ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Considerazioni conclusive

Michele Miravalle, 2011

Mentre il timone si dirige sicuro verso l'attracco finale, vi è ancora lo spazio e la volontà di svolgere alcune considerazioni conclusive.

Questa ricerca ha mostrato come vi sia un'impellente necessità di superamento dell'attuale O.P.G., ma ha mostrato anche come tale superamento rischia di essere uno shock riformista, che, come era già successo in occasione della l. 180/1978, assesti un duro colpo alla tenuta sistematica delle misure di sicurezza, senza creare i necessari "contrappesi", ma lasciando importanti vuoti legislativi.

Quel che è certo è che la situazione mostra tratti di bizzarro paradosso, poiché, ad oggi, l'ordinamento sembra accettare con naturalezza l'idea che il sotto-campo giuridico dei folli rei si ponga, per gran parte, fuori da un quadro di sostenibilità e di legalità.

Risulta incomprensibile agli occhi dell'apprendista giurista l'esistenza di una illegalità legalizzata, a cui nessuno degli agenti specializzati di produzione di enunciati linguistici seri all'interno del campo giuridico ha il potere (e, forse, la volontà) di porre rimedio.

È sintomatico che, proprio mentre questo lavoro sta andando in stampa, il Ministro della Giustizia riferisca al Senato della Repubblica sulla situazione delle carceri, come richiesto da un buon numero di senatori, trasversalmente suddivisi tra gli schieramenti.

Tra i molti passaggi del ragionamento ve ne sono alcuni che destano particolare interesse e meritano di essere inclusi nel ragionamento (1): «Un'emergenza nell'emergenza penitenziaria è costituita dagli ospedali psichiatrici giudiziari e chiama in causa altri soggetti istituzionali che dovrebbero a pieno titolo farsi carico di un sistema che oggi offende la civiltà del diritto. L'insanabile contraddizione di una misura che si regge sul binomio carcere-manicomio gestita in luoghi che producono sofferenza, degrado, violazione della dignità e dei diritti fondamentali delle persone non può più essere tollerata in un Paese civile. Ancora oggi assistiamo alla odiosa sopravvivenza di questi luoghi che non curano, ma si limitano a contenere persone di cui nessuno vuole farsi carico, neanche quando è accertato il venir meno della pericolosità sociale che ne ha determinato l'internamento.

La responsabilità della soluzione dello specifico problema penitenziario deve essere necessariamente condivisa con altri soggetti istituzionali giungendo alla completa sanitarizzazione, sul modello di Castiglione delle Stiviere, superando la presenza della Polizia penitenziaria impegnata spesso in compiti non propri e affidandone la completa gestione al Servizio sanitario nazionale.

L'individuazione di un piano di trattamento sanitario con periodica rivalutazione potrebbe, ad esempio, consentire al giudice l'adozione di una misura analoga a quella prevista dall'articolo 286 del codice di procedura penale coinvolgendo in primis i dipartimenti di salute mentale, così come potrebbero essere approfondite le soluzioni adottate in alcuni ordinamenti stranieri, quale quello spagnolo, che prevede un parallelismo tra la durata delle pene e la durata delle misure di sicurezza. Appare, inoltre, necessaria la creazione di strutture pubbliche di ricovero intermedio, che favorendo un più stretto raccordo tra magistratura e servizi psichiatrici territoriali possano costituire un'adeguata alternativa alla scelta tra ospedale psichiatrico giudiziario e ricorso a modalità di libertà vigilata, oggi stimate non sufficientemente sicure. A tal fine potrebbe essere presa in considerazione la creazione di strutture di piccole dimensioni, facilmente individuabili sul territorio tra i piccoli ospedali soppressi o da sopprimere, con vantaggio anche per la completa regionalizzazione degli internati».

A queste parole, nella stessa seduta, replica il senatore Marino: «Nel corso delle indagini abbiamo accertato che in molti casi, con una prassi che non saprei come definire se non extra ordinem, le misure di sicurezza di ricovero in O.P.G. vengono prorogate anche a soggetti che hanno perduto, in tutto o in parte, la pericolosità sociale; ciò per la ragione che il magistrato, in assenza di un progetto terapeutico e di una presa in carico da parte del competente Dipartimento di salute mentale (ossia le ASL), preferisce prorogare la misura. Sul punto trovo opportuno citare il brano di un'audizione in Commissione di inchiesta. A parlare è un magistrato di sorveglianza che afferma quanto segue: "È in questo che consistono le proroghe in deroga, anche dette ergastoli bianchi. Fino a quando qualcuno fuori non si assume la responsabilità di controllarli, diciamo che stanno meglio dentro che fuori". Questa è la situazione».

Pare dunque che anche il legislatore abbia preso contezza del problema. Il momento in cui i Tartari compariranno dalle dune desertiche e si lanceranno all'attacco della, fino ad ora inespugnabile, fortezza Bastiani dei folli-rei (2), sembra essere più vicino. Cosa dobbiamo dunque aspettarci?

Si dovrà concretizzare uno sforzo di umiltà del giurista, ma anche una contrapposta responsabilizzazione del suo ruolo.

L'umiltà è richiesta per sopportare la necessaria marginalizzazione perpetrata ai danni del Diritto, in nome di una crescente sanitarizzazione della sanzione penale. È evidente infatti, che, come dimostrato nelle pagine precedenti, il futuro dei folli-rei sarà segnato dalla valorizzazione del loro aspetto clinico e delle esigenze di cura, da svolgersi in luoghi-altri rispetto alle tradizionali strutture dell'esecuzione penale, come, ad esempio, le comunità terapeutiche specializzate, visitate dall'Autore. In queste strutture il ruolo del Diritto si fermerebbe alla fase iniziale del percorso terapeutico, grazie ad un uso sempre più flessibile e sistematico del già esistente istituto della libertà vigilata, che diventerebbe, di fatto, l'unico vincolo giuridico in capo al paziente, a meno che non si proceda ad una radicale modifica della legislazione penale in materia, ma, ad oggi, sembrano mancarne le condizioni, sociali e politiche.

Dopo tale fase, nel campo giuridico dei folli-rei, rimarrebbero dunque soltanto figure professionali extragiuridiche.

Alla marginalizzazione del giurista, corrisponderà proporzionalmente una sua responsabilizzazione nel senso di un rinnovato potere di controllo sulle nascenti strutture sostitutive dell'O.P.G.

Non ci si può permettere l'ennesima truffa delle etichette. È infatti dato di realtà, apertamente ammesso dai responsabili dei D.S.M., che l'Autorità Pubblica abbia una limitatissima conoscenza e un basso livello di controllo sulle condizioni materiali delle c.d. strutture intermedie, con il rischio concreto che si trasformino in istituzioni totali in piccola scala.

Sarebbe quindi da valutare con attenzione l'ipotesi di rendere pubblica la gestione di tali strutture intermedie. Ospitare sul proprio territorio dei manicomi privati sarebbe l'ennesima ed evitabile beffa.

Ripercorriamo ora per concludere, i punti salienti e le questioni aperte da questo lavoro, in una doppia intervista a domande a schema fisso, poste a due soggetti che meglio sintetizzano il sovraffollamento di figure professionali di questo particolare campo giuridico: da una parte Dario Stefano Dell'Aquila, referente di Antigone Campania, nonché cittadino informato e autore del libro inchiesta sugli O.P.G. Se non ti importa il colore degli occhi; dall'altra Angelo Fioritti, psichiatra e coordinatore del progetto nazionale Mo.di.O.P.G., che costituì la base scientifica per elaborare la proposta di legge dei Consigli Regionali di Toscana ed Emilia Romagna, rimanendo, ad oggi, uno dei più completi ed esaustivi lavori di ricerca sui folli-rei.

Ogni domanda è riconducibile ad un particolare passaggio di questa tesi. È interessante notare somiglianze e differenze tra le risposte di due figure professionali così distanti per formazione e compiti professionali.

  1. Chi è e come è visto oggi, nella "società dell'insicurezza", il folle-reo?

    Dario Stefano Dell'Aquila: Forse si potrebbe rovesciare la domanda. Il sofferente psichico, a maggior ragione quando è autore di un reato, è e rimane invisibile. Se è visto lo è solo nel suo aspetto di mostro e la visibilità è data solo dalla gravità del reato commesso. Quindi ci si potrebbe chiedere perché, oggi, chi soffre di un disagio psichico è invisibile. Invisibile ai servizi sociali, ai servizi di salute mentale, ma anche socialmente e istituzionalmente.

    È evidente, a mio avviso, che l'arretramento in molte parti del Paese dei servizi di salute mentale, l'esaurirsi dell'effetto Basaglia, il progressivo smantellamento di un già fragile e inconsistente sistema di welfare fanno si che, chi soffre trovi nei servizi una risposta occasionale, limitata alle emergenze e prevalentemente farmacologica. Questo sicuramente, a mio parere, anche perché il paradigma securitario, diffusosi nell'ultimo decennio, fa prevalere alle esigenze di cura quella di difendere la società senza curarsi di bilanciare ciò con altri diritti.

    Angelo Fioritti: Non c'è bisogno di essere psichiatri per capire come la gran parte dei media e dell'opinione pubblica, tolte poche ammirevoli eccezioni, considera ancora oggi il malato di mente come pericoloso a prescindere. Siamo ancora molto lontani dalla cancellazione dall'immaginario collettivo dello stigma del pazzo criminale, nonostante la scienza psichiatrica dia per assodati due elementi fondamentali, il primo è che il tasso di reati commessi dalla popolazione psichiatrica, non è superiore a quello del resto della popolazione, il secondo è che esistono altre determinanti della violenza ben maggiori rispetto alla malattia mentale, su tutte l'abuso di alcol e di stupefacenti.

    Le campagne antistigma e la sana controinformazione fatta dai servizi territoriali scalfiscono appena il problema, che tuttavia rimane ben presente. La Commissione Marino ha fatto un egregio lavoro di denuncia di una situazione semplicemente inaccettabile in un paese civile, ora alla denuncia deve seguire la costruzione. Insomma si è creata la consapevolezza, ora occorre cercare la soluzione.

  2. Chi è, dal suo punto di vista, il folle-reo?

    Dario Stefano Dell'Aquila: La mia esperienza personale mi suggerisce che nella grande maggioranza dei casi l'episodio del reato non è quasi mai casuale o frutto di un impeto imprevedibile, ma è preceduto da segnali e richieste di aiuto. Secondo me è sbagliato, sia sul piano epistemologico che sociologico, definire una persona semplicemente in virtù di un reato commesso. La definizione di folle-reo che ha una specifica funziona in termini di diritto, determina praticamente uno stigma indelebile. La mia sensazione è che le persone con disagio psichico, che entrano nel circuito penale degli O.P.G. vi entrano più per le loro condizioni sociali (che non rendono fattibile una presa in carico da parte dei servizi) che per quelle di salute mentale. In altri termini, ciò che pesa è l'assenza di legami familiari, di reddito o lavoro, di reti di protezione comunitaria che determina l'ingresso nel manicomio e che, soprattutto, ne impedisce l'uscita.

    Angelo Fioritti: Trovo socialmente legittimo e giustificabile che sul folle-reo convivano due esigenze, quelle degli operatori sanitari, di cura e quelle della giustizia, più sanzionatorie. Non credo quindi che i folli-rei vadano né solo curati né solo puniti. Non ritengo neanche auspicabile che del folle reo si occupi solo l'istituzione sanitaria o solo quella giudiziaria, entrambe devono convivere e cercare un equilibrio.

    Tuttavia, per varie circostanze storiche e politiche verificatesi negli ultimi decenni, questo stare a metà tra salute e giustizia, non ha certo giovato, poiché si è concentrato sul folle reo il peggio del trattamento criminale e il peggio del trattamento psichiatrico. In ragione della loro fragilità e delle loro caratteristiche peculiari dovremmo invece sforzarci di offrire loro la metà migliore e non quella peggiore, cioè l'aspetto terapeutico della psichiatria e l'aspetto riabilitativo della pena. Ad oggi su questi soggetti si concentrano invece il controllo sociale e la sicurezza e poco spazio è lasciato a terapia e riabilitazione. Ecco il paradosso italiano. Andrebbero valutate con molta attenzione l'approccio anglosassone in cui si è saputo, attraverso una rimodulazione delle misure di sicurezza e della legge penale, massimizzare l'apporto terapeutico della psichiatria.

  3. Qual'è la principale caratteristica che le fa dire che l'OPG di oggi è, giuridicamente ed eticamente, "insostenibile"?

    Dario Stefano Dell'Aquila: Il manicomio giudiziario è giuridicamente insostenibile perché il meccanismo delle misure di sicurezza e la loro discrezionalità nella durata viola il principio di certezza della pena, il principio di proporzionalità tra sanzione e reato e, nei fatti, condanna alla detenzione persone che dovrebbero essere non imputabili. La definizione di pericolosità sociale, come prevista dal nostro codice, è sostanzialmente basata non tanto sul reato commesso ma sulla possibilità di commettere reati in futuro. L'abbinamento misura di sicurezza-proroga ha una triste analogia con i meccanismi detentivi tipici dei regimi totalitari.

    Sul piano etico, dobbiamo innanzitutto dire che le condizioni dei manicomi giudiziari sono, ancora oggi, insostenibili. Condizioni strutturali indecenti, livelli di assistenza sanitaria molto bassi, capacità di presa in carico psichiatrica risibili. In secondo luogo, non è eticamente conciliabile l'esigenza della cura con quella della punizione.

    Angelo Fioritti: Da psichiatra sono abituato a operare in contesti civili e posso garantire che anche in situazioni problematiche, eccezionali ed emergenziali, come può essere l'esecuzione di un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio), siamo tutti impegnati a mantenere condizioni di vita positive, umane e miranti alla promozione della salute del paziente.

    Possiamo dire, con la stessa certezza, che negli O.P.G. c'è altrettanta positività, umanità e promozione della salute? Ho visto tre pazienti in una cella di nove metri quadri chiusa per ventidue ora al giorno. Situazioni del genere sono indegne per ogni cittadino e a maggior ragione per il cittadino riconosciuto malato.

    Fino al 2008 (DPCM 1 Aprile 2008) vi era il paradosso che l'80% del trattamento a cui era sottoposto l'internato era di tipo penitenziario e non sanitario. Dalla regionalizzazione è iniziato un percorso, che ha già dato i suoi frutti, penso alla diminuzione o eliminazione dei letti di contenzione o a reparti sempre più aperti o a uso dei farmaci più ragionato, ma la strada è ancora lunga...potremmo metaforicamente dire che se fossimo dei centometristi saremmo appena ai blocchi di partenza.

  4. Perché è necessario e auspicabile il superamento dell'Opg e della cura/detenzione dei folle rei?

    Dario Stefano Dell'Aquila: Potrei dire semplicemente che gli O.P.G. sono (è bene ricordalo il nostro codice penali giustamente li definisce manicomi giudiziari) manicomi. Credo che il lavoro di Basaglia sia sufficientemente patrimonio comune per affermare che non c'è bisogno di argomentazioni per chiuderli, ma piuttosto dovrebbe argomentare chi pensa di tenerli aperti. In ogni caso, sappiamo che il modello manicomiale non è mai un modello di cura, ma di contenimento. Le mura del manicomio servono a isolare il sofferente psichico dalla società. In una istituzione totale le esigenze di organizzazione interna, la sicurezza, le cerimonie istituzionali prevalgono sui diritti del singolo paziente. Nella punizione non può esservi cura. La storia di morti (ne ricordo sei solo dall'inizio dell'anno all'OPG di Aversa) violenze, abusi che da sempre caratterizza questi posti (ricordo che negli anni '70 i direttori di Napoli e Aversa, assieme al personale, furono condannati per maltrattamenti) ne impone la chiusura.

    Angelo Fioritti: Anzitutto occorre chiarire il ruolo di ognuno riguardo alla problematica dei folli-reo. In quanto medici, ci poniamo a valle rispetto al dibattito giuridico sulla riforma delle misure di sicurezza e del sistema del doppio binario. Dobbiamo quindi limitarci a prendere atto delle decisioni del legislatore, tuttavia è a tutti chiaro come un sistema sanzionatorio dei foli-rei basato solo sull'O.P.G. è primitivo e totale, propongo quindi di scomporre la popolazione internata in almeno tre macrocategorie, per dare a ciascuna fascia una risposta adeguata. Sulla totalità dell'attuale popolazione internata, almeno un terzo, a causa della loro bassa pericolosità, è trattabile da strutture psichiatriche ordinarie, già presenti e operanti sul territorio e lì devono tornare, un altro terzo, a media pericolosità, deve essere curato in strutture già esistenti, ma leggermente potenziabili sul piano della sicurezza e solo un terzo ha davvero bisogno di luoghi maggiormente contenitivi. Ci rendiamo conto quindi che il nostro ordinamento sta', ormai da anni, avallando la prassi che un buon numero di suoi cittadini sia rinchiuso in luoghi dove non dovrebbe stare? Questa domanda è sufficiente a giustificare il superamento.

  5. Se, quando e come dovrebbe avvenire?

    Dario Stefano Dell'Aquila: A mio avviso, se non si modifica il codice penale nella parte che riguarda le misure di sicurezza non riusciamo a rompere il meccanismo dell'internamento e quindi ad uscire dal sistema O.P.G. L'altra parte del ragionamento è che non dobbiamo inventare nuovi modelli o prevedere nuove risorse. Dobbiamo inserire il sofferente psichico nella rete di assistenza della salute mentale (che va certamente potenziata), differenziando i modelli di presa in carico (residenziali, semiresidenziali, domiciliari). Bisogna intervenire su meccanismi di ingresso e superare questo doppio binario medico-giuridico che rende l'internato doppiamente prigioniero. Credo che il DPCM 1 Aprile 2008 nella parte che disciplina gli O.P.G. sia e rimanga il punto di riferimento.

    Angelo Fioritti: Se il quadro è quello descritto dalla risposta precedente significa che la maggior parte degli internati devono immediatamente uscire dagli O.P.G., che, ad eccezione di Castiglione delle Stiviere, sono luoghi totalmente inadatti a svolgere qualsivoglia funzione terapeutica e riabilitativa. Voglio essere il più chiaro possibile: se non si chiudono questi luoghi, eventualmente per aprirne altri con una strutturazione e una filosofia di intervento diverso, l'O.P.G. non si chiuderà mai.

    Risulta infatti, che la totalità della popolazione internata sia sostanzialmente stabile negli ultimi anni, ma è aumentata la quota di internati in misura di sicurezza provvisoria e soprattutto quella di internati con sopravvenuta infermità, cioè provenienti dal circuito carcerario. Cosa significa questo dato? Significa che, al contrario di come molti sostengono, i D.S.M. stanno tendenzialmente lavorando bene e hanno ormai chiaro l'obiettivo di dimettere dall'O.P.G. tutti i dimissibili, ma il "portar fuori" dei dipartimenti è compensato dalla tendenza a "portar dentro" della Amministrazione penitenziaria coloro che hanno problemi psichiatrici all'interno delle carceri. Ecco perché è necessario concentrasi sulla chiusura della porta d'entrata dell'O.P.G. e non bastano gli sforzi per aumentare la velocità di uscita, altrimenti la popolazione internata non diminuirà mai. Chi può rompere questo flusso? La politica.

  6. Cosa significa per lei, il principio costituzionale della "Rieducazione della pena"?

    Dario Stefano Dell'Aquila: In sé non significa nulla (o per meglio dire si presta anche ad interpretazioni non progressiste, la rieducazione era anche alla base dei Gulag), se non lo leggiamo per intero. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ritengo che la centralità vada data al termine senso di umanità. I manicomi sono luoghi inumani e in quanto tali vanno chiusi perché non danno possibilità di cura. E, letta oggi, la parola rieducazione della pena va intesa, nel caso di un sofferente mentale come restituire le condizioni e le possibilità di vivere pienamente in società.

    Angelo Fioritti: È un principio di grande civiltà, che tuttavia non è mio compito istituzionale attuare. Noto un curioso uso del termine riabilitazione, che è parola usata sia dai giuristi nel campo penitenziario, sia dagli psichiatri nel campo sanitario, ma con significato molto diversi: nelle carceri corrisponde alla correctional inglese, cioè a una socializzazione direttiva e correzionale, basata su un paradigma pedagogico, che prevede un sistema di premi e punizioni al fine di modificare la personalità criminale del soggetto in termini pro sociali e non anti sociale.

    Questa idea non fa invece parte del patrimonio teorico dei professionisti di salute mentale, per i quali la riabilitazione significa potenziamento delle capacità dell'individuo nella vita quotidiana, se riesco a far mangiare correttamente, lavarsi, fare attività fisica un malato psichiatrico che non si alza mai dal letto, non si cura e si lascia vivere, allora ho riabilitato.

    Per i folli rei il significato di riabilitazione dovrebbe stare a metà tra le due definizioni, ecco la maggiore difficoltà del problema.

  7. Le istituzioni totali sono al tramonto oppure la nostra società ne ha ancora bisogno? La deistituzionalizzazione del malato psichiatrico autore di reato è un'utopia?

    Dario Stefano Dell'Aquila: Le istituzioni totali, purtroppo, si vanno moltiplicando. Basti pensare ai centri di detenzione per immigrati. La società della disciplina non è affatto tramontata, ma accompagna la società del controllo. Sono necessarie solo nella misura in cui si sceglie di dare una risposta penale ai conflitti sociali e quando le politiche pubbliche non mirano alla eliminazione della povertà ma a quella dei poveri. Credo anche che una riflessione vada fatta sulle più moderne forme di istituzionalizzazione del disagio come possono essere le comunità terapeutiche ad esempio. De-istituzionalizzare il sofferente psichico, sia o meno autore di reato, non è affatto una utopia. Dipende dalla capacità di creare modelli di welfare inclusivo e universale, di costruire politiche di inclusione sociale, di immaginare società non fondate sulla paura ma sul rispetto dei diritti e la condivisione delle differenze. Non sono scelte che dipendono dal destino, ma dalla politica e dalle risorse che decidiamo di investire nel sociale. Certo lo scenario attuale non porta ad essere ottimisti, ma considero la chiusura degli O.P.G. non una utopia ma un obiettivo realizzabile. Difficile, ma realizzabile.

    Angelo Fioritti: dal mio punto di vista ho due sensazioni, la prima è che, a partire dal secondo Dopoguerra, si è verificato uno sviluppo storico e sociale nel mondo occidentale che ha fatto molto scemare il bisogno di istituzioni totali. In trent'anni abbiamo assistito insomma ad un fortissimo ridimensionamento delle istituzioni totali tradizionali: sono diminuiti i collegi, gli orfanotrofi, le caserme, i seminari e anche i manicomi, che, almeno in Italia, sono spariti del tutto. Citando Durkheim, si è passati da una società a responsabilità organica ad una a responsabilità individuale. La seconda sensazione è che dagli anni Novanta c'è stata un'inversione di tendenza, a fronte di una diminuzione del tasso di criminalità, è aumentata la popolazione carceraria e il numero di posti letto nei reparti psichiatrici, alcune istituzioni totali sono addirittura state create dal nulla, penso ai C.I.E. (Centri di Identificazione ed Espulsione per gli immigrati clandestini).

    Questo significa che una certa quota di bisogno istituzionale è endemico alla società, sta' alla coscienza critica della società stessa riuscire a minimizzare questo bisogno, in Italia, grazie alla cultura antipsichiatrica, siamo molto più avanti di altri Paesi, speriamo non si torni indietro.

Anche alla luce di queste risposte è ora meglio chiarito il collocamento della nostra società su quella parabola dell'umanità, evocata nelle prime righe della ricerca: abbiamo appreso che, riguardo ai folli-rei, la civiltà del supplizio non è ancora del tutto estirpata.

Quanti sono i marinai coraggiosi, disposti ad invertire la rotta? Non è in gioco solo l'esistere di millecinquecento uomini e donne internati in luoghi fuori dalla storia, dalla morale e dal diritto. È in gioco la reputazione di un'intera società.

Il giudice Larry, nella più celebre opera di Gilbert Cesbron (3), si domandava: «Quando un ragazzo ruba una bicicletta, che cosa importa alla società, la sorte del ragazzo o quella della bicicletta?». È nel rispondere a questa domanda, che cade l'alibi del giurista: se fino ad oggi egli si è sentito, a torto o a ragione, sopraffatto e scavalcato da altre figure professionali, che hanno plasmato forme del campo giuridico dei folli-rei, i tempi per lasciare da parte l'orgoglio e le rivendicazioni sono maturi. Occorre agire prima che la questione, che ha aperto questa ricerca, "dov'è finita la dolcezza", si trasformi in un ben più drammatico e categorico "dov'è finito l'Uomo?".

Domande di un lettore operaio

Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l'India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Ma nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui?

Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò il banchetto della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?

Tante vicende.
Tante domande.

(Bertolt Brecht, 1935)

Note

1. Resoconto della seduta del Senato della Repubblica, n.606 del 21/09/2011.

2. Cfr. Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Rizzoli, Milano, 1940.

3. Cfr. Gilbert Cesbron, Cani perduti senza collare, Mondadori, Milano, 1975.