ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
L'istituto della messa alla prova nel D.P.R. 448/88

Graziella Ortu, 2011

2.1 Il "probation": modelli ed esperienze negli ordinamenti di altri paesi

L'istituto della messa alla prova trae la propria origine nel diritto e nell'esperienza applicativa anglo-sassone. Nella forma generalmente indicata come probation viene tradizionalmente fatto risalire al 1841, anno in cui durante un processo che si celebrava in una Corte di Boston negli Stati Uniti nei confronti di un mendicante, un facoltoso calzolaio dichiarò al giudice la propria personale disponibilità ad offrire all'imputato un lavoro ed un sostegno, in cambio della sospensione della condanna; il giudice accolse la proposta subordinando la sospensione del processo all'impegno che l'imputato avrebbe dimostrato nell'ottemperare ai suoi nuovi doveri. L'esperienza si concluse positivamente e portò all'erogazione di una multa simbolica, con il rilevante ed innovativo beneficio di evitare la prigione al reo. L'esito positivo dette l'avvio ad una serie di analoghe esperienze, caratterizzate tutte dalla volontarietà e dalla informalità, fino a quando nel 1878, fu emanata nello Stato del Massachusetts la prima legge sulla probation, il "Massachusetts Probation act", seguita in breve da altre leggi nello stesso Stato e successivamente in altri Stati della federazione soprattutto in seguito all'istituzione del Tribunale per i minorenni di Chicago del 1899. Nel 1925 tutti gli Stati avevano introdotto istituti analoghi per i minorenni.

L'esperienza venne immediatamente recepita anche in Europa e, prima fra tutte, in Inghilterra, dove già nel 1847 era stata approvata una legge, il "Juvenile Offenders Act", in virtù della quale il giudice era autorizzato a non condannare il minore riconosciuto colpevole ma solo a rimproverarlo. Nel 1879 un'altra legge, il "Summary Jurisdiction Act", autorizzava la Corte ad evitare di infliggere pene detentive brevi agli adulti che avevano commesso reati, disponendo la sospensione della dichiarazione di colpevolezza e della pena, a condizione che il condannato mantenesse una buona condotta. Occorrerà tuttavia attendere il 1907 per avere la prima legge specifica relativa al nuovo istituto il "Probation of offenders Act".

Nel resto d'Europa l'istituto del probation si è diffuso soprattutto nel decennio che va dal 1950 al 1960, periodo in cui anche in sede sovranazionale si guardava con favore all'adozione di forme alternative alla detenzione. La Risoluzione dei Ministri della Giustizia presso il Consiglio d'Europa, n. 1/65, "raccomanda ai Governi di assicurare che le legislazioni degli Stati membri autorizzino il giudice (...) a sostituire la pronuncia limitativa della libertà (...) con una misura condizionale, quando si tratta di delinquenti primari e di delinquenti che non hanno commesso reati di particolare gravità; raccomanda ai Governi di intraprendere tutte le iniziative possibili per l'adozione e l'estensione di pronunce di probation o di misure simili che sono di particolare valore in questo campo e offrono il vantaggio di assicurare all'autore di reato di essere aiutato e tenuto sotto supervisione per tutto il periodo della misura, così da favorire la sua riabilitazione e controllare la sua condotta..." (1).

Sempre intorno agli anni '70 il "Children and Young Person Act", in Inghilterra, introdusse la "supervision" e la "care", affidate ai servizi sociali degli enti locali e gestite direttamente da essi: si trattava di una sorta di affidamento con delega al servizio sociale, lasciando piena autonomia all'operatore sociale nella determinazione dei contenuti da dare alla misura. Pochi anni dopo tale autonomia fu enormemente ridotta, tornando il tribunale dei minorenni ad avere piena giurisdizione anche sui contenuti delle misure. In Italia il modello trova applicazione per la prima volta nel 1975, con l'art. 47 della L. 354/75, che disciplina l'istituto dell'"affidamento in prova"al servizio sociale, previsto per i condannati adulti; mentre il modello di probation pura trova applicazione solo molto più tardi con la legislazione minorile.

Modelli di probation sono stati introdotti negli ordinamenti di molti paesi, dando luogo a figure simili che si distinguono tuttavia per alcune caratteristiche peculiari.

Tra i caratteri comuni ai vari ordinamenti degli Stati, si riscontra, in particolare, la compresenza di tre elementi: la sospensione del processo ad un certo stadio; l'imposizione al reo di oneri più blandi rispetto alla sanzione prevista per il reato commesso e il suo reinserimento sociale; l'affiancamento al reo di persone o enti in funzione di sostegno durante il periodo di prova (2).

La sospensione del processo che, diversamente, si concluderebbe con una pronuncia di condanna con conseguentemente irrogazione della pena, è pacificamente riconosciuta come elemento costitutivo e comune a tutti i modelli di probation attuati anteriormente alla conclusione del processo stesso. Su tale elemento comune si innestano previsioni diversificate in relazione ai tempi e ai modi di adozione della sospensione, che può intervenire in quattro momenti diversi, originando altrettante tipologie dell'istituto.

Una prima forma è rappresentata dalla sospensione dell'esercizio dell'azione penale e dello stesso accertamento della responsabilità. Rientra in tale ipotesi il modello italiano disegnato dall'art. 28 del DPR 448/88 di cui si dirà ampiamente oltre (3).

Un secondo modello è rappresentato dalle ipotesi di sospensione che possono precedere la pronuncia della condanna, dopo l'avvenuto accertamento della responsabilità penale; tali ipotesi ricorrono largamente negli Stati Uniti, in Belgio, in Danimarca, in Svezia, in Canada ed in Gran Bretagna.

Un terzo modello è caratterizzato dalla sospensione della pena irrogata dopo che vi sia stato l'accertamento della responsabilità e sia stata individuata la sanzione adeguata. Questa ipotesi sviluppatasi in Francia e in Belgio, può comportare tanto la sospensione condizionale della condanna (definita sursis semplice) che, in alternativa, la "sottoposizione a prova", nel qual caso è riconducibile alla forme più tipiche di probation. La formula è utilizzata in alcuni Stati degli USA, in Belgio, in Francia, in Danimarca, in Norvegia, in Svezia, in Germania, in Lussemburgo e in Finlandia, esclusivamente nei confronti di minori (4).

Vi è, infine, una quarta ipotesi rappresentata dalla sospensione della esecuzione della pena. In questo caso la sospensione avviene non durante l'esecuzione della sanzione ma precedentemente al suo inizio. Questa ipotesi prevista in Olanda, Danimarca e in alcuni Stati degli USA è generalmente utilizzata nei casi per i quali è prevista una pena composita, che viene pertanto per una parte espiata e per l'altra sospesa, a condizione che la prova abbia esito positivo.

Un ulteriore tratto comune alle varie tipologie di probation è costituito dalla necessità che l'illecito commesso non rientri di norma tra i reati "gravi" e che pertanto la pena potenzialmente irrogabile sia di lieve entità. Questo requisito oggettivo rappresenta una delle più tipiche espressioni della natura e delle finalità della probation: infatti, soltanto in ipotesi di reati non gravi è ipotizzabile da parte dello Stato la rinuncia alla pretesa punitiva, senza che ciò quindi comporti rischi o danni maggiori di quelli connessi o derivanti dal reato stesso. La previsione di tale requisito, ritenuto pacificamente comune a tutte le esperienze di probation, è stata disattesa, per la prima volta, dalla legislazione italiana, che nell'introdurre il nuovo istituto con il menzionato DPR 448/88 ha svincolato del tutto l'applicabilità della messa alla prova dalla natura del reato commesso dal minore; in tal modo, come si vedrà meglio in seguito, la sospensione del processo può essere disposta per qualunque tipo di reato, indipendentemente dalla pena astrattamente prevista.

Parimenti comune alle esperienze dei più rilevanti ordinamenti è la previsione di un requisito soggettivo, rappresentato dalla necessità che il reo non abbia precedenti di rilevante entità. La ratio sottesa a tale principio generale risiede nella volontà del legislatore di far si che il regime di sostegno e di verifica proprio della probation costituisca uno strumento finalizzato al reinserimento sociale del reo e non ad agevolare o comunque a tollerare un ritorno al crimine (5).

Un ulteriore elemento caratterizza altresì in modo trasversale l'istituto della probation nelle varie esperienze normative, vale a dire la generale previsione della necessità di compiere una indagine sulla personalità del reo, per accertarne la sua idoneità alla prova. Nei vari sistemi tale indagine è a volte rimessa direttamente all'autorità giudiziaria, che ha facoltà di chiedere l'intervento di esperti (cosa che avviene in Canada, Norvegia e Germania). In altri ordinamenti invece viene effettuata da organi amministrativi, fermo comunque il potere decisionale e di intervento del giudice (6).

Il provvedimento con il quale si autorizza ed applica il probation prevede un progetto di comportamento personalizzato, accompagnato da prescrizioni alle quali il reo deve necessariamente attenersi, pena la revoca della misura. La tipologia delle prescrizioni è alquanto diversificata nelle singole legislazioni nazionali anche se si rilevano dei caratteri comuni. Alcune sono rappresentate da imposizioni di obblighi positivi (ad esempio risiedere in un determinato luogo, presentarsi periodicamente alla autorità designata), oppure di obblighi negativi (quali il dovere di astensione dal frequentare determinati luoghi, o di non allontanarsi dagli stessi; altre invece hanno natura e finalità riparatoria, e annoverano il risarcimento del danno alla vittima (7), il pagamento delle spese del processo, oppure il versamento di somme di denaro a beneficio di istituzioni pubbliche. Vi sono poi prescrizioni adottate in stretto collegamento con patologie del reo, che pertanto impongono l'obbligo di sottoporsi a trattamenti sanitari, disintossicanti o psichiatrici.

Anche in relazione alla durata e ad altri importanti aspetti della prova si riscontrano caratteri comuni nelle varie esperienze nazionali. Di norma le legislazioni prevedono alternativamente una durata minima e massima, da determinarsi nel corso della prova (come avviene in Francia, Olanda e Norvegia), oppure prevedono una durata predeterminata e proporzionata al reato commesso, che può essere ridotta o modificata, in ogni momento, unitamente al contenuto delle prescrizioni (8).

In ogni ordinamento l'esito negativo della prova determina la revoca della misura e la riapplicazione della sanzione adottata e precedentemente sospesa. Il provvedimento di revoca non costituisce in genere un effetto automatico ma è conseguente ad una valutazione lasciata al giudice sulla sussistenza delle ragioni che la motivano quali, ad esempio, la commissione, durante la prova, di reati di particolare natura o per i quali sia prevista l'irrogazione di una pena detentiva superiore ad un minimo stabilito (9).

Nelle diverse legislazioni nazionali, infine, si riscontrano conseguenze differenti nel caso di esito positivo della prova con estinzione della pena. Ad esempio in Francia il Tribunale ha facoltà di dichiarare come non avvenuta la pronuncia di condanna, mentre in California, alla estinzione della pena si accompagna il ritiro della denuncia e la ritrattazione della dichiarazione di colpevolezza (10).

2.2 L'istituto della messa alla prova nel D.P.R. 448/88: natura giuridica, funzione e presupposti applicativi

Il D.P.R. 448/88 recante "Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di minorenni", ha introdotto nell'ordinamento italiano l'istituto della "sospensione del processo con messa alla prova del minore" (11).

Ai sensi dell'art. 28 comma 1, il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all'esito della prova disposta a norma del comma 2. Il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno.

Con l'ordinanza di sospensione il giudice dispone l'affidamento del minore ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi locali.

Durante questo periodo il minore sarà sottoposto ad una prova consistente in un progetto di carattere educativo, al termine del quale il giudice, tenendo conto del comportamento del minore e dell'evoluzione della sua personalità, ne valuterà l'esito e, in caso positivo, pronuncerà sentenza di estinzione del reato; in caso di esito negativo, il processo proseguirà il suo normale svolgimento (12).

L'istituto della "messa alla prova", così come quello del probation, dal quale deriva, non è facilmente inquadrabile in una specifica categoria di tipo dogmatico costituendo piuttosto un nuovo modo di interpretare e di trattare il crimine e il suo autore. Esso nasce infatti e si diffonde a seguito della progressiva erosione della concezione afflittiva e retributiva della pena e con la contestuale espansione dell'idea del carcere come extrema ratio (13).

Come sottolineato dalla dottrina "il fondamento ideologico che è alla base dell'istituto è legato ad una concezione utilitaristica della pena del tutto svincolata da ragioni etiche e finalizzata al raggiungimento di un obiettivo concreto: distogliere i consociati dal delitto" (14). Lo Stato, scegliendo di utilizzare l'istituto del probation, rinuncia alla pretesa punitiva con la prospettiva che il reo, collaborando in maniera fattiva durante la prova, non ricada nel delitto. Proprio la minore afflittività, la natura pattizia, le finalità preventive caratterizzano l'istituto ed hanno consentito a molti autori di trovarne il fondamento in una dimensione pragmatica e sostanziale più che giuridico-formale, dal momento che il significato più rilevante che gli si attribuisce è quello di guidare, assistere, consigliare (15).

Per molti aspetti la messa alla prova può essere ritenuta affine alle misure alternative alla detenzione pur distinguendosene, secondo il giudizio unanime della dottrina (16), per essere intrinsecamente finalizzata al recupero sociale e per i forti connotati educativi e di destigmatizzazione senza, tuttavia, tralasciare il profilo della responsabilizzazione del minore; aspetti che non si ritrovano nelle misure alternative più improntate alla rieducazione.

In tale ottica appare naturale il raffronto con l'istituto dell'"affidamento in prova al servizio sociale", con cui condivide non pochi aspetti rilevanti (17). Entrambi mirano alla decarcerizzazione dell'autore del reato ed alla sua sottoposizione ad una prova, la cui buona riuscita darà luogo alla conclusione della vicenda penale. Benché vi sia tale comune fattore finalistico i due istituti sono connotati da determinanti elementi distintivi in particolare in relazione ai presupposti ed agli esiti finali: la "sospensione con messa alla prova" è istituto di natura endoprocessuale che mira alla totale estinzione del reato (18), mentre l'"affidamento in prova" si colloca in fase esecutiva e mira alla estinzione della pena e degli effetti penali (19).

Nel nostro ordinamento, l'esito positivo della "messa alla prova" viene considerato come una causa di estinzione del reato tipica del processo minorile che, in quanto tale, comporta il venire meno della punibilità con la conseguente rinuncia dello Stato alla applicazione della pena e delle altre ulteriori conseguenze penali (20).

Proprio la profonda portata innovativa dell'istituto sia in termini di collocazione giuridica che di efficacia estintiva del reato in caso di esito positivo hanno determinato, sia nel dibattito precedente l'approvazione del DPR 448/88 che in sede di sua successiva applicazione, l'insorgere di dubbi di legittimità costituzionale (21).

Si è rilevato, anche in preminenti sedi istituzionali (22) che l'introduzione di una causa di estinzione del reato, avente natura propriamente sostanziale, avrebbe esulato dall'oggetto della legge delega, che prevedeva esclusivamente norme di carattere processuale. In particolare il Consiglio Superiore della Magistratura ha avanzato riserve circa la conformità della norma che prevede la dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della prova (art. 29 DPR 448/88) con la legge delega, il cui art. 3 lettera e) si limitava a prevedere la possibilità di sospendere il procedimento, senza tuttavia fare riferimento alla conseguente estinzione del reato.

Tali obiezioni sono state censurate dalla dottrina sul rilievo che connotati tipicamente sostanziali quali quelli propri della messa alla prova si ritrovano anche in altri istituti presenti nel codice di rito, come ad esempio, il giudizio abbreviato o il patteggiamento della pena (23). Parimenti, il silenzio dell'art. 3 lettera e) della legge delega, non esclude né rende costituzionalmente illegittima la norma ove essa preveda l'estinzione del reato in caso di suo esito positivo (24).

Tale esito processuale, infatti, è conseguenza, non solo logica, ma anche necessaria, del "dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore, anche ai fini dell'apprezzamento dei risultati degli interventi di sostegno", con facoltà di sospendere il processo a quel fine (25).

Tale attività di "valutazione" e "apprezzamento dei risultati" demandata al giudice deve necessariamente comportare, come logica conseguenza che in caso di esito positivo, si determinino effetti sulla stessa proseguibilità dell'azione penale e sull'estinzione del reato, come peraltro già previsto dall'ordinamento persino in casi non fondati su di una valutazione positiva della personalità (26). Deve ritenersi che siano queste le motivazioni che hanno impedito sinora pronunce di illegittimità costituzionale della norma così come il rigetto pressoché costante delle stesse eccezioni da parte dei giudici sia in sede di merito che di legittimità (27).

In particolare la Corte Costituzionale pur direttamente investita della questione, si è limitata, una prima volta, a dichiarare l'inammissibiltà dell'eccezione sollevata (Sent. n. 412/90). In un'altra occasione, la Corte chiamata a decidere sulla legittimità della sospensione anche in caso di richiesta di giudizio abbreviato ne ha confermato implicitamente la legittimità costituzionale (Sent. n. 125/1995). La Corte di Cassazione, da parte sua, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha dichiarato che l'estinzione del reato a seguito dell'esito positivo non si pone in contrasto né con la delega, né con l'art. 3 della Costituzione, poiché non dà luogo ad alcuna ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri istituti previsti in favore del minore (Sent. n. 844/1994) (28).

In realtà, il Dott. Scarcella, Presidente del Tribunale per i Minorenni di Firenze fino una decina di anni fa, nel corso di un'intervista, sostiene che l'istituto sia connotato da forti elementi di criticità (29). La messa alla prova così come è disciplinata dall'ordinamento italiano, infatti, inserisce l'istituto del probation all'interno del processo penale minorile, diversamente da quanto avviene negli altri ordinamenti che prevedono l'istituto, dove esso è applicato dopo la pronuncia della sentenza di condanna ed ha la funzione di sollevare il condannato dall'obbligo di eseguire la pena. Nel nostro ordinamento, infatti, nei confronti di imputati minorenni viene imposta una misura restrittiva della libertà personale, che prevede la sottoposizione a certi obblighi e l'astensione da certi comportamenti, nonché la vigilanza di un organismo penale quale il servizio sociale, in una fase in cui non è stata pronunciata alcuna sentenza di condanna. Ed anche se al minore, come si vedrà in seguito, viene riconosciuta la possibilità di rifiutare la prova, sostiene il dott. Scarcella, il semplice fatto che si contempli la possibilità, sia pure sottoponendola al consenso (30) dell'imputato, di infliggere un trattamento sanzionatorio a chi al termine del processo potrebbe risultare estraneo al fatto contestatogli, è in contrasto con il principio di presunzione di innocenza dettato dall'articolo 27 comma 2 della Costituzione.

Ribadisce ancora il Dott. Scarcella, la Corte Costituzionale, non si è mai pronunciata sulla legittimità della messa alla prova, perché non è mai stata investita direttamente al riguardo, neanche in termini di incostituzionalità dell'istituto rispetto all'art. 27 comma 2 della Costituzione. Appare evidente infatti che mentre il principio di presunzione di innocenza è rispettato totalmente nel caso degli adulti, esso non è affatto rispettato per i minori. Nella stessa fondamentale Sent. 125/95, la Consulta si limita a inserire la messa alla prova "nell'ambito degli istituti di favore tipici del processo penale a carico dei minorenni", definendola "uno strumento particolarmente qualificante, che, forse più di ogni altro, risponde alle indicate finalità della giustizia minorile".

"Il diritto al processo", conclude il Dott. Scarcella, "per ogni individuo accusato di reato è costituzionalmente garantito ed irrinunciabile: anche il reo confesso non viene direttamente condannato" (31).

Certamente si è di fronte ad una critica dotata di un certo fondamento, rispetto alla quale si può aggiungere, però, che il tribunale per minorenni dispone la messa alla prova soltanto quando esistono prove consistenti in ordine alla colpevolezza dell'adolescente imputato e sempre con il suo consenso. Quest'ultimo è ritenuto da taluni autori, come vedremo, fondamentale, perché serve a far sì che il minore si senta realmente protagonista della misura propostagli dal giudice, vivendola non come un'imposizione ma come una scelta consapevole (32).

Problemi di natura interpretativa sorgono anche nel caso di esito negativo della prova in conseguenza del cui verificarsi la legge prevede che il giudice prosegua il processo e pronunci sentenza di merito. In dottrina una parte minoritaria degli autori (33) ha ritenuto che, in questo caso, possa esservi unicamente una sentenza di condanna o, al massimo, l'applicazione di una pena sostitutiva, in quanto trattandosi comunque di minore imputabile non sarebbe possibile adottare formule diverse e perché ciò dovrebbe rappresentare la corretta reazione dell'ordinamento per la mal riposta e non ricambiata fiducia da parte del minore. La prassi applicativa e la giurisprudenza vanno tuttavia in una diversa direzione. In particolare la giurisprudenza prevalente ritiene possibili altri esiti tra cui il perdono giudiziale, la pronuncia di irrilevanza del fatto, l'assoluzione (34).

L'introduzione dell'istituto, come già in precedenza ricordato, discende dai precetti costituzionali e dalle norme internazionali volti ad assicurare al minore la destigmatizzazione, la minore afflittività, la valorizzazione delle esigenze educative e risocializzanti, senza, tuttavia trascurare l'esigenza di difesa sociale (35).

Già dalla immediata lettura della norma appare subito chiaro che la "sospensione del processo con messa alla prova" si configura come istituto "aperto", che può essere riempito di contenuti differenti, adattati al caso concreto (36). Il legislatore della riforma, infatti, ha lasciato ampi margini all'interpretazione e all'applicazione giurisprudenziale, proprio nell'intento di realizzare una maggiore duttilità nell'utilizzo dell'istituto (37). Per tale ragione non sono previsti limiti applicativi oggettivi, applicandosi sia ai casi di contravvenzioni che di delitti, a prescindere dalla loro gravità (38). Parimenti non vi sono limiti soggettivi, essendo irrilevanti i trascorsi criminali del minore soggetto a prova, che può essere tanto un imputato incensurato che un recidivo (39).

Questa flessibilità, da alcuni autori definita addirittura "eccessiva indeterminatezza legislativa" (40), ha sollevato molte critiche tanto da parte della dottrina contraria allo stesso istituto (41) che di coloro che pur condividono la scelta normativa (42).

Non appare esservi dubbio sul fatto che la messa alla prova non debba in nessun caso avere come obiettivo la conoscenza della personalità del minore, la cui valutazione dovrà al contrario precedere l'eventuale applicazione e ne costituirà pertanto presupposto. Parimenti dovrà costituire attività preliminare l'accertamento e la valutazione della capacità di intendere e di volere (43) che in caso di esito negativo non potrà condurre alla applicazione della "messa alla prova".

A fronte del carattere aperto e non rigidamente predeterminato della norma ed in considerazione dell'impossibilità di far ricorso ad un corrispondente od analogo istituto del codice di procedura penale - non essendo previsto nel processo a carico di imputati maggiorenni - sono stati dati dei contenuti specifici in sede di prassi applicativa, di interpretazione giurisprudenziale, nonché da parte della Corte Costituzionale e di importanti contributi della dottrina che si è occupata della materia.

I più attenti autori, in particolare, hanno individuato nel consenso dell'imputato, nel previo accertamento delle sue responsabilità e nell'esame preliminare della personalità i presupposti essenziali della sospensione per la "messa alla prova" (44).

La partecipazione consensuale dell'imputato alla sospensione del processo ed alla "messa alla prova" è questione dibattuta. Secondo alcuni autori il consenso è ritenuto "presupposto indefettibile della sospensione, senza il quale la stessa si porrebbe come una sorta di trattamento penale di generico contenuto rieducativo, deciso arbitrariamente dal giudice", destinato a sicuro insuccesso (45). La partecipazione all'attività rieducativa è per il soggetto minorenne un diritto ed un onere strumentale all'ottenimento di determinati vantaggi, non potendosi pertanto configurare come un obbligo. Per tale motivo nessuna forma di messa alla prova è immaginabile contro la volontà dell'imputato o escludendolo dalla fase di formazione del progetto (46). L'interpretazione trova conferma nell'art. 11 comma 3 delle "Regole Minime per l'Amministrazione della Giustizia Minorile" adottate dall'Assemblea Generale nel 1985 (47), il quale prevede che "il ricorso a misure extragiudiziare che implicano l'affidamento ai servizi della comunità o ad altri, richiede il consenso del giovane ...".

In tal senso deve altresì interpretarsi la previsione dell'art. 28 comma 1, del DPR 448/88 che impone al giudice di sentire il minore e, in mancanza di suo esplicito consenso, gli attribuisce la facoltà di interpretare la volontà del minore di aderire al progetto anche in forma di consenso tacito. La posizione è confermata da una Sentenza della Corte Costituzionale, la quale, incidentalmente affronta la questione del consenso del minore non ritenendolo indispensabile essendo sempre possibile per il minore, nei cui confronti il giudice abbia dato corso alla misura, male interpretando la sua volontà, fare ricorso contro l'ordinanza di sospensione (48).

Il secondo presupposto, costituito dal previo accertamento della responsabilità del minore, implica la necessità di una confessione da parte del minore che, secondo alcuni autori, deve sempre accompagnare il consenso alla prova.

Sebbene la gran parte degli interpreti ritenga determinante l'elemento del consenso del minore, non altrettanto può dirsi circa la necessità di una vera e propria confessione. Nel silenzio della legge si ritiene sufficiente un accertamento del giudice allo stato degli atti, della responsabilità del minore per il fatto commesso.

Un primo orientamento ritiene che la confessione anticiperebbe la decisione sul merito (49), senza la certezza che poi il giudice disponga la misura (50); di contro altri autori hanno sostenuto che legittimamente la richiesta di confessione rappresenti semplicemente un invito alla responsabilizzazione e alla presa di coscienza da parte del minore, elementi indispensabili perché si possa ritenere che un effettivo cambiamento si possa realizzare per effetto della messa alla prova (51).

E' comunque pacifico che, pur prescindendosi dalle dichiarazioni dell'imputato, il giudice debba essere in possesso di elementi sufficienti a non far ritenere l'accusa infondata per poter disporre la sospensione. Non sarebbe prevedibile un'evoluzione della personalità in termini positivi nel caso di imputato che, pur colpevole, neghi la propria responsabilità e le ragioni della vittima, prestandosi alla "messa alla prova" per pura convenienza o timore della pena. Allo stesso modo effetti negativi scaturirebbero nel caso di imputato innocente che, proprio per questo, necessariamente respinga gli addebiti che gli vengono mossi. In merito alla questione relativa alla necessarietà di un giudizio di responsabilità penale del minore, è intervenuta, incidentalmente la Corte Costituzionale, confermando gli orientamenti di dottrina e giurisprudenza (52).

Il terzo presupposto è rappresentato dall'accertamento sulla personalità del minore, finalizzato secondo il dettato dell'art. 9 dello stesso D.P.R. 448/88 all'acquisizione di "elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali ed ambientali del minorenne" allo scopo di ".... disporre le adeguate misure penali" che possono determinare, per esplicita previsione della norma non solo il grado di responsabilità, ma addirittura l'accertamento della stessa imputabilità del minore.

La messa alla prova è correlata alla verifica circa la sussistenza della capacità di intendere e di volere in relazione al fatto contestato (53), pena la violazione dei principi di legalità e di presunzione di non colpevolezza. Pertanto, non si ricorrerà alla messa alla prova, ogni qualvolta ricorrano le condizioni per l'emanazione di un provvedimento di archiviazione o sussistano cause di non punibilità, oppure sia applicabile il perdono giudiziale o nel caso in cui l'imputato sia prosciolto per irrilevanza del fatto (54).

L'accertamento della personalità, inoltre, rappresenta il mezzo attraverso il quale il giudice può comprendere i trascorsi e le condizioni di vita del minore, anche al fine di individuare le risorse personali, familiari, ambientali nell'ottica di una positiva realizzazione della messa alla prova.

L'accertamento è lasciato all'ampia valutazione discrezionale del giudice che, nel caso rilevi un sufficiente grado di maturità, ha facoltà di concedere la misura, ritenendola corretta ed opportuna rispetto ad altre formule processuali, quali il perdono giudiziale (55) e il proscioglimento per irrilevanza del fatto (56), valutando come già avvenuta e sufficiente la presa di coscienza da parte del minore circa il reato (57).

L'indagine del giudice deve avere ad oggetto non la mera e astratta possibilità che si verifichi la maturazione nel minore, ma una valutazione probabilistica (58) sulla formazione del soggetto e sulla evoluzione della personalità verso modelli socialmente adeguati (59).

Da quanto sopra deriva che il giudice potrà escludere la messa alla prova soltanto nel caso in cui la scelta deviante appaia intrinsecamente radicata nel minore o il contesto ambientale in cui lo stesso vive sia così degradato da non consentire un suo ravvedimento; oppure se dalle circostanze del reato e dalla personalità dell'imputato emerga, comunque, l'estraneità della condotta deviante dallo stile di vita del minore, al punto di non ritenere appropriata la sottoposizione alla misura.

Nonostante il fine dell'istituto e la flessibilità dei suoi limiti inducano a ritenere che esso debba trovare una naturale ed ampia applicazione, la realtà testimonia un uso parsimonioso della messa alla prova, dovuto ad una diffusa convinzione dei giudici e della stessa dottrina che sia preferibile, nell'interesse del minore stesso, una risposta certa e attuale rispetto ad una misura legata ad una serie di incertezze (60).

2.3 Le Fasi processuali di applicazione: udienza preliminare, dibattimento, giudizio d'appello

L'ordinanza di sospensione del processo finalizzata alla messa alla prova del minore può essere disposta dal Tribunale fin dalla fase preliminare del processo e non oltre la fase dibattimentale, (61); sul punto vi è una concordanza di giurisprudenza e dottrina anche se correttamente è stato sottolineato che "il luogo (...) elettivo sia l'udienza preliminare, per ragioni di celerità processuale, di vicinanza temporale dell'udienza al fatto di reato e di complesso di poteri di cognizione del giudice" (62). Non sono mancati in dottrina alcuni orientamenti propensi a ritenere possibile che la sospensione possa essere disposta anche in un momento precedente all'esercizio dell'azione penale, in contrasto tuttavia con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, oppure dopo la chiusura della fase processuale e pertanto in esecuzione della pena, con distorsione in tal caso della chiara natura endoprocessuale dell'istituto.

E' escluso che si possa dar corso alla sospensione in fase di indagini preliminari, "non tanto e non solo per gli argomenti che si potrebbero trarre dagli artt. 29 c.p.p.m. e 27 disp. Att., ma per l'ovvia incompatibilità del g.i.p (il caso dell'irrilevanza costituisce una chiara eccezione) a dar luogo a provvedimenti definitori" (63).

Una specifica riflessione va fatta in relazione al giudizio abbreviato o immediato. Per tali casi l'art. 28 comma 4 del DPR 448/88 disponeva la inapplicabilità della sospensione del processo sul presumibile presupposto che la richiesta del giudizio abbreviato, esprimendo una preferenza dell'imputato alla definizione del giudizio, rappresentasse una forma di dissenso implicito verso la messa alla prova. La disposizione, anche in conseguenza della sua lettura restrittiva operata dalla Corte di Cassazione, è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale da parte del Tribunale di Catania che, in funzione di giudice per l'udienza preliminare, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 comma 4, per violazione degli art. 3 comma 1, art. 31 comma 2 e art. 24 comma 2 della Costituzione, nella parte in cui escludeva che si potesse disporre la sospensione del processo e la "messa alla prova" nel caso in cui l'imputato avesse richiesto il giudizio abbreviato in seguito a decreto di giudizio immediato, disposto su istanza del pubblico ministero. La decisione del Pubblico Ministero di chiedere il giudizio immediato, indipendentemente da considerazioni attinenti alla personalità del minore imputato, collocavano quest'ultimo, secondo il giudice a quo, in una situazione ingiustamente pregiudizievole. Il minore, nel caso di specie, si trovava obbligato a scegliere il giudizio abbreviato per assicurarsi una riduzione della pena, rinunciando alla possibilità di essere messo in prova, oppure ad accettare il giudizio immediato nella speranza che il giudice reputasse opportuno sospendere il processo per disporre la "messa alla prova".

La Corte Costituzionale con la fondamentale Sentenza n. 125 del 14/04/1995, in accoglimento dell'eccezione sollevata dal giudice rimettente ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 28, comma 4 del DPR 448/88 nella parte in cui prevede che la sospensione non possa essere disposta qualora l'imputato chieda il giudizio abbreviato o il giudizio immediato.

Un tema rilevante sia dal punto di vista teorico che dell'applicazione è rappresentato dalla possibilità di utilizzazione di questo istituto nel giudizio di appello. Non pochi autori (64), hanno sostenuto che il giudice dell'appello non avrebbe l'autonomo potere di disporre la "messa alla prova", salvo che l'imputato, nel corso del giudizio di primo grado, ne abbia fatto espressa istanza, vedendosela rigettata, ed abbia contestato il diniego in sede di impugnazione.

Le ragioni di una tale opinione troverebbero sostegno nella natura pattizia dell'istituto, che esclude ogni applicazione successiva alla definizione del merito del giudizio, benché la decisione non sia ancora divenuta definitiva (65).

La Corte di Cassazione, chiamata ad intervenire sulla questione, ha indicato alcuni rilevanti punti fermi interpretativi. In primo luogo è stata affermata la non autonoma impugnabilità del provvedimento con il quale il giudice nega la sospensione del processo, sul presupposto che qualsiasi contestazione ed eccezione relativa al diniego debba essere espressamente sollevata in contestualità ai motivi di appello della sentenza (66).

La Suprema Corte ha altresì stabilito che il giudice d'appello avrà facoltà di disporre la sospensione solo nel caso in cui il giudice di primo grado abbia erroneamente omesso l'indagine sulla personalità del minore e abbia ingiustificatamente rifiutato la sospensione del processo (67).

La Suprema Corte ha comunque precisato che la mancata eccezione in punto di istanza di sospensione del processo per dare luogo a "messa alla prova" nel corso del giudizio di primo grado e la mancata deduzione come vizio della decisione di primo grado, rende inammissibile la richiesta formulata per la prima volta nel giudizio di appello" (Sez. II, 8/07/1992, in Cassazione Penale, 1994, p.1014) (68).

Qualora la messa alla prova si concluda con un esito giudicato negativamente, il processo riprenderà dal punto in cui era stato sospeso. E' pertanto facoltà dell'imputato e del Pubblico Ministero, preso atto di tale esito, valutare la più opportuna scelta processuale da operare (69).

2.4 Organi e soggetti della messa alla prova

La "messa alla prova" necessita per la sua realizzazione del coinvolgimento di diversi organi e della sinergia di più soggetti processuali: giudice, Pubblico Ministero, servizi (giudiziari e locali), difensore, imputato.

Ruolo senz'altro preminente è quello dei servizi sociali per i minorenni, struttura amministrativa del Ministero della Giustizia, chiamata ad una funzione di "mediazione giudiziaria" ed a svolgere attività di raccordo tra tutte le parti interessate (70). Ad essi si affiancano, in una collaborazione prospettata dal legislatore stesso, i servizi dell'ente locale.

La riuscita della "sospensione con messa alla prova" è strettamente legata alla capacità dei servizi, giudiziari e locali, di interagire nella vicenda processuale con gli altri organi e soggetti; su di essi grava il compito di dare avvio e contenuto all'istituto, attraverso la formulazione di uno specifico progetto di prova .

Il giudice che dispone la messa alla prova in sede di udienza preliminare o di udienza per il dibattimento, a seconda della fase in cui sarà disposta la sospensione, ha facoltà di pronunciarla anche d'ufficio oltre che su richiesta del Pubblico Ministero, dell'imputato, del difensore o su proposta degli esercenti la potestà genitoriale e dei servizi del ministero.

È in primo luogo al giudice che è demandato il compito di comprendere se le condotte espressione del disagio minorile, comprese quelle che abbiano già rilevanza penale, possano consentire di avviare un percorso di responsabilizzazione (71).

Il giudice minorile ha natura collegiale e composizione mista: il membro togato, al quale sono richieste soprattutto competenze giuridiche, è affiancato dal giudice onorario che, per la sua formazione specifica ha, da un lato il compito di fornire al collegio gli strumenti per una migliore comprensione delle ragioni e delle situazioni personali, ambientali e relazionali, che spesso sono determinanti per la interpretazione della vicenda che ha originato il reato e il processo; dall'altro gli è attribuito il delicato ruolo di supervisione e controllo durante lo svolgimento della prova che attua attraverso verifiche periodiche tra minore (servizi, genitori, difensore) e autorità giudiziaria (72).

L'art 27 comma 4 delle disposizioni di attuazione prevede che per tutte le attività ordinamentali, di indirizzo, stimolo e confronto il punto di riferimento sia rappresentato dal presidente del collegio (73), al fine di evitare il continuo coinvolgimento dell'intero organo giudiziario per questioni di non particolare rilevanza o delicatezza. Si tratta di una attività ritenuta fondamentale in considerazione del fatto che la presenza e la partecipazione di uno dei componenti del collegio che ha disposto la misura e concesso fiducia costituisce per il minore un costante richiamo all'importanza ed alla serietà dell'esperimento a cui è sottoposto. Spesso nella prassi tale ruolo di supervisione viene delegato ad un giudice onorario, il quale nel suo ruolo di raccordo e mediazione, da un lato, e di richiamo e di ammonimento dall'altro, non può dismettere i panni del giudice a favore di quelli di educatore e psicoterapeuta, rischio che si potrebbe verificare soprattutto in occasione delle sospensioni più lunghe con una sovrapposizione di ruoli foriera di possibili disorientamenti nei soggetti che ad esso si rivolgono in quanto giudice (74).

Nel caso di prove che si protraggono nel tempo può accadere che venga meno la composizione collegiale originaria, per scadenza di mandato di uno o di entrambi i giudici onorari. Si tratta di una questione applicativa di non poco conto sulla quale vi è consenso nel ritenere che, nel caso in cui debbano essere compiuti atti istruttori, dovrà valere il principio della necessaria rinnovazione, salvo che non vi sia consenso dell'imputato alla piena utilizzabilità degli atti e salvo l'acquisizione dei verbali di prova assunti nel dibattimento, per effetto del combinato disposto degli artt. 238 e 551 bis c.p.p.

Al contrario, la valutazione della prova, costituendo attività di natura non processuale, non si ritiene che possa essere influenzata in conseguenza della modificata composizione del collegio che dovrà semplicemente valutare un fatto che resta al di fuori del processo.

In seguito alla sospensione del processo il servizio minorile dell'amministrazione della giustizia, diretto referente del giudice, in collaborazione con i servizi istituiti dagli enti locali, prende in affidamento il minore con il quale deve avviare le opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno (art. 28 comma 2 DPR 448/88). Spetta, ancora, al servizio ministeriale la ricerca degli strumenti che struttureranno il progetto di prova adeguato al singolo minore, in un contesto concreto. Questo implica la necessità di poter utilizzare le capacità e competenze dei servizi territoriali la cui collaborazione risulta tanto più efficace quanto più i minori sottoposti a prova siano già da essi conosciuti (circostanza che in concreto, soprattutto con riferimento ad alcune realtà territoriali può risultare di difficile attuazione (75)).

Il servizio ministeriale oltre ad essere chiamato alla predisposizione del progetto di "messa alla prova" è tenuto a svolgere, per tutta la durata della sospensione, una valutazione sulla personalità del minore e dovrà presentare al Pubblico Ministero e al Presidente del collegio, una "relazione sul comportamento del minorenne e sull'evoluzione della sua personalità" (art. 27, comma 5 Disp. Att.). Nelle ipotesi di prova che abbiano una lunga estensione temporale il servizio può ritenere che sia opportuno modificare o integrare il progetto iniziale o addirittura prevederne l'abbreviazione. In questi casi, tuttavia, esso non ha facoltà di apportare unilateralmente delle modifiche, essendo tenuto a darne tempestiva comunicazione al giudice che, sulla base delle proprie motivate valutazioni, provvederà di conseguenza. Parimenti è onere dei servizi, nelle ipotesi di gravi e ripetute trasgressioni, sottoporre e sollecitare al giudice la revoca del provvedimento (art. 27 comma 3 Disp. Att.).

Il servizio è altresì tenuto a rendere periodicamente conto degli sviluppi della prova nonché a redigere una relazione conclusiva il cui contenuto assume una rilevante importanza, potendo condizionare l'esito stesso della prova e far presagire la formale decisione giudiziale (76).

E' auspicabile che la relazione sia redatta in collaborazione con il servizio dell'ente locale interessato, dovendo offrire un quadro completo dei risultati raggiunti dal minore, sia sotto il profilo della qualità dell'adesione al progetto desumibile dal suo comportamento, sia dal punto di vista degli effetti che la prova ha avuto sul processo evolutivo della personalità del minore, avvalendosi se necessario anche del contributo di professionalità specifiche.

E' stata prospettata la possibilità che i servizi ministeriali predispongano autonomamente un progetto di "messa alla prova", concordandolo con il minore, per poi sottoporlo al giudice in udienza. Alcuni autori escludono la correttezza di una tale procedura argomentando che, nel caso in cui il giudice dovesse discostarsi dal progetto e ritenere di dover applicare il perdono giudiziale, il proscioglimento o assoluzione per incapacità di intendere e di volere, si determinerebbe una non positiva frustrazione delle aspettative che il progetto necessariamente aveva ingenerato del minore (77). E' compito dei servizi, valutata la personalità dell'imputato e la natura del reato, fornire al giudice ogni elemento utilizzabile al fine di adottare la più opportuna decisione in merito alla sospensione, sulla base di un programma dagli stessi servizi predisposto.

Non meno rilevante è il ruolo del difensore che, in virtù della vocazione spiccatamente educativa dell'ordinamento processuale minorile, dovrà essere dotato di specifica preparazione nel diritto minorile. In tale processo il difensore è chiamato ad adempiere, oltre alle normali funzioni riconnesse all'esercizio dell'assistenza tecnica, anche il compito di supportare una personalità in evoluzione e pertanto da tutelare nei confronti degli effetti stigmatizzanti connaturati alla vicenda penale.

Tale ruolo diviene ancora più importante nel caso di sospensione del processo con messa alla prova, dovendo il difensore valutarne l'adeguatezza ed opportunità nel preminente interesse del minore.

Rispetto alla messa alla prova, inoltre, il difensore può essere chiamato a supportare l'attività di riavvicinamento del minore autore del reato alla persona offesa, utile per favorire il processo di maturazione del giovane e, al contempo, ad avviare quelle azioni conciliative e riparatorie richieste ai fini dell'ottenimento di un trattamento sanzionatorio meno severo (78).

Non meno importante, inoltre, è la funzione d'indirizzo del difensore nel prospettare all'imputato le strategie difensive più opportune nella scelta dei riti alternativi che devono essere sempre armonizzate con le specifiche caratterizzazioni del processo minorile in chiave di esperienza rieducativa.

2.5 Il Progetto di intervento di messa alla prova e tipologie di prescrizioni

La sospensione del processo è disposta "sulla base di un progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi socio assistenziali degli enti locali" (art. 27 disp. att.).

Nell'elaborazione del progetto di "messa alla prova", giudice e servizi hanno ruoli e competenze ben distinte. Contrariamente a quanto avviene per l'affidamento in prova (probation penitenziario), il programma a cui il minore dovrà sottoporsi è predisposto dai servizi restando facoltà del giudice dare le indicazioni ritenute rilevanti circa la durata e il coinvolgimento di professionalità o di servizi particolari (psicologi, SERT, ecc.) (79), mantenendosi pertanto un controllo giurisdizionale anche della fase di formazione del progetto.

Nel caso in cui i servizi incaricati ritengano che non vi siano le condizioni per predisporre un progetto, ne daranno conto al giudice che ha facoltà di disporre ulteriori approfondimenti senza tuttavia poter imporre autonomamente un progetto.

In merito al contenuto del progetto di intervento l'art. 27 delle disp. d'attuaz. al comma 2 fornisce unicamente alcune indicazioni generali da cui sono stati estrapolati alcuni principi applicativi. Secondo una attenta dottrina (80), il progetto di intervento deve essere ragionevole e pienamente comprensibile al minore; concreto, cioè non far riferimento a stati d'animo, a sentimenti, a disponibilità; positivo, nel senso che dovrà esplicitamente indicare quali comportamenti il minore dovrà attenersi; fattibile, cioè dovrà tenere conto delle circostanze e dell'ambiente nel quale si svolgerà. Il progetto dovrà al tempo stesso essere rigoroso e flessibile, prevedere una serie di impegni e contemplare la possibilità che essi siano modificabili. Dovrà, infine, identificare un percorso verificabile nelle fasi di avanzamento oltre che al suo esito. Salvo che nel corso di ordinarie verifiche estranee alla "messa alla prova" non si evidenzino condotte incompatibili con la misura.

Ai sensi dell'art. 27 disp. d'attuaz. il progetto deve contenere modalità dirette al coinvolgimento, oltre che del minore anche della sua famiglia e del sistema di relazioni rendendoli partecipi del disagio che il minore ha manifestato con la commissione del reato, al fine di facilitare il rispetto degli impegni assunti e ricreare una rete di controllo sociale spontaneo.

La Giurisprudenza ha ritenuto che tali indicazioni abbiano la natura di vere e proprie "prescrizioni" (81) anche in considerazione del fatto che, come affermato dalla Corte Costituzionale nella Sentenza 125/1995 "il legislatore non ha condizionato il provvedimento del giudice alla prestazione del consenso da parte del minore".

La gran parte della Dottrina, invece, in linea con l'idea che il progetto di "messa alla prova" abbia natura consensuale, ritiene che il carattere di impositività mal si concilierebbe con l'adesione volontaria del minore al progetto e ancora meno si concilierebbe con la funzione/finalizzazione educativa assegnata al progetto e all'istituto nel suo complesso (82).

A sostegno della natura pattizia della "messa alla prova" viene addotta, inoltre, l'esigenza di tutela del diritto di difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione, che sarebbe compromesso se il giudice potesse imporre la misura privando l'imputato della possibilità di ottenere un proscioglimento nel merito.

Gli impegni specifici che il minore assume con l'adesione al progetto, vengono individuati in base alla sua personalità, alle sue esigenze e capacità, nonché al reato commesso.

La legge prevede come potenziale contenuto del progetto prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione con la persona offesa (83). L'art. 28 comma 2 c.p.p.m. dispone che "Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato". Attraverso tali previsioni il codice penale minorile ha fatto propria una visione già tipica dei precedenti ordinamenti secondo la quale l'autore del reato, per beneficiare di un trattamento che lo sottragga in tutto o in parte alla effettività della pena e delle altre conseguenze del reato, dovrà attivarsi per rimediare all'offesa arrecata alla vittima del reato. Adoperarsi per la riparazione del torto arrecato soddisfa, da un lato, le aspettative della persona offesa "riducendo lo strappo sociale" (84) e, dall'altro, consente all'autore dell'illecito una positiva elaborazione del fatto reato.

I contenuti del progetto di prova possono essere vari. E' possibile alternare prescrizioni formali finalizzate ad esigenze di controllo sociale (ad esempio obblighi negativi quali il divieto di frequentare determinate persone o luoghi o di rientrare dopo un'ora stabilita); prescrizioni indirizzate alla conciliazione con la parte offesa o di natura riparatoria; prescrizioni curative, legate a patologie del minore, che prevedano la sottoposizione a trattamenti sanitari, psichiatrici o disintossicanti; prescrizioni "positive" riguardanti obblighi di studio o di lavoro (85) (ad esempio la frequenza della scuola o di corsi di formazione professionale, attività di apprendistato o di lavoro).

Secondo la dottrina prevalente "il modello italiano in materia di prescrizioni è sostanzialmente di natura giurisdizionale, nel senso che il provvedimento di sospensione recepisce le prescrizioni, sulla base del progetto di intervento concordato tra servizi sociali e minorenne, progetto che quest'ultimo si è impegnato ad osservare" (86).

Spesso le difficoltà di funzionamento e di coordinamento fra i servizi e, in qualche caso, la totale assenza di servizi dell'ente locale, hanno dato luogo a prassi distorte o ad abusi dello strumento tali da compromettere il buon andamento della prova con conseguente revoca, in alcuni casi della misura adottata. Non mancano casi in cui la sospensione ex art. 28 sia stata adottata nella errata convinzione che la stessa rappresentasse, di per sé, la soluzione dei problemi insorti (87), pertanto senza che i servizi predisponessero, per l'udienza finalizzata all'adozione del provvedimento, alcun progetto o senza averne vagliato la effettiva praticabilità.

2.6 Criteri applicativi della messa alla prova. Proroga e revoca

Si sostiene in dottrina che "il presupposto fondamentale per l'adozione della misura della "messa alla prova" consiste nell'esistenza di una situazione evolutiva tale .... da far presumere che, con l'eventuale ausilio di interventi di sostegno, la situazione possa evolversi in senso positivo così da consentire infine la rinuncia dello Stato alla punizione del reo, senza rischi per la sicurezza sociale e sicuro vantaggio per il minore e per l'intera collettività" (88).

In quest'ottica quindi la scelta di sottoporre il minore alla prova deve essere valutata alla luce delle potenziali risorse positive del ragazzo, indipendentemente dalla tipologia del reato e dalle imputazioni contestate o dai precedenti penali già a suo carico.

La funzione della "messa alla prova" è sicuramente di natura rieducativa o (come sostengono alcuni autori) educativa, anche se non manca un richiamo ad una logica retributiva, con la previsione di limiti di durata diversificati a seconda dei reati commessi dal minore, così che più grave è il reato commesso, più lungo è il periodo massimo di sottoposizione a prova (89).

Vi è un diffuso convincimento della possibilità di reiterazione della messa alla prova nei confronti dello stesso minore, sia nel caso di pluralità di misure adottate nel tempo, sia nel caso di misure che vengano a sovrapporsi in quanto inerenti ad imputazioni differenti contestate relativamente allo stesso reato; ciò è previsto a garanzia di minori che, fortemente compromessi dalla devianza per situazioni ambientali e vissuti personali, non possano usufruire di altre misure indulgenziali (90).

Molte perplessità sono sollevate rispetto all'applicabilità dell'istituto nei confronti di minori appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso poiché, in tali casi il recupero del minore dovrebbe realizzarsi in un ambiente profondamente compromesso e fonte esso stesso di condotte contrarie alle finalità proprie della "messa alla prova" (91).

Come già osservato, lo svolgimento della prova è monitorato dai servizi che sono chiamati ad intervenire nel caso in cui eventi imprevisti possano interferire nel corso della prova, deviandone o modificandone il percorso. Per questo è possibile che il giudice disponga modifiche al progetto iniziale, ove riscontri che non sia più coerente con le finalità individuate in sede di concessione della misura. Possono essere infine previste abbreviazioni dei termini, quando si ritenga raggiunto il grado di maturazione richiesto.

La valutazione della prova spetta al giudice che deciderà "tenendo conto del comportamento del minore e dell'evoluzione della personalità". All'esito pronuncerà sentenza con cui verrà disposta l'estinzione del reato oppure ordinanza di prosecuzione del procedimento interrotto al momento della sospensione. Anche in questa fase appare imprescindibile una collaborazione con i servizi (ministeriali e locali) i quali hanno seguito il minore nel percorso disegnato.

Anche in punto di esito finale della prova, le indicazioni generiche della norma sui criteri per valutarne in concreto i risultati comportano il necessario rinvio all'art. 9 DPR 448/88, già operato in sede di concessione della misura e pertanto il ricorso ad ogni più ampio accertamento sulla personalità del minore, ivi incluse le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali ed ambientali.

La legge affida al libero apprezzamento del giudice l'adozione delle azioni e decisioni più opportune nelle ipotesi di violazione o inosservanza delle indicazioni contenute nel progetto e qualora non si siano realizzati i progressi ipotizzati in sede di concessione della misura. Al giudice non è prefissato un termine entro il quale egli debba fissare l'udienza per la verifica della prova, dandosi generica disposizione che ciò avvenga una volta "decorso il periodo di sospensione" (92).

Nel corso della prova può presentarsi la necessità o anche solo l'opportunità di adottare modifiche al progetto che, se di natura non sostanziale, potranno essere disposte dal presidente o dal giudice delegato, su indicazione dei servizi, senza necessità di investire il collegio. Nel caso invece di modifiche sostanziali, dovrà essere investito il collegio attraverso la fissazione di una specifica udienza con il pieno rispetto del contraddittorio (93), anche in considerazione del fatto che le modifiche che s'intende apportare potrebbero rivelarsi incompatibili con la prosecuzione della prova.

In ipotesi di "ripetute e gravi trasgressioni", su segnalazione del servizio affidatario, il provvedimento di sospensione può essere revocato garantendo comunque al minore il diritto di dar conto delle proprie condotte e di rendere dichiarazioni in contraddittorio. La legge prevede che possa disporsi la revoca solo nel caso di trasgressioni plurime e qualificate. Secondo alcuni autori (94) dovrebbe trattarsi di più trasgressioni giudicate gravi e da valutare singolarmente rendendo pertanto ininfluente la loro sommatoria ai fini della revoca. Questa visione non sembra condivisibile (95), sia per ragioni di stretta interpretazione che di logica complessiva. La "messa alla prova", infatti, non viene disposta al fine di verificare la capacità del minore di rispettare i patti né per effettuare una valutazione statica della personalità ma al fine di indurre il soggetto ad una evoluzione positiva della stessa. Tale valutazione avverrà al termine del periodo di prova, salvo i casi in cui su segnalazione dei servizi di gravi e ripetute trasgressioni non si anticipi la decisione di revoca, stante l'inutilità della prosecuzione della prova e lo stesso potenziale pregiudizio sulla personalità del minore. Salvo violazioni intrinsecamente gravi e tali da far apparire inopportuna la prosecuzione della prova, essa deve proseguire fino alla fine, in modo che il giudice possa valutare se le trasgressioni, gli allentamenti di interesse, la superficialità e gli sbandamenti non abbiano compromesso lo scopo dell'istituto.

Le trasgressioni che possono dare luogo a revoca o che comunque devono essere prese in considerazione ai fini della valutazione complessiva della prova, possono riguardare la mancata presenza agli appuntamenti, la sottrazione alle prescrizioni riparatorie, l'interruzione della frequenza scolastica; possono essere altresì inerenti alla qualità dell'adesione al progetto di "messa alla prova", come ad esempio nell'ipotesi di svalorizzazione dell'intervento dei servizi e delle figure istituzionali o di sottrazione all'osservazione. Anche la violazione della legge penale nel corso della prova potrà comportare la revoca o un esito negativo della stessa. Non è infrequente che l'udienza finale di valutazione della prova venga disposta anche molto tempo dopo la conclusione del periodo di prova e che in questo lasso di tempo, il minore torni a violare la legge. Se si ritiene che la valutazione della prova abbia lo scopo di verificare l'evoluzione positiva della personalità del minore, potrebbe sostenersi che, ricadendo fuori dal periodo di osservazione, la nuova violazione dovrebbe essere ininfluente sul giudizio finale. Diversamente se si reputa che la prova debba mirare a verificare il grado di maturazione e l'evoluzione della personalità, di fronte alla commissione di un nuovo reato non potrebbe considerarsi come raggiunto il risultato richiesto. Questione dibattuta è quella relativa alla possibilità o meno di computare il periodo di prova trascorso prima della revoca o dell'esito negativo ai fini della pena che venga eventualmente inflitta (96).

Diversamente dall'affidamento in prova al servizio sociale, per il quale la stessa Corte Costituzionale ha confermato la possibilità della sua computazione ai fini del calcolo della pena (97), la "messa alla prova" è istituto di scopo volto ad evitare la condanna e, non costituendo una forma di espiazione alternativa alla detenzione o sostitutiva di essa, non potrà computarsi ai fini del calcolo della pena (98).

La durata della messa alla prova potrà essere abbreviata o prorogata dal giudice su indicazione dei servizi, anticipando la valutazione finale. La proroga non è espressamente prevista dalla legge ma non si riscontrano ragioni ostative tali per cui il giudice, ogniqualvolta ritenga opportuno il prolungamento dell'osservazione nella fondata aspettativa che ciò sia utile al raggiungimento dello scopo, non possa disporla fino ai limiti massimi previsti dall'art. 28 c.c.p.m.. L'ipotesi più verosimile si avrà nel caso in cui il minore sia messo alla prova per altro reato successivamente a quella già in corso. Sembrerebbe, infatti, irragionevole e contradditorio che a tali episodi, tutti riconducibili ad un medesimo periodo di sbandamento del minore, non si possa estendere l'esperienza del probation (99). In queste circostanze la prova implicherà necessariamente una rafforzata osservazione del minore in relazione ai reati commessi per i quali è stata prorogata la sospensione. Alla scadenza fissata e in caso di esito complessivamente positivo tutti i reati per i quali il minore sia stato rinviato a giudizio, verranno automaticamente dichiarati estinti (100).

2.7 La messa alla prova e gli altri istituti a favore del minore: sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, perdono giudiziale, affidamento in prova

Il processo penale minorile prevede, oltre alla sospensione del processo con messa alla prova, altri istituti che, in ottemperanza ai principi costituzionali e alle norme di diritto internazionale, sono finalizzati al recupero del minore deviante e pensati nell'ottica di favorire una rapida fuoriuscita dal processo penale o quanto meno di ridurre l'offensività insita nel processo penale a carico di minorenni.

In Italia la piena realizzazione del principio della minima offensività del processo minorile è sempre stata contrastata dalla previsione costituzionale del principio di obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.). Tale principio impedisce di realizzare pienamente un adeguamento del sistema giudiziario alle condizioni socio - psicologiche del soggetto minorenne. Le soluzioni adottate dal legislatore del 1988, volte a limitare l'offensività del processo si riferiscono tutte alla fase successiva all'esercizio dell'azione penale. Contrariamente a quanto accade in quasi tutti i sistemi di giustizia delle democrazie occidentali che presentano, invece, misure di diversion from court, nei quali l'apparato della giustizia rimane estraneo ad ogni forma di intervento (101).

In Italia stante il principio di obbligatorietà dell'azione penale, non esistono forme di diversion analoghe a quelle adottate dagli altri ordinamenti occidentali e al giudice per le indagini preliminari è consentito unicamente di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. In tutti gli altri casi la chiusura del procedimento è rinviata alla fase dell'udienza preliminare, che costituisce la sede in cui viene definito il processo penale nel merito. L'art. 32 del DPR 448/88 prevede, infatti, che il giudice dell'udienza preliminare possa pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall'art. 425 del codice di procedura penale, o per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto.

Il giudice dell'udienza preliminare può inoltre pronunciare sentenza di non luogo a procedere per non imputabilità del soggetto (art. 26), sospendere il processo e mettere alla prova l'imputato (art. 28), con successiva declaratoria di estinzione del reato per esito positivo della prova (art. 29) e disporre l'applicazione di una pena sostitutiva o di una pena pecuniaria (art. 32, comma 2).

Sembra opportuno soffermarsi ed operare un'analisi anche in termini di confronto, in particolare, sugli istituti del perdono giudiziale e della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, che presentano rispetto alla sospensione del processo con messa alla prova alcune affinità che talvolta rendono difficile l'individuazione dei rispettivi ambiti di applicazione e delle ragioni di opportunità legate alla adozione di uno di essi in luogo degli altri.

Si ritiene, inoltre, altrettanto utile un breve cenno all'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale che contrariamente ai sopra citati istituti - applicabili dal giudice nel corso del processo a carico di imputati minorenni (la sentenza di irrilevanza del fatto può essere adottata già nella fase delle indagini preliminari) - si colloca nella fase esecutiva del processo penale per gli adulti e mira alla estinzione della pena e degli effetti penali. L'affidamento in prova, infatti, presenta molte affinità con la sospensione del processo.

2.7.1 Perdono Giudiziale

Il perdono giudiziale è disciplinato all'art. 169 del codice penale del 1930, nel capo dedicato all'estinzione del reato (102). L'articolo prevede che in favore del minore di diciotto anni che abbia commesso un reato punibile con una condanna a pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni, il giudice possa astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio quando presume che il colpevole si asterrà dal commettere altri reati. Allo stesso modo è data facoltà di astenersi dal pronunciare condanna al giudice del dibattimento. Il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta.

Per lungo tempo si discusso sugli effetti che potessero scaturire dalla concessione dell'istituto, se esso, data la sua collocazione normativa (Titolo VI Della estinzione del reato e della pena), abbia la capacità di estinguere il reato, oppure se esso estingua la pena. Entrambe le alternative non sembrano plausibili. La concessione del perdono, infatti, presuppone l'accertamento di un reato che non è cancellabile ex post dal giudice ed è pertanto incompatibile con l'estinzione dello stesso. Per quanto riguarda la seconda ipotesi, invece, appare indiscutibile che nessuna pena possa essere estinta dal momento che nessuna condanna viene pronunciata (103). Secondo la dottrina più accredita pare corretto ritenere che lo Stato, in presenza di un reato compiutamente configuratosi e di un soggetto responsabile, successivamente all'esercizio dell'azione penale, ogniqualvolta ricorrano i presupposti previsti dall'art. 169 c.p., rinunci alla pretesa punitiva. Nel caso del perdono giudiziale si tratta di una rinuncia incondizionata alla facoltà sostanziale di chiedere la punizione per quel reato. Diversamente da quanto accade per l'istituto del probation in cui si ha, invece, una rinuncia al proseguimento dell'azione penale. In seguito alla concessione del perdono si estinguono gli effetti penali derivanti dal reato (104).

La concessione del perdono giudiziale è vincolata alla presenza di due presupposti, il primo oggettivo, individuato in base alla pena applicabile per il reato commesso, il secondo presupposto ha invece natura soggettiva, ed è legato alla personalità del minore. In primo luogo, esso può essere applicato esclusivamente nei confronti di minori che abbiano commesso reati punibili con pena detentiva non superiore a due anni o con pena pecuniaria non superiore a tre milioni di lire, convertita in euro dal gennaio 2002, anche se congiunta alla pena restrittiva della libertà (105). Per il calcolo della pena, in presenza di eventuali circostanze, si dovrà operare il relativo bilanciamento, potendosi aggiungere il calcolo della diminuente prevista per la minore età (106).

Il giudice, inoltre, per concedere il perdono, deve presumere che il minore si asterrà dal commettere ulteriori reati. La presunzione dovrà fondarsi sulla base delle circostanze indicate nell'art. 133 del codice penale, in virtù delle quali sarà possibile stabilire la gravità del reato e la capacità a delinquere del colpevole, e non potrà prescindere, secondo quanto emerge da una pronuncia della Corte di Cassazione del 1989, dall'esame del fatto, della personalità del minore e del suo comportamento durante e successivamente alla commissione del reato. Il giudice è chiamato a dare un giudizio prognostico su quello che con una certa probabilità sarà il comportamento futuro del minore e sulla possibilità che la mancata irrogazione della pena contribuisca al suo recupero in termini di ragionevole prevedibilità (107).

Il perdono, come conferma una pronuncia della Corte Costituzionale non può essere concesso per più di una volta (108). La Suprema Corte ritiene legittimo il divieto di reiterazione, con esclusione del caso in cui la precedente concessione riguardi un fatto che per legge successiva o per pronuncia della stessa Corte Costituzionale non sia più previsto come reato.

Sulla questione della reiterazione dell'istituto, tuttavia, si sono resi necessari vari interventi del giudice di legittimità, il quale, data la estrema rigidità della formulazione normativa, ha dovuto operare una attenta distinzione circa i casi rispetto ai quali l'adozione dell'istituto non si pone in violazione della legge. Nel 1973 la Sent. 108 ha esteso la possibilità di concedere il beneficio ad altri reati legati dal vincolo della continuazione a quelli per i quali è già stato concesso il perdono. Sarebbe illogico oltre che ingiusto, infatti, negare all'imputato la reiterazione del vantaggio spezzando quel progetto di recupero avviato. Lo stesso vale per reati non unificabili dal vincolo di continuazione, per i quali l'anteriorità rispetto alla pronuncia impone la stessa soluzione.

Con la Sent. n. 154 del 1976, inoltre, l'estensione ha riguardato i reati commessi precedentemente alla prima sentenza di perdono, quando la pena cumulata con la precedente non superi i limiti previsti per l'applicabilità del beneficio. Fuori dai casi predetti, la commissione di un nuovo reato dimostra l'insufficienza della funzione ammonitrice del perdono e che il minore, tutt'altro che rieducato, non ha corrisposto la fiducia accordatagli dalla società (109). Il perdono non potrà essere concesso qualora l'imputato abbia in precedenza subito condanna irrevocabile a pena detentiva per un delitto, anche nel caso in cui sia già intervenuta riabilitazione. Non sarebbe, invece, ostativa l'eventuale condanna alla pena dell'arresto, alla contravvenzione o a quella della multa.

Il perdono giudiziale, così come la sospensione del processo ex art. 28 c.p.p.m. presuppone un giudizio di responsabilità, cioè che un certo fatto sia stato effettivamente commesso, che esso integri una figura di reato perfetta in tutti i suoi elementi e che il minore sia imputabile. Diversamente perderebbe significato la stessa previsione del perdono. Si può essere perdonati soltanto per un reato di cui si è realmente responsabili (110). Per tale ragione in dibattimento sarebbe applicabile il perdono solo se fosse rimasta provata la prospettiva accusatoria; lo stesso vale per fase dell'udienza preliminare, per la quale l'art. 32 c.p.p.m subordina l'applicazione dell'istituto alla possibilità di "decidere allo stato degli atti", in virtù del quale l'accertamento giudiziale, fondato sugli atti legittimamente acquisiti nel corso delle indagini preliminari, ha efficacia di cognizione piena.

Il perdono giudiziale, anche successivamente all'emanazione del DPR 448/88 rimane misura di decisiva centralità per tutti quei casi in cui, pur a fronte di accertata responsabilità, si ritenga opportuno sottrarre l'imputato alla punizione nel convincimento che l'accaduto basterà per l'avvenire a dissuaderlo dal commettere altri reati.

L'adozione del provvedimento di perdono non può avvenire in fase pre-dibattimentale proprio per la necessità di dar luogo ad adeguato esame del merito (111). Alla conclusione del dibattimento, tra gli epiloghi possibili, vi è anche quello della concessione del perdono giudiziale, escluso per fase delle indagini preliminari. Così prevede esplicitamente la legge (112). In seguito alla previsione del DPR 448/88 è possibile già nella fase dell'udienza preliminare che il giudice possa adottare il provvedimento, con sentenza di non luogo a procedere, tutte le volte in cui ritiene che ricorrano i presupposti e il processo appaia decidibile "allo stato degli atti" (113). E' consentito decidere in questa fase per l'esigenza costituzionalmente garantita di assicurare al minore un rapida uscita dal processo.

La sentenza di perdono giudiziale, contrariamente a quanto avviene per la sentenza di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova e di non luogo a procedere/doversi procedere per irrilevanza del fatto, da luogo all'iscrizione nel casellario giudiziale. Iscrizione che viene conservata fino al compimento del ventunesimo anno di età del minore, dopodiché viene eliminata.

2.7.2 Irrilevanza del fatto

Veniamo, adesso, all'analisi della disciplina della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Essa è, insieme all'istituto della messa alla prova, una delle novità più radicali del rito minorile. L'istituto introdotto con il DPR 448/88, fu in seguito ad una sentenza della Corte Costituzionale dichiarato incostituzionale e reintrodotto solo un anno più tardi con alcune modifiche dalla L 123/92 (114).

Si tratta certamente di uno strumento che privilegia la rinuncia della potestà punitiva dello Stato di fronte a fatti sostanzialmente inoffensivi. Il legislatore si propone di evitare al minorenne un percorso processuale che potrebbe essere fonte di sofferenza e grave pregiudizio (115). L'esigenza di tener conto della peculiarità minorile, specie sotto il profilo della destigmatizzazione e della minima offensività del processo, rappresentano infatti, finalità primarie dell'istituto, ampiamente tutelate e sostenute sul piano dei principi costituzionali e degli strumenti di diritto internazionale. Ritenere l'istituto dell'irrilevanza semplicemente uno strumento in più a disposizione del giudice per esimere il minore dalle conseguenze di un processo penale iscritto a suo carico, banalizzerebbe la sua funzione, che invece, ha la capacità di colmare la contraddizione interna ad un gesto che, secondo la fattispecie astratta prevista dalla legge, sarebbe reato, ma che al tempo stesso, non è reato secondo la percezione del minore e del sentire della collettività. Il presupposto logico per l'applicazione dell'istituto risiede infatti nel concetto di tenuità del fatto (116) e di occasionalità del comportamento.

La dottrina maggioritaria è propensa a collocare l'istituto tra le cause di non punibilità, in quanto non consente l'eliminazione del fatto commesso ma fa venire meno la pretesa punitiva nei confronti del minore da parte dello Stato (117). Non sono mancati tuttavia rilievi da parte di altri autori, secondo i quali, proprio la irrilevanza del fatto commesso, che in quanto tale non contrasterebbe con il principio di obbligatorietà dell'azione penale, l'istituto potrebbe ben rientrare tra le cause di archiviazione, come prospettato dal disegno di legge Martinazzoli del 1996 (118).

Sin dalla prima formulazione ci si rese conto che l'istituto investiva direttamente profili di diritto sostanziale, eccedendo così come è stato ipotizzato per la sospensione del processo con messa alla prova, i limiti della legge delega. Nel caso dell'irrilevanza però, nonostante i tentativi di salvataggio interpretativo si è giunti con la Sent. n. 250 del 6.6.1991 ad una pronuncia di illegittimità costituzionale (119). La Corte Costituzionale ritenendo che l'istituto costituisse una causa di non punibilità ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 27 e dell'art. 26 delle Disp. d'Attuaz. per eccesso di delega. Il Governo, infatti, delegato dall'art. 3 della L. n. 81 del 1987 a disciplinare "il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione de reato", ha previsto un istituto che, pur presentando implicazioni di carattere processuale, attiene senza dubbio al diritto sostanziale, configurando una causa di non punibilità.

Secondo Palomba, la Corte Costituzionale avrebbe dichiarato l'incostituzionalità dell'istituto dell'irrilevanza con il chiaro intento di provocare la reintroduzione dell'istituto da parte del legislatore, sollecitando un intervento "certamente più forte di quello derivato dalla delega" e con la finalità di preservare l'istituto da ulteriori questioni di legittimità costituzionale (120). Infatti, la stessa Corte, investita nuovamente della questione di legittimità dell'art. 27 in riferimento agli artt. 3, 27 e 97 della Costituzione, con Ord. n. 103 del 1997, ha respinto fermamente la questione, ribadendo che l'istituto persegue le finalità rieducative, che attua attraverso l'uscita in tempi rapidi dell'imputato minorenne dal processo in coerente attuazione dei principi e delle finalità richiamate dalle "Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile".

Sulla base delle implicite indicazioni della Corte, tempestivamente ma forse anche precipitosamente, con la L. 5.2.1992 n. 123 viene reintrodotta la formula dell'irrilevanza del fatto. Con l'occasione vengono precisati aspetti del procedimento del tutto omessi nella precedente stesura ma non si registrano gli auspicabili miglioramenti in termini di chiarezza ed esaustività della disciplina (121).

Il giudice delle indagini preliminari potrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento quando l'ulteriore corso del procedimento possa pregiudicare le esigenze educative del minore.

I presupposti richiesti dalla legge per l'applicazione dell'irrilevanza del fatto sono quindi riconducibili alla tenuità del fatto, all'occasionalità del comportamento e al pregiudizio che il processo causerebbe alle esigenze educative del minore.

Anche in seguito all'opera di revisione dell'articolo 27 con la L. 123/92, la costruzione della disposizione appare piuttosto approssimativa. Sulla questione concordano molti autori, secondo Giuseppe Grasso "sembra di essere di fronte ad un istituto ancora solo abbozzato per grandi linee (come se si trattasse di principi di legge delega), in attesa di essere messo a fuoco da puntuale successiva normazione delegata" (122). I concetti di tenuità del fatto ed occasionalità della condotta, secondo lo stesso autore, appaiono vaghi, lasciando che la discrezionalità del giudice non trovi riferimento in parametri normativi precisi e controllabili (123). Del medesimo avviso è Spirito, la quale ritiene che la discrezionalità del giudice non sia ancorata a parametri normativi precisi e controllabili, e pur trattandosi di una discrezionalità "giurisdizionalmente garantita" - vi è un organo (il giudice) deputato a verificare le ragioni a sostegno delle quali il p.m. fonda la sua richiesta - nella sostanza si attribuisce al giudice un vasto potere di indulgenza, più ampio di quanto consentito dall'art. 49 c.p., finalizzato ad espellere dall'area penale fatti riconducibili alle fattispecie incriminatrici ma sostanzialmente inoffensivi (124). Nell'ambito di una sostanziale condivisione della struttura della norma lo stesso Dusi, reputa le indicazioni legislative affette da "una certa vaghezza" e foriere di cospicue incongruenze operative. Secondo Dusi, infatti, è ricorrente che in alcuni tribunali si applichi l'art. 27 ad intere categorie di reati, soprattutto a carattere contravvenzionale, da cui di fatto scaturisce un esito depenalizzante, certamente non coerente con le finalità dell'istituto; in altri, invece, si pretende che si tratti del primo e solo episodio o si trascura completamente la tenuità della fattispecie astratta di reato (125).

L'incompiuta definizione del presupposto della tenuità, ad esempio, ha dato luogo, nel tempo, ad applicazioni assai difformi, a seconda della politica giudiziaria in concreto perseguita. Alcuni autori, con l'intento di effettuare un'opera di demarcazione della nozione ritengono che non tutto ciò che non è rilevante è tenue e che la tenuità non implica necessariamente che l'offesa non superi una certa soglia (126). Ad esempio Palomba sostiene che nei reati di danno solo se il danno è rilevante non si applica l'irrilevanza (127). In alcuni casi è la stessa norma che consente al giudice di fondare la propria valutazione discrezionale. Così accade per l'art. 62 n. 4 c.p., il quale prevede una attenuazione di pena nel caso in cui il danno patrimoniale arrecato sia di speciale tenuità. L'art. 648, comma 2, richiama, in riferimento alla ipotesi attenuata di ricettazione, la particolare tenuità del fatto ecc.

Certamente la tenuità non può essere riferita al tipo di reato, tale concetto va anzi inteso "come tenuità del fatto reato comprensivo degli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta" (128). Possono esservi reati gravissimi che implicano conseguenze modestissime (129) ed al contrario reati non sintomatici di pericolosità sociale che invece implicano conseguenze gravi (130).

Accanto alla tenuità del fatto, che da sola non autorizza di per sé la depenalizzazione giudiziale, deve sussistere anche il criterio dell'occasionalità, nella cui nozione è possibile ricondurre tutto ciò che è episodico, non ricorrente. La portata del concetto di occasionalità tuttavia non può ridursi al senso restrittivo per cui debba trattarsi di primo ed unico episodio. La nozione riguarderà le fattispecie dalle quali emerga che il minore autore del fatto si sia trovato eccezionalmente a delinquere, mentre per come lo si conosce, deve ipotizzarsi si sia trattato di un fatto occasionale, anche se ciò non esclude che la trasgressione possa essersi manifestata attraverso più violazioni penali unificate dal vincolo della continuazione (131). Un comportamento, per essere giudicato occasionale, deve essere riferito ad una condotta che non rientri in un quadro di reiterazione abituale o sistematica. In altri termini, occasionale può ritenersi quel comportamento che è frutto di circostanze particolari, tipiche della delicata e mutevole condizione dell'adolescenza, senza tuttavia esprimere una scelta deviante precisa ed orientata da parte del minore.

Infine, il giudice, prima di decidere in merito all'applicazione dell'istituto dell'irrilevanza del fatto, in presenza di un fatto tenue e di un comportamento occasionale, deve valutare se sussista o meno la possibilità che la prosecuzione del processo pregiudichi le esigenze educative del minore.

L'attenta osservazione della personalità del minore, diviene, quindi, determinante per comprendere se il procedimento possa pregiudicare le sue esigenze educative, o, al contrario, la prosecuzione del procedimento possa essere per lui un'occasione educativa (132).

L'originaria formulazione dell'art. 27 DPR 448/88 non disciplinava in termini soddisfacenti la parte relativa agli aspetti procedurali, limitandosi a dire che il giudice, dopo avere sentito il minorenne, gli esercenti la potestà genitoriale e la persona offesa, potesse provvedere con sentenza nel caso di accoglimento della richiesta da parte del p.m. e con ordinanza, nel caso di rigetto e, quindi di restituzione degli atti allo stesso p.m. L'opera di revisione operata dalla L. 123/92 ha espressamente richiamato la necessità del rito camerale, previsto dall'art. 127 c.p.p. Nel corso dell'udienza il giudice dovrà sentire il minore al fine di valutarne la personalità, costui avrà facoltà di rendere spontanee dichiarazioni sul fatto.

Il procedimento delineato dall'art. 27, prevede la possibilità che l'istituto sia applicabile fin dalla fase delle indagini preliminari, cioè precedentemente all'esercizio dell'azione penale: tale possibilità suscita interessanti questioni processuali. In tale fase si riproduce lo schema ordinario del contraddittorio che vede le parti, accusa, difesa e giudice chiamate a dar luogo ad accertamenti incidentali che, pur essendo in una fase preliminare, potranno dar luogo ad un provvedimento definitorio. Nel caso in cui ciò si realizzi, la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto dovrà considerarsi come una forma di esercizio dell'azione penale, con l'assunzione da parte del minore della qualifica di imputato e l'onere del p.m. di formulare un capo di imputazione, tutte circostanze che consentono al giudice di individuare la sostanza dei fatti, il luogo e il tempo del fatto commesso e le norme di legge violate. Nel caso in cui, invece, sia rigettata la richiesta di non luogo a procedere, perché non sia stata provata la colpevolezza o per mancanza dei presupposti per l'applicazione dell'irrilevanza, restituiti gli atti al g.i.p., esauritasi la parentesi processuale, il procedimento ritorna nella fase delle indagini preliminari. In questo caso tutto riprende ex novo, ed in capo al p.m. rimane integro il potere di esercizio di tutte le sue facoltà, compresa la possibilità di reiterare la richiesta, nel caso emergessero nuovi elementi tali da giustificare la nuova richiesta, altrimenti inammissibile.

Emerge chiaramente che si tratta di un procedimento piuttosto complesso, che non garantisce tempi di soluzione brevi, che non assicura necessariamente il contatto del minore con il giudice (133), che implica una ritualità formale che la legge con la previsione dell'istituto voleva evitare. Sarebbe stato certamente più opportuno prevedere che nel corso delle indagini preliminari il p.m., obbligato a sentire l'indagato, nel caso in cui si convincesse dell'opportunità di interrompere l'ulteriore corso del procedimento, esistendo i presupposti previsti dall'art. 27, potesse chiedere l'archiviazione del procedimento (134).

L'attuale disciplina dell'art. 27 prevede la possibilità per l'imputato e per il procuratore generale di proporre appello contro la sentenza. E', infatti, diritto dell'imputato ottenere una formula più favorevole; il procuratore generale potrebbe non condividere la qualificazione del fatto come irrilevante. Nel caso venga accolta la richiesta gli atti saranno restituiti al p.m. Non è invece impugnabile l'ordinanza di rigetto.

La sentenza di non luogo a procedere, disposta davanti al g.i.p o al g.u.p, o di non doversi procedere, disposta davanti al giudice del dibattimento o di grado successivo, per irrilevanza del fatto, non prevede trascrizione nel casellario giudiziale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 14 c.p.p.m. e 686 c.p.p. Gli effetti che scaturiscono da tale sentenza sono indubbiamente più favorevoli, per l'imputato, rispetto al proscioglimento o all'assoluzione ex art. 98 c.p.

Nell'ambito degli istituti di diversion del sistema giudiziario minorile italiano, in particolare con riferimento agli istituti fino qui analizzati, può senz'altro dirsi che siano tutti finalizzati al recupero del minore deviante. L'ambito di applicazione dell'istituto della sospensione del processo ex art. 28 DPR 448/88, tuttavia, è caratterizzato da una maggiore flessibilità e genericità con riguardo ai presupposti di applicazione, cosa che non può dirsi per gli istituti del perdono giudiziale e dell'improcedibilità per irrilevanza del fatto, che la legge invece, costringe entro limiti applicativi ben più tassativi. Ricordiamo che la sospensione del processo con messa alla prova può essere predisposta per ogni tipo di reato ed indipendentemente dall'entità della pena stabilita per quel reato; può essere concessa nei confronti di minori che abbiano già in precedenza usufruito della medesima misura ed è applicabile anche a minori nei cui confronti sia stata emessa sentenza di perdono giudiziale o di condanna. Sarà diversamente da ritenere più vantaggioso il ricorso al perdono giudiziale rispetto alla previsione ex art. 28 tutte le volte in cui la personalità del minore sia nota e consenta di effettuare un giudizio pronostico circa la futura astensione dalla commissione di ulteriori reati, ove ciò sia consentito dalla pena astrattamente erogabile per il reato commesso. Tutte le volte in cui, però, sia richiesta una più completa valutazione della personalità del minorenne, dovrà invece preferirsi la concessione della messa alla prova (135).

Le stesse valutazioni possono farsi rispetto all'istituto della irrilevanza del fatto che la legge comprime nei presupposti di tenuità del fatto ed occasionalità del comportamento. E' da ritenersi preferibile l'applicazione ex art. 27 DPR 448/88 nel caso in cui ricorrendo i due presupposti citati l'ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minore. Parte consistente della Giurisprudenza, tuttavia, non esclude che pur in presenza di tali presupposti non sia in ogni caso preferibile l'adozione di un provvedimento che consenta di far maturare la personalità del minore (136).

La Corte Costituzionale nella Sentenza n. 125/1995 ha sostenuto che l'istituto della sospensione con messa alla prova, sia quello che maggiormente rappresenta la sintesi di tutte le linee guida del processo minorile. La Corte afferma, infatti, che l'istituto della messa alla prova è strettamente aderente alla principale finalità del processo minorile, la finalità del recupero del minore deviante, proprio perché perseguita attraverso la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, nel rispetto della previsione dell'art. 31 della Costituzione. Sostiene, inoltre, che l'istituto della messa alla prova favorisce il reinserimento sociale anche grazie alla attenuazione dell'offensività del processo che in questo caso viene sospeso. Rispetto agli altri istituti di favore tipici del processo penale a carico di imputati minorenni, quali, appunto, il perdono giudiziale e l'irrilevanza del fatto, la messa alla prova sia quello che più degli altri risponde alle indicate finalità della giustizia minorile. Rispetto agli due istituti, essa, infatti, non configura una misura di clemenza ma da luogo ad una formula pienamente liberatoria per il minore, una volta accertato il conseguimento dell'evoluzione nella personalità conseguente alla piena adesione e comprensione del progetto di intervento.

Ancora, secondo la Corte Costituzionale, l'istituto della messa alla prova si può configurare come istituto di natura premiale per il fatto che l'estinzione del reato è ancorata al raggiungimento della risocializzazione del minore. Nella altre formule del perdono giudiziale e dell'irrilevanza del fatto, diversamente, la formula liberatoria interviene in modo acritico e sulla base di circostanze inerenti al reato, di natura oggettiva, come la quantità di pena prevista per il reato commesso, per il perdono giudiziale, o la tenuità del fatto, per l'irrilevanza, o soggettive, come l'occasionalità del fatto, ancora per l'irrilevanza. Nel caso dell'art. 29 DPR 448/88 l'estinzione del reato avviene in seguito ad una evoluzione personale e sociale, attraverso la quale il minore in una certa misura "si guadagna" la rinuncia dello Stato alla potestà punitiva nei suoi confronti (137).

2.7.3 Affidamento in prova

L'affidamento in prova, introdotto dalla legge n. 354/75 all'art. 47, modificato dall'art. 2 della Legge n. 165 del 27 Maggio 1998, si configura come misura alternativa alla detenzione, introdotta allo scopo di evitare, nella misura massima possibile, i danni derivanti dal contatto con l'ambiente penitenziario e dalla condizione di totale privazione della libertà (138).

L'introduzione dell'istituto nell'ordinamento penitenziario italiano e più in generale quello della stessa legge penitenziaria traggono le loro radici dai principi dettati dalla carta costituzionale (in primo luogo dall'art. 27, comma 3) e dall'adesione ad istanze ed orientamenti largamente condivisi dagli altri Stati occidentali, per quanto riguarda ad esempio il cosiddetto "riduzionismo carcerario" (139), e dagli impegni direttamente assunti dall'Italia in una serie di accordi internazionali (140). Successivamente al dopoguerra infatti sia le Nazioni Unite che il Consiglio d'Europa sostengono l'opportunità di articolare il sistema di difesa sociale con il ricorso a misure differenziate proporzionalmente alle esigenze di controllo delle manifestazioni delinquenziali e a quelle di trattamento dei loro autori.

La ragione di fondo della riforma dell'ordinamento penitenziario e in particolare della previsione dell'istituto dell'affidamento in prova sono riconducibili all'idea di una esecuzione penale "utile" al reinserimento sociale e al recupero del detenuto che può realizzarsi compiutamente solo attraverso contatti con il mondo esterno. Si propone un sistema nel quale il carcere non rappresenta più l'unica strada per espiare una condanna ma anzi è solo il punto di partenza di un percorso controllato ed assistito che si apre a sempre maggiori spazi di libertà e contatti frequenti con la società libera. Con la previsione delle misure alternative lo stato rinuncia ad esigere una parte della pena detentiva a fronte dell'impegno del condannato a utilizzare le occasioni di socializzazione che gli vengono offerte. Nel caso dell'affidamento in prova la misura comporta l'affidamento al servizio sociale per un periodo uguale a quello della pena da scontare o della pena residua in stato di libertà assistita e controllata con l'obbligo di osservare le prescrizioni stabilite dal tribunale di sorveglianza.

Le finalità dell'istituto dell'affidamento in prova, in particolare, sono riconducibili essenzialmente alla volontà di evitare il più possibile i danni derivanti dal contatto con l'ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà, a favorire la rieducazione ed il reinserimento sociale del condannato in vista dell'approssimarsi della scadenza della pena e a ridurre il sovraffollamento degli istituti. La carcerazione è considerata di per sé un fattore di desocializzazione e di emarginazione, a maggior ragione quando, come spesso succede, l'esecuzione della pena avviene anche a notevole distanza di tempo rispetto al momento della consumazione del reato (141). La disciplina dell'affidamento in prova, con alcune (poche, a dire il vero) specifiche previste in relazione all'età, è astrattamente applicabile anche al condannato minorenne (142), ma al di là della disciplina specifica dell'istituto in relazione alla sua adozione nei confronti di minori, quello che interessa ai nostri fini, è una analisi comparativa di questo istituto con quello ex art. 28 DPR 448/88. La misura, infatti, mostra interessanti affinità con l'istituto della sospensione con messa alla prova, che il nostro ordinamento prevede durante la fase cognitiva del processo penale esclusivamente in favore di imputati minorenni: se ne differenzia per quanto attiene ai presupposti e agli esiti mentre certamente lo richiama per quanto attiene alle finalità. Per entrambi è spesso presente il rischio di un utilizzo che ne snaturi la ratio.

A seguito di alcune innovazioni apportate al sistema penitenziario ed all'istituto in questione dalla cosiddetta legge "Gozzini" successivamente integrata e perfezionata dalla l. n. 165/1998 il procedimento di richiesta e di concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale ha subito notevoli cambiamenti rispetto alla disciplina originaria. Nel corso degli anni si è passati da momenti in cui la misura è stata adottata in termini fortemente restrittivi ad altri in cui, ad esempio con la riforma del 1998, si è ampliata la possibilità di far ricorso all'istituto con l'obiettivo di ridurre il sovraffollamento della popolazione carceraria, fino ad arrivare a più recenti interventi legislativi (l. n. 251 del 5 dicembre 2005, l. n. 49 del 21 febbraio 2006) che segnano invece un passo indietro rispetto alla riforma del '98, con la reintroduzione, ad esempio, della condizione ostativa prevista nei casi di recidiva.

La concessione dell'affidamento in prova è vincolata alla presenza di alcuni requisiti riconducibili al tipo di pena che il condannato deve espiare, all'entità della pena da scontare (il limite di pena è fissato per tutti i condannati a pena detentiva, senza distinzioni di età, a tre anni) (143), alla non sottoposizione del condannato alla misura cautelare della custodia in carcere (art. 656 co. 9 lett. b c.p.p.) (144), alla assenza di recidiva del condannato (145), alla disponibilità di un domicilio (è necessario e sufficiente che il soggetto abbia una dimora effettiva che lo renda reperibile) (146), ed infine, alla cosiddetta prognosi di rieducabilità del condannato.

Potranno, pertanto, presentare istanza di affidamento, in un primo caso, i condannati già detenuti ai quali sia stata inflitta una condanna a pena detentiva (reclusione oppure arresto), passata in giudicato, non superiore a tre anni, anche se residuo di maggior pena.

Il secondo caso, oggi utilizzato in via prioritaria, introdotto a seguito delle modifiche apportate al testo originario della riforma del 1975, prevede, invece, che l'istanza possa essere attivata a favore dei condannati in stato di libertà, al fine di evitare, a determinate condizioni, la detenzione carceraria (147). In seguito alla riforma Simeone (l. n. 165/98) è consentito a tutti i condannati a pene detentive brevi e medio-brevi di accedere, indipendentemente dalle possibilità economiche e difensive alla misura alternativa dell'affidamento in prova.

La concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale è subordinata infine alla formulazione del giudizio prognostico di cui all'art. 47, 2º e 3º comma della legge 354/1975. Si tratta di un presupposto, a differenza degli altri esaminati precedentemente, di tipo "soggettivo". Il comportamento del condannato (nello status di detenzione o di libertà) infatti deve essere tale da far ritenere che la concessione della misura, anche attraverso le prescrizioni che ne conseguono, contribuisca al suo reinserimento sociale ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. La previsione del 2º comma dell'art. 47 oltre che configurare un presupposto di concedibilità riassume la funzione dell'affidamento in prova ed il suo carattere di pena. In ossequio al costituzionalizzato principio (art. 27 co. 3º) di rieducazione del reo, la misura dell'affidamento può dirsi sostanzialmente finalizzata al recupero sociale del condannato.

Il provvedimento è adottato, quindi, sulla base dei risultati dell'osservazione della personalità condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, o per il condannato in libertà sulla base della comportamento tenuto durante il periodo di libertà, nei casi in cui si può ritenere che l'affidamento contribuisca alla rieducazione del reo ed assicuri che lo stesso non commetta altri reati. Gli elementi che sostengono la decisione del giudice possono essere prodotti dalle parti oppure acquisiti dalla magistratura di sorveglianza. Contestualmente all'ordinanza di concessione della misura, il giudice stabilisce le prescrizioni che l'affidato dovrà osservare: rapporti con il Centro di Servizio Sociale per Adulti, obbligo di dimora, libertà di locomozione, divieto di frequentare determinati locali, lavoro, divieto di svolgere attività o di avere rapporti personali che possono portare al compimento di altri reati (148). Nel caso di condannato minorenne le prescrizioni annesse al provvedimento di sospensione della condanna devono tenere conto dell'età del soggetto sottoposto alla misura. Particolare cura sarà prevista per la scolarizzazione, l'apprendistato, la frequentazione di luoghi di risocializzazione.

Non sarà possibile concedere la misura al condannato a pena detentiva derivante da conversione effettuata per inosservanza delle prescrizioni inerenti la semidetenzione o la libertà controllata (art 67 l. n. 689/81), nei casi di revoca della detenzione domiciliare ai sensi dell'art. 47 ter, comma 1 bis L. 354/75.

L'ordinamento non prevede particolari preclusioni per quanto riguarda detenuti per gravi reati, già da lungo tempo in carcere, anche se parte della dottrina sostiene che a tali soggetti non dovrebbe essere consentita la possibilità di ricorrere alla sospensione della condanna (149). I detenuti e gli internati per particolari delitti (416bis e 630 c.p., art. 74 D.P.R. 309/90, ecc.) possono ottenere l'affidamento in prova al servizio sociale (ed anche le altre misure alternative) solo se collaborano con la giustizia (artt. 4bis e 58ter L. 354/75).

I detenuti e gli internati per altri particolari delitti (commessi per finalità di terrorismo, artt. 575, 628 3º c., 629 2º c. c.p., ecc.) possono essere ammessi alla concessione del beneficio (o ad un'altra misura alternativa) solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva.

L'istanza per poter usufruire della misura dell'affidamento deve essere inviata corredata dalla documentazione necessaria, se il soggetto è in libertà, al Pubblico Ministero della Procura che ha disposto la sospensione dell'esecuzione della pena, se il soggetto è detenuto, al Magistrato di Sorveglianza competente in relazione al luogo dell'esecuzione. Il magistrato potrà sospendere l'esecuzione, ordinare la liberazione del condannato e trasmettere immediatamente gli atti al Tribunale di Sorveglianza nel caso in cui siano offerte concrete indicazioni circa l'esistenza dei presupposti necessari per l'ammissione all'affidamento, precisamente, l'esistenza di un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione (150), l'assenza di un pericolo di fuga.

Se l'istanza non è accolta, riprende o si da inizio all'esecuzione della pena.

Non può essere accordata altra sospensione dell'esecuzione per la medesima pena, anche se vengono presentate altre istanze di diverse misure alternative.

L'ordinanza di affidamento in prova al servizio sociale viene disposta dal Tribunale di Sorveglianza del luogo in cui ha sede il pubblico ministero competente dell'esecuzione se il soggetto è in libertà, dal Tribunale di Sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto penitenziario in cui è ristretto l'interessato al momento della presentazione della domanda se il soggetto è detenuto.

L'affidamento ha inizio dal momento in cui il soggetto, previa notifica da parte degli organi competenti dell'ordinanza, sottoscrive il verbale di determinazione delle prescrizioni, con l'impegno a rispettarle (151). La sottoscrizione del verbale è condizione di efficacia dell'ordinanza e l'affidamento ha inizio dal giorno della sottoscrizione. La mancata sottoscrizione del verbale comporta una declaratoria di inefficacia dell'ordinanza da parte del tribunale di sorveglianza (152).

Nel caso di accoglimento della richiesta di sospensione, il condannato dovrà comunque attendere la pronuncia definitiva del Tribunale di Sorveglianza: se la pronuncia sarà positiva, inizierà la fase di esecuzione della misura, se il tribunale non accoglie l'istanza, riprende l'esecuzione della pena e non potrà essere accordata altra sospensione.

Può accadere, data la notevole mole di lavoro, che tra il provvedimento del magistrato e l'udienza in Camera di Consiglio che decide sull'istanza, trascorra un periodo abbastanza lungo. In questo caso il condannato libero trascorre tale periodo in totale libertà, non potendo il magistrato disporre anche provvisoriamente, l'affidamento e le prescrizioni. Appare chiaro come, qualunque sia l'esito della decisione del tribunale, si dia luogo alla paradossale situazione che vede invertito l'ordine naturale secondo cui il periodo di libertà dovrebbe essere successivo all'esito positivo dell'esecuzione della misura. Ciò, inevitabilmente, secondo quanto sostengono alcuni autori, finisce per compromettere la natura trattamentale dell'affidamento in prova che diviene così strumento improprio di deflazione carceraria.

Il Centro di Servizio Sociale per Adulti svolge compiti di vigilanza e di assistenza, per tutta la durata del beneficio, nei confronti dell'affidato ed in particolare lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale al fine di favorire il suo reinserimento; effettua verifiche sulla condotta del soggetto in ordine alle prescrizioni; svolge azione di tramite tra l'affidato, la sua famiglia e gli altri suoi ambienti di vita, in collaborazione con i servizi degli Enti Locali, delle A.S.L. e del privato sociale; è chiamato a riferire periodicamente, con frequenza minima trimestrale, al Magistrato di Sorveglianza sull'andamento dell'affidamento ed inviare allo stesso una relazione finale alla conclusione della misura; fornisce al Magistrato di Sorveglianza ogni informazione rilevante sulla situazione di vita del soggetto e sull'andamento della misura (ai fini di un'eventuale modifica delle prescrizioni, ecc.).

Nel corso del periodo di prova il magistrato di sorveglianza può modificare le prescrizioni, provvedere ai sensi dell'art. 51 bis Ord. Pen. (153) qualora l'affidato sia raggiunto da un titolo di esecuzione relativo ad altra pena detentiva, provvedere ai sensi dell'art. 51 ter Ord. Pen. (154) qualora l'affidato ponga in essere comportamenti tali da determinare la revoca della misura.

Nel caso in cui sopraggiunga un nuovo titolo di esecuzione che determina un residuo di pena superiore ai tre anni oppure nei casi in cui l'affidato ponga in essere comportamenti incompatibili con la prosecuzione della prova, il tribunale di sorveglianza procede alla sua revoca. Il tempo trascorso in affidamento, nella prima ipotesi è considerato come pena espiata, nel secondo caso, invece, il Tribunale di Sorveglianza che ha giurisdizione nel luogo in cui l'affidato ha la residenza o il domicilio emette l'ordinanza di revoca e ridetermina la pena residua da espiare.

L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena ed ogni altro effetto penale, ed il Tribunale di Sorveglianza, che ha giurisdizione nel luogo in cui la misura ha avuto termine, emette l'ordinanza di estinzione della pena.

Pur connotato da indiscutibili aspetti positivi, l'istituto dell'affidamento in prova non si sottrae ad alcune note critiche, certamente per quanto riguarda la sua adozione nei confronti di condannati minorenni, la cui condizione viene irragionevolmente parificata a quella dell'adulto, ed anche rispetto all'applicazione che trova nei confronti degli stessi condannati adulti. Nei confronti di entrambi, per ragioni diverse, infatti, l'applicazione della misura rischia di essere fortemente discriminatoria.

In seguito alle molte pronunce della Corte Costituzionale, alle varie interpretazioni giurisprudenziali ed ai più recenti interventi legislativi, secondo alcuni autori, l'affidamento in prova ha finito per trasformarsi da "una sorta di probation penitenziario qualificato da una esecuzione parziale della pena detentiva (...) a modalità di esecuzione della parte terminale di qualsiasi pena (...)" (155).

Alla luce di tale rilievo, parte della dottrina, ritenendo oramai venuta meno la ratio originaria dell'istituto, auspica che per i condannati minorenni venga rimosso il riferimento alla quantità di pena minima espiabile in forma alternativa, fissata rigidamente in tre anni. Anche in questo caso, infatti, lo Stato, chiamato ad assolvere un dovere di protezione, deve porre in essere ed adottare tutti gli istituti finalizzati a tale scopo, prevedendo regimi e trattamenti differenziati rispetto agli adulti. Pulvirenti, così come molti altri autori già citati, in particolare, sostengono l'idea della previsione di un probation penitenziario senza limitazioni e più in generale "l'emanazione di un autonomo e articolato sistema sanzionatorio minorile, che tramuti in realtà la possibilità di un affidamento flessibile, individualizzato e progressivo" (156).

L'osservazione della prassi applicativa dell'istituto rivela, infatti, come lo scopo della norma non sia più quello di scommettere sulla risocializzazione del soggetto al di fuori del carcere quando appaia assai probabile la contenuta pericolosità del condannato, quanto piuttosto quello di consentire indiscriminatamente a tutti i detenuti - quale che sia il fatto commesso e la pena subita (quindi anche nel caso di reati gravissimi, salvo i divieti introdotti dall'art. 4 bis Ord. Pen.) - di espiare gli ultimi tre anni mediante affidamento al servizio sociale. A maggior ragione appare fortemente discriminatorio mantenere lo stesso parametro per chi si è trovato a delinquere nel corso della minore età, in relazione al maggiore impegno che lo stato deve mettere in opera per la sua rieducazione (157).

Del resto la non sempre limpida coerenza che ha caratterizzato il processo evolutivo dell'istituto, che ha visto una adozione in termini più restrittivi alternati a momenti di maggiore ricorso alla misura, ha portato a ritenere che il legislatore sia più interessato a risultati pratici di decongestionamento delle strutture carcerarie che al più arduo obiettivo finale della rieducazione, determinando una crescita esponenziale della sospensione della condanna alla quale però non è corrisposto un adeguato potenziamento dei servizi educativi (158).

Ulteriori elementi di criticità emergono in relazione alla accessibilità alla misura. Secondo alcuni autori, la riforma del '98, rendendo più semplice e diretta la richiesta di accesso alle misure alternative, avrebbe esteso la possibilità di essere ammessi alla misura a soggetti condannati che, più deboli sotto il profilo socio-economico, trovavano maggiore difficoltà ad attivarsi autonomamente presso l'ufficio competente per presentare l'istanza e la documentazione adeguata. In presenza dei presupposti indicati dalla norma, infatti, si prevede la sospensione automatica della pena. Solo successivamente l'interessato è tenuto a presentare l'istanza di ammissione alla misura alternativa corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessaria (159) entro i trenta giorni successivi alla consegna del decreto di sospensione (160).

La possibilità della sospensione automatica (161) ha certamente contribuito a rendere l'affidamento in prova come lo strumento maggiormente richiesto ma proprio tale meccanismo, in realtà ne ha sottolineato gli aspetti di debolezza. Secondo una parte delle dottrina con la riforma, in realtà, si è accentuata la disparità di trattamento tra i condannati, pochi infatti sono davvero in grado di presentare una istanza corredata della documentazione necessaria in tempi così brevi, e la maggioranza dei condannati destinati al contatto con l'istituzione carceraria, soprattutto stranieri e tossicodipendenti, a causa della scarsezza di mezzi culturali ed economici di cui dispongono, non riusciranno ad ottenere la concessione del beneficio (162).

Considerazioni simili possono farsi in relazione alla sospensione del processo con messa alla prova. Molti, infatti, sono gli aspetti comuni. L'adozione di entrambe, infatti, da luogo ad una sospensione, della condanna nel primo caso, del processo nel secondo, entrambe mirano alla decarcerizzazione dell'autore del reato e prevedono come necessario e fondamentale il ruolo dei servizi sociali, sia ministeriali che territoriali, chiamati ad accompagnare e verificare periodicamente l'andamento della prova e di darne conto alle autorità rispettivamente competenti; salvo particolari eccezioni, gli istituti sono, dove sussistono tutti i presupposti indicati dalla legge, applicabili anche in seguito alla commissione e condanna anche per gravi reati; necessariamente avendo natura diversa e collocandosi all'interno del processo l'uno e nella fase esecutiva l'altro, daranno luogo, in seguito alla positiva conclusione della prova, ad altrettanto diversi provvedimenti: estinzione della pena e degli effetti penali nel caso dell'affidamento e del reato nel caso della messa alla prova.

Si tratta certamente in entrambi i casi di istituti, come evidenziato, mirati al recupero sociale, con forti connotati educativi e di destigmatizzazione l'uno e più orientato alla rieducazione l'altro. Ad un attento esame, tuttavia, non può sfuggire come di fatto, in un certo senso, tali misure siano adottate prevalentemente nei confronti di persone "privilegiate". Sono molto numerosi, infatti, i casi in cui una larga parte di soggetti sottoposti a processo o detenuti siano soprattutto stranieri senza domicilio stabile e nel caso di minori senza il sostegno di nucleo familiare. Proprio a tali soggetti nella prassi accade che l'accesso a tali misure venga negato.

Note

1. U. Gatti M. I. Marugo, Verso una maggiore tutela dei diritti delle vittime: la giustizia ristorativa al vaglio della ricerca empirica, in "Rassegna italiana di criminologia", 1992, p, 487. T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, Giuffrè, Milano, 1991, p. 729-257. G. Di Gennaro, Aspetti teorici e pratici del probation, in "Quaderni di criminologia clinica", 1970, p 323.

2. E. Fassone, Probation e affidamento in prova, in "Enciclopedia del diritto", vol. XXXV, 1986, p. 972.

3. Disposizioni analoghe sono applicate in Belgio e in Norvegia. Negli Stati Uniti, invece, il PM può decidere di non esercitare l'azione penale, in base a valutazioni di natura discrezionale, in presenza di situazioni di scarsa gravità e rilevanza.

4. L'ipotesi potrebbe essere ricondotta al nostro istituto dell'"affidamento in prova", definito da alcuni autori una sorta di probation penitenziario caratterizzato da una esecuzione parziale della pena detentiva. In realtà guardando con attenzione alla prassi applicativa italiana, se ne discosta per il fatto che con il tempo si è trasformato in una modalità di esecuzione della parte terminale della pena. P. Vellutini, Una svolta finale nell'interpretazione dei presupposti applicativi dell'affidamento in prova al servizio sociale, in Cassazione penale, 1995, 2738-2743.

5. La legislazione italiana ancora una volta si allontana dalla prassi internazionale, prevedendo l'applicabilità dell'istituto della "messa alla prova" anche ai minori recidivi.

6. In Italia, come vedremo, la sua predisposizione è affidata agli assistenti sociali dei Centri di Servizio sociale per adulti e degli uffici del servizio sociale minorile; in Belgio e Danimarca, invece, e in molto stati degli USA viene redatta da organi amministrativi.

7. Molto usate in Belgio, Olanda, Norvegia e Canada.

8. Possibilità prevista in Italia.

9. In Italia la disciplina dell'"Affidamento in prova" prevede una formula aperta seconda la quale la misura può essere revocata "quando essa appaia incompatibile con la prosecuzione della prova".

10. C. Scivoletto, op. cit., p. 62.

11. L'istituto della sospensione del processo e della messa alla prova era stato considerato positivamente sia in sede di elaborazione delle regole di Pechino del 1985 che in ambito comunitario, come evidenziano alcune raccomandazioni del consiglio d'Europa (raccomandazione numero 20/87 del comitato dei ministri del consiglio d'Europa). Queste fonti esprimono l'idea dell'opportunità del mantenimento e del rinforzo delle garanzie processuali per il minorenne, preservandolo dagli evidenti i rischi del contatto con l'apparato della giustizia. Per ridurre tali rischi, secondo quanto dispongono i documenti internazionali, vanno studiate apposite misure di deflazione del processo nei casi di lieve entità e di intervento, oltreché di specializzazione degli organi e degli operatori della giustizia minorile. Vedi Relazione al testo definitivo, p. 217. In Italia, già da tempo, era stata prospettata l'introduzione del rimedio della prova, prima, nel 1974, con un disegno di legge delega in materia di intervento penale in campo minorile, e successivamente nell''86, con la presentazione di un progetto di legge per la riforma della giustizia minorile. In tal senso si veda anche, A. C. Moro, Manuale di diritto minorile, II ed., Zanichelli, Bologna, 2000, p. 458.

12. "l'istituto rappresenta la risposta legislativa all'esigenza largamente avvertita dai giudici minorili di poter modulare interventi adeguati alla personalità del minore", non a caso alcuni tribunali minorili (Cagliari e Catania), già agli inizi degli anni '80 sperimentarono strumenti empirici per aggirare la rigidità del sistema e restituire il minore alla società evitando il carcere. S. Di Nuovo G. Grasso, op, cit., p.337.

13. G. Di Gennaro, Aspetti teorici e pratici del probation, in "Quaderni di criminologia clinica", 1970, p. 323.

14. C. Scivoletto, op. cit., p. 57.

15. F. Palomba, Il sistema del nuovo Processo Penale Minorile, Giuffré, Milano, 1989, 182.

16. Cfr. G. Scardaccione, F. Merlini, op. cit., p. 24.

17. Disciplinato dall'art. 47 dell'Ordinamento penitenziario, risultante dalle leggi 354/75 e 663/86, e successive modifiche.

18. Già il testo dell'articolo 24 bis del progetto definitivo del decreto del 1988 prevedeva espressamente che l'esito positivo della prova agisse quale causa estintiva del reato. Inoltre la Relazione al testo definitivo fa notare la natura di causa estintiva del reato dell'esito positivo della prova.

19. G. Grasso, Verifica dell'applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, in Brex G., Fiorentino Busnelli E. (a cura di), Adolescenti a rischio tra prevenzione e recupero, Angeli, Milano, 1994, p 78-79.

20. Vedi Sentenza del GUP del Tribunale delle Marche, 28 maggio 1996, in "Nuovo Diritto, 1996, II, 1108.

21. P. Pazè, Luci e ombre nella riforma del Processo Penale Minorile, in "Esp. Giust. Min.", 1988, n. 2, p. 74.

22. V. Consiglio Superiore della Magistratura, parere richiesto dal Ministro di Grazia e Giustizia sul progetto definitivo delle disposizioni sul nuovo processo penale minorile, il 19 luglio 1988.

23. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 1989 (2ª edizione 1991, 3ª 2002).

24. Cfr. ancora Palomba, op. cit.

25. F. Palomba, op. cit.

26. F. Palomba, op. cit.

27. Molti autori tra i quali Ghiara, La messa alla prova nel processo minorile, in "Giustizia Penale", 1991, III, p 82-93, Losana, Codice di procedura penale minorile commentato, in "Esperienze di giustizia minorile", speciale 1989, p. 180-186, difendono la legittimità dell'art. 28, comma 4, attribuendo al legislatore delegato la responsabilità di una previsione così lacunosa. Una parte cospicua della dottrina si è poi spesa ad evidenziare le ragioni per cui una valutazione di incostituzionalità non sarebbe stata comunque accolta. Si rimanda ai citati testi di Losana, Palomba Giambruno. Per tutti C. Losana, Art. 28: la sospensione del processo e messa alla prova, in AA.VV., commento al codice di procedura penale - leggi collegate - I - Il processo minorile, coordinato da M. Chiavario, UTET, Torino, 1994, pp. 287 e ss.

28. F. Palomba, op. cit. pp. 407, 408. Dello stesso tenore la sentenza del 27 settembre 1990, n. 412, la Corte dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale a carico degli artt. 28 e 30 del DPR 448/1988, nella parte in cui non prevedevano, per i reati puniti con la pena dell'ergastolo, l'applicabilità dell'istituto della messa alla prova, implicitamente conferma la legittimità dell'istituto.

29. L'intervista è riportata nella tesi di laurea della Dott.ssa Sibilla Santoni. Nell'intervista il Dott. Scarcella contesta la ratio stessa dell'istituto: la sospensione del processo e messa alla prova dovrebbe servire per permettere al minore di uscire prima che è possibile dal circuito penale ma la durata del periodo di prova appare "un'eternità" al minore ed in questa eternità egli vive in una situazione di incertezza, aumentando l'ansia che il processo provoca a chiunque si trovi ad essere imputato.

30. Del resto sostiene ancora Scarcella anche la stessa qualità del consenso lascia a desiderare, anche se al ragazzo è data la possibilità di rifiutare la prova, egli si trova pur sempre in una posizione di soggezione rispetto al giudice e quindi la sua libera autodeterminazione dev'essere letta con delle riserve.

31. L'opinione del dottor Scarcella è condivisa da più parti. Alcuni autori hanno sostenuto che l'omessa menzione dell'accertamento preventivo della responsabilità del minore è una delle lacune più vistose del dettato legislativo, perché viene imposta una misura che presenta una componente di afflittività a soggetti che potrebbero essere assolti nel merito. Sostengono la stessa tesi gli autori F. Mazza Galanti, I. Patrone, La messa in prova nel procedimento penale minorile in "Rassegna italiana di criminolologia", n. 4 1993, p. 162.

32. S. Santoni, La sospensione del processo e messa alla prova del minore. Aspetti giuridici e sociologici, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, 1996.

33. R. Ricciotti, il nuovo processo penale, in AA.VV., Contributi allo studio del nuovo processo penale, Seminario della Corte d'Appello di Bologna (novembre-dicembre1988), a cura di Melchionda, Maggioli Editore, Rimini, 1989, pp. 249 e ss.

34. Gli autori che criticano questa ipotesi, ritengono che essa consenta, minando la credibilità stessa dell'istituto della messa alla prova, al minore di uscire dal circuito penale impunito. C. Scivoletto, C'è tempo per punire, Angeli, Milano, 1999, p.105.

35. F. Merlini, G. Scardaccione, M. T. Spagnoletti, Sospensione del giudizio e messa alla prova: riflessioni sui primi due anni di applicazione, in "Esperienze di giustizia minorile", 1992, p. 79-94.

36. C. Scivoletto, C'è tempo per punire, Angeli, Milano, 1999, 82.

37. Per P.C. Pazé, P. Pazè, Luci e ombre nella riforma del Processo Penale Minorile, in "Esp. Giust. Min.", 1988, n. 2, p.74, l'istituto può prestarsi ad un "utilizzo rieducativo ambiguo, perché durante il periodo in cui il minore è soggetto a prescrizioni, sottoposto a osservazione ed a trattamenti di sostegno, è possibile che gli sia facile fare confusione fra punizione e aiuto, fra processo penale e interventi civili sul territorio, e per questo si avrà un esito legato ad una evanescente valutazione del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, sicché il corso del procedimento rischia qui effettivamente, per l'attenzione psicologica di cui carica il minorenne e i suoi familiari, di pregiudicare le esigenze educative".

38. La Corte di Cassazione esclude che i precedenti penali e giudiziari influiscano negativamente sulla decisione di applicare l'istituto. Cassazione Penale sez. V, 29 Luglio 1997, n. 1600.

39. A Ghiara, La messa alla prova nella legge processuale minorile, in "Giustizia penale", 1991, 86.

40. Così la definisce Giuseppe Grasso. G. Grasso, Verifica dell'applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, in G. Brex, E. Fiorentino Busnelli, Adolescenti a rischio tra prevenzione e recupero: un impegno per tutti, Angeli, Milano, 1994, p. 50.

41. G. Fumu, Le difficili scelte del legislatore minorile tra accertamento, educazione e sanzione, in "Le riforme complementari, il nuovo processo minorile e l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario", Cedam, Padova, 1991.

42. G. Grasso, Verifica dell'applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, in Adolescenti a rischio tra prevenzione e recupero: un impegno per tutti (a cura di G. Brex e E. Fiorentino Busnelli), F. Angeli, Milano, 1994, p. 70-95. G. Di Paolo, Riflessioni in tema di probation minorile, in Cassazione penale, 1992, 2866-2874. A. Pulvirenti, Il probation minorile - Norma e prassi applicativa, Ediprom, Catania, 1995.

43. In particolare la capacità di intendere e di volere del minore dovrà riferirsi al momento della commissione del reato, anche se nulla vieta di appurare l'incapacità di intendere e di volere del soggetto, eventualmente messo alla prova. Ipotesi verificatasi presso il T.P.M. di Milano, Foro Ambrosiano, 1999, 4888. Ipotesi che perla verità come sostiene G. Grasso, in op. cit., p 340, desta alcune perplessità.

44. G. Scardaccione, F. Merlini, Minori, famiglia, giustizia, Unicopli, Milano, 1996, p. 31.

45. V. Mazza, F. Galanti, I Patrone, La messa in prova nel procedimento penale minorile, in "Dei delitti e delle pene", 1993, 2, p. 161.

46. Unica voce in disaccordo, è quella di Ricciotti, R. Ricciotti, il nuovo processo penale, in AA.VV., Contributi allo studio del nuovo processo penale, Seminario della Corte d'Appello di Bologna (novembre-dicembre1988), a cura di Melchionda, Maggioli Editore, Rimini, 1989, pp. 249 e ss., secondo il quale, la norma consente al giudice l'applicazione autoritativa dell'istituto e proprio per questo lo critica aspramente.

47. V. sopra, cap. I par. 1.2, p18 ss.

48. Sent. Corte Costituzionale n. 125/95.

49. G. Marras, Sospensione del processo e messa alla prova. Problemi e nodi, in "Minori giustizia", 1994, 3, p. 85.

50. F. Mazza Galanti, I. Patrone, op. cit., p. 157. In particolare gli autori sostengono, pur evidenziando la difficoltà di avviare alla prova il minore che si dichiari innocente, che l'istituto è costruito contrariamente al patteggiamento nel processo penale ordinario, sulla base di un accordo tra accusa e difesa, ma viene disposto dal giudice sulla base del proprio convincimento e sarebbe pretendere troppo che il soggetto si debba dichiarare colpevole, con il rischio poi di scoprire che il giudice non ha alcuna intenzione di sospendere il processo ma decide per la condanna.

51. L. Miazzi, I contesti dell'operatività dei servizi sociali nel Processo Penale Minorile, in "Minori giustizia", 3, 1994, p. 128.

52. Corte Costituzionale Sent. 125/1995.

53. Vedi C. Losana, "Commento all'art. 28", in M. Chiavario (a cura di), Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. I, Leggi collegate, Il processo minorile, Utet, Torino, 1994, p. 299.

54. Conferma l'assunto anche la Corte di Cassazione. Cassazione Sezione I, 23/03/1990.

55. Volendo confrontare i due istituti, il "perdono giudiziale", pur condividendo l'ambito di applicazione e il risultato finale di estinzione del reato (ma per assenza di recidiva e non per esito positivo della prova), prevede per la sua applicazione dei requisiti molto più stretti rispetto alla "messa alla prova": occorre che il minore non abbia subito una condanna a pena detentiva per un delitto, è richiesto, inoltre, al giudice di formulare un giudizio positivo sul fatto che il minore non commetterà nuovi reati.

56. Il "proscioglimento per irrilevanza del fatto", largamente utilizzato, è caratterizzato da finalità molto diverse da quelle ritrovate nella "messa alla prova", la sua applicazione, infatti, mira ad uno sgravio degli uffici giudiziari, le ipotesi di applicazione sono riconducibili a condotte di scarso rilievo penale e che lascino presagire una occasionalità della condotta.

57. Vedi C. Losana, in M. Chiavario (a cura di), op. cit, pp. 299-301.

58. Cass. Sent. n. 10962 del 1999.

59. Cass. Sent. n. 3213 del 1998.

60. Vedi Scivoletto che riporta la posizione di C. Losana, in M. Chiavaro (a cura di), op. cit., pp. 299-301.

61. Posizione rafforzata dal rinvio operato dall'art. 29 DPR 448/88 secondo cui in caso di esito negativo della prova il giudice "provvede a norma degli articoli 32 e 33" (che disciplinano rispettivamente l'udienza preliminare e l'udienza dibattimentale).

62. Vedi Ministero di Giustizia, Ufficio centrale giustizia minorile, Indagine sulla applicazione della sospensione del DPR 448/88, nel periodo 24/10/89 - 30/06/92, policopiato, Roma, 1993 ed altri successivi.

63. S. Di Nuovo G. Grasso, op. cit, p. 356.

64. Cfr. Di paolo, op. cit., F. Mazza Galanti e I. Patrone, op. cit., G. Grasso, op. cit.

65. Non mancano tuttavia posizioni opposte, favorevoli all'applicazione d'ufficio anche durante il giudizio d'appello; cfr. Losana op. cit., Palomba op. cit., Giannino op. cit., Pulvirenti, op. cit.

66. Cass. Sez I Sent. 626 del 27/04/90.

67. Cass. Sez I Sent. 8472 del 01/08/91.

68. Con la Sent. 30/3/1990, in "Giustizia penale", 1990, III, 772, La Cassazione aveva ritenuto assolutamente inapplicabile in appello la "messa alla prova", dopo aver sostenuto esattamente l'opposto pochi giorni prima con la Sent. 23.3.1990, entrambe in "Giurisprudenza italiana", 1991, II, 289 e ss. Con nota di Manera (1991).

69. Qualora la messa alla prova sia stata disposta nella fase conclusiva dell'udienza preliminare, è preclusa al minore la possibilità di richiedere il giudizio abbreviato. Al contrario se la sospensione è stata disposta fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 c.p.p. sarà comunque possibile richiedere il giudizio abbreviato. E' sempre facoltà del difensore richiedere l'applicazione del perdono giudiziale. Nel caso in cui la prova sia stata disposta nel corso del giudizio abbreviato il suo esito negativo implicherà la necessità di definire il processo con sentenza di merito. Qualora invece ciò avvenga nel corso del dibattimento, ma prima della chiusura dell'istruttoria, il processo riprenderà da quest'ultima per giungere ad un nuovo dibattimento con la pronuncia di merito.

70. L'espressione è di F. Palomba, Il sistema del nuovo Processo Penale Minorile, Giuffré, Milano, 1989, p. 182.

71. "Un giudice capace di raccogliere questa sfida, deve essere un giudice ricco di risorse, (...) un giudice collegiale e interdisciplinare", S Abruzzese, Un giudice del cambiamento, in "Minori giustizia", 4, 1996, p. 75.

72. P. Martucci, Il difficile equilibrio tra giudice e servizi, in Minori giustizia, 3, 1994, p. 96. Il testo sottolinea la funzione di collegamento tra servizi, minore e presidente del collegio.

73. Ai sensi dell'art. 27 al comma 4 il Presidente "... riceve le relazioni ai servizi e ha il potere, delegabile ad altro componente del collegio, di sentire, senza formalità di procedura, gli operatori ed il minorenne".

74. S. Di Nuovo G. Grasso, op. cit., p. 383.

75. Situazioni allarmanti si registrano in particolare nel Sud Italia, dove i servizi locali sono spesso assenti ed i servizi ministeriali assumono di fatto una gestione solitaria della "messa alla prova". Gli svantaggi che derivano da una simile gestione si traducono nella impossibilità di affidare i minori a strutture inesistenti e, quindi, in definitiva, in un minore utilizzo della misura.

76. L. Miazzi, I contesti dell'operatività dei servizi sociali nel Processo Penale Minorile, in "Minori giustizia", 1994, 3, p. 132; segnala al proposito le criticità cui tale prassi da luogo "Disciplina davvero infelice, pertanto, quella della messa alla prova (...). Anche non volendo prendere atto che di fatto sostituisce l'assistente sociale al giudice, tale normativa (...) trasforma i servizi in superconsulenti, chiamati a dare giudizi senza che sia possibile per le parti verificarne la bontà o contestarne le affermazioni; cioè senza che al minore e al PM sia consentito portare propri consulenti in udienza, i quali possano contestare l'operato ed il giudizio dei servizi posto a base della sentenza".

77. A. Pulvirenti, Il probation minorile - Norma e prassi applicativa, Ediprom, Catania, 1995.

78. S. Giambruno, Lineamenti di diritto processuale minorile, Giuffrè, Milano, 2004, p. 33.

79. C. Losana, Codice di procedura penale minorile commentato, in Esperienze di giustizia minorile, speciale, 1989, p. 180-186. La Cassazione ha precisato che "l'elaborazione del progetto deve necessariamente precedere l'ordinanzia di sospensione". Cassazione, sez. V penale, 9.6.2003, in Foro it., 2004, II, 14. Con sentenza precedente aveva addirittura dichiarato la nullità dell'ordinanza disposta in mancanza di progetto. Cass. Sent. n. 5778 del 20.1.2003.

80. R. Pozzar, Strategie e opportunità, in "Minori giustizia", 1994, III, p. 92-95.

81. Interpretazione che deriva dalla lettera dell'art. 285 DPR 448/88, "la sospensione è revocata in caso di ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte".

82. In questo senso cfr. F. Palomba, op. cit., 425 e A. Pulvirenti, Sulla consensualità della messa alla prova, in "Rivista penale", 3, 1996, p. 296.

83. L'esigenza di intensificare i momenti di componimento privato all'interno del processo penale è da tempo diffusamente avvertita, anche se può dar luogo a rilevanti problemi. Non sono mancati i casi in cui l'operatore sociale, emotivamente coinvolto, ponendosi esclusivamente dal punto di vista del minore autore di reato, abbia finito per prendere le sue parti a scapito della persona offesa. La stessa costituzione di centri autonomi di professionisti addetti al ruolo di conciliatori in qualche caso ha evidenziato rilevanti difficoltà operative nell'interazione con la giurisdizione. C. Losana, op. cit. sostiene che la riparazione delle conseguenze del reato e riconciliazione con la persona offesa siano operazioni delicate, che possono "sfociare facilmente in un perdonismo paternalistico o in una eccessiva drammatizzazione dell'accaduto".

84. S. Di Nuovo G. Grasso, op. cit. p. 371.

85. Vedi E. Fassone, voce Probation e affidamento in prova, in "Enciclopedia del diritto", vol. XXXV, 1986, p. 972.

86. G. Scardaccione, F. Merlini, op. cit., p. 37.

87. Sulle carenze dei servizi, sulla assenza del servizio locale, sulle resistenti difficoltà attuative della norma, si veda lo studio condotto nel distretto di Bari da M. Colamussi, Una risposta alternativa alla detenzione minorile, in A. Mestitz, M. Colamussi, Processo Penale Minorile: l'irrilevanza del fatto e la messa alla prova, IRSIG/CNR, Lo Scarabeo, Bologna, 1997, pp. 158-164.

88. A. Ghiara, op.cit, p.79.

89. "Previsione che dimostra il rispetto sia di canoni processuali che psicologici", C. Scivoletto, op. cit., 1999, p. 100.

90. F. Mazza Galanti, I. Patrone, op. cit, 1993 pp. 169-171. Altri autori ravvisano un utilizzo della misura in questo senso come un "espediente per evitare il carcere", S. Abruzzese, La messa alla prova del minore omicida, in "Minori giustizia", 1,1996, p. 16.

91. Cfr P. Avallone, Quando applicare la messa alla prova per omicidio, in "Minori giustizia", 1, 1996, 64; l'autore precisa che "non è il titolo del reato che si frappone concretamente fra l'esistenza dell'art. 28 e la sua applicazione, quanto l'habitat in cui il reato è maturato"; ibid., p. 66.

92. Art. 29 DPR 448/99. Molti autori concordano sulla inopportunità che l'udienza si svolga troppo tempo dopo il termine del periodo di prova poiché, in tal caso, si darebbe luogo ad una "prassi del tutto inadeguata, che snatura le finalità dell'istituto". M. Colamussi, in A. Mestitz, M. Colamussi, op. cit. p. 164.

93. Corte di Cassazione, Sez. I pen., 28.5.1991, in Rivista penale, 1992, p. 798.

94. Cfr. F. Palomba op. cit., p. e P. Giannino op. cit., p.

95. S. Di nuovo G. Grasso, op. cit, p. 386.

96. F. Palomba, op. cit. e P. Giannino, op. cit. p. sono contrari al computo ai fini della pena in ragione della natura pattizia riconosciuta all'istituto, di diverso avviso è invece P. Pulvirenti, op. cit., in ragione della asserita natura prescrittiva dell'istituto.

97. Vedi Sentenza n. 343 del 29.10.1987 e n. 282 del 25.5.1989.

98. S. Di Nuovo G. Grasso, op. cit., p 388.

99. Secondo C. Losana, Codice di procedura penale minorile commentato, in "Esperienze di giustizia minorile", speciale 1989, p 186, "dovendo la prova essere attuale, e non potendo un periodo di prova essere posticipato in attesa dei risultati della precedente esperienza, l'unica soluzione percorribile è quella di utilizzare lo stesso periodo di prova su due fronti, anche integrando il progetto in relazione alla quantità e qualità dei reati commessi".

100. Il Tribunale di Genova ha ritenuto possibile estendere l'effetto estintivo in seguito all'esito positivo di messa alla prova, per altro reato venuto a giudizio successivamente a quello già dichiarato estinto, in virtù di una sostenuta continuazione di reato. Tale soluzione, da molti non appare condivisibile, semmai l'unica soluzione legittimamente praticabile sarebbe quella di stabilire un'ulteriore sospensione, anche se di breve durata. Tribunale di Genova Sentenza 30.11.1994, in "Il foro italiano", II, pp. 50 e ss.

101. In questi sistemi la fase delle indagini preliminari è caratterizzata da un'ampia gamma di opportunità alternative all'esercizio dell'azione penale. Gli organi di polizia e della pubblica accusa, oltre a potersi astenere da qualsiasi forma di intervento nei casi di colpa lieve e in assenza di interesse pubblico a procedere, possono ricorrere, nella fase delle indagini preliminari, a forme di intervento attenuato. Associazione forense Jesina, 18 febbraio 2005.

102. La sua previsione è antecedente alla nascita del sistema di giustizia minorile.

103. S. Di Nuovo, G. Grasso, op. cit., p. 329.

104. Vedi R. Dolce, Perdono giudiziale, in "Enciclopedia del diritto", XXXII, 1982, pp. 992-1003. A. Magliaro, Principi di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1980.

105. Art. 19 del RDL 1404 del 1934, modificato dall'art. 119 L. n. 689 del 24.11.1981.

106. Cassazione, 13.5.1981, in "Giustizia penale", 1981, II, 497; VI, 29.3.1982, n. 3368 CED; IV, 14.7.1982, n. 6957 CED, II, 18,2.1991, n. 2239 CED.

107. P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, Padova, 1987.

108. Sent. n. 295/1986.

109. Sent. n. 295/1986.

110. La precisazione non è secondaria, infatti, esistono altri istituti che danno luogo ad improcedibilità dell'azione, che però non implicano il previo accertamento della responsabilità.

111. Cassazione, III, 14.1.1966, n. 122, in "Giurisprudenza italiana, 1967, II, 224; II, 31.12.1968, n. 1768, CED.

112. La scelta del legislatore appare opportuna, si ritiene più utile lasciare il giudizio sulla applicabilità del perdono al collegio specializzato, costituito quanto meno dal giudice per l'udienza preliminare. Questo perché l'istituto deve riguardare fatti di una certa gravità.

113. Si tratta in questo caso di una deviazione dal modello accusatorio, il giudice fonda il proprio convincimento, senza che ne abbia avuto mandato dalle parti, sulla base degli atti acquisiti durante le indagini preliminari.

114. Prima della sua introduzione definitiva con la riforma del 1988, l'istituto era stato previsto anche da tre precedenti disegni di legge. Il primo risale al 1984, nel quale si prevedeva la possibilità per il giudice di astenersi dalla pronuncia di condanna o di rinvio a giudizio attraverso una ammonizione in considerazione della "scarsa rilevanza sociale del fatto o del pregiudizio che la pena avrebbe potuto causare alla personalità dell'imputato". Il secondo disegno di legge, anch'esso risalente al 1984, prevedeva che il giudice potesse pronunciarsi con una sentenza di proscioglimento "per scarsa rilevanza sociale del fatto in relazione all'età dell'autore". Con il successivo disegno di legge del 1986 si sanciva la "impromuovibiltà" dell'azione penale in caso di irrilevanza sociale del fatto. Così riporta P. Stella, Difesa sociale e rieducazione del minore, Cedam, 2001, p. 103.

115. Scrive, infatti, Palomba che l'istituto, fra l'altro realizza "il principio di minima offensività del processo, che va condotto e concluso, anche a costo del carico di sofferenza che comporta, solo quando vi è interesse a farlo". F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano 1989 (ed. 2002), p. 371.

116. Il fatto reato integra a tutti gli effetti la fattispecie astratta che contravviene ai valori costituzionali, ma per il comune sentire non si supera la soglia di offesa penalmente rilevante.

117. Sostengono l'interpretazione F. Vinciguerra, Irrilevanza del fatto nel processo penale minorile, in "Difesa penale", 1989; p. 78; D. Spirito, Art. 27 d.p.r. n. 448 del 1988: una morte annunciata, in "Giurisprudenza costituzionale", 1991, 4136-4151; V. Patané, L'irrilevanza del fatto nel processo penale minorile, in "Esperienze di giustizia minorile", 1992, p. 59-76; V. Pugliese, La formula terminativa dell'irrilevanza del fatto nel processo penale minorile, in "Minori Giustizia" 1997, II, pp. 117-123.

118. Il progetto preliminare, infatti, inquadrava l'istituto della irrilevanza del fatto tra le cause di archiviazione, dando concreta attuazione al principio delle minima offensività e garantendo una rapida definizione del processo. D'altro canto questa impostazione, a fronte del presupposto che l'irrilevanza del fatto richiede in ogni caso l'accertamento del fatto reato, il ricorso all'archiviazione avrebbe potuto costituire una violazione del principio di obbligatorietà dell'azione penale, sancito dall'art. 112 della nostra Costituzione. Per questo il testo definitivo delle disposizioni sul processo penale minorile prevede che il pubblico ministero richieda al giudice l'emissione di una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Anche se di fatto in questo modo l'intento di estromettere rapidamente il minore dal circuito processuale è sostanzialmente vanificato.

119. La sentenza dichiarò illegittimo l'art. 27 DPR 448/88 e l'art. 26 delle Disp. d'attuaz. rispetto all'art. 76 della Costituzione.

120. Nella sentenza, infatti, la Corte ha argomento la questione di illegittimità unicamente sulla base dell'eccesso di delega, nonostante la questione sollevata riguardasse la contrarietà dell'art. 27 non solo all'art. 76 ma anche agli artt. 112 e 3 della Costituzione, con il rischio che venisse minata la validità dell'istituto sotto il profilo della sua piena rispondenza al principio di legalità e di determinatezza degli elementi della fattispecie.

121. S. Di Nuovo, G. Grasso, op. cit., p. 313.

122. G. Grasso, Intervento a margine del convegno di studi "le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale", in Atti (a cura di A. Stile), Novene, Napoli, 1991, p. 277-283. Risultano condivisibili inoltre le osservazioni mosse da Pepino circa la infelicità del termine irrilevanza, sia sotto il profilo penalistico che pedagogico, che meglio poteva essere sostituito con esiguità. L. Pepino, Commento al codice di procedura penale - Leggi collegate - I, In processo penale minorile (a cura di M. Chiavario), Utet, Torino, 1994, pp. 214-249.

123. In particolare per la nozione di tenuità si sarebbe potuto far riferimento esplicito all'entità della sanzione, alla natura del reato, alla presenza di soggetti direttamente offesi dal reato o a taluno dei criteri di cui all'art. 133 utilizzati per la scelta del trattamento penale. Per individuare il concetto di occasionalità si sarebbe potuto far riferimento alla condotta e al tempo, anziché al comportamento, categoria ignota al diritto penale. La stessa pretesa necessità che l'ulteriore corso del procedimento possa pregiudicare le esigenze educative del minore avrebbe dovuto essere interpretata in modo restrittivo, per non correre il rischio di una nuova e diversa censura di incostituzionalità. Non pare ragionevole, infatti, che a fronte della commissione di un fatto tenue e di un comportamento occasionale non si possa applicare l'istituto solo perché si dimostri che il processo non è di nocumento alle esigenze educative del ragazzo. S. Di Nuovo, G. Grasso, op. cit., pp. 315-316.

124. D. Spirito, op. cit., pp. 4136-5151.

125. P. Dusi, Irrilevanza del fatto e la nuova formulazione, in "Esperienze di giustizia minorile", 1992, p. 18.

126. S. Di Nuovo, G. Grasso, op. cit.

127. F. Palomba, op. cit., p. 379.

128. Tribunale penale minorile di Milano, 10.07.1998.

129. Ad esempio la sottrazione di beni di scarso valore, per semplice bravata, a coetanei, con l'uso di improbabili minacce, che deve qualificarsi come rapina.

130. I reati di lesioni colpose dalla conseguenze gravi.

131. Sentenza del 10.07.1998 del Tribunale penale per i minorenni di Milano, in "Foro ambrosiano", 1999, p. 200.

132. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, Cedam, 2001, p. 47 e ss., S. Larizza, Le nuove risposte istituzionali alla criminalità minorile in "Diritto e procedura penale minorile" cit. pp. 208 e ss.

133. In questa sede non è previsto il potere di disporre l'accompagnamento coattivo. Le misure restrittive della libertà, pur per ragioni transitorie e contingenti, non possono essere applicate oltre i casi tassativamente previsti dalla legge.

134. Losana contrario all'abbandono della originaria idea di dar luogo ad archiviazione aveva delineato preventivamente il quadro che si è poi rivelato di complessità della procedura. Concordano sulla complessità della procedura anche Patanè e Palomba. C. Losana, Codice di procedura penale minorile commentato, in "Esperienze di giustizia minorile", speciale 1989, pp 180-186. V. Patanè, L'irrilevanza del fatto nel processo minorile, in "Esperienza di giustizia minorile", 1992, p. 67. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano 1989 (2ª ediz., 3ª ediz. 2002), p. 391.

135. Corte di Cassazione Sentenza n. 1600 del 29/07/1997.

136. Corte di Cassazione Sentenza n. 1600 del 29/07/1997.

137. La ricostruzione è elaborata sulla base della relazione dell'Associazione Forense di Jesi del 2005.

138. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 238.

139. Corte cost., 29.10.1987, n. 343, RP, 1988, 19; CP, 1988, 26, con nota di A. Presutti, ove si afferma che l'introduzione, nel nostro come in altri ordinamenti, europei ed extraeuropei, di misure - alternative alla detenzione - genericamente definibili di "prova controllata" (o probation) trae origine, dalle congiunte crisi della pena detentiva e delle misure clemenziali, rivelatesi inadeguate, la prima a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde a promuovere reali manifestazioni d emenda.

140. "Reg.le minime per il trattamento dei detenuti", ONU, 1955; Raccomandazione (73)5 del 1973, Consiglio d'Europa; Raccomandazione R (87)3 del 12 febbraio 1987, Consiglio d'Europa; Raccomandazione R (92) 16, Comitato dei Ministri, 19 ottobre 1992.

141. C. Brunetti, M. Ziccone, Diritto penitenziario, Ed. Simone, 2010.

142. S. Di nuovo, G. Grasso, op. cit., p. 533.

143. Nell'impianto originario della riforma penitenziaria era prevista una differenziazione del limite di pena richiesto per la concessione del beneficio in relazione all'età del reo. L'applicabilità dell'affidamento in prova era precluso ai condannati a pena detentiva superiore a due anni e sei mesi, mentre per gli infraventunenni e gli ultrasettantenni il limite veniva portato a tre anni. Con la l. n. 663/1986 il limite per la concessione del beneficio è stato portato a tutti, senza distinzioni, a tre anni.

144. Rispetto alla custodia cautelare prevista in relazione alla necessità di salvaguardare specifiche esigenze cautelari quali "il concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione o genuinità della prova", "il concreto pericolo che l'imputato si dia alla fuga", ed "il pericolo di commissione di gravi delitti", si riscontra una sorta di incompatibilità "ontologica" con l'affidamento in prova. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Giuffrè, 2005, p. 21. La corte di Cassazione in alcune pronunce si è orientata nel senso di escludere che la sottoposizione alla misura cautelare della custodia in carcere costituisca di per sé una ragione ostativa alla valutazione nel merito dell'istanza tendente ad ottenere la concessione dell'affidamento in prova. Questo non escluderebbe, in ogni caso, la possibilità del Tribunale di Sorveglianza di respingere l'istanza, ove si riscontrasse che l'applicazione della misura non consenta di formulare il giudizio prognostico previsto dall'art. 47 l. 354/19975. Cass. Sez. I, 26.09.2003, Crepella, in Ced, 226000.

145. Causa di esclusione reintrodotta con l. n. 251/2005.

146. L'unico riferimento normativo di questa condizione è rappresentato dall'art. 47 Ord. Pen., nel quale si fa riferimento al verbale di affidamento che deve contenere le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire, i rapporti che dovrà tenere con il servizio sociale e la dimora nella quale sarà reperibile. La Corte di Cassazione precisa che "la elezione del domicilio, pur consentendo la regolare notifica di tutte le comunicazioni, non comporta la effettiva reperibilità del domiciliato, che invece è condizione indispensabile per un corretto svolgimento della misura perché consente la valutazione circa il comportamento tenuto e l'osservanza delle prescrizioni. L'irreperibilità del condannato precisa ancora la Corte "può giustificare il rigetto dell'istanza per motivi di merito". Per la stessa ragione non è ammessa la disponibilità di un domicilio all'estero, per la semplice ragione che non sarebbe possibile una osservazione da parte dei servizi sociali che svolgono la loro attività esclusivamente in ambito territoriale. Cass. Sez. I, 14.10.1992, De Barre, in Ced, 192363. Cass. Sez. I, 13.06.2001, Njume, in Ced, 219592.

147. La procedura che disciplina questa ipotesi, un tempo indicata dallo stesso art. 47 Ord. Pen., è attualmente contenuta nel nuovo testo dell'art. 656 c.p.p. riformato dalla l. n. 165/98. La procedura in questione prevede la sospensione automatica dell'esecuzione della pena detentiva da parte del Pubblico ministero e si basa sulla condotta tenuta dal soggetto condannato nel periodo di libertà.

148. Il tribunale potrà stabilire ulteriori prescrizioni all'affidato relativamente al divieto di soggiornare in uno o più comuni, all'obbligo di soggiornare in un comune determinato, all'obbligo di adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima del reato, all'obbligo di adempiere puntualmente agli obblighi di assistenza familiare.

149. V. Maccora, La disciplina dell'art. 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza alla luce della riforma operata dalla l. 27 maggio 1998, n. 165 in Esecuzione penale e alternative penitenziarie (a cura di A. Presutti), Cedam, Padova, 1999, p. 74.

150. Il grave pregiudizio conseguente al protrarsi della detenzione deve identificarsi con la compressione di interessi personali, familiari e sociali ulteriori o in una misura accentuata oltre la misura ordinaria (ad esempio, gravi difficoltà economiche del nucleo familiare, situazioni di emergenza sanitaria, pregiudizio per opportunità di risocializzazione preziose ed infungibili, quali opportunità lavorative non ripetibili o simili).

151. La sottoscrizione avviene per il condannato in libertà, davanti al Direttore del U.E.P.E (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna), se il soggetto è detenuto, davanti al Direttore dell'Istituto penitenziario.

152. C. Brunetti, M. Ziccone, cit., p. 534.

153. Art. 51 bis Ord Pen. "Sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà".

154. Art. 51 ter Ord. Pen. "Sospensione cautelativa delle misure alternative".

155. P. Vellutini, Una svolta finale nell'interpretazione dei presupposti applicativi dell'affidamento in prova al servizio sociale, in "Cassazione Penale", 1995, 2738-2743.

156. A. Pulvirenti, Il probation minorile - Norma e prassi applicativa, Ediprom, Catania, 1995.

157. S. Di nuovo, G. Grasso, op. cit. p. 535.

158. Alcune riflessioni sono state riprese dalle conclusioni della tesi del Dott. Giacomelli "Affidamento in prova al servizio sociale aspetti giuridici e sociologici".

159. Nell'istanza di concessione del beneficio non devono essere necessariamente citati gli elementi di fatto e di diritto oggetto del giudizio di merito ma si può semplicemente indicare il beneficio richiesto. Spetterà alla magistratura verificare se il beneficio può essere concesso ed acquisire tutti gli elementi utili ai fini della decisione. L'eventuale documentazione idonea allegata all'istanza denoterà la maggiore consapevolezza del richiedente, avendo la prassi dimostrato la grande ed indiscriminata richiesta da parte dei condannati detenuti. V. Maccora, op. cit. p. 95.

160. B. Guazzaloca, M. Pavarini, Codice commentato dell'esecuzione penale, Utet, Torino, 2002, p. 42.

161. La novella del '98 ha previsto un obbligo di sospensione dell'esecuzione della pena in situazioni ben precise, coincidenti con quelle in cui può applicarsi la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale. La Corte Costituzionale ha stabilito che in tali ipotesi sorga in capo al P.M. l'obbligo di sospendere l'esecuzione della pena una volta verificata la sussistenza dei presupposti indicati dalla legge; sarà, invece, il Tribunale di Sorveglianza, al quale sarà presentata, successivamente al decreto di sospensione emesso dal P.M., l'apposita istanza, ad adottare la decisione definitiva sulla concessione della misura.

162. F. Giacomelli "Affidamento in prova al servizio sociale aspetti giuridici e sociologici".