ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
L'esecuzione penale nei confronti dei soggetti tossicodipendenti: l'emergere di un paradigma

Raffaella Tucci, 2011

SOMMARIO: 1. L'esecuzione penale nei confronti dei soggetti tossicodipendenti: l'emergere di un paradigma - 1.1. La legge 689/1975 - 1.2. Gli spazi detentivi terapeutici - 1.2.1. Le difficoltà di implementazione - 1.3. Il ritorno dell'impostazione repressiva. - 1.3.1. L'iscrizione del trattamento terapeutico nel sistema sanzionatorio.

1. L'esecuzione penale nei confronti dei soggetti tossicodipendenti: l'emergere di un paradigma

La scelta normativa di privilegiare un percorso di esecuzione pena terapeutico e riabilitativo non detentivo per il tossicodipendente condannato, in astratto, ad una pena detentiva è per l'ordinamento italiano relativamente recente. Nella metà degli anni settanta del secolo scorso, anche sulla spinta di accordi internazionali (1), il legislatore cominciò a porsi il problema del diritto alla "cura" dei tossicodipendenti detenuti, poi gradatamente si aprirono, soprattutto per opera della magistratura strade tese a limitare la detenzione cautelare dei tossicodipendenti autori di reato, e solo dieci anni dopo si arrivò a predisporre la misura alternativa dell'affidamento terapeutico.

Il primo riconoscimento della necessità di tutelare il diritto alla salute dei soggetti tossicodipendenti in esecuzione pena è contenuto nell'art. 84 della legge 685 del 1975 (2), con il quale il legislatore conferisce il "diritto di ricevere le cure mediche e l'assistenza necessaria a scopo di riabilitazione a chiunque si trovi in stato di custodia preventiva o di espiazione di pena" (3) e sia ritenuto "abitualmente dedito all'uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope". Con il 2º comma (oggi riproposto nella stessa formulazione dal 4º comma dell'art. 96 D.P.R. 309/90) di questo articolo il legislatore conferiva al Ministro di grazia e giustizia il compito di organizzare, "con proprio decreto, su basi territoriali, reparti carcerari opportunamente attrezzati, provvedendo d'intesa con le competenti autorità regionali" (4).

1.1. La legge 689/1975

Dopo un periodo di poco più di vent'anni (1954-1975), durante il quale il fenomeno droga era stato trattato dalla normativa come un problema esclusivamente criminale, la sua percezione sociale era divenuta ambivalente. La rapida diffusione nel mondo giovanile delle droghe, avvenuta nella seconda parte degli anni sessanta del secolo scorso, alimentata sia da motivi culturali e ideologici che da logiche di mercato particolarmente allettanti per i narcotrafficanti, fece apparire sempre più inadeguata una legge che poneva sullo stesso livello spacciatori e consumatori. La legge n. 685 del 1975 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) cambiò radicalmente l'impostazione della normativa. Essa sradicò la convinzione e la percezione, affermatesi all'inizio degli anni settanta del secolo scorso, che il tossicodipendente fosse un malato da curare, anche se il consumo di droga continuò ad essere considerato socialmente dannoso in quanto, solitamente, si accompagna ad attività illegali e comportamenti lesivi dei diritti di terzi. L'impulso, a volte irresistibile, a procurarsi le sostanze stupefacenti induce, infatti, l'assuntore, quando non dispone dei mezzi necessari, a commettere reati per reperire quanto gli serve per acquistare le sostanze, tra l'altro in quantitativi normalmente crescenti. Non è un caso che i crimini più comuni commessi dai tossicodipendenti siano reati contro il patrimonio: rapine, furti, ricettazioni, estorsioni spesso anche in danno dei propri familiari, oltre allo "spaccio" che è il reato più commesso perché è il modo usato più di frequente per procurarsi la sostanza. Allo stesso tempo però venne in rilievo che il consumo di sostanze stupefacenti e psicotrope (per usare la definizione data dalla legge) era dannoso sul piano psico-organico per l'assuntore. Questa duplice connotazione del fenomeno è alla base del tentativo della normativa nazionale degli ultimi 35 anni di contemperare, bilanciandole di volta in volta, le diverse esigenze: repressive e di tutela del diritto alla salute dei tossicodipendenti.

Per analizzare queste disposizioni e le reazioni ad esse merita di essere ricordato il contesto socio-economico in cui il legislatore ha operato a metà degli anni settanta del secolo scorso. L'iniziativa legislativa nasce proprio dalla percezione del radicale mutamento del fenomeno droga. Nell'arco di pochi anni si passa da forme di tossicomania numericamente contenute, che non rappresentavano un grave problema sociale, all'"esplosione di un fenomeno di massa" (5) non più controllabile con gli strumenti preventivi e repressivi previsti dalla legge n. 1041 del 1954. Tale legge, come è noto, sanzionava allo stesso modo il consumatore e lo spacciatore (6). Questo mutamento spinge il legislatore a cercare di fronteggiare il fenomeno tramite una "strategia differenziata" che percorreva due diversi binari. Da un lato, si depenalizzò l'uso personale degli stupefacenti, privilegiando, rispetto al lato repressivo, il recupero attraverso il trattamento personalizzato e il reinserimento sociale del tossicodipendente. Dall'altro, si intensificò la repressione della circolazione e del traffico delle sostanze stupefacenti, aumentando le pene edittali previste per queste condotte e creando nuove fattispecie di reato. La strategia scelta dal legislatore era, evidentemente, di ridurre la popolazione carceraria tossicodipendente tramite un'attenuazione della repressione dei fenomeni criminali o devianti riconducibili alla droga che fossero connotati da scarsa pericolosità sociale.

Anche se, come accennato (7), la Convenzione di Vienna del 1971, per altro non ancora ratificata dall'Italia, richiedeva ai paesi contraenti la predisposizione di percorsi di disintossicazione e risocializzazione alternativi alle sanzioni detentive, la legge n. 685 puntò più sulla depenalizzazione che sul recupero sociale del tossicodipendente autore di reato. Lo sforzo legislativo fu quello di delineare una politica sociale diretta più che altro alla "prevenzione, cura e riabilitazione" di chi ancora non si fosse reso colpevole di un fatto di reato.

Il vero fulcro della normativa era costituito dagli articoli 90 e ss. che affidavano alle Regioni il compito di istituire i Comitati regionali per la prevenzione delle tossicodipendenze e una rete territoriale di Centri medici e di assistenza sociale (CMAS), gestiti dai Comuni e dalle amministrazioni provinciali. Mentre il suo "spirito" era ben rappresentato dagli art. 72 e 80. L'art. 72 sanzionava, al 1º comma, "chiunque, fuori dalle ipotesi previste dall'art. 80, senza autorizzazione o comunque illecitamente, detiene, trasporta, offre, acquista, pone in vendita, vende, distribuisce o cede, a qualsiasi titolo, anche gratuito, modiche quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope" con una pena da due a sei anni e con la multa da lire centomila a lire otto milioni, se si trattava di droghe "pesanti", e con la reclusione da uno a quattro anni e della multa da lire centomila a lire sei milioni, se si trattava di droghe "leggere" (8). Quando le stesse condotte, riguardavano quantità non modiche di droghe la sanzione prevista dall'art. 71 era la reclusione da quattro a quindici anni e la multa da tre a cento milioni di lire se si trattava di droghe "pesanti" e la reclusione da due a sei anni con la multa da due a cinquanta milioni di lire quando la condotta aveva ad oggetto le droghe leggere. Al di là dell'attenuazione della pena per il piccolo spacciatore, spesso tossicodipendente (9), il dato più significativo è il capovolgimento della logica che guidava la criminalizzazione della detenzione che è operata sostituendo la formula "comunque detiene", prevista dalla legge del 1954, con l'espressione "illecitamente detiene". Quindi, ad un'impostazione che sanzionava chiunque addirittura "intendesse" "importare, esportare, ricevere per il transito, commerciare a qualsiasi titolo, impiegare o comunque detenere" la droga, si sostituisce un'impostazione per la quale la mera condotta di detenzione di sostanze stupefacenti è, nei casi previsti dall'art. 80, non punibile e non necessita di un'autorizzazione specifica. L'art. 80, rubricato "Detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope", prevedeva la non punibilità di "chi illecitamente acquista o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope", fossero esse "leggere" o "pesanti", "allo scopo di farne uso personale terapeutico, purché la quantità delle sostanze non ecceda in modo apprezzabile le necessità della cura, in relazione alle particolari condizioni del soggetto". Parimenti prevedeva la non punibilità di chi deteneva le suddette sostanze, in "modiche quantità", "per farne uso personale non terapeutico", e di chi ne avesse fatto uso esclusivamente personale, indipendentemente dalla quantità di sostanze che avesse posseduto. Per le sostanze possedute, a norma dell'art. 80, era previsto il sequestro e la confisca e, il loro detentore poteva essere avviato, ex art. 100 della legge 685/75 (10), al ricovero ospedaliero coatto, in una sezione non psichiatrica (11).

Da queste norme emerge la convinzione che attraverso la depenalizzazione della detenzione di una modica quantità di droga a fini personali e la previsione del trattamento sanitario disciplinato dagli artt. 96 e ss., si potesse contenere il problema delle presenze di soggetti tossicodipendenti in carcere. In sostanza, in un'ottica di cura del tossicodipendente, che in quanto malato avrebbe subito anche un aggravamento delle sue condizioni psicofisiche attraverso il contatto con il carcere, si riteneva che, per evitare il sovraffollamento carcerario causato dai soggetti tossicodipendenti, fosse sufficiente prevedere una norma che consentisse di evitare il carcere ai soggetti intossicati trovati in possesso un quantitativo di droga destinato al consumo personale (12).

Il legislatore, quindi, sceglie di affidare il perseguimento dei due valori antitetici, sottostanti le politiche relative alle tossicodipendenze, a due diversi apparati. All'apparato sanitario, e segnatamente agli istituendi CMAS (13), è affidato il recupero socio-terapeutico del tossicodipendente; mentre al sistema penale, segnatamente a forze di polizia e sistema giudiziario, venne affidato il compito di offrire una risposta alle richieste sociali di sicurezza suscitate dalle condotte tenute da molti tossicodipendenti. Alla parte del sistema penale incaricata dell'esecuzione pena si assegna, invece, un ruolo del tutto marginale. Al di là delle ipotesi degli artt. 96 e ss. (in cui peraltro non si fa mai riferimento al momento detentivo), la legge del 1975 si limita a contemplare "un trattamento terapeutico assistenziale, esclusivamente intra-murario, per il detenuto abitualmente dedito all'uso di sostanze stupefacenti e psicotrope" (14).

Dato che il numero dei tossicodipendenti era ancora contenuto e che il legislatore immaginava di aver predisposto una strategia che doveva portarli ad evitare il carcere non sorprende che pensasse di fronteggiare il problema dei soggetti tossicodipendenti detenuti, che si immaginavano pochi, esclusivamente fornendo loro all'interno delle mura carcerarie, un luogo ad hoc dove usufruire del trattamento terapeutico, senza prevedere alcuna misura alternativa per lo svolgimento della custodia cautelare e per l'espiazione della pena (15). Se si dà per scontato questo vizio di origine, dovuto principalmente alle dimensioni che il fenomeno aveva all'epoca, non si può disconoscere che l'art. 84, 2º comma della legge n. 685/1975, cercando di far fronte alla crescente problematica della presenza nelle carceri di soggetti abitualmente dediti al consumo di sostanze stupefacenti, offriva loro soluzioni detentive che tendevano al perseguimento della finalità rieducativa, secondo una logica terapeutica.

1.2. Gli spazi detentivi terapeutici

La legge dava corpo ad una strategia basata sulle riflessioni, allora più recenti, in materia di droga e di trattamento dei tossicodipendenti. Il legislatore italiano fu il primo ad avere il coraggio di imboccare la strada suggerita dal dibattito sociologico che in quegli anni si stava svolgendo in Europa e soprattutto negli Stati Uniti sulla capacità dello strumento carcerario tradizionale di assicurare il "prometeico" obiettivo del recupero sociale del detenuto.

Le analisi sociologiche delle "istituzioni totali" condotte fino all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso evidenziavano l'incapacità strutturale dell'istituzione detentiva di raggiungere questo obbiettivo, enfatizzando, al contrario, la sua tendenza a produrre nei reclusi la sindrome da prigionizzazione e, quindi, l'effetto opposto (16). Esse spiegavano come l'isolamento dal resto del contesto sociale, non compensato da un opportuno sostegno, collocasse i soggetti segregati in seno ad una realtà percepita come avulsa e, pertanto, diversa dal mondo da cui sono stati esclusi. Inoltre, il contatto continuo con individui caratterizzati da un notevole spessore criminologico e, soprattutto, la cui personalità è strutturata dalla reclusione fornisce al detenuto esclusivamente modelli comportamentali antisociali. A questo si deve aggiungere che l'inattività alla quale è costretto il detenuto gli fa percepire la propria situazione come una condizione di mera passività e finisce per alimentare una sensazione di assoluta incapacità di valorizzare le risorse personali. All'interno delle prigioni, anche l'attività lavorativa che il detenuto dovrebbe svolgere, e che sul piano simbolico assurge al ruolo di strumento rieducativo capace di consentire al detenuto di autosostentarsi e di recuperare, anche per sé stesso, credibilità sociale, è organizzata, come ha evidenziato Erving Goffman, secondo logiche che assecondano la cultura penitenziaria e che pertanto contribuiscono ad annichilire la soggettività dei reclusi.

Sulla scorta di queste analisi, gli autori meno radicali suggerivano la realizzazione di strutture contenitive orientate verso l'accoglimento della "cultura terapeutica", considerata capace di neutralizzare gli effetti de-socializzanti della "cultura penitenziaria". Questa era la strada suggerita, per esempio, da Maxwell Jones, per il quale ciò che distingue una comunità terapeutica dalle altre istituzioni totali "è il modo in cui le risorse globali dell'istituzione, lo staff, i pazienti e i loro parenti si riuniscono auto-coscientemente per favorire il trattamento", poiché "ciò implica, soprattutto, una modificazione nell'abituale status dei pazienti". In collaborazione con lo staff, essi partecipano attivamente alla propria terapia, a quella degli altri malati e, per molti aspetti, alle attività generali della comunità (17). L'opzione terapeutica, secondo questa impostazione, comporta la necessità di assoggettare continuamente ad esame critico i rapporti tra pazienti ed operatori e l'attività trattamentale intrapresa e questo risultato, come sosteneva, D.H. Clark, poteva essere raggiunto solo attraverso l'accoglimento della "soluzione comunitaria" che implicava l'analisi continua delle dinamiche individuali e collettive che segnavano i rapporti relazionali. L'ambiente terapeutico doveva essere un ambiente non caratterizzato dal tradizionale rapporto d'autorità che contraddistingue le istituzioni detentive ed in cui il potere decisionale è ridistribuito orizzontalmente fra i membri dell'organismo collettivo (18).

Queste analisi spingono decisamente verso la soluzione comunitaria e la decarcerizzazione: strada che il legislatore italiano sarà costretto poi ad intraprendere dieci anni più tardi. La scelta di creare spazi terapeutici all'interno del carcere poneva comunque il legislatore in linea con i suggerimenti, al tempo più avanzati, delle istituzioni internazionali. Uno studio condotto dalle Nazioni Unite nel 1965 (19) sulle problematiche detentive, sulla scorta delle tesi di Clemmer sulla prigionizzazione, sottolineava come tutti gli sforzi degli operatori penitenziari, per rieducare i detenuti si scontravano con la fedeltà del singolo alla "comunità dei prigionieri". Il rapporto suggeriva una strategia da adottare almeno per i soggetti più facilmente influenzabili, quali in primis i minori e i giovani tossicodipendenti. Si doveva cercare di ridurre l'incidenza ansiogena provocata, all'interno delle istituzioni detentive, dal rapporto gerarchico fra il personale di custodia e detenuti, mediante l'adozione di uno schema partecipativo capace di riprodurre il più fedelmente possibile la struttura della "comunità terapeutica", caratterizzata, per definizione, da rapporti interpersonali organizzati secondo schemi comunicativi orizzontali. Questo risultato poteva essere raggiunto solo se la popolazione carceraria fosse stata ripartita in piccole unità, nell'ambito delle quali riuscire a dar vita ad attività sociali da cui far scaturire momenti relazionali significativi fra il personale penitenziario e i ristretti.

L'asse portante di questo rapporto è quindi l'idea, da un lato, che la cultura carceraria non consente di recuperare le capacità di reintegrarsi nel tessuto sociale e dall'altro che la "cultura terapeutica" è in grado di sovvertire completamente l'organizzazione delle strutture penitenziarie tradizionali, in quanto essa presuppone che, all'interno della struttura segregante, si sviluppi una stabile autonomia comunicativa capace di favorire l'interazione orizzontale e verticale fra i diversi gruppi operanti. Secondo questa visione, all'interno di un organismo che persegue, collettivamente, il raggiungimento di uno scopo terapeutico, anche il rapporto che il carcere crea fra chi detiene la forza e l'autorità e chi è soggetto ad un potere percepito come "totale", si trova ad essere modificato: l'impostazione comunitaria, infatti, ridistribuisce l'esercizio dell'autorità e consente ai soggetti ristretti di esporre le decisioni che vorrebbero prendere circa la loro vita. Un'organizzazione contenitiva spiccatamente terapeutica, mirando a migliorare la percezione che i detenuti hanno della realtà esteriore e di sé stessi, promuove continuamente l'analisi della vita comunitaria e questo modo di operare apre gli spazi per eliminare la degradante condizione d'assoluta passività alla quale il penitenziario assoggetta l'individuo. Si pongono in sostanza le condizioni per rovesciare il ruolo del recluso e progettare un percorso trattamentale in seno al quale esso è chiamato a recitare, responsabilmente, la parte dell'attore principale (20).

1.2.1. Le difficoltà di implementazione

La scelta del legislatore, di avviare la costituzione di "reparti carcerari opportunamente attrezzati" all'interno dei quali attuare un trattamento penitenziario differenziato per i soggetti abitualmente dediti al consumo di sostanze stupefacenti, mirava dunque, in linea con il dibattito internazionale più avanzato, a dar vita ad una cultura penitenziaria, lontana dalle scelte trattamentali fino ad allora compiute, e orientata in senso "terapeutico". La dura reazione che questa impostazione suscitò nella dottrina e nell'amministrazione penitenziaria, restia allora, come oggi, a modificare i propri comportamenti consolidati (21), dimostrò la scarsa diffusione di una coscienza consapevole delle problematicità rappresentate dal detenuto tossicodipendente e comportò che, di fatto, l'art. 84 non trovò mai attuazione (22).

La dottrina più autorevole si assestò su posizioni "caute", sostenendo che la norma non imponeva di creare "reparti carcerari in cui raggruppare solo tossicodipendenti", e che al contrario i detenuti tossicodipendenti dovevano avere contatti con tutti gli altri detenuti comuni, anche laddove quest'ultimi avessero un notevole spessore criminale, dato che "un efficiente trattamento" si deve basare su "un'interazione fra soggetti aventi problemi, caratteristiche e personalità diverse" (23). Secondo questa tesi creare sezioni di soli tossicodipendenti avrebbe causato loro una "distorsione nella percezione di sé" e una forte deresponsabilizzazione. I reparti che l'art. 84 imponeva di organizzare dovevano servire solo per la prima parte della carcerazione; dovevano essere "reparti di primo intervento, in cui rimanere il minor tempo possibile" (24). Poi, ai tossicodipendenti si sarebbe dovuto assicurare un aiuto di carattere psicologico in "ambienti di vita" che avessero "il più possibile i caratteri della normalità" (25). Le poche discussioni di quegli anni sul trattamento carcerario dei tossicodipendenti erano dominate dalla preoccupazione che, introducendo un regime particolare per tale categoria di soggetti, si sarebbe creato un "diritto speciale", se non addirittura "premiale", ingiustificato e inammissibile sotto il profilo dell'uguaglianza del trattamento dei detenuti e che avrebbe finito per condurre alla deresponsabilizzazione dei detenuti tossicodipendenti, facendo apparire la condizione di tossicodipendenza addirittura un vantaggio. Questa impostazione spingeva la dottrina a sostenere che, anche nella fase iniziale della detenzione, le sezioni di disintossicazione dovevano essere utilizzate solo per chi avesse commesso il reato "sotto il pressante ricatto della sostanza, ossia in quei casi in cui tra lo status del soggetto e l'azione illecita fosse esistito un nesso eziologico provato di tipo diretto" (26).

Spalleggiata da queste posizioni della dottrina, la riottosità dell'Amministrazione penitenziaria si concretizzò nella circolare del Ministero di grazia e giustizia, n. 2414/4868 del 29 aprile 1977 che, affermando che la via maestra per il trattamento dei tossicodipendenti era quella della detenzione ordinaria, sosteneva "l'inopportunità di isolare il tossicodipendente in una condizione di ghettizzazione e sostanziale emarginazione [...] che sottrarrebbero il paziente all'ausilio socializzante della convivenza in comunità indifferenziate, rendendo più difficili le iniziative di riabilitazione e reinserimento" (27). Quindi gli ambienti che, secondo le tesi che avevano ispirato il legislatore, dovevano favorire una vita comunitaria atta a ostacolare la prigionizzazione dei tossicodipendenti reclusi, sono considerati ambienti ghettizzanti, quasi che l'emarginazione che essi provocano fosse dalla normale vita sociale e non dalla vita carceraria.

La scarsa attenzione per il problema del trattamento carcerario dei tossicodipendenti risulta evidente anche dalle proposte di riforma della legge 685/1975 presentate fino 1980, nelle quali l'unico provvedimento suggerito è di ridurre il trauma della crisi di astinenza, estendendo anche ai detenuti la "somministrazione controllata" di sostanze stupefacenti, come avveniva all'esterno per i tossicodipendenti "liberi" (28). Il rimedio era sicuramente importante, ma decontestualizzato da un supporto ambientale adatto, dimostrava solo l'esigenza di rendere, velocemente, i tossicodipendenti compatibili con gli altri detenuti. La proposta di legge n. 2030 del 26 settembre 1980 all'art. 20 proponeva addirittura di introdurre, dopo la previsione del diritto del detenuto tossicodipendente alla cura e alla riabilitazione, il divieto di costituire negli istituti carcerari "sezioni speciali per tossicodipendenti".

1.3. Il ritorno dell'impostazione repressiva

Con la progressiva diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope la privazione della libertà personale dei consumatori di stupefacenti appare, di primo acchito, la risposta appropriata non solo per tutti quei comportamenti devianti o lesivi dei diritti dei terzi che accompagnano spesso il consumo delle droghe, ma anche per il consumo stesso. Del resto, l'uso del carcere in Italia, e non solo, negli ultimi trent'anni è apparso la risposta appropriata per un ventaglio amplissimo di problemi. La scelta, che si è progressivamente rafforzata nel corso degli anni, è stata di predisporre politiche securitarie che salvaguardassero l'esigenza, anche simbolica, di avere validi strumenti sanzionatori general-preventivi capaci di contrastare chi aggredisce beni di rilevanza pubblica. Al sistema penale è assegnato in primo luogo il compito di accertare la reità del soggetto tossicodipendente e di assicurarlo alle maglie della giustizia. E' in questo contesto che si inserisce l'opzione terapeutica, che si concretizza in una delega al sistema socio-sanitario a cogestire, con l'Amministrazione penitenziaria, la fase punitiva. E' evidente che, in questa situazione, il trattamento terapeutico deve fare i conti con i limiti intrinseci dell'investitura ricevuta dall'apparato repressivo. La sua azione è circoscritta quindi dal fatto penalmente punito. L'apparato delegato ad eseguire in concreto la sanzione non è libero di mettere al centro del proprio operato le esigenze terapeutiche, ma si trova ad operare in una condizione di subordinazione e a dover seguire le direttive disciplinanti dettate dall'apparato delegante.

Di fronte alla stratificazione dei provvedimenti normativi in materia di droghe, che spesso causava negli operatori incertezze e confusione e, soprattutto motivato dalla convinzione che fosse necessario cambiare l'impostazione della legge del 1975 che, a parere delle forze di maggioranza politica dell'epoca, aveva dato la sensazione che fosse lecito usare le droghe, il Parlamento approva la legge n. 162 del 26 giugno 1990 (Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della legge 22 Dicembre 1975, N. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), conosciuta come legge "Jervolino-Vassalli", dai nomi del Ministro degli interni e del Ministro della giustizia dell'epoca che, della legge, furono i principali autori. Con questo provvedimento si cerca di tornare al regime della legge n. 1041 del 1954 e di affermare "la volontà dello Stato di reprimere vigorosamente la diffusione di sostanze stupefacenti" (29). Cambiata, modificando una serie di articoli, l'impostazione di fondo della normativa sugli stupefacenti, la nuova legge all'art. 37 delegava il Governo a redigere un Testo Unico che raccogliesse e coordinasse tutte le leggi allora vigenti in materia di stupefacenti. Pochi mesi dopo, con il decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990 n. 309, viene emanato Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti.

Il legislatore non fu però sordo agli allarmanti segnali derivanti dalle statistiche penitenziarie rilevate nei cinque anni precedenti, al D.P.R. 309/90. Esse segnalavano un incremento quantitativo della popolazione detenuta tossicodipendente a fronte di una sostanziale flessione del numero complessivo dei soggetti ristretti presenti nelle carceri italiane, ciò comportava un notevole aumento della percentuale dei soggetti tossicodipendenti detenuti. I tossicodipendenti reclusi per condanna definitiva o per misura cautelare passano dalle 5.221 unità del 1986, pari al 16,4% del totale della popolazione detenuta, alle 7.299 unità del 1990 che, a fronte di 25.931 detenuti presenti nel circuito penitenziario italiano alla data del 31 dicembre, corrispondono al 28,1% del totale (30). La risposta a questi dati è contenuta nel capo II del titolo VIII ("Della repressione delle attività illecite") del Testo Unico 309/1990, dedicato alle disposizioni processuali e di esecuzione. Queste disposizioni in materia di esecuzione pena del detenuto tossicodipendente dimostrano la chiara volontà del legislatore, da un lato, di far coincidere il trattamento sanzionatorio e il trattamento terapeutico e, dall'altro, di voler favorire un'ampia decarcerizzazione dei tossicodipendenti.

Le misure di "decarcerizzazione" varate nel 1990, per risolvere il problema dell'esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti, si accompagnano ad un'impostazione fortemente repressiva nei confronti non solo della produzione e del commercio, ma anche del consumo di sostanze stupefacenti. Tale impostazione, ovviamente, favorisce un incremento della schiera dei tossicodipendenti con "problemi di giustizia". Come accennato, l'intento programmatico del legislatore del 1990 è quello di rinnegare in toto l'impostazione, ritenuta lassista, della legge del 1975, sancendo il divieto di uso personale di sostanze stupefacenti, prevedendo una serie di sanzioni che vanno da quelle amministrative, alle "misure di prevenzione criminale", fino a quelle penali stricto sensu, da applicare gradatamente a scalare, se il tossicodipendente non risponde ad una serie di richiami volti a fargli intraprendere un percorso di riabilitazione e a fargli cessare l'uso della sostanza (artt. 75-76).

Questa rigida impostazione fu bocciata dal voto popolare nel corso del Referendum abrogativo del 18 aprile 1993 che cancellò la previsione di misure di prevenzione criminale e le sanzioni penali connesse al reiterato uso personale di sostanze stupefacenti, lasciando in vigore solo le sanzioni amministrative. Non solo, il legislatore originariamente, aveva stabilito che dovesse essere sanzionata penalmente la detenzione di droga, laddove questa riguardasse un quantitativo di sostanza superiore alla "dose media giornaliera" determinata ai sensi dell'art. 78, comma 1, lett. c). Aveva cioè stabilito di affidare al Governo la definizione, in via amministrativa, della quantità di droga che poteva essere detenuta a fini personali, senza far scattare le sanzioni penali per detenzione illecita. Il Referendum abrogò anche questo meccanismo, con il risultato di rendere lecito il possesso di una quantità indeterminata di droga purché, evidentemente, destinata all'uso personale. La giurisprudenza dei vent'anni successivi è stata molto impegnata a determinare i criteri dai quali desumere la destinazione ad uso personale della droga detenuta, ma questo non riguarda il tema di questa analisi.

Sebbene il Referendum avesse bocciato l'impostazione di fondo della legge, il legislatore decise di non tornare sui suoi passi. Non ci fu nessuna riforma tesa ad allineare la normativa con le indicazioni di principio soggiacenti alla volontà popolare emersa nel corso della consultazione referendaria: la necessità di svincolare il trattamento giuridico del consumatore da quello dello spacciatore e l'opportunità di differenziare, drasticamente, la disciplina delle droghe pesanti da quella delle droghe leggere. Il Testo Unico rimase in vigore sia pure con le amputazioni derivanti dall'esito referendario e il suo rigore sanzionatorio continuò a colpire duramente i tossicodipendenti autori di reati di spaccio. La rigorosa applicazione delle norme contenute nel TU ha portato ad un progressivo aumento del numero dei soggetti tossicodipendenti detenuti, con il risultato che, dal 1990 ad oggi, circa il 30% della popolazione penitenziaria, che in questi anni è quasi triplicata, nonostante l'indulto del 2006, è composta da soggetti con problemi di tossicodipendenza, con tutte le conseguenze in termini di gestione da parte dell'Amministrazione penitenziaria delle patologie correlate a tale condizione.

1.3.1. L'iscrizione del trattamento terapeutico nel sistema sanzionatorio

Il recupero, attraverso la terapia, del soggetto tossicodipendente costituisce la finalità di tutto l'impianto normativo dedicato alla disciplina degli stupefacenti. L'idea della sostanziale "incompatibilità tra carcere e tossicodipendenza" resta la base delle modalità di esecuzione penale, il legislatore è però convinto che la terapia sarà intrapresa dai tossicodipendenti, solo se costretti. In forza di questa convinzione il perno della normativa è la "saldatura tra il momento sanzionatorio e il momento del recupero" (31). Nel disegno del T.U. solo la sincronizzazione tra terapia e difesa sociale è ritenuta capace di predisporre i mezzi per "recuperare il tossicodipendente, eliminando così i rischi per lui e per la società" (32). Al rigore sanzionatorio che colpisce il tossicodipendente spacciatore si associa una forte pressione, perché l'esecuzione penale si imperni sulla "terapia" che emerge come il denominatore comune di tutte le modalità di trattamento del detenuto tossicodipendente. Di fronte al tossicodipendente in esecuzione pena si aprono diverse strade tutte connotate da un forte contenuto terapeutico: se ha in corso, o accetta di sottoporsi ad, un programma terapeutico può accedere alla misura alternativa dell'affidamento "terapeutico" (art. 94), se lo ha in corso o lo ha già terminato può giovarsi del nuovo istituto della sospensione dell'esecuzione della pena (art. 90) o nella peggiore delle ipotesi sconterà la detenzione in una delle case mandamentali destinate a soli soggetti che versano in condizioni di dipendenza dalla droga (art. 95). Il legislatore si è comunque preoccupato di predisporre anche alcune garanzie minime del diritto alla salute di quei soggetti che scontano la pena in carcere, non potendo o volendo usufruire di questi istituti.

A partire dai primi anni novanta del secolo scorso, epoca in cui l'uso delle sostanze stupefacenti e psicotrope ha ormai assunto dimensioni "di massa", si viene quindi a formare una tenaglia le cui braccia sono: da un lato, la criminalizzazione delle attività connesse al consumo di droga, attraverso una legislazione speciale che tendenzialmente, salvo gli scarsi effetti del Referendum del 1993, cancellati tra l'altro dall'ultima riforma operata con la legge 49 del 2006 (33), si è progressivamente inasprita, e dall'altro l'assunto che il tossicodipendente è in primo luogo un soggetto che deve essere curato. Prigioniero della tenaglia è rimasto, insieme ai tossicodipendenti, il sistema dell'esecuzione penale.

L'accesso del tossicodipendente alle soluzioni punitive alternative alla detenzione e incentrate sulle esigenze terapeutico-riabilitative costituisce l'unico tortuoso sentiero tracciato dalla normativa, per sfuggire alla morsa della tenaglia. Il legislatore ha faticosamente e ondivagamente tracciato questo sentiero nel corso degli anni, via via che l'aumento della diffusione dell'uso delle sostanze stupefacenti e psicotrope portava all'incremento dei tossicodipendenti detenuti e al rafforzamento della constatazione che l'esperienza detentiva è comunque per loro nociva (34). Nell'impianto normativo odierno la tutela della salute degli assuntori di droghe viene, infatti, in evidenza in primo luogo attraverso una serie di meccanismi sanzionatori predisposti per spingere i soggetti a sottoporsi a programmi di disintossicazione. Anche la fase dell'esecuzione penale è, come vedremo, caratterizzata da una forte spinta in questo senso. Ciò emerge in particolare dalle previsioni relative agli istituti della sospensione pena e dell'affidamento in casi speciali.

Perno di questa strategia, in cui sanzione e terapia costituiscono due facce della stessa medaglia sono le "comunità terapeutiche". Previste per la prima volta nella legge del 1983, oggi le comunità sono" istituzionalizzate", cioè "entrano a far parte a pieno titolo ed a ogni livello della rete di servizi per la cura e il recupero dei tossicodipendenti" (35). Il T.U. ne regolamenta la presenza attraverso gli albi regionali, anche per evitare fenomeni speculativi, e prevede che solo le comunità iscritte in tali albi possano stipulare convenzioni con le unità sanitarie locali (oggi aziende sanitarie locali). Le convenzioni devono poi essere conformi a schemi nazionali predisposti dai Ministeri della sanità e della giustizia.

Tuttavia, la medaglia a due facce sanzione/terapia finisce per diventare una camicia di forza per le comunità. Se si considera la terapia la soluzione del problema della delinquenza, perché risolve il problema della tossicodipendenza, vuol dire che si considera il tossicodipendente un "malato" bisognoso di cure, ma allo stesso tempo lo si inquadra in un contesto di restrizione e coartazione come quello dell'esecuzione pena. Il tossicodipendente è un malato a cui, data la sua pericolosità sociale, non si riconosce il diritto, sancito dall'art. 32 della Costituzione, a determinare la sua cura, a dispetto di tutta la letteratura che sottolinea l'importanza della volontarietà per la buona riuscita del trattamento terapeutico (36). Le comunità, quindi sono finalmente riconosciute, ma si vedono attribuito anche il compito di essere un "altro carcere". Gli operatori sociali che lavorano in comunità devono, infatti, garantire aiuto e sostegno ai tossicodipendenti nel loro percorso di disintossicazione e recupero sociale, ma assicurare il controllo sull'andamento di questo percorso, fornendo al giudice tutte le informazioni, perché possa valutare l'andamento del programma. Dunque fin dal suo apparire il T.U. tratteggia le comunità come "parte integrante del meccanismo di sorveglianza e correzione" (37). La riforma del 2006 ha reso questa connotazione esplicita, prevedendo in modo generalizzato che il responsabile della struttura, presso la quale un tossicodipendente in custodia cautelare o in esecuzione pena svolge il programma terapeutico di recupero e socio-riabilitativo, "è tenuto a segnalare all'autorità giudiziaria le violazioni alle prescrizioni imposte, poste in essere dalla persona sottoposta al programma".

Come ha osservato Don Luigi Ciotti (38), fondatore del Gruppo Abele di Torino, uno tra i primi gestori di comunità per tossicodipendenti, questa connotazione delle comunità finisce per ostacolare l'arrivo spontaneo dei tossicodipendenti. La loro configurazione come organi di controllo finisce con l'allontanare persone che invece dovrebbero essere "agganciate". Inoltre, il meccanismo delle convenzioni per accedere ai finanziamenti previsti dalla legge (39) finisce inevitabilmente per moltiplicare le comunità con fini di lucro e tende a far divenire egemoni quelle strutture che "più aderiscono ai valori di conformismo sociale". Infine il meccanismo disegnato dalla legge ha, di fatto, attribuito alle comunità un ruolo taumaturgico: mandare il tossicodipendente in comunità sembra equivalere a risolvere il problema. La realtà è nettamente diversa: mediamente si concludono con successo circa un quinto dei percorsi comunitari (40) e questo dato è ancora più basso per tossicodipendenti che arrivano dal circuito penale, dato che la loro scelta del percorso comunitario se non strumentale è fortemente condizionata dalla voglia di beneficiare di una misura alternativa, e quindi spesso mancano della determinazione necessaria per una buona riuscita del processo di recupero.

Note

1. In effetti, la Convenzione di Vienna del 1971 ("Convenzione sulle sostanze psicotrope") già richiedeva agli Stati stipulanti di predisporre misure alternative alla detenzione volte al recupero del tossicodipendente autore del reato. Infatti, all'art. 22 rubricato "Disposizione penali", dopo aver impegnato, al primo comma, tutti gli Stati contraenti a sanzionare "gli atti commessi intenzionalmente che contravvengono una legge o un regolamento adottato in esecuzione degli obblighi [...] Convenzione" stessa, con "le misure necessarie affinché le violazioni gravi siano debitamente punite, per esempio con una pena detentiva o con altra misura limitativa della libertà ", al secondo comma dell'articolo la Convenzione prevede che quando le persone che hanno compiuto queste violazioni, hanno utilizzato "in modo abusivo delle sostanze psicotrope, le Parti, invece di condannarle o di irrogare una sanzione penale nei loro confronti, o quale misura accessoria della sanzione penale, potranno sottoporre queste persone a misure di trattamento, di educazione, di dopo-cura, di riadattamento e di reintegrazione sociale".

2. Art. 84 Trattamento dei detenuti abitualmente dediti all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Chiunque si trovi in stato di custodia preventiva o di espiazione di pena e sia ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope ha diritto di ricevere le cure mediche e l'assistenza necessaria a scopo di riabilitazione.
A tal fine il Ministro per la grazia e giustizia organizza con suo decreto, su basi territoriali, reparti carcerari opportunamente attrezzati, provvedendo d'intesa con le competenti autorità regionali e con i centri di cui all'art. 92.
Le direzioni degli istituti carcerari sono tenute a segnalare ai centri medici e di assistenza sociale regionali competenti coloro che, liberati dal carcere, siano ancora bisognosi di cure e di assistenza.

3. Non sono menzionati gli internati, cioè i soggetti sottoposti a misure di sicurezza detentive. La dottrina ha pacificamente ammesso che si è trattato di una dimenticanza del legislatore per cui si può desumere che la disciplina in questione si applichi a tutti i soggetti detenuti e tossicodipendenti. G. Di Gennaro, La droga. Controllo del traffico e recupero dei drogati (Commento alla legge 22 dicembre 1975 n.685, sulla disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope), Giuffrè editore, Milano, 1982, pp. 284; Ambrosini G., Mileto P., "Le sostanze stupefacenti. Le misure di prevenzione", in F. Bricola, V. Zagrebelsky (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Utet, Torino, 1989, p. 116. Merita di essere sottolineato che la dimenticanza del legislatore si è ripetuta nell'attuale art. 96 del T.U. del 90 che sotto questo profilo ricalca l'art. 84 della legge 685 del 1975. Questa reiterazione della non menzione di questa categoria di reclusi fa pensare più che ad una dimenticanza ad una scelta deliberata, dovuta al fatto che ormai gli unici internati effettivamente esistenti sono i reclusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, tra i quali non sono infrequenti i cosiddetti "soggetti con doppia diagnosi", che associano cioè a problemi di dipendenza problemi di sofferenza psichiatrica, che però si trovano in un luogo già configurato dalla normativa come luogo di reclusione e terapia. Merita di essere sottolineato che il disagio dei soggetti in "doppia diagnosi" non è di solito determinato da problemi di disadattamento, povertà e dal contesto sociale degradato, ma da problemi di depressione e da disturbi della personalità.

4. Questa previsione nasceva da una letteratura che, da un lato, tratteggia i reati commessi dai tossicodipendenti come dovuti all'effetto "accecante" della dipendenza e allo stile di vita che essa li ha portati a tenere. Dall'altro, metteva l'accento sulla labilità psicologica che rende i tossicodipendenti particolarmente soggetti alla "prigionizzazione" (per questa nozione si veda D. Clemmer, The prison Community, Boston, The Christopher Publisching House, York, 1941 e E. Santoro, Carcere e società liberale, Giappichelli Editore, Torino, 2004, pp. 69 e ss, dove nella sezione antologica (210-225) è riportata una traduzione di alcuni passi del volume di Clemmer.), cioè particolarmente "influenzabili" dall'ambiente carcerario, sconsigliando in modo più assoluto il contatto con persone di alto spessore criminale o comunque aggressive e violente, contatto che renderebbe veramente improbo qualsiasi tentativo di recupero.

5. Cfr. G. M. Flick, Droga e legge penale. Miti e realtà di una repressione, Giuffrè, Milano, 1979, p. 9.

6. Norma perno e "manifesto" di questa legge era l'art. 6, che reprimeva, con la pena da tre a otto anni, ben nove diverse tipologie di condotta (acquistare, vendere, cedere, importare, esportare, far transitare, procurare ad altri, impiegare, o comunque detenere) laddove realizzate in assenza di apposita autorizzazione.

7. V. nota n. 1.

8. Per i concetti di "droga pensante" e "leggerà" v. Droga e legge penale. Miti e realtà di una repressione, Giuffrè, Milano, 1979.

9. Indicativo dello spirito dei tempi è il disappunto mostrato da parte della dottrina perché il parametro della modica quantità non avesse evitato in toto il rischio di criminalizzazione del consumatore di sostanze stupefacenti. Cfr. C. Castellani, E. Fassone, "Tossicodipendenza e processo penale. Osservazioni sulle prospettive di riforma della legge 685/1975", Questione giustizia, II, 1985, pp. 360-361.

10. Art. 100. Interventi del Tribunale.
La persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, che necessita di cure mediche e di assistenza, ma che rifiuta di assoggettarsi al trattamento necessario, deve essere segnalata dall'autorità di polizia o dal centro medico e di assistenza sociale competente all'autorità giudiziaria.
La stessa segnalazione può essere fatta dal genitore, dal coniuge, dai figli o, in mancanza di essi, dai prossimi congiunti della persona da assistere.
L'autorità giudiziaria, premessi gli opportuni accertamenti e sentito in ogni caso l'interessato e il competente centro medico e di assistenza sociale, qualora ravvisi la necessità del trattamento medico ed assistenziale, dispone con suo decreto il ricovero ospedaliero, con esclusione degli ospedali psichiatrici, se assolutamente necessario, o le opportune cure ambulatoriali o domiciliari.
In ogni caso l'autorità giudiziaria affida la persona da assistere al centro di cui all'art. 90, il quale compie gli interventi occorrenti e ne riferisce almeno ogni tre mesi all'autorità giudiziaria medesima.
L'affidamento è disposto per la durata presumibile della cura e dell'assistenza volta al reinserimento sociale.
Disposto il trattamento medico ambulatoriale, se l'interessato interrompe le cure e rifiuta di riprenderle, l'autorità giudiziaria può disporre il ricovero in idoneo istituto ospedaliero, con esclusione degli ospedali psichiatrici.
I provvedimenti indicati negli articoli precedenti possono in ogni tempo essere modificati.
Essi debbono essere revocati non appena si possa presumere che il soggetto interessato non abbisogni più di cure e di assistenza.

11. Questa esplicita previsione trova la sua ragione nel fatto che fino a quel momento l'unico intervento riabilitativo consisteva nel ricorso alla cura mentale dell'intossicato, ritenuto pericoloso o di pubblico scandalo. Cfr. F.C. Palazzo, Consumo e traffico degli Stupefacenti, CEDAM, Padova, 1994, p. 34. La normativa che prevedeva tale intervento era composta dalla legge psichiatrica del 14 febbraio 1904 n. 36 e dalle successive leggi sanitarie (T.U. del 27 luglio 1934 n. 1265). In merito alla consapevolezza della natura clinica del problema della tossicodipendenza cfr. anche la relazione di C. Cippitelli, "Droga Tossicodipendenza e tossicodipendenti", p. 16, dove si legge: "Con il testo unico delle leggi sanitarie la tossicodipendenza viene sempre più equiparata ad una malattia, ed il tossicomane ad un soggetto a cui applicare procedure di ricovero coatto, modellate sulla legge manicomiale del 1904".

12. B. Guazzaloca, L'esecuzione della pena del tossicodipendente, in G. Insolera (a cura di), Le sostanze stupefacenti, UTET, Torino, 1998, p.505.

13. Anche la loro istituzione può essere considerata conseguenza della stipula della Convenzione di Vienna 1971, si ribadisce per altro non ancora ratificata all'epoca dall'Italia, che all'art. 20 (Misure contro l'abuso delle sostanze psicotrope), sollecitava gli Stati firmatari a prendere "tutte le misure che possono servire per prevenire l'abuso delle sostanze psicotrope e per assicurarne la pronta individuazione e per la cura, la rieducazione, il dopo-cura, il riadattamento e la reintegrazione sociale delle persone interessate".

14. A. Beconi, L. Ferrannini, "Problemi di applicazione delle misure alternative alla detenzione del tossicodipendente", Questione giustizia, IV, 1986, p. 842.

15. B. Guazzaloca, "L'esecuzione della pena del tossicodipendente", cit., p. 505.

16. Per la nozione di istituzione totale si veda E. Goffman, Asylum, 1961, tr. it. Torino: Einaudi, 1968, per quella simile, ma non coincidente, di "potere totale" si veda G. Sykes, The Society of Captives, Princeton, 1958. Per la nozione di "prigionizzazione" D. Clemmer, The prison Community, New York, 1940. Una traduzione parziale dei testi di Sykes e Clemmer si trovano in "Antologia" E. Santoro, Carcere e Società liberale, Torino, Giappichelli, 2004, alle cui pp. 69-82 si rimanda anche per la ricostruzione di questo dibattito.

17. M. Jones, Ideologia e pratica della psichiatria sociale, Etas Kompass, Milano, 1970, p. 121.

18. D. H. Clark, Administrative Therapy. The Role of the Doctor in the Therapeuitc Community, Tavistock, London, 1964.

19. Le Jeune adultè dèlinquant, edito dall'O.N.U. nel 1965.

20. Cfr. T. Bandini, U. Gatti, "La comunità terapeutica nelle carceri", Quaderni di Criminologia Clinica, 1977, pp. 305-317.

21. C. Cippitelli, op. cit., parla di "immobilismo istituzionale".

22. D'altra parte questa scelta fu duramente avversata anche da chi propendeva per la strada comunitaria in nome della necessità di superare le barriere architettoniche costituite dalle istituzioni totali per approdare alla predisposizione di luoghi alternativi alla detenzione. Cfr. A. Beconi, L. Ferrannini, "Problemi di applicazione delle misure alternative alla detenzione del tossicodipendente", cit., p. 872 che a proposito di queste sezioni scrivono: "riteniamo fondamentale che" tali luoghi " si configurino come spazi per la terapia e non per l'espiazione di una pena sostitutiva (la condanna alla cura!)...e siano vicini alla società reale...diversificati...ed infine non si configurino come nuove istituzioni per la rieducazione di soggetti autori di reato".

23. G. Di Gennaro, op. cit., pp. 286-287: "mettere insieme tutti i drogati comporterebbe una distorsione della percezione di sé. Essi finirebbero per considerarsi malati e come tali deresponsabilizzati di fronte ai loro impegni di partecipazione a programmi di trattamento incentrati su modelli non medici".

24. G. Ambrosini, P. Mileto, "Le sostanze stupefacenti. Le misure di prevenzione", cit., pp. 116-117. Questa posizione voleva tener conto delle tesi di chi sottolineava che per i tossicodipendenti il carcere è particolarmente difficile da vivere in quanto essi devono affrontare praticamente da soli le crisi di astinenza e il periodo di adattamento alla vita detentiva, periodo molto duro come mostra il fatto che in esso si concentra la maggioranza dei suicidi che avvengono in carcere, e che è soprattutto nel periodo in cui si sommano queste due "tragedie personali" che essi diventano facile "preda" di delinquenti dalla spiccata capacità di assumere posizioni di supremazia e di comando sugli altri, che con consigli ed aiuto si conquistano con facilità la loro fiducia.

25. G. Di Gennaro, op. cit., p.116. Sarebbe superfluo soffermarsi sul riferimento di Di Gennaro alla "normalità" che secondo l'autore dovrebbe esistere in un ambiente carcerario indifferenziato!

26. C. Castellani, E. Fassone, "Tossicodipendenza e processo penale. Osservazioni sulle prospettive di riforma della legge 685/1975", cit., p. 366-374.

27. A. Beconi, L. Ferrannini, "Problemi di applicazione delle misure alternative alla detenzione del tossicodipendente", cit., pp. 842-843.

28. G. Di Gennaro, op. cit., pp. 525-619.

29. Cfr. R. Ricciotti, M.M. Ricciotti, Gli stupefacenti. Commento al T. U. 9 ottobre 1990, giurisprudenza, decreti ministeriali, tabelle, relazioni parlamentari, Cedam, Padova, 1993, pp. 6 e ss.

30. S. Verde, Massima Sicurezza, ODRADEK, Roma, 2002, p. 219.

31. Cfr. la relazione dei deputati Casini ed Artioli per le Commissioni Giustizia e Affari sociali presentata al Presidente della Camera il 26 marzo 1990, citata in R. Ricciotti, M.M. Ricciotti, op. cit., pp. 16. Ma basta scorrere gli artt. 75-76 del Testo Unico per vedere che il "programma terapeutico" è proposto come chiara alternativa alla sanzione, sia essa amministrativa o penale. Siamo anni luce lontani dalle tesi di chi si preoccupava dalla genuinità della volontà di intraprendere il programma terapeutico, considerandola essenziale per il suo successo.

32. Ivi, p. 20.

33. Con il Referendum popolare del 18 aprile 1993 fu depenalizzato il consumo personale di sostanze ad azione drogante e eliminata la nozione di "dose media giornaliera" che definiva il limite entro cui il possesso di sostanze stupefacenti e psicotrope era sanzionato in prima battuta solo in via amministrativa. La legge 49/2006 ha reintrodotto sia il limite fissato in via amministrativa di quantità di sostanze illecite detenibili per uso personale sia le sanzioni penali (l'arresto da 3 a 18 mesi) della violazione delle misure amministrative applicate dal Questore per l'uso personale di stupefacenti, eliminate a seguito dell'abrogazione referendaria dall'art. 76 D.P.R. n. 309/1990.

34. Cfr. B. Guazzaloca, "L'esecuzione della pena del tossicodipendente", cit., p. 504.

35. Ivi, p. 22.

36. Molti operatori sociali hanno rilevato come l'alternativa sanzione-terapia rappresenti una forma di induzione e coazione indiretta al trattamento, di cui in definitiva non si potrà mai accertare la volontarietà. Cfr. D. Ferranti, A. Pascolini, M. Pivetti, A. Rossi (a cura di), Il Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti, Giuffrè Editore, Milano, 1991.

37. A. Rossi, La nuova normativa e i principi costituzionali, in D. Ferranti, A. Pascolini, M. Pivetti, A. Rossi (a cura di), , op. cit., p. 39.

38. Cfr. Don Luigi Ciotti, Le comunità di fronte alla nuova normativa, in D. Ferranti, A. Pascolini, M. Pivetti, A. Rossi (a cura di), op. cit., pp. 237-241.

39. Meccanismo regolato dagli artt. 127 e ss. del Testo Unico n. 309 del 1990.

40. Dato stimato da Don Luigi Ciotti, op. cit., p. 239.