Cippitelli, op. cit.

25. Merita di essere sottolineato che nella "Relazione del Governo al Parlamento sul "taglia leggi": l'attuazione dell'art. 14, comma 12, della legge 28 novembre 2005, n. 246", presentata il 30 gennaio 2008, a proposito di questa norma si legge: "Tale provvedimento non è stato abrogato neppure dal DPR 9 ottobre 1990, n. 309, recante il testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, poi ampiamente modificato negli anni seguenti".

26. C. Cippitelli, op. cit.

27. G. Marini, "Importazione, acquisto e detenzione per l'uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope", in G. Marini - M. La Monica - L. Mazza - S. Riondato - L. Pistorelli - S. Dini - B. Roberti, Stupefacenti, sostanze psicotrope, stati di tossicodipendenza. Il nuovo regime sanzionatorio, Torino, Giappichelli, 1990, 9.

28. F. C. Palazzo, op. cit., p. 35.

29. L'articolo è poi stato reintrodotto con un nuovo contenuto dall'art. 1 del D.L. 282/86, convertito in l. 462/86, che disciplina una materia del tutto estranea agli stupefacenti quali i reati in tema di acque e sostanze alimentari.

30. S. Zancani, "I delitti di produzione e traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope", in S. Riondato (a cura di), Commento pratico sistematico al Testo Unico sugli stupefacenti, Padova, Cedam, 2006, p. 83. Un esempio relativamente recente del valore tassativo riconosciuto all'elencazione tabellare si è avuto con la decisione relativa al vegetale denominato "chata edulis", non presente nelle tabelle, anche se dalle sue foglie si ricava la "catina", sostanza elencata come principio attivo dalla tabella I. Argomentando in base alla circostanza che nelle tabelle è registrato unicamente il principio attivo e non anche il vegetale da cui esso è sintetizzabile, contrariamente a quanto avviene per esempio per le "foglie di coca", menzionate al pari della "cocaina" nella tabella I, la Cassazione (Sez. IV, 26/6/2003), ha escluso la punibilità delle condotte di importazione e detenzione della pianta in sé, considerando irrilevante, alla luce del concetto legale di sostanza stupefacente, la possibilità di estrarre da essa la catina.

31. R. Ricciotti, M. M. Ricciotti, op. cit., p. 45.

32. Cfr. per esempio N. Bartone, A. Iazzetti, F. Izzo, Stupefacenti e sostanze psicotrope: Testo Unico delle leggi: commento sistematico e analitico, Esselibri-Simone, Napoli, 1991, p. 91.

33. G. Amato, Droga e attività di polizia, Larus Robuffo, Roma, 1992, p. 83.

34. Corte Costituzionale sent. n. 333, 11 luglio 1991, in Cassazione penale 1992, p. 576.

35. Non è questo il luogo per commentare la tecnica legislativa adoperata e la costituzionalità di decreti legge che riguardano materie tanto disparate o da cosa fosse dettata l'urgenza a fine anno che portò il governo a provvedere alla riforma delle disposizione relative ai tossicodipendenti con decreto.

36. Sulle ragioni di tale assimilazione, si veda G. Amato, "Parificate le sostanze leggere e pesanti", Guida al Diritto n. 12/2006, pp. 73 e ss.

37. Il comma sanziona chiunque "coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo".

38. Non si entra qui nell'esame della disputa se questo elemento è sufficiente da solo ad escludere la punibilità o deve concorrere con gli altri previsti dalla lettera a) del comma 1-bis dell'art. 73.

39. Nella relazione al progetto di legge 3397 del 2001, sul quale si è modellato l'impianto normativo della legge 49/2006 si diceva esplicitamente che ci si intendeva muovere "verso il recupero dell'impostazione di fondo del citato testo unico e, l'utilizzo dell'esperienza maturata a seguito dell'applicazione delle disposizioni in esso contenute e di ciò che è accaduto quando quell'impianto è stato modificato dal referendum del 1993".

40. In Cassazione penale, 1992, p. 2612.

41. EMCDDA Scientific Report, An Overview Study: Assistance to Drug Users in European Union Prisons, Cranstoun Drug Services, London, 2001, p. 17.

42. EMCDDA, op. cit., p. 18.

43. L'unica menzione normativa dello stato di "tossicofilo" si trova al comma 6-bis dell'articolo 96 del T.U. Questo comma introdotto dalla legge 49/2006 recita: "Per i minori tossicodipendenti o tossicofili, anche portatori di patologie psichiche correlate all'uso di sostanze stupefacenti, sottoposti alle misure cautelari non detentive, alla sospensione del processo e messa alla prova, alle misure di sicurezza, nonché alle misure alternative alla detenzione, alle sanzioni sostitutive, eseguite con provvedimenti giudiziari di collocamento in comunità terapeutiche e socio-riabilitative, gli oneri per il trattamento sanitario e socio-riabilitativo sono a carico del Dipartimento giustizia minorile, fatti salvi gli accordi con gli enti territoriali e, nelle more della piena attuazione del trasferimento di dette competenze, del Servizio sanitario nazionale". Il comma equipara, a fini dell'assunzione dei costi dei programmi riabilitativi, e quindi anche ai fini dell'utilizzabilità degli stessi, lo stato di tossicodipendenza a quello di tossicofilia. Questa equiparazione è fatta esplicitamente solo nel caso dei minorenni, questo dato non sembra però tale da far pensare che questa norma metta in discussione l'equiparazione fino ad oggi pacificamente fatta dalla giurisprudenza e dottrina anche per gli adulti.

44. M. Fallani, op. cit., p. 312.

45. M. Pavarini, Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol. I, UTET, Torino, 2002, p. 453; G. Amato, Droga e attività di polizia, cit., p. 83.

46. Regione Toscana, Dipartimento Diritto alla Salute e Politiche di Solidarietà, Percorsi assistenziali per le tossicodipendenze in ambito penitenziario:..., Firenze, 2000, p. 20.

47. Questa tesi appare particolarmente plausibile se si considera che le norme che reprimono la vendita, la detenzione e soprattutto l'uso delle droghe si considerano poste a tutela della "libertà morale", cfr. Flick, Droga e legge penale, cit., pp. 173 e ss.

48. Sono gli stessi pazienti in terapia per la disintossicazione che ricostruiscono in tal modo gli effetti criminogeni della droga. Nelle loro parole "la dipendenza [...] sconvolge la vita del tossicodipendente, soggiogandolo e facendogli assumere una "doppia personalità": quando è "fatto è la persona tranquilla di sempre", quando non è sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, in crisi di astinenza, "perde totalmente il controllo". Inoltre la droga è un fattore notevolmente criminogeno dal momento che il tossicodipendente "è sempre alla ricerca di soldi", per cui "per potersi procurare la dose, può compiere una serie di reati, anche di una certa gravità". Testimonianze raccolte da Vittoria Furfaro, "L'art. 94 D.P.R. 309/1990 attraverso alcune esperienze di operatori giuridici e sociali e di tossicodipendenti beneficiari della misura".

49. Cfr. G. Amato, Droga e attività di polizia, cit., p. 84; R. Ricciotti, M.M. Ricciotti, op. cit., p. 117.

50. Alcuni autori hanno ipotizzato che si possa escludere la capacità di intendere e di volere del soggetto tossicodipendente nel momento specifico della crisi di astinenza che manifestandosi con "atti irriflessivi, spasmi nervosi, tremore ed agitazione psicomotoria" potrebbe far "pensare a quelle ipotesi di difetto di coscienza che rilevano per l'esclusione della condotta illecita ai sensi dell'art. 42 comma 1º c.p.". Cfr. G. Amato, Droga e attività di polizia, cit., p. 84; R. Ricciotti, M.M. Ricciotti, op. cit., p. 117.

51. E' curioso che questo modo di procedere sia speculare a quello del legislatore del 1990 che ha invece individuato alcuni istituti che caratterizzano il percorso dell'esecuzione penale (e della custodia cautelare) dei soggetti tossicodipendenti ed esteso il loro uso agli alcool dipendenti.

52. Cfr. Durante, "Sostanze stupefacenti: tossicomania. Nozioni medicolegali, imputabilità ", in Giustizia Penale, 1971, II, p. 407.

53. Cass., 22 aprile 1985, Amber, Rassegna di studi penitenziari, 1986, p. 729.

54. G. Marini, "Imputabilità", Digesto discipline penali, Vol. VI, UTET, Torino, 1992, p. 243.

55. F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte Generale, 15ª ed. a cura di Conti, Giuffrè, Milano, 2000, p. 640; F.S. Fortuna, "Tossicodipendenza", Enciclopedia del diritto, XLIV, Milano, 1992, p. 746; Id., "Stupefacenti (dir. intero)", Enciclopedia del diritto, XLIII, Milano, 1990, p. 1929; F. Mantovani, Diritto penale, Padova, Cedam, 1992, p. 643.

56. F.S. Fortuna, "Tossicodipendenza", cit., p. 743.

57. Ass. Roma, 30 aprile 1970, Cass. Pen. Sez. I, 7/6/1973, La giustizia penale, 171, I, p. 405. Cfr. anche Durante, "Note ad Ass. Roma 30/4/1970", in La giustizia penale, 1971, I, 405, Cerqueti, "Nota a Cassazione Sez. I, 7/6/1973", in Archivio Penale, 1977, II, 229; A. Regina, "La responsabilità penale per il fatto commesso sotto l'effetto di sostanze psicoattive", in L'indice penale, 1987, pp. 274 e ss.

58. M. Pavone, "L'imputabilità del tossicodipendente", in Rassegna italiana di criminologia, 2000, fasc. 1 (marzo), pp. 94-95.

59. Cass. Sez. I, 18 gennaio 1995 n. 3633, Mazzoni, in Rivista penale, 1996, p. 986.

60. Cass. Sez. I, 24 gennaio 1992, Miliani, in Cassazione penale, 1993, p. 431.

61. S. Bruno, "Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti", in Enciclopedia del diritto, XI, Milano, 1962, p. 432.

62. S. Fortuna, "Vecchi e nuovi problemi in materia droghe", in Giurisprudenza di merito, parte. II, 1980, p. 620.

63. Merita di essere sottolineato che lo "Schema delega legislativa per l'emanazione di un nuovo codice penale" del 1994, pur non recependo l'auspicio (F. Manna, L'imputabilità del tossicodipendente, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 1986, p. 1026) dell'introduzione una norma che regolasse il discrimine fra imputabilità e mancanza della capacità di intendere e volere sulla base della dipendenza, psichica e fisica, dalla sostanza stupefacente, cercava proprio di trovare una soluzione per questi reati ritenuti evidentemente eccessivamente penalizzati dalla normativa vigente. L'art. 34 riproduceva, infatti, in sostanza, la stessa impostazione accolta dagli artt. 93 e 95 in ordine alle ipotesi di assunzione accidentale e di cronica intossicazione da sostanze stupefacenti, richiamate rispettivamente dalle lett. c) e b). Il successivo art. 35, invece, mutava radicalmente la disciplina in tema di intossicazione volontaria o colposa, abolendo l'ipotesi del consumo abituale e distinguendo nettamente l'assunzione di sostanze stupefacenti preordinata al compimento di un reato o per il cui compimento era comunque individuabile l'esistenza di un dolo eventuale, da quella che comporta il compimento di reati al fine di far fronte alla necessità di procurarsi la sostanza. Veniva, infatti, introdotta la responsabilità colposa per quei reati che potevano essere concretamente prevedibile in dipendenza della condizione di alterazione mentale da consumo di droga dell'assuntore. La norma stabiliva che ove il fatto non fosse previsto dalla legge come reato colposo, si sarebbe applicata la pena prevista per la fattispecie dolosa, diminuita da un terzo alla metà. Cfr. Istituto di Diritto Penale dell'Università di Palermo, "Osservazioni sul progetto di legge-delega per nuovo codice penale", in L'indice penale, 1994, p. 353.

64. Pret. Roma, 26 settembre 1979, Lancia, Rassegna di studi penitenziari, 1980, p. 164.

65. Su questa linea si schierò per esempio la seconda sezione penale della Corte di Cassazione che, in data 8 aprile 1986, escluse il vizio parziale di mente di un soggetto tossicodipendente che, pur affetto da anomalie del carattere, non presentava condizioni patologiche tali da far scemare grandemente le sue capacità intellettive e volitive, in Cassazione penale, 1988, p. 284.

66. F. Mantovani, Diritto Penale, cit., p. 313.

67. In particolare, Cass. pen. sez. III, 8 maggio 2007 n. 35872, A., in Cassazione penale 2008, 3, 1055 e in Rivista penale, 2008, 3, p. 284; Cass. pen., Sez. VI, 22 dicembre 1998, Carlini, in Cassazione penale 2000, p. 2641; Sez. VI, 16 dicembre 2002, Borrelli, in C.E.D. Cass., n. 223349; Sez. V, 29 ottobre 2002, Dezi, ivi, n. 224661. Il discrimine tra cronica intossicazione da alcool e la semplice ubriachezza abituale è costituito dalla sussistenza di una patologia irreversibile con basi organiche, non collegato necessariamente all'eccessiva assunzione di sostanze alcooliche.
Si segnala, altresì, C. cost., 16 aprile 1998, n. 114, in Cassazione penale, 1998, p. 1909, con nota di AMATO, in cui la Corte ha respinto la questione di legittimità costituzionale degli artt. 94 e 95 c.p. sollevata sotto il profilo della loro irragionevolezza e sotto quello della lesione dell'art. 111 Cost. per l'impossibilità di motivazione di un provvedimento giurisdizionale che debba fondarsi sull'impossibile differenziazione delle due fattispecie, ritenendo che, nonostante le difficoltà di identificazione sotto il profilo medico-legale, la distinzione sia concettualmente chiara (poiché fondata sul riscontro della permanenza ed irreversibilità o comunque della non transitorietà dello stato di dipendenza) e la giurisprudenza di legittimità abbia già da tempo fornito in maniera certa e uniforme i presupposti per l'applicazione della norma.
In argomento si v. anche: Cass. pen. sez. IV, 13 febbraio 2007 n. 15218, in Guida al diritto 2007, 20, p. 94 secondo cui "Ai fini dell'esclusione della capacità di intendere e di volere del tossicodipendente, non è sufficiente la condizione generica di tossicodipendenza, ma occorre che l'intossicazione da sostanze stupefacenti sia cronica e abbia prodotto un'alterazione psichica permanente, ossia una psicopatologia stabilizzata non strettamente correlata all'assunzione di sostanze psicotrope". Si veda anche: Cass. pen., sez. VI , 6 ottobre 1989, Bonucci, in La Giustizia penale 1991, II, p. 46; Cass. pen., sez. I, 29 ottobre 1987, Pacilio, in Cassazione penale 1989, p. 589.

68. Cass. Sez. I, 29 ottobre 1987, Pacilio, in Cassazione penale, 1989, p. 589. Si legge in motivazione: "La linea di demarcazione tra l'uso abituale e l'intossicazione cronica da sostanze stupefacenti, sebbene problematica, deve essere individuata sulla base dei dati della scienza medica, il che comporta che occorrono accurate indagini per discernere i due stadi in quanto l'uso di sostanze stupefacenti protratto nel tempo conduce, nella maggior parte dei casi, all'intossicazione, anche se le due situazioni sono ben distinte...".

69. Trib. Roma, 8 aprile 1981, Lucaccini, in Rivista italiana di Medicina Legale, 1981, p. 1073.

70. G. Vassalli, L'imputabilità del tossicodipendente, in L'indice penale, 1986, p. 560.

71. Come è stato sottolineato (M. Pavone, op. cit., p. 100) l'utilizzo degli strumenti d'accertamento peritali per verificare in sede processuale l'imputabilità tutela anche il diritto alla difesa costituzionalmente garantito.

72. Sul punto cfr. Cass. Sez. VI, 27 novembre 1985, Cognoni, in La giustizia penale, 1987, II. p.52.

73. G. Vassalli, "L'imputabilità del tossicodipendente", L'indice penale, 1986, p. 537.

74. M. Pavone, op. cit., p. 99.

75. In Giurisprudenza costituzionale, 1982, I, p. 56.

76. In Foro italiano, 1983, I, p. 2337.

77. L'art. 206 c.p. consente di ricoverare provvisoriamente, non oltre il tempo della durata minima della misura applicata, presso un ospedale psichiatrico giudiziario od una casa di cura e custodia il soggetto tossicodipendente o cronicamente intossicato da droga, secondo le modalità disposte degli artt. 312 e 313 del codice di procedura penale.

78. In Cassazione penale, 2003, p. 3697.