ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo terzo

Michele Miravalle, 2011

3.1 L'O.P.G., istituzione disomogenea: I problemi

Nonostante il «sofferente psichico sia oggi oggetto di attenzione nel tentativo di recuperarne una dimensione più umana» (1), la misura del ricovero in O.P.G. ha finora resistito ad ogni esperimento di riforma.

Tale inquietante paradosso va inderogabilmente risolto, poiché l'evoluzione storicosociologica (2) dimostra come i tempi siano ormai maturi per un oltre etico e giuridico all'istituzione totale O.P.G.

È quindi compito di questo capitolo completare l'indagine delle principali problematiche che riguardano il binomio cura-punizione dei folli-rei per poi sondare concretamente quali siano le reali soluzioni adottabili nel futuro prossimo venturo e quelle già in atto, seppur su piccola scala.

Non si tratta di pagano e improvvisato esercizio di fattucchieria, ma di prova di civiltà che coinvolge, senza possibilità di rinuncia, lo scienziato della psiche, il sociologico e il giurista.

Tuttavia è chiaro che per costruire il futuro occorra partire dall'esistente e da una «realtà complessa, sfaccettata, stagnante e che pure, nell'ultimo periodo ha subito un'accelerazione» (3), da un quadro sconfortante in cui spesso nomina non sunt consequentia rerum, consapevoli che teoria e pratica debbano ritornare a combaciare. Parte della dottrina, tuttavia contesta tale visione, notando come «la critica al sistema delle misure di sicurezza è stata inficiata dalla critica al funzionamento concreto degli O.P.G.» (4), secondo questa opinione «gli scandali che hanno interessato alcuni istituti non devono portare a confondere quella che è una più che legittima denuncia delle condizioni dei ricoverati, laddove siano presenti condizioni di vita incompatibili con la tutela di fondamentali diritti della persona, con le critiche allo stesso sistema delle misure di sicurezza per i soggetti non imputabili e la previsione di una misura da eseguire in strutture chiuse. Il problema della concreta gestione, essenziale anche in prospettiva di riforma, deve essere tenuto distinto dalle obiezioni che coinvolgono il ricorso all'O.P.G., inteso come misura di sicurezza a carattere custodiale» (5). La posizione è da accogliere, purché non diventi alibi per l'ennesima riforma nominale, capace di rinnovare solo il dibattito intellettuale e non la substantia rerum.

Resta comunque un dato di fatto che «alla giustizia servono luoghi che si occupino di disturbati psichici violenti. E non importa se sono tanti o pochi e se la violenza non sia percentualmente più elevata rispetto alla popolazione in generale: ciò che conta è che esistono e che la legge se ne deve occupare» (6).

Ma l'odierna situazione dell'O.P.G. pone il dubbio se siano davvero i luoghi più adatti a occuparsi di folli-rei. La questione presenta profili di maggior criticità sotto quattro aspetti principali.

  1. Le strutture.
  2. Gli internati.
  3. Il personale/gli operatori.
  4. Le risorse finanziarie.

Analizzeremo ora brevemente queste quattro questioni da un punto tanto quantitativo quanto qualitativo, tenendo conto dei pochi e spesso contraddittori dati a disposizione (7), fattore che mette in difficoltà non solo chi si appresta ad approfondire la quaestio O.P.G., ma anche gli addetti ai lavori, che, per loro stessa ammissione (8), si trovano spesso ad operare in quadro disomogeneo e poco chiaro, che non agevola certo il sorgere di pratiche virtuose.

3.1.1 Le strutture

«Le strutture che ospitano gli O.P.G. risentono ancora di destinazione d'uso che poco hanno a che vedere con la loro natura ospedaliera. Si tratta infatti di strutture destinate a conventi, caserme, carcere o nel caso specifico di Castiglione delle Stiviere di perpetuazione della destinazione di ospedale psichiatrico civile (abolito) in O.P.G. Questa semplice constatazione basterebbe da sola ad evidenziare problematiche ed aporie tra enunciazioni di principio e realtà dei fatti. Certamente ogni struttura andrebbe guardata nella sua effettività per valutarne in tutti i suoi aspetti la rispondenza in termini di efficacia ed efficienza agli scopi istituzionali assegnati» (9).

Tabella 3.1 (10): riassunto e storia strutturale O.P.G.

Non è questa la sede per una completa analisi dell'architettura manicomiale, ma non si nega l'importanza, nell'ottica di un'auspicabile riforma, di tener conto dell'aspetto strutturale, al fine di evitare curiosi paradossi: il trasferimento di beni e strutture della sanità penitenziaria dallo Stato alle Regioni sancito ex art. 5 DPCM 1 aprile 2008 ha costituito, nella maggior parte dei casi, un costo aggiuntivo per le Amministrazioni regionali, poiché molti dei beni trasferiti, sia mobili che immobili, erano inutilizzabili o in condizioni tali da rendere necessario il loro smaltimento, operazione parecchio onerosa.

3.1.2 Gli Internati (11)

È forse questo tra le quattro problematiche menzionate, quella più interessante da un punto di vista tanto sociologico quanto giuridico.

Si tratta infatti di indagare l'identità dell'internato in O.P.G. per posizione giuridica, caratteristiche antropologiche-culturali, tipologia del disturbo psicotico, profilo criminale, tipologia della pericolosità sociale da cui dipendeva l'internamento e durata dell'internamento. Dall'analisi di tali caratteristiche sorgono alcune delle domande cruciali: c'è un rapporto diretto tra aspetto criminale e aspetto psichiatrico? L'uso in concreto dell'internamento persegue gli stessi obiettivi previsti in teoria dalla legge penale per le misure di sicurezza e quindi la cura del soggetto? È sempre necessario il ricovero in O.P.G. o è plausibile pensare che l'internamento avvenga in strutture diverse dall'ospedale psichiatrico? Questioni fondamentali a cui urge fornire risposte.

Per chiarezza espositiva, occorre dare anzitutto conto delle c.d. categorie giuridiche in cui può essere suddivisa la popolazione internata. Si nota che la presenza di una pluralità variegata (se ne contano ben sette) di categorie giuridiche è il primo importante fattore di complicazione del campo giuridico dei folli-rei, di cui occorre tener conto ai fini di una qualsivoglia riforma dell'istituto.

Le categorie giuridiche sono essenzialmente le seguenti:

  1. Internati prosciolti per infermità mentale (art. 89 e segg. c.p.) sottoposti al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario in quanto socialmente pericolosi (art. 222 c.p.): è il caso “classico”, per cui un soggetto entra in O.P.G., in cui il soggetto è ritenuto non imputabile, ma socialmente pericoloso
  2. Internati con infermità mentale sopravvenuta per i quali sia stato ordinato l'internamento in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia (C.C.C.) (12) (art. 212 c.p.): è categoria “gemella” della n.6, ma riguarda i non imputabili. Vi rientrano la maggio parte degli internati in c.d. doppia diagnosi, riconosciuti non imputabili per cause diverse dal vizio di mente (13) (ad esempio, la cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti, il sordomutismo).
  3. Internati provvisori imputati, in qualsiasi grado di giudizio, sottoposti alla misura di sicurezza provvisoria in ospedale psichiatrico giudiziario, in considerazione della presunta pericolosità sociale ed in attesa di un giudizio definitivo (art. 206 c.p., 312 c.p.p.): si tratta dell'uso cautelare della misura di sicurezza, in cui il giudice non si è ancora pronunciato definitivamente né sull'imputabilità né sulla pericolosità sociale.
  4. Internati con vizio parziale di mente, dichiarati socialmente pericolosi ed assegnati alla casa di cura e custodia, eventualmente in aggiunta alla pena detentiva, previo accertamento della pericolosità sociale (art. 219 c.p.): è questa la categoria che meglio riassume le contraddizioni del sistema del doppio binario, si tratta infatti di persone semimputabili, che devono scontare cumulativamente sia una pena che una misura di sicurezza. Rientrano in questa categoria i seminfermi di mente ex art. 89, che hanno commesso il fatto in un momento in cui, per infermità, la loro capacità di intendere e volere era scemata grandemente e vengono ritenuti socialmente pericolosi.
  5. Detenuti minorati psichici (art. 111 D.P.R. 230/2000, Regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario): è categoria complessa, poiché vi rientrano soggetti considerati imputabili (e quindi condannati) dal giudice di cognizione, ma che presentano, già al momento del fatto una patologia psichiatrica tale da non consentirne, o comunque sconsigliarne, a detta del giudice di sorveglianza, la permanenza in un istituto ordinario, ma non sufficientemente grave da compromettere, anche solo parzialmente, la capacità di intendere e di volere.
  6. Detenuti condannati in cui l'infermità di mente sia sopravvenuta durante l'esecuzione della pena (art. 148 c.p.): è il caso simile al precedente, nonché “categoria gemella” del n. 3 con la sola, ma rilevante differenza che la patologia mentale è sopravvenuta o si è slatentizzata durante la detenzione. Secondo il Regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario non è necessario il trasferimento in O.P.G., poiché possono essere destinati alle c.d. sezioni psichiatriche delle carceri.
  7. Detenuti dei quali deve essere accertata l'infermità psichica, per un periodo non superiore a trenta giorni (art. 112 c. 2 D.P.R. 230/2000, Regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario): sono i c.d. detenuti osservandi, trasferiti in O.P.G per un periodo di osservazione psichiatrica, che può essere effettuato anche in un reparto di osservazione psichiatrica delle carceri, con il rilevante vantaggio della non sospensione del computo della pena.

I più recenti dati ufficiali contribuisco a capire, quanto ognuna di queste categorie sia numericamente rilevante nel calcolo complessivo della popolazione internata.

Dalla lettura della Tabella 3.2 si scopre che un terzo degli internati totali arriva da un iter giudiziario “classico”, appartenendo infatti alla categoria n.1, sono quindi soggetti non imputabili ma socialmente pericolosi.

Vi è poi un importante gruppo di internati “provvisori”, riconducibili alla categoria n.3, che sottolineano la tradizione italiana di ampio ricorso alla detenzione (in questo caso, internamento) cautelare.

Tuttavia il dato che desta più sorpresa e preoccupazione è che esiste un buon numero di soggetti internati (circa 120) che provengono dal circuito carcerario, ciò evidenzia certamente come le attuali condizione delle carcere siano psicopatogene, cioè siano la causa stessa del disturbo psichico e come le sezioni di osservazioni psichiatrica non siano ancora in grado di sopperire totalmente all'extrema ratio del trasferimento in O.P.G.

Tabella 3.2 (14): Popolazione internata suddivisa per categorie giuridiche (al 14 Aprile 2011)

Chiarita la disomogeneità della popolazione internata, non si pensi che le difficoltà e le complessità del superamento dell'O.P.G. si risolvano con una semplificazione o riordino delle categorie giuridiche, occorre infatti procedere ad analizzare la complessità dell'internato (a prescindere dalla categoria giuridica di appartenenza) secondo tre aspetti salienti: l'aspetto personale (o antropologico), l'aspetto criminale, l'aspetto clinico.

L'aspetto personale (o antropologico) aiuta a comprendere chi è l'internato da un punto di vista prettamente sociologico. Come già rilevato il folle-reo è anzitutto un soggetto deviante. Egli è percepito come soggetto-altro rispetto al resto della popolazione e con un grado di adeguamento sociale molto deficitario (15).

Se si prendono infatti come riferimento i due parametri che tradizionalmente meglio misurano il grado di inclusione sociale, vale a dire il livello di scolarità e lo stato civile, indicante la capacità di costruire relazione affettive, si scopre che l'internato tipo è celibe/nubile e con un basso livello di scolarità.

Solo il 10% della popolazione internata è coniugato e poco più del 5% ha una scolarità medio-alta (meno di cento soggetti sono diplomati, una decina i laureati), nonostante gli analfabeti siano solo il 2.9%.

Tabella 3.3 (16): Internati secondo scolarità, stato civile e sesso

In linea con i mentally ill offenders inglesi (17), anche gli internati in O.P.G. sono tendenzialmente piuttosto giovani (l'età media è 41 anni), sporadici e statisticamente irrilevanti i casi di ultraottantenni, mentre il 25 % ha meno di 35 anni.

Tabella 3.4: Età popolazione internata istituto per istituto

Se finora non stupisce eccessivamente il fatto che l'internato modello sia di mezza età, poco scolarizzato, celibe/nubile, poiché queste sono caratteristiche comuni alla maggioranza della popolazione carceraria, ciò che invece colpisce l'attenzione e stimola l'analisi sociologica è la nazionalità dell'internato, la quasi totalità dei folli-rei in O.P.G., è infatti italiano.

Se è vero che la presenza di una massiccia presenza popolazione detenuta straniera (comunitaria o extracomunitaria) è diventata una delle tante emergenze del sistema carcerario italiano, accresciuta dalla insostenibile scelta del legislatore di “criminalizzare” la provenienza geografica del soggetto (18), dando sì soddisfazione a discutibili istanze securitarie della cittadinanza, ma rischiando anche di accentuare giuridicamente l'esclusione sociale della popolazione immigrata, negli O.P.G. questo non sembra essere un problema rilevante.

Ancora una volta parlano i numeri (19): al 31 marzo 2011 su una popolazione detenuta di 67 600 unità, 24 834 sono stranieri, percentualmente significa il 36,7%, più di un detenuto su tre.

I più numerosi sono i marocchini (5.209, pari al 21%), seguiti dai romeni (3.609, pari al 14,5%), dai tunisini (3.144, pari al 12,7%), dagli albanesi (2.873, pari all'11,6%) e dai nigeriani (1.235, pari al 5%).

Negli O.P.G. invece sono internati “soltanto” 172 stranieri, mentre 1338 su 1510 sono italiani, pari al 88.6%. Un solo straniero ogni dieci internati.

Anche qui prevalgono albanesi e marocchini, ma con numeri neanche lontanamente paragonabili a quelli delle carceri: il gruppo di extracomunitari più esteso sono 17 internati marocchini a Barcellona Pozzo di Gotto.

L'analisi dei perché di tale vistosa discrepanza meriterebbe una ricerca a se stante, ma si impongono comunque alcune riflessioni, la prima è di carattere culturale e riguarda il rapporto tra malattia mentale e tradizione religiosa, in numerose culture, soprattutto nell'Africa sub-sahariana e in Oriente, vi è la tendenza a non riconoscere la malattia mentale e comunque a tentarne la cura con metodi che poco hanno a che fare con la scienza psichiatrica, affidandosi alla medicina tradizionali o a particolari rituali parareligiosi.

Vi è poi la difficoltà dello psicologo o dello psichiatra a interfacciarsi con soggetti che non possiedono conoscenze linguistiche adeguate, il che crea parecchi problemi, essendo l'analisi psichica basata principalmente sul linguaggio e il racconto del sé. Ma le difficoltà sorgono già in una precedente fase di rilevazione del problema, infatti, a meno che il disagio psichico non si slatentizzi con un forte ed evidente episodio di violenza o comunque con un comportamento “visibile”, è molto difficile individuare e aiutare il soggetto con evidenti problemi di comunicazione e in più in situazioni di cronico sovraffollamento e di mancanza di personale.

Anche il fattore economico-organizzativo potrebbe svolgere un ruolo, essendo le Aziende Sanitarie Locali e i DSM restii ad accollarsi i costi della cura del malato psichiatrico straniero, preferendo farli gravare sull'amministrazione centrale, in questo caso il sistema giustizia, piuttosto che iniziare onerosi percorsi di cura, malsopportati dal malato e dall'esito incerto.

L'aspetto criminale è quello che distingue il folle-reo dal resto della popolazione psichiatrica.

La maggior parte delle ricerche si è concentrata sulla tipologia di reati commessa dagli internati, sottintendendo l'esistenza di un rapporto tra pericolosità sociale, reato commesso e danno provocato alla società, parametro utile per valutare l'opportunità o meno del ricovero in O.P.G.

I pazienti internati possono tendenzialmente essere suddivisi in due macrocategorie: gli autori di reato contro la persona e gli autori di reati contro il patrimonio o comunque di minore allarme sociale.

Seppur con percentuali differenti, dovute alle diverse scelte metodologiche e classificatorie, rimane sempre preponderante il primo gruppo (con una forbice che va dal 56,71% rilevato da Manacorda nel 1983 (20) al 75% indicato nella ricerca di Andreoli nel 2001, da considerarsi più attendibile, non solo perché più recente, ma perché è, ad oggi, la prima unica analisi della totalità della popolazione internata e non un semplice monitoraggio “a campione”).

Scorporando i dati a seconda delle tipologie di reato e seguendo la tripartizione proposta da Andreoli, tra reati contro la persona, contro il patrimonio e altri reati si profila il seguente quadro.

Tabella 3.5: Profilo criminale della popolazione internata, suddivisione tra reati contro la persona e contro il patrimonio (tra parentesi il numero dell'articolo del codice penale)

Tutte le rilevazioni fanno oscillare la percentuali di soggetti che hanno commesso reati minori tra il 25% e il 44%, è proprio tra questi che si coglie distintamente l'insostenibilità etica e giuridica dell'internamento, per questi l'O.P.G. si trasforma in un «luogo di condanna senza giudizio» (21) dove vive un esercito di dimenticati condannati all'ergastolo bianco, in cui durata dell'internamento e gravità del reato no rispettano alcun criterio di proporzionalità.

Tabella 3.6 (segue): altri reati

Si tenterà ora di fare un passo ulteriore, proponendo un'inedita prospettiva d'analisi, che vada ad indagare se davvero il «tempo appare del tutto casuale rispetto al tipo di reato» (22).

La sensazione è che la maggior iniquità non risieda tanto nell'opportunità o meno di disporre l'internamento, ma piuttosto nella durata del ricovero in O.P.G. L'unico modo per scoprire se la sensazione corrisponde al vero è quello di calcolare il c.d. indice di correlazione tra due parametri fondamentali: la gravità del reato (calcolata nella media tra il minimo e il massimo edittale) e la durata dell'internamento.

La correlazione statistica è quel dato che indica se due o più variabili quantitative associate ad ogni unità di collettivo sono tra loro indifferenti, oppure se esiste una certa relazione, per cui a valori elevati di una variabile corrispondono valori elevati anche dell'altra variabile (la c.d. correlazione positiva) o valori più bassi dell'altra variabile (la c.d. correlazione negativa). Per i profani della statistica, si potrebbe dire che la correlazione è una sorta di “rapporto di proporzionalità”, che fornisce il grado di interdipendenza tra due valori.

L'indice varia da zero, se la correlazione è inesistente a uno, se la correlazione è massima.

Essendo la correlazione misurabile solo tra variabile quantitative, per far rientrare il concetto, di per se non quantitativo, di gravità del reato, si tiene conto convenzionalmente della pena media edittale, più è alta più, logicamente, il reato è grave.

Dai vari calcoli si scopre che l'indice di correlazione tra gravità del reato e permanenza in O.P.G. è di 0,173 (23), cioè molto basso, al limite dell'inesistenza, ma comunque positivo.

Si può quindi pacificamente affermare che del reato non influenza eccessivamente la durata dell'internamento.

Il giurista accorto obbietterà che è corretto che sia così, essendo quella dell'O.P.G. una misura di sicurezza, ontologicamente diversa dalla pena e quindi calcolata su parametri soggettivi (la pericolosità del soggetto) e non su parametri oggettivi (la gravità del reato), tuttavia resta il fatto che una permanenza media di 36,88 mesi è piuttosto alta, per di più, se in luogo, che, spesso, di curativo ha poco.

La tabella 3.7 da una visone graficamente chiara di questo rapporto: sull'asse delle ordinate vi sono le classi di durata di permanenza in istituto, cioè i periodi di internamento, sull'asse delle ascisse vi sono le classi di pena edittale, cioè l'indicazione dei reati a seconda di quando duramente sono puniti dal codice penale. Come si evince la caratura criminale dell'internato infuisce pochissimo sulla durata del suo internamento, dando adito a risultati paradossali, per cui ad esempio, 19 persone che hanno commesso reati con pene edittali superiori ai 30 anni, rimangono in O.P.G. per periodi brevissimi (meno di sei mesi), ma 9 persone con reati puniti da 18 mesi a due anni sono ricoverati in O.P.G. per 4 o 5 anni (24).

Tabella 3.7: Rapporto tra gravità del reato espressa dalla pena media edittale e durata permanenza in O.P.G.

L'aspetto clinico è l'ultimo fattore che ci permette di delineare l'identità della popolazione internata e permette di rilevare come il passaggio all'atto e quindi alla commissione del reato sia più frequente per determinate patologie psichiatriche rispetto ad altre. Consci del fatto che questa è argomento proprio della psichiatria e non della scienza giuridiche, ci limiteremo a brevi cenni e rilievi. Tuttavia è importante tener conto dell'aspetto diagnostico per evitare di ripetere gli errori di un passato in cui «lo scarso o nullo interesse giuridico per la diagnosi ha fatto sì che anche gli O.P.G. vi abbiano posto poco importanza. Come conseguenza si spiega anche perché sovente manchi una diagnosi psichiatrica nell'invio all'ospedale, mentre è prevalente la motivazione della sicurezza. Un'atmosfera in cui chi è abituato al lavoro clinico si trova disorientato, sapendo che non è ammissibile gestire un paziente senza prima una definizione diagnostica, senza la quale non si propone nemmeno uno schema terapeutico» (25).

Insomma il destino dell'internato ruota intorno al controverso concetto di pericolosità sociale, mentre la diagnosi clinica viene degradata a decorazione. Il magistrato allo psichiatra forense non chiede una diagnosi, ma gradi di pericolosità sociale e rischio di reiterazione del reato, «si potrebbe dunque dire che gli O.P.G. sono istituti per occuparsi di pericolosità sociale e per misurare la capacità di intendere e volere» (26) non istituti dove mettere in pratica interventi terapeutici.

Tabella 3.8: Internati secondo categorie diagnostiche ed istituto

La complessità della situazione diagnostica ha effetti diretti anche sulla sicurezza dell'internato, purtroppo il tasso di suicidi in O.P.G. è di gran lunga maggiore (19,8 suicidi ogni 10 000 internati) a quello delle istituto penitenziari (9,90 ogni 10 000 detenuti, ma comunque in linea con episodi di suicidio della popolazione psichiatrica (19,3 ogni 10 000 (27)), questo porta a due considerazioni: l'aspetto criminale e la commissione di un reato non portano per se ad acuire il “desiderio” autolesionistico e l'impellente necessità di una maggiore convergenza tra lavoro dello psichiatra/psicologo e quello del giurista.

Tabella 3.9 (28): Confronto numero suicidi in O.P.G. e in istituto di pena (II.P.P.) nel quinquennio 2002-2007

3.1.3 Il personale/gli operatori

Già nel primo capitolo (29) abbiamo avuto modo di sottolineare l'importanza di capire, quantitativamente e qualitativamente chi lavora in O.P.G., non solo per completezza di analisi, ma soprattutto perché è anche da questa indagine che si comprende la vera entità dell'O.P.G: più ospedale o più carcere?

Fondamentalmente il personale può essere suddiviso in tre categorie: il personale di custodia (gli operatori di Polizia penitenziaria) dipendenti dal Ministero della Giustizia, il personale amministrativo e il personale sanitario, che con la riforma della sanità penitenziaria è ora appartenente alle Asl locali e diretto da un Responsabile sanitario.

È molto interessante capire l'estensione di ognuno di questi tre categoria e sopratutto il rapporto numerico con gli internati.

Tabella 3.10 (30): rapporto numerico personale sanitario-internati, suddivisi per singolo O.P.G.

Come si evince dalla tabella, ancora una volta, la situazione è molto disomogenea, con un rapporto personale sanitario-internato che varia dal 0,21 di Montelupo Fiorentino al rapporto quasi uno a uno di Castiglione delle Stiviere, che essendo storicamente struttura ospedaliera impiega solo personale amministrativo e sanitario e non personale di custodia. Tuttavia al personale sanitario di Castiglione delle Stiviere viene riconosciuta un'indennità per lo svolgimento delle funzioni di sicurezza, implicitamente, si crea la figura dell'“infermiere-guardia”.

Va inoltre precisato che per personale sanitario si intende la generalità delle professioni sanitarie (dagli inservienti-O.S.S. ai dirigenti medici), a prescindere dalla tipologia di rapporto di lavoro, “subordinato”, “convenzionato” o “a contratto”.

Tabella 3.11: rapporto numerico personale di custodia-internati, suddivisi

Anche se il rapporto totale (0,51) è identico a quello del personale sanitario, occorre tener conto che questo calcolo è inquinato dal “caso Castiglione”, senza il quale sarebbe evidente il maggior peso del personale di custodia rispetto a quello sanitario.

Ma oltre all'aspetto quantitativo, vi è un problema qualitativo, che pone almeno due questioni principali: la motivazione del personale a lavorare in un contesto complesso e difficile come l'O.P.G. e la formazione, quindi il possesso di particolari strumenti e attitudini (i c.d. skills) ad interagire con soggetti molto particolari, come i folli-rei. Ovviamente sono questi parametri complessi e non facilmente rilevabili a livello statistico, tuttavia possono essere evinti da un duplice fattore: la libertà di scelta che gli operatori hanno avuto nell'assegnazione del posto di lavoro in O.P.G. e la partecipazione a corsi di formazione.

In una recente ricerca, ruslta che lla domanda: hai scelto di lavorare in O.P.G. le risposte siano state le seguenti.

Tabella 3.12 (31): Indice di motivazione del personale

Il dato disaggregato per figure professionali segnala che sono gli operatori dell'area amministrativa (57%) ad avere avuto le minori chances di scegliere la sede dell'OPG quale luogo di lavoro.

Alla richiesta di conoscere le ragioni di questa scelta le risposte si orientano nel seguente modo: il 27% afferma di avere scelto l'OPG perché interessato a lavorare in questo settore.

Tale indicazione viene prevalentemente fornita dagli operatori sanitari. Il 39% dichiara che l'OPG era il luogo più vicino alla propria famiglia.

Questa risposta proviene prevalentemente dal personale di polizia penitenziaria (50%) di cui solo il 16% risponde di avere scelto l'OPG perché interessato a lavorare in questo settore.

Per contro il 48% del personale amministrativo non fornisce motivazioni alla scelta di lavorare in OPG. Su questa domanda è anche importante riferire il dato relativo alle non risposte che è pari al 34% del totale.

Per quanto riguarda la formazione, il personale è sostanzialmente diviso a metà, tra chi ha partecipato a corsi di formazioni e chi no.

Tabella 3.13 (32): Partecipazione del personale a corsi di formazioni

«E' il personale di Aversa che presenta la percentuale più elevata di partecipazione (63%), seguito da quello di Montelupo Fiorentino (55%), mentre l'indice più basso di partecipazione ad eventi formativi, in questo arco temporale, viene segnalato dal personale dell'OPG di Napoli (42%).

Disaggregando i dati per area professionale emerge che il personale di polizia penitenziaria riferisce la più bassa quota di partecipazione alla formazione. Gli OPG di Aversa (63%) e di Reggio Emilia (50%) hanno le maggiori percentuali di personale di polizia che ha partecipato a corsi di formazione. Negli altri OPG il dato scende sensibilmente si colloca a circa il 37%. Circa le ragioni della non partecipazione ai corsi di formazione 155 unità rispondono di non essere stati inseriti e solo 5 dichiarano che il corso non risultava di loro interesse» (33).

3.1.4 Le risorse finanziarie

Sarebbe utile, affrontando la problematica delle risorse economiche degli O.P.G., indagare l'efficienza del sistema di cura-punizione dei folli-rei, compiendo un'approfondita ricerca di analisi economica del diritto, ossia valutando il complesso di norme, sentenze e quant'altro si vuole indicare con il termine diritto, mediante l'uso di strumenti economici.

La disciplina è diffusissima nei Paesi di tradizione di common law, soprattutto negli Stati Uniti, con il nome di Law and Economics (34), ma ancora poco applicata nel nostro Paese (35).

Al di là dei problemi metodologici, si aggiunge la non secondaria difficoltà a reperire dati aggiornati, complice la scarsa trasparenza della Pubblica Amministrazione, soprattutto in seguito al passaggio di competenze degli O.P.G. alle Regioni.

Oggi, infatti, esistono sistemi di contabilità e di bilancio diversi da Regione a Regione, per cui è molto complesso isolare le spese per il funzionamento degli O.P.G. dal più generale capitolo delle spese sanitarie e di psichiatria territoriale. Senza contare che, escluso il caso particolare di Castiglione delle Stiviere, i costi continuano ad essere suddivisi tra quelli strettamente sanitari (in capo alle A.S.L.) e quelli custodiali, come il pagamento della messa in sicurezza della struttura e del personale di sicurezza e amministrativo, ancora a carico D.A.P., il che implica che alle somme messe a bilancio dalle A.S.L. occorre aggiungere quelle sostenuto dall'Amministrazione della Giustizia.

Ciò premesso, si è scelto comunque di introdurre la problematica delle risorse, pur rinunciando ad una puntuale analisi economica, per sottolineare la disomogeneità del trattamento e della gestione, conseguente all'iniqua suddivisione dei costi.

Gli ultimi dati disponibili prima della regionalizzazione, risalenti al 2004, mostrano che gli investimenti oscillano tra i 3 e i 7 milioni di Euro, per gli O.P.G. gestiti dal D.A.P. e raggiungono il picco a Castiglione delle Stiviere, che costa alla Regione Lombardia, oltre 12 milioni di Euro. Semplificando significa che un internato a Montelupo (il più “povero” tra gli O.P.G.) costa meno di un quarto dell'internato a Castiglione.

Considerando che oltre l'80% della spesa è costituito dal costo del personale (36), tant'è che non vi è proporzionalità tra numero degli internati e costi, ma piuttosto tra costi e numero di personale impiegato, c'è da domandarsi che effetto abbia questa disomogeneità di distribuzione delle risorse sulla qualità dell'internamento e soprattutto sulle possibilità di successo del percorso di riabilitazione del folle-reo.

La domanda da porsi, facendo dell'eguaglianza e della parità di trattamento i principi guida, è, quanto è giuridicamente sostenibile che l'internato di Castiglione delle Stiviere, considerato O.P.G. modello, costi circa 215 Euro al giorno, pari a oltre 78000 Euro annui, mentre a Barcellona Pozzo di Gotto, secondo i calcoli fatti dalla direzione sanitaria della struttura, i costi per internato scendono dell'80%, arrivando a soli 50 Euro giornalieri, 18 000 Euro annui (37)?

Tabella 3.14 (38): Costi complessivi per O.P.G. ante DPCM 1 Aprile 2008

L'ennesimo sintomo della c.d. schizofrenia penitenziaria si rileva mettendo a confronto l'internato con altri soggetto del medesimo campo giuridico, il detenuto da una parte, e il soggetto psichiatrico affidato ai servizi territoriali.

La retta per il mantenimento del folle-reo ospitato in una comunità terapeutica specializzata, oscilla tra i 160 e 190 Euro giornalieri (39), una cifra sostanzialmente in linea con il costo dell'internamento in O.P.G., mentre i costi per il mantenimento di un detenuto sono 113 Euro giornalieri.

Retoricamente ci si potrebbe domandare come è possibile che il costo di un internato, che presenta ulteriori esigenze di cura, sia sostanzialmente lo stesso del detenuto, che presenta principalmente esigenze custodiali. Il fattore sanitario ha quindi un costo che non sembra essere calcolato, il che può significare o che con le stesse risorse gli O.P.G. riesco a soddisfare sia le esigenze di cura dell'internato, che quelle di sicurezza della collettività, o, più realisticamente, che le spese per la cura sono ridotte al lumicino e che esiste un minus tanto quantitativo quanto qualitativo negli standard di assistenza.

Tabella 3.15 (40): Costo medio giornaliero per detenuto dal 2001 al 2010

3.2 O.P.G. istituzione tenace, soluzioni sostenibili tra abolizionismo e revisionismo

È stato dimostrata la capacità di resistenza dell'O.P.G., istituzione tenace che ha saputo non rassegnarsi ad un'evoluzione storica, più volte pronta a sancirne il superamento con affanno gattopardesco.

Quel che è certo è che negli ultimi vent'anni le proposte, più o meno organiche, di riforma del sistema sanzionatorio dei folli-rei si sono intensificate in quantità e qualità.

Proporne un'analisi sistematica è esercizio sterile, poiché ognuna di queste proposte è rimasta potenziale e non è mai entrata in vigore nel nostro ordinamento, pur rimanendo di stimolo al dibattito di dottrina e giurisprudenza.

Si preferisce quindi citarne le principali, al fine di individuare le direttive di politica criminale per sondarne poi la fattibilità concreta, nella seconda parte di questo capitolo.

Prescindendo dall'ordine cronologico e accogliendo la classificazione proposta da parte della dottrina (41), si suddivide la trattazione dei vari progetti di riforma distinguendo tra c.d. modelli abolizionisti, «che risentendo fortemente dei modelli dell'anti-psichiatri, corrono sulla scia della deistituzionalizzazione sancita dalla legislazione manicomiale» (42) puntando alla soppressione dell'istituto dell'internamento in O.P.G., muovendo tuttavia da presupposti e proponendo soluzioni spesso diametralmente opposte e c.d. modelli revisionisti, che «propongono una soluzione volta a rivedere l'attuale disciplina sanzionatoria nei confronti dei malati di mente autori di reato, intervenendo sia sul ruolo del trattamento custodiale, sia sulla concreta gestione di tali strutture» (43). Se negli anni Settanta, complice il furore ideologico creatosi intorno alla riforma Basaglia, i modelli abolizionisti sembrano prevalere, proponendo «un ripensamento immaginativo di possibili modi di trattare questioni configurabili come problemi sociali» (44), in altre parole, soluzioni di metodo più che di merito; oggi tende a prevalere l'istanza revisionista.

L'altro criterio classificatorio che risulta evidente è il rapporto tra proposta di riforma e legge penale.

Esistono infatti modelli che intendono cambiare la lettera della legge penale e altri che propongono soluzioni a legge penale invariata.

Seguendo questi due criteri classificatori si delineano quattro categorie, che aiutano comprendere le direttive di politica criminale, seguite nell'ultimo ventennio di sviluppo giuridico e sociale:

  1. Proposte abolizioniste con modifica della legislazione penale.
  2. Proposte abolizioniste a legislazione penale invariata.
  3. Proposte revisioniste con modifica della legislazione penale.
  4. Proposte revisioniste a legislazione penale invariata.

1) Tra le proposte abolizioniste con modifica della legislazione penale rientrano il disegno di legge 29 marzo 1983, n.177, primi firmatari senatori Grossi e Gozzini, ritirato dai proponenti e poi ripresentato nel novembre 1985; il c.d. progetto Corleone, n.151 presentato alla Camera dei Deputati il 9 maggio 1996; il d.d.l. 15 dicembre 1998, n.3668, iniziativa del senatore Milio; il Progetto di legge 1 febbraio 1999, n.5503, c.d. proposta di legge Biondi; e, in ultimo, il d.d.l. 4 giugno 2001 n.845 dell'onorevole Cento, ripresentato alla camera dei Deputati il 3 maggio 2006, n.335.

Tutte queste proposte, politicamente trasversali all'arco costituzionale e che attraversano temporalmente oltre venti anni di storia politica italiana sono accomunate dalla volontà di abolizione delle differenze giuridiche tra soggetti imputabili e non imputabili (45), in nome delle c.d. quote di responsabilità del malato psichiatrico, principio cardine della antipsichiatria, favorevole a riconoscere la capacità di porre in essere scelte valide, da cui, inevitabilmente, consegue una piena responsabilità, anche sul piano penale.

Per alcuni la proposta è derubricabile a semplice «utopia» (46), volta a rivendicare pari dignità sociale e porre fine alla politica dell'esclusione, che ha storicamente influenzato il rapporto tra società e malato psichiatrico.

Tuttavia, benché utopiche, tali proposte non si sono spinte fino alla misura limite dell'«abolizionismo custodiale» (47), che teorizza l'abolizione di qualsiasi intervento privativo della libertà personale, ma si sono limitate a proporre un «modello abolizionista carcerizzante» (48).

Paradossalmente infatti l'idea di un controllo custodiale non è stata soppressa, ma rafforzata, poiché il folle-reo sarebbe dovuto rientrare all'interno del paradigma della pena, con la conseguente abolizione tout court del sistema del doppio binario, in favore di un rinnovato regime monistico, in cui tutti i rei sono sottoposti al medesimo regime sanzionatorio.

È proprio questa il profilo di maggior criticità di tali proposte, limpidamente riassunto dalla dottrina maggioritaria: «In nome dell'uguaglianza dei diritti del malato di mente, non si dovrebbe giungere a sostituire un'istituzione totalizzante con un'altra, com'è il carcere, pur sempre improntata sull'idea della segregazione» (49).

Il rischio di peggiorare le condizioni degli internati in O.P.G. scaricando le loro problematiche su un sistema carcerario già in forte affanno, è concreto, soprattutto se si “dimentica” di prevedere, come fanno alcuni dei disegni di legge, una diversificazione dei percorsi carcerari, con l'istituzione, ad esempio, di sezioni speciali per i folli-rei e di servizi psichiatrici penitenziari, specificamente previste invece dalle proposte Grossi, Corleone e Cento (50).

Il secondo aspetto critico riguarda la fase di cognizione e di determinazione del quantum di pena da applicare, se infatti, nelle intenzioni dei proponenti, si vuole porre fine a misure di sicurezza che si trasformano in iniqui ergastoli bianchi, riportando un criterio di proporzionalità tra gravità del fatto e durata della pena, nulla si dice sui criteri che il giudice dovrà utilizzare. Se non vi sono differenze tra imputabili e non imputabili, si dovrebbe considerare l'elemento soggettivo come se non fosse falsato dall'infermità psichica dell'autore, creando così una fictio iuris tendente a negare l'evidenza? Se si toglie l'imputabilità, al giudice non restano che due parametri: gli elementi oggettivi del fatto di reato, già valutati a prescindere e l'unico elemento soggettivo rimanente, cioè la pericolosità sociale, che diventerebbe il solo criterio di commisurazione della pena, tanto è vero che nella proposta di legge Corleone si ipotizza la cancellazione del divieto di perizia criminologica, che, nelle speranze del proponente, dovrebbe assicurare al giudice maggiori elementi di valutazione della personalità dell'autore ai fini della determinazione della pena.

Nonostante tali criticità, che compromettono da sole, il possibile successo della posizione abolizionista e che difficilmente possono superare le importanti divergenze in tema di imputabilità, va rilevata anche la principale positività, sul piano metodologico: l'aver saputo spostare il problema del folle-reo dalla fase di cognizione a quella di esecuzione della sanzione penale.

I proponenti hanno insomma colto il nodo principale della questione, su cui una civiltà giuridica si gioca buona parte della sua reputazione civile, il trattamento riservato dalla società ai soggetti devianti.

2) Per proposte abolizioniste a legislazione penale invariata si intendono quelle favorevoli ad una medicalizzazione del trattamento dell'infermo di mente autore di reato (51): i proponenti non intendo abolire la figure della non imputabilità, ma ne vogliono modificare le conseguenze, alla dichiarazione di non imputabilità dovrebbe seguire infatti l'uscita del soggetto dal sistema giudiziario-penale con un contestuale intervento sanitario. Tali proposte sono una rivisitazione in chiave moderna di ciò che già prevedeva il codice Zanardelli (52).

L'idea di fondo è quella di accentuare le esigenze di cura del folle reo a scapito di quelle securitarie, affidando il soggetto ai servizi sanitari territoriali ed escludendolo quindi dalla logica di segregazione dell'O.P.G. (53), senza tuttavia tener conto delle difficoltà del territorio a gestire determinate categorie di folli- rei, ad elevata pericolosità sociale, con il concreto rischio di rendere il compito della sanità territoriale talmente gravoso da stravolgerne la pratica e la cultura clinica (54).

«Non v'è dubbio che una proposta di questo tipo, nella sua assolutezza, rischia di far compiere un salto nel buio e di apparire più un progetto a lunga distanza, che non una proposta agevolmente realizzabile a media scadenza. Rischia quindi di proporre una medicalizzazione del sistema di intervento: in teoria forse, ma difficile nei fatti» (55).

Concretamente, si finirebbe per creare istituzioni totali, come speciali Servizi Psichiatrici Giudiziari Regionali o sezioni ospedaliere protette, solo nominalmente diverse dagli O.P.G. in cui contenere i folli-rei che non possono, per ragioni cliniche o generalpreventive legate alla loro pericolosità sociale, essere affidati alle famiglie o essere curati con semplici interventi ambulatoriali.

Ma i profili di criticità e di concreta inapplicabilità già presenti nelle linee generali di tale categoria di proposte, raggiungono il loro apice in seguito ad un'analisi più puntuale, spingendo parte della dottrina a bollarle come proposte «rischiose» (56).

Il riferimento è, in particolare, al disegno di legge Burani-Procaccini, che propone, non senza pretestuosi preconcetti ideologici, una controriforma della legge 180/1978, riproponendo l'idea custodiale del vecchio manicomio, chiamato, nelle intenzioni del proponente, Struttura Residenziale con Assistenza continuata (S.R.A.) e destinata ad «accogliere i malati più gravi, pericolosi per sé e per gli altri o che rifiutino l'inserimento in comunità aperte» (art. 13).

A sollevare le critiche più aspre, oltre che dubbi di legittimità costituzionale è il percorso attraverso il quale il malato di mente raggiungerebbe le S.R.A.: si prevedono infatti una serie di Accertamenti Sanitari Obbligatori (A.S.O.) svolti da un'apposita commissione, chiamata ingannevolmente Commissione per i diritti del malato di mente, di cui farebbero parte oltre che specialisti psichiatri, anche un giudice tutelare e rappresentanti delle Associazioni dei famigliari (57), che sarebbero quindi chiamati a prendere decisioni molto delicate. Le decisioni di tale Commissione non sarebbero reclamabili, a meno che l'internamento del soggetto nelle S.R.A. si protragga oltre i sei mesi.

In definitiva, un pericoloso connubio di «demagogia e superficialità» (58) che rischia di cancellare decenni di conquiste psichiatriche e di polverizzare l'ardente anelito della riforma Basaglia. Tra le positività della teoria della medicalizzazione si rileva l'accento posto sull'idea che debba esserci, per i folli rei, più sanità e meno giustizia, idea che è stata timidamente seguita dal DPCM 1 aprile 2008 che sancisce il passaggio di competenze dell'O.P.G. alla sanità territoriale.

3) Sul fronte delle teorie revisioniste, tra le soluzioni che propongono una modifica della legislazione penale, vi sono tutti i più recenti progetti di riforma del codice penale: il progetto Pagliaro del 1991, il progetto Riz (1995), il progetto Grosso (1999), il progetto Nordio (2004) e, infine, il progetto Pisapia (2006).

In tutti i progetti, pur sussistendo importanti differenze, si rileva il rifiuto di soluzioni abolizioniste (59), sintomatico di come il mondo del diritto consideri imprescindibile l'esistenza dell'O.P.G. nel nostro ordinamento. Non è questa la sede per un'analisi sistematica dei singoli progetti di riforma, tuttavia è necessario individuare alcune proposte significative e particolari in tema di regime sanzionatorio dei folli-rei.

Particolarmente significative sono le proposte avanzate dalla Commissione Pagliaro, che da una parte, anticipa di qualche anno importanti decisioni della Corte Costituzionale (su tutte, la possibilità di concedere la libertà vigilata come alternativa all'internamento), dall'altra propone il definitivo superamento delle presunzioni di pericolosità sociale, salvo poi continuare a non fornire indicazioni concrete sulle modalità di trattamento del non imputabile per vizio di mente, che, in generale, restava «esigua e lacunosa» (60).

Più puntuale è la proposta Grosso, destinata, qualora fosse entrata in vigore, a sostituire il controverso concetto di pericolosità sociale, ad un più pragmatico «bisogno di trattamento e controllo» determinato dal persistere delle condizioni di incapacità che hanno causato il delitto.

Il giudice, coadiuvato dal perito, una volta accertate le necessità terapeutiche del folle reo, avrebbe potuto scegliere tra una serie di misure di «sicurezza e riabilitative» di tipo penalistico solo qualora vi fossero comprovate e prioritarie esigenze di prevenzione dei delitti più gravi, altrimenti sarebbe stato sufficiente un intervento extrapenale.

La Commissione Nordio considera invece la proposta di eliminazione della pericolosità sociale avanzata dal progetto Grosso, un tipico esempio di truffa delle etichette, utile «soltanto a mascherare la stessa penosa realtà» (61). Tuttavia, nel progetto Nordio, rimane la vaghezza del riferimento a non meglio precisate «strutture giudiziarie di custodia con finalità terapeutiche o di disintossicazione», che offusca la positività costituita dalla previsione di limiti di durata delle misure di sicurezza per i non imputabili (non meno di un anno, non più di dieci).

4) Tra le proposte revisioniste a legislazione penale invariata spicca il disegno di legge di iniziativa del Consiglio Regionale della Toscana e dell'Emilia Romagna (62) (d.d.l. 8 agosto 1997, n. 2746, Senato della Repubblica, Disposizioni per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari), su ci vale la pena concentrasi maggiormente, poiché costituirà il sostrato teorico dal quale muoverà la seconda parte di questo capitolo.

A detta degli stessi proponenti è «una proposta realistica, non radicale, ma comunque in grado di sostenere con decisione alcuni importanti principi innovativi e di avviare un percorso che va nella direzione di allestire soluzioni progressive alla situazione attuale, ormai non più sopportabile, in base a considerazioni ampiamente condivise di natura etica, scientifica, politica e umanitaria» (63). Effettivamente è una proposta valida tanto nel metodo quanto nel merito.

Nel metodo, poiché è il frutto del lavoro di un gruppo di esperti, psichiatri, psicologi, giuristi e operatori di comunità toscani e emiliani, che quotidianamente lavorano con la problematica dei folli-rei. Nel merito, poiché è in grado di mediare tra le diverse posizioni di dottrina e psichiatria forense mostrando anche un notevole acume politico strategico e, sopratutto, sapendo essere non una semplice riforma delle etichette, ma della sostanza.

In concreto si propone di lasciare invariato il concetto di non imputabilità e di proporre un nuovo modello di esecuzione nei confronti del folle-reo, rispolverando l'idea basagliana di strutture territoriali intermedie, che permettono un «controllo terapeutico extra moenia» (64), assicurando, nello stesso tempo, continuità terapeutica e di controllo.

Si propone insomma di estendere l'ideale della riforma antipsichiatrica ai folli-rei, scevri tuttavia da ogni furore ideologico, preferendo «costruire un sistema di misure eterogeneo, nel rispetto dell'avvenuto cambiamento da una psichiatria che vedeva nel manicomio la soluzione unica e totalizzante ad una psichiatria della differenza, in cui il sofferente psichico viene visto come una persona con problematiche complesse e non univoche» (65).

Consapevoli quindi che non tutti i folli-rei sono uguali, sia dal punto di vista psicopatologico sia da quella prettamente criminale, si avanza l'idea di un modello differenziato di interventi, che si potrebbe definire, modello a livelli differenziati.

L'art. 4 prevede infatti: «Le misure di sicurezza personali nei confronti di persone maggiori di età, assolte per incapacità di intendere e di volere sono:

  1. l'assegnazione ad apposito istituto in regime di custodia come previsto all'articolo 5;
  2. l'affidamento al servizio sociale, come previsto all'articolo 6.

Il giudice, accertata la pericolosità sociale, con la sentenza di assoluzione, ordina la misura di sicurezza dell'assegnazione ad istituto nei confronti di chi è stato assolto per avere commesso un reato per il quale la legge prevede nel massimo una pena non inferiore ad anni dieci di reclusione. Nei casi in cui la legge prevede nel massimo una pena inferiore, ordina la misura di sicurezza dell'affidamento al servizio sociale; ordina comunque l'assegnazione ad istituto se ricorrono particolari indicazioni in senso contrario alla applicazione dell'affidamento al servizio sociale ai sensi dell'articolo 3, comma 3» (66).

È questa una previsione, a suo modo, rivoluzionaria, poiché lega l'iter terapeutico del soggetto non imputabile per vizio di mente alla gravità del fatto commesso, raggiungendo il duplice obbiettivo, di evitare internamenti iniqui e troppo lunghi (i c.d. ergastoli bianchi), pur assecondando le esigenze generalpreventive di sicurezza.

Il progetto di riforma non si limita ad enunciare le tipologie di intervento, ma propone soluzioni gestionali concrete, ben diverse dagli attuali O.P.G.

A detta degli stessi proponenti gli istituti di ricovero per soggetti assolti per incapacità di intendere e di volere «potrebbero essere visti come la riproposizione, aggiornata ed edulcorata, degli ospedali psichiatrici giudiziari, di cui perpetuerebbero le funzioni di separazione e di stigmatizzazione, confermando modalità differenziate di trattamento per una categoria di cittadini» (67). Queste parole non devono trarre in inganno e sono state enunciate, probabilmente, per esigenze di tattica politica, in modo da aggirare il veto del trasversale partito della sicurezza, favorevole a misure il più repressive possibili, ma è il dettato della proposta di legge a mostrare le importanti peculiarità e differenze di tali strutture rispetto agli O.P.G.

Differenze sul piano quantitativo, dovranno essere una per regione e «di ridotte dimensioni, ospitare un numero limitato di ricoverati, comunque non superiore a trenta, ed essere organizzati per lo svolgimento della funzione terapeutica nei confronti degli stessi, dovendo altresì garantirne la custodia» (art 5.2)., ma soprattutto sul piano gestionale, andando a risolvere il paradosso di personale di polizia penitenziaria, spesso non formato, che rende i reparti degli attuali O.P.G, più carceri che ospedali, ex art. 6 infatti: «Negli istituti predetti la gestione delle attività sanitarie è affidata al Servizio sanitario nazionale, che la svolge fruendo di autonomia organizzativa. La gestione del servizio di custodia esterna è affidata all'Amministrazione penitenziaria: il personale di tale servizio interviene all'interno dell'istituto a richiesta del responsabile del Servizio sanitario. L'istituzione di tali strutture è di competenza delle regioni, cui sono attribuite le relative risorse finanziarie. Con apposite convenzioni si regolano i rapporti tra il Servizio sanitario pubblico e l'Amministrazione penitenziaria». In tali strutture non sarebbero più ristretti soggetti in esecuzione di pena, poiché ci saranno Istituti di pena dotati di un centro psichiatrico di diagnosi e cura, pensati per ospitare detenuti che presentano problemi di carattere psichiatrico.

Parte di tali misure sono state recepite nell'Allegato C D.P.C.M 1 Aprile 2008 (68), ma non è scaturita comunque una riforma organica dell'O.P.G., i cui tempi sono ormai maturi.

3.3 Dall'O.P.G. alle comunità, una ricerca sul campo tra Piemonte e Emilia Romagna

È tempo di muovere l'analisi sociologica sulla esecuzione penale dei folli-rei da una dimensione prettamente quantitativa a una qualitativa, poiché l'Umano deve prevalere sul Numero.

Si applicheranno quindi le caratteristiche della ricerca esplorativa e della ricerca sul campo, intendendo la prima come «una ricerca che non ha ipotesi precise da verificare; essa nasce da interessi generali di conoscenza e segue alcuni criteri guida formulando eventualmente ipotesi parziali durante lo svolgimento, sulla base di elementi che a priori non si è in grado di ipotizzare» (69) e la seconda come «una ricerca che, a differenza della ricerca sperimentale, viene condotta in un contesto reale» (70).

Useremo lo strumento più prezioso della ricerca qualitativa, l'osservazione diretta, non applicandolo agli O.P.G., poiché restano, burocraticamente, realtà difficili da penetrare, ma soprattutto perché considerati come esperienze a termine, destinate, auspicabilmente, ad essere superate o comunque radicalmente modificate nel futuro prossimo venturo.

Si cerca invece di comprendere l'oltre etico e giuridico all'O.P.G., che, dall'analisi precedentemente svolta dei principali indirizzi di politica criminali e proposte di riforma, sembra basarsi su un modello comunitario.

Abolizionisti e revisionisti concordano infatti sul fatto che i folli-rei, in particolare quelli con una medio-bassa pericolosità sociale, debbano essere accolti in strutture più piccole degli attuali O.P.G., capillarmente diffuse sul territorio, in grado di garantire un percorso terapeutico e riabilitativo al paziente e in cui le esigenze di cura prevalgano su quelle di sicurezza, grazie anche alla prevalenza del personale sociosanitario rispetto quello di custodia, e a strutture che tanto architettonicamente quanto metodologicamente assomiglino il meno possibile a istituti penitenziari.

Le comunità non sono certo una novità per l'ordinamento italiano, dove hanno avuto un ruolo fondamentale (e controverso) per quanto riguarda la cura e l'accoglienza della tossicodipendenza, dell'abbandono minorile, della violenza famigliare, così come della malattia psichiatrica. Lo stesso Franco Basaglia immaginava che l'alternativa ai manicomi potesse essere incarnata dalle c.d. strutture intermedie. Tuttavia sono rarissime le esperienze di comunità che accolgano prevalentemente, se non esclusivamente, pazienti psichiatrici autori di reato.

Lo stimolo ad iniziare la sperimentazione è arrivato dalla celebre sentenza della Corte Costituzionale n. 253/2003 (71), in cui il giudice costituzionale ha voluto compiere un ri-bilanciamento delle esigenze di cura e di sicurezza, dichiarando costituzionalmente legittimo il fatto che «il giudice possa adottare, fra le misure che l'ordinamento prevede, quella che in concreto appaia idonea a soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona, da un lato, di controllo e contenimento della sua pericolosità sociale dall'altro lato» (72). Tra le misure previste dall'ordinamento vi sono anche le comunità.

Al di là dell'indubbia portata giuridica del dictum della Consulta, è interessante notare come dalla modifica dell'interpretazione giuridica della norma (in questo caso l'art. 222 cod.pen. E l'istituto della libertà vigilata) nasca un approccio diverso all'intero sistema della follia criminale, che travalica le aule di giustizia e i confini del diritto e interessa un variegato mondo che va dalla psichiatria all'imprenditoria (visto che le comunità sono, da un punto di vista prettamente economico, delle attività imprenditoriali).

Si ritiene che l'unica modalità con cui: apprezzare gli effetti concreti della decisione della Corte e dei più recenti interventi legislativi, sondare la fattibilità delle proposte di riforma e valutare la sostenibilità della scelta comunitaria, è quella di visitare tali strutture, interloquire con ospiti e operatori, comparare le metodologie e le prassi di intervento, per poi proporre una analisi sociologica e giuridica delle osservazione sul campo.

Solo così si può cogliere nella relazione tra legislazione (riferimento a normativa in tema di salute e riabilitazione), definizioni dei servizi (carte dei servizi), discorsi e pratiche di operatori e utenti della comunità, la complessità di una realtà che si genera nella confluenza di aspetti giuridici, sociologici, antropologici, psicologici e psichiatrici.

Si sono pertanto individuate due strutture (73), la comunità Il Montello di Serravalle Scrivia (Al) e la comunità Sadurano-Casa Zacchera di Castrocaro Terme (Fc). La struttura alessandrina è stata scelta per motivi territoriali, essendo la principale esperienza del genere in Piemonte, la comunità romagnola è invece pacificamente considerata una comunità-modello, nonché prima in Italia a dedicarsi esclusivamente ai folli-rei (insieme all'esperienza gemella toscana de Le Querce di Sollicciano). Si è scelto quindi un tempo, dal 19 al 27 luglio 2011, durante il quale condurre la ricerca, che consta di due fasi: è stata anzitutto svolta un'intervista a schema libero con il responsabile della struttura, Giovanni Gardelli, direttore dei servizi di Casa Zacchera e Silvia Morrone, direttrice clinica de Il Montello.

Le interviste hanno avuto una durata pressoché uguale (due ore circa) e hanno affrontato le medesime problematiche, tuttavia non sono state poste esattamente le stesse domande nel medesimo ordine, per evitare di imbalsamare le idee in un rigido questionario, con il rischio di non cogliere le differenze di approccio alla problematica.

L'intervista a Giovanni Gardelli, è avvenuta all'interno della comunità, nell'ufficio della direzione, l'intervista a Silvia Morrone è invece avvenuta all'esterno della comunità, nello studio dove l'intervista svolge la sua attività di psicoterapeuta. All'intervista è seguita la seconda fase della ricerca: la visita alla comunità, durata due giorni nella struttura di Forlì e un giorno nella struttura di Serravalle Scrivia. La gran parte degli operatori e degli ospiti, più che altro per motivi organizzativi, sapevano della visita e ne conosceva i motivi: al Montello sono stato presentato agli ospiti come un operatore tirocinante, a Casa Zacchera invece come uno studente di Giurisprudenza.

In entrambe le strutture ho chiesto e mi è stato concesso di vivere, affiancato ad un operatore, la giornata-tipo della comunità, affinché l'indagine del reale fosse piena e il meno filtrata possibile, senza alcun apparecchio di registrazione o strumento che potesse creare una qualsivoglia barriera con l'interlocutore.

Effettivamente l'esperienza, come nelle intenzioni, è stata caratterizzata dalla autenticità, premessa fondamentale per il successo di una ricerca sul campo: le attività svolte a fianco degli ospiti sono state le più varie, dalla pulizia dei bagni, delle camere e degli spazi comuni, alla consumazione dei pasti, passando per i momenti di svago (pomeriggio in piscina, visita in paese per la spesa), di ozio e di lavoro. Ho anche avuto l'opportunità di partecipare alle riunioni cliniche e organizzative degli operatori e ho avuto accesso a parte del materiale documentale contenuto nell'archivio delle strutture, nel pieno rispetto della riservatezza dei dati sensibili dei pazienti. Non mi è mai stato chiesto di allontanarmi o negata un'informazione, quindi l'osservazione è stata continuata e ininterrotta per l'intero periodo, compresi i pochi momenti critici (scompensi dei pazienti, incomprensioni tra operatori e pazienti, screzi tra pazienti).

È ora necessario procedere alla resocontazione dell'esperienza, a cui seguirà l'analisi critica.

Seguendo la cronologia della ricerca, si inizia con il riportare la trascrizione dei punti più interessanti e di maggior rilievo delle interviste. Molte informazioni verrano riprese e spiegate successivamente nel corso della descrizione delle strutture.

Si noteranno immediatamente i punti di accordo tra le visione dei due intervistati (l'idea che le comunità non sono luoghi di punizione, il rifiuto a svolgere ruoli di sicurezza, il sospetto verso alcune iniziative parlamentari -come il lavoro della Commissione Marino-troppo indignate e poco propositive) e i punti di disaccordo (le finalità del lavoro in una comunità, il ruolo della clinica, l'idea di territorio), che non possono non riflettersi sul funzionamento generale della comunità stessa.

3.3.1 Persone 1/ Silvia Morrone: «La legge è importante, ma la clinica è fondamentale»

Che cos'è il Montello?

Dal punto di vista del metodo e dell'approccio terapeutico, il Montello è una comunità lacaniana, che mette in pratica gli insegnamenti dello psichiatra francese Jacques Lacan (74).

È sintomatico che introduca la comunità parlando anzitutto del metodo e dell'approccio terapeutico? È solo deformazione professionale?

Quando si parla di folli-rei, non è possibile scindere il fattore clinico da quello giuridico-criminale. In oltre dieci anni di “vita” al Montello, che è una comunità aperta dal 2000, mi sono fatta l'idea che i nostri ospiti siano anzitutto dei pazienti.

Se volessimo definirla invece da un punto di vista prettamente giuridico?

Allora diciamo che il Montello è una comunità psichiatrica terapeutica protetta, nata per ospitare pazienti con patologie psichiatriche gravi e poi, con gli anni, specializzata nell'accoglienza e nella cura di pazienti provenienti principalmente dagli O.P.G. o comunque con una storia criminale, più o meno grave.

La struttura ha concluso il lungo, tortuoso e burocratico iter di accreditamento con la Regione Piemonte previsto dal Decreto del Consiglio Regionale 357/1997.

Come è strutturata?

La comunità, sempre in forza delle disposizioni legislative del decreto regionale, è suddivisa in due: una comunità di tipo A, ad alta intensità di trattamento e una di tipo B, a bassa intensità di trattamento. La legge prevede numerose differenze tra le due tipologie, soprattutto sul piano dell'assistenza, la comunità di tipo A è principalmente riabilitativa e quindi necessita la presenza di più figure professionali, quella di tipo B è più cronica.

La metodologia lacaniana però non riconosce la differenza tra riabilitazione e cronicizzazione e così abbiamo scelto di non differenziare i pazienti, chi entra in comunità non nota nessuna divisione tra le due tipologie. È stata acquistata ed è tutt'ora gestita da una s.r.l. presieduta da un direttore sanitario, che, essendo, un medico dentista, ha un percorso e una formazione professionale che poco o nulla hanno a che fare con il disagio psichico.

Come è arrivata al Montello?

Conoscevo il direttore amministrativo, ho iniziato come responsabile della comunità di tipo A. Già da dieci anni lavoravo in altre comunità con pazienti in “doppia diagnosi”.

Fino a una quindicina di anni fa, vi erano principalmente due tipologie di comunità, o le comunità psichiatriche “classiche” che accoglievano pazienti con disagi psichici importanti, principalmente schizofrenie e paranoie, oppure quelle che ospitavano tossicodipendenti con patologie psichiatriche.

All'inizio anche il Montello non si discostava troppo da questo quadro e ospitava pazienti inviati dai Dipartimenti di Salute Mentale o tossicodipendenti provenienti dai Ser.T.

Con il tempo ci siamo accorti che i bisogni della società e del territorio stavano velocemente variando, ricevevamo quotidiane richieste dagli O.P.G. e abbiamo deciso di iniziare questo nuovo percorso.

Da tossicodipendenti in “doppia diagnosi” e pazienti psichiatrici “classici” ai foli-rei: come è avvenuto il passaggio?

Dal punto di vista giuridico amministrativo non è cambiato nulla, come tutte le comunità private ogni nuovo ingresso avviene in forza di una Convenzione tra la direzione della comunità e l'Autorità inviante che paga la retta e segue il progetto terapeutico (i DSM, i S.E.R.T o, nel caso di pazienti da O.P.G., il Ministero della Giustizia). Con il DPCM 1 aprile 2008 e la sanitarizzazione degli O.P.G., cambia semplicemente l'identità di chi eroga la retta: non più il Ministero della Giustizia, ma le Aziende Sanitarie Locali, che, nonostante il loro disappunto, “subisco la decisione del giudice”, come se fosse una sorta di imposizione. Infatti se il giudice (sia il Magistrato di Sorveglianza, nel caso di pazienti internati in esecuzione della misura di sicurezza sia il giudice di cognizione) dispone l'inserimento in comunità, questi acquisiscono una sorta di “priorità”.

Insomma, l'opinione del giudice è prevalente rispetto all'opinione del servizio sanitario. E per noi del Montello, questo è spesso un vantaggio.

In che senso?

Nel senso della sicurezza economica e gestionale. In Piemonte e non solo, esistono numerosi casi di comunità che stanno chiudendo, perché le Asl non pagano più le rette, noi siamo invece garantiti dalla decisione del giudice, le Asl sia che conoscano il paziente o non lo conoscano, sono obbligate a pagare.

Chi sono i pazienti del Montello?

La maggior parte sono pazienti sconosciuti ai servizi territoriali, il che rende ancora più difficile il nostro lavoro, perché non conosciamo la storia clinica di quel paziente. Non si può stabilire una regola generale sotto l'aspetto della provenienza geografica, siamo una comunità piemontese, ma accogliamo pazienti da tutta Italia. Tuttavia, negli anni, abbiamo instaurato una buona collaborazione con gli O.P.G. di Reggio Emilia e Montelupo Fiorentino, spesso sono gli operatori stessi di quelle strutture ad indicare la nostra comunità ai servizi territoriali.

Quanti dei vostri pazienti provengono dall'O.P.G.?

Sono l'80% su un totale che varia a seconda dei periodi tra i 36 e 38 pazienti, negli ultimi anni abbiamo notato che si sono allungati molto i tempi di permanenza, all'inizio erano di media 2 o 3 anni, ora abbiamo pazienti che superano i 10 anni di permanenza, poiché il magistrato di sorveglianza continua a ritenerli socialmente pericolosi.

Questi pazienti sono pienamente istituzionalizzati, la comunità è diventata la loro unica casa, sono persone per le quali manca totalmente un tessuto sociale, la famiglia è assente, i servizi inefficienti e i consociati sospettosi.

Come il Montello affronta il problema sicurezza?

Lo ripeto i nostri ospiti sono dei pazienti, non dei criminali. Sono persone con una patologia psichiatrica, è questo l'unico aspetto che ci interessa. Il metodo lacaniano rivendica con forza il fatto che la clinica non si deve appiattire sulla legge, purtroppo è difficilissimo far capire questo concetto al mondo del diritto, magistrati e avvocati in primis. Eppure grazie a questo duro e lungo lavoro, in comunità ci sono pochissimi “passaggi all'atto”, con episodi di aggressione e violenza tra ospiti e nei confronti di operatori molto sporadici. Paradossalmente la comunità è più tranquilla da quando accogliamo pazienti provenienti dall'O.P.G. rispetto a quando lavoravamo con la doppia diagnosi.

Quindi l'aspetto legale non vi interessa?

È improprio dire che non ci interessa, diciamo che la legge diventa uno degli strumenti terapeutici. Per molti soggetti costituisce il limite ultimo, quando tutti gli altri limiti sono stati violati. Per un omicida, che arriva a travalicare il principale limite regolatore della convivenza sociale e cioè il rispetto e la salvaguardia della vita altrui, solo la legge è capace di dire “ora basta!”.

Le discussioni sulla consapevolezza del delitto, del senso di colpa, della capacità di intendere e volere, sono baggianate dette da persone che non sanno cos'è un paziente psichiatrico autore di reato. La maggior parte dei pazienti si considerano vittime della legge, pensare che acquisiscano una consapevolezza del proprio gesto criminale è utopia.

C'è il rischio di considerare la problematica del folle-reo solo dal punto di vista clinico?

La legge può anche essere, a suo modo, persecutoria, ma quello che non deve essere persecutorio è il lavoro che si fa in comunità. La comunità accompagna il soggetto a farsene qualcosa della legge e non solo a viverla come una persecuazione.

Come?

Cercando di utilizzare una ampia gamma di strumenti, non certo solo la parola, poiché, nonostante molti nostri pazienti si dimostrino molto adeguati e “normali”, in realtà usano spesso linguaggi diversi, che possono essere interpretati solo da personale ben formato.

L'errore da evitare è quello di inserirsi in questa dinamica persecutoria, facendo sentire il paziente oltre che vittima della legge, anche vittima della comunità e dell'altro.

Al Montello esiste una preselezione dei pazienti da inserire in comunità?

È fondamentale. Noi non prendiamo chiunque. Non tutti i folli-rei possono e debbono stare in comunità, per questo lo psichiatra e lo psicologo di comunità prima di dare l'assenso a nuovi ingressi, svolgo una o due visite all'O.P.G., parlano con le equipe e con il paziente, dopodiché decidono.

A volte capita di sbagliare, soprattutto quando si sceglie di accogliere soggetti con un comportamento criminale particolarmente accentuato. Con queste persone il percorso comunitario è semplicemente impossibile. Devono rimanere in O.P.G.

La differenza fondamentale tra la comunità e un carcere è che nel carcere sei obbligato a starci, in comunità anche, se così ha disposto il giudice, ma puoi scegliere la tipologia. Nessuno è obbligato a restare al Montello, ci sono decine di altre strutture pronte ad accoglierti. Anche se negli ultimi anni abbiamo il problema opposto: tanti pazienti dal Montello non se ne vogliono andare e questo può diventare un problema, poiché si formano gruppi gerarchici, si individuano leader, magari ci sono episodi di violenza e prevaricazione, spesso “invisibili”.

È favorevole quindi ad una differenziazione tra pazienti a seconda del grado di pericolosità?

Sì anche se il problema si sposta. Chi giudica la pericolosità? C'è molta discrezionalità, abbiamo accolto pazienti considerati molto pericolosi dai servizi territoriali, che ritenevano il percorso comunitario assolutamente impossibile e invece hanno avuto processi di risocializzazioni ottimi.

Tutto sta nella raffinatezza dell'analisi clinica, su cui spesso, per mancanza di tempo e risorse, la psichiatria è carente: è finita l'epoca dei “matti” che straparlano o sentono le voci, oggi ci sono pazienti che lavorano subdolamente, che si presentano molto adeguati. Solo con l'osservazione quotidiana si coglie il loro aspetto clinico.

C'è quindi un problema di analisi e valutazione del folle-reo?

Sì, perché manca spesso una formazione specifica degli operatori territoriali, abituati a lavorare con la popolazione psichiatrica, ma poco avvezzi agli autori di reato. Sono situazioni diversissime, che vanno conosciute, mi sono spesso scontrata con psichiatri che non volevano riconoscere un'evidente patologia di un soggetto, con grave rischio della sicurezza collettiva.

Noi, ormai, riusciamo a individuare cosa può rendere pericoloso un soggetto, ma la certezza che non commetta più un reato non c'è. Occorre un grande lavoro di squadra, tra servizi territoriali, operatori di comunità, famigliari.

Anche con avvocati e operatori giuridici?

Certamente, occorre capire che il folle-reo non è un normale cliente per lo studio legale. Ciò che è positivo per la generalità delle persone, per il folle-reo può diventare negativo. Occorre rimodulare gli obiettivi: ottenere un alleggerimento della misura di sicurezza da parte del magistrato di sorveglianza non è sempre un buon risultato. Con alcune richieste degli avvocati, si rischia di mandare in fumo mesi di lavoro terapeutico. Ma gli avvocati tendono a non ascoltarci e sbagliano.

Cosa significa comunità per un folle-reo?

L'esperienza mi insegna che significa soprattutto protezione da un mondo persecutorio e da una legge considerata ingiusta. Ma da qui nasce il problema della durata del trattamento comunitario. Ammesso che la comunità sia un nido sicuro, è giusto che i pazienti vi restino a lungo? Bisogna porsi l'obiettivo di uscita dalla comunità oppure no? Da qui nascono i rapporti con il magistrato di sorveglianza che è in grado di “dettare i tempi” del ricovero, attraverso la fondamentale misura delle prescrizioni, che possono interrompere o far continuare la permanenza in comunità, anche su nostra indicazione.

Spesso capita di concordare con il magistrato il ritorno all'O.P.G., perché la comunità ha fallito, altre volte per soggetti, che magari trasgrediscono alle regole e alle prescrizioni, chiediamo fiducia e restano in comunità, perché anche la trasgressione è un tempo del trattamento.

Cosa significa l'O.P.G. per un folle-reo?

È paura.

Qual'è l'obiettivo del Montello? È la rieducazione dell'art. 27 della Costituzione, è la contenzione in nome delle esigenze generalpreventive della collettività o è il semplice badantato?

È difficile fare un discorso generale, ogni paziente ha i suoi obiettivi, che possono essere raggiunti solo se funzionano le relazioni territoriali, che è poi lo stesso motivo per cui la rivoluzione basagliana è stata una rivoluzione dimezzata.

Tuttavia credo che il nostro ruolo sia la consapevolezza. Come psicoterapeuta sancisco il successo di un percorso clinico, quando so che il paziente ha la consapevolezza dei suoi punti critici.

Non mi importa il pentimento per il reato, la consapevolezza stessa della gravità di ciò che hanno commesso, voglio che si rendano conto delle loro precarietà, che siano insomma soggettivamente responsabili e sappiano fermarsi un attimo prima del passaggio all'atto. Non mi illudo di autonomizzare le persone, la società moderna ha il culto dell'autonomia, devi avere una tua famiglia, un tuo lavoro, una tua casa, un tuo passatempo, una tua auto...pensate come è difficile per un folle-reo, che è cronicamente non autonomo, inserirsi in questo contesto sociale. Anche la legge è oggi “autonoma”, c'è la tendenza a crearsi la propria la legge, in grado di aggirare la legge di tutti, di cui ci consideriamo, come i folli-rei, vittime.

Come il Montello simbolizza la “sanzione”, visto che molti dei vostri pazienti sono sottoposti a misura di sicurezza?

Questo è un dei nodi principali. È necessario uscire dall'idea buonista che il folle-reo debba essere compatito e non punito. Ci siamo accorti che i percorsi comunitari più problematici sono quelli dove manca una forte simbolizzazione del limite della legge, della regola, della sanzione, cosa che avviene spesso nei casi di accesso diretto, per vari motivi, in comunità, senza un precedente percorso né di carcere né di O.P.G. Capita con pazienti giovani, che avevano commesso quando erano minorenni e quindi hanno scontato pene meno repressive e severe.

È compito degli operatori far capire al paziente che ogni atto produce conseguenze, anche sanzionatorie, che non possono essere solo enunciate, ecco perché, a volte, il ritorno in O.P.G. può diventare uno strumento importante.

Crede possibile che le comunità possano sostituire gli O.P.G.?

No, la comunità è luogo di cura, non potremmo accettare l'affidamento di compiti non curativi, ma punitivi. C'è una differenza di funzioni che non può essere derogata.

Esiste quindi, a trent'anni dalla legge Basaglia, la necessità sociale di istituzioni totali per soggetti psichiatrici?

L'istituzione totale, in fondo, è un luogo di contenimento, che rappresenta un limite “fisico” e ideale.

Dobbiamo ammettere che esistono pazienti che hanno bisogno di un limite.

La nuova istituzione totale dovrebbe coniugare l'accogliere e il limitare in un bilanciamento perfetto. Non può diventare né solo accoglienza, né solo limite. Il paradigma non può essere il «no», ma il «sì, ma non troppo».

Gli O.P.G. si possono e devono superare?

Noi operatori del settore abbiamo la sensazione che si stia aprendo una stagione di svolta, in cui si potrebbe arrivare in tempi brevi alla chiusura degli O.P.G., ma attenzione a non ripetere gli stessi errori della legge 180. A volte sembra non si sia imparato nulla.

Il lavoro della Commissione Marino e in particolare la scelta di mandare in onda in prima serata le crude immagini della vita in O.P.G. non mi è sinceramente piaciuto. È stato diffuso un messaggio sbagliato, l'O.P.G. non è solo la drammatica realtà descritta, non sono solo i 350 pazienti dimissibili, non è solo ergastolo bianco. L'approccio scandalistico non è quello giusto.

Preferisco un approccio funzionale, ammettiamo che l'O.P.G. ha una funzione, capiamo chi e come può adempierla, ma non neghiamone la funzione, altrimenti facciamo un danno alla società e, fatto ancor più grave, agli autori di reato con patologia psichiatrica, che si troverebbero smarriti in una società che non li vuole.

3.3.2 Persone 2/ Giovanni Gardelli: «In comunità non si reprime, si ricostruisce un paese»

Come nasce Casa Zacchera?

La nostra principale caratteristica è nascere come comunità specializzata nell'accoglienza di pazienti emiliano-romagnoli provenienti da O.P.G. Non abbiamo mai ospitato nessun altra tipologia di pazienti.

Casa Zacchera fa parte del complesso di Sadurano, un pezzetto di società restaurata, un borgo distrutto dalla guerra e trasformato dalla tenacia di don Dario Ciani (75), cappellano del carcere di Forlì, in luogo di accoglienza e solidarietà fin dal 1975. Si è iniziato con l'accogliere tossicodipendenti, prostitute vittime della tratta, ragazze madri, senzatetto, solo molti anni dopo, nel 2000, venne l'idea di una comunità autonoma pensata solo per gli internati in O.P.G., ma era già dal 1995 che accoglievamo pazienti psichiatrici.

Come è nata l'idea, siete stati tra i primi in Italia?

Siamo partiti da un'esigenza del territorio, questa è la nostra modalità di lavoro. Gli psichiatri territoriali con cui collaboravano, ci raccontavano che molti pazienti uscivano dall'O.P.G. e non avevano una rete sociale pronta ad accogliergli, altri non ci uscivano proprio, perché continuamente “prorogati”: noi abbiamo messo a disposizione la competenza e la passione delle cooperative di Sadurano, ognuno, istituzioni, Ministero, direzione dell'O.P.G, D.S.M. ha fatto la sua parte.

Questa è stata l'idea vincente: servire il territorio, non creare un problema al territorio.

Il territorio, ma potremmo dire la società dell'insicurezza, però ha spesso paura, perché i folli-rei, i tossicodipendenti, gli “Altri” spaventano...

Dipende, a Sadurano, ad esempio non è successo, dipende da come la comunità si pone.

Il nostro progetto è rimasto segreto per due anni, nessuno, al di là dei soggetti istituzionali, sapeva chi era ospitato a Casa Zacchera. Il sindaco non aveva ritenuto opportuno neanche avvisare il consiglio comunale e il resto della giunta. Avevamo paura che le persone si spaventassero a pensare di abitare a pochi metri da dei pazienti usciti da O.P.G.

Quando, dopo due anni, abbiamo deciso che era giunto il tempo che il territorio sapesse, i giornali locali hanno montato una campagna stampa assurda, c'erano i fotografi nascosti nei boschi, pronti a immortalare i nostri ospiti a fare chissaché. Un anziano contadino, si trovò nel cortile una troupe televisiva che gli chiedeva se non avesse paura a vivere vicino ai pazzi criminali. Lui rispose con la spontaneità romagnola: «no!». Quella risposta davanti alle telecamere è stata il segno tangibile che il nostro messaggio era arrivato.

Tuttavia i vostri pazienti sono considerati dalla legge socialmente pericolosi. Come vi relazionate con il problema sicurezza?

È di nuovo una questione di fiducia, cerchiamo di non dare alibi al territorio, in modo che nessuno possa dire che Casa Zacchera crea problemi, ci siamo accorti che spesso bastano gesti semplici: tutti i commercianti dei Comuni limitrofi hanno i nostri recapiti, ci conoscono, se capita qualche problema con un nostro paziente non chiamano le forze dell'ordine, ma chiamano direttamente i nostri operatori. Ci è capitato di fare interventi per pazienti di altre comunità, d'altronde quello di Forlì è un territorio particolare, con una percentuale di posti letto in comunità private per pazienti psichiatrici tra i più alti d'Italia, sono circa quattrocento.

Si nota come i rapporti con gli altri soggetti del campo giuridico del penitenziario siano fondamentali.

Non può essere altrimenti, il processo di riabilitazione di un internato in O.P.G. è un gioco d'incastri, se c'è un passaggio che non funziona, crolla l'intera struttura.

Un esempio concreto: se l'equipe psicologica dell'O.P.G. investe tempo, fatica e risorse per convincere un paziente ad uscire dalla cella, invece di passare il suo tempo sdraiato sul letto, alla fine ci riesce e poi, banalmente, la guardia si “dimentica” di aprire la porta della cella, si è sprecato il lavoro di mesi per colpa di rapporti che non funzionano.

Dalla qualità dei rapporti tra questi soggetti dipende il futuro degli O.P.G., non da altro, negli Anni Settanta, ai tempi di Basaglia, c'era un'ideologia forte, un movimento di popolo che chiedeva la chiusura dei manicomi, oggi non c'è questo fermento, gli O.P.G. si supereranno se ognuno saprà fare la propria parte.

Non ci sono le manifestazioni, ma c'è un nuova attenzione politica intorno agli O.P.G., Come giudica l'operato della Commissione Marino e gli ultimi provvedimenti riguardo agli O.P.G?

Una delegazione della Commissione ha visitato la nostra comunità, poi ci hanno invitati in Senato a raccontare la nostra esperienza, riconoscendoci come realtà modello in Italia.

Però qualche dubbio sull'efficacia del loro operatore c'è: hanno un approccio molto meccanicista, quasi logico-matematico, portato probabilmente anche dalla formazione professionale di molti componenti, lo stesso Marino è un chirurgo. Ma con i folli-rei devi essere pronto ad accettare che non tutte le azioni che si compiono hanno una conseguenza logica.

L'idea di mandare in onda su una rete nazionale un filmato che mostrasse le brutture degli O.P.G. non mi ha convinto, non si può far arrivare il messaggio che più si va verso Nord partendo da Barcellona Pozzo di Gotto e più le cose migliorano, occorre contestualizzare, dire che a Castiglione delle Stiviere va tutto bene e dalle altre parti tutto male, è sbagliato. Basterebbe leggere le statistiche sui tempi di permanenza medi degli internati, a Castiglione sono molto più lunghi, perché? Perché segue la logica di un bel contenitore con tanto di piscina, che contiene appunto, ma non riabilita.

Voler sollevare lo scandalo e il ribrezzo per l'esistenza di letti di contenzione è un altro messaggio sbagliato, perché, è triste ammetterlo, a volte la contenzione fisica è uno strumento necessario e insostituibile. Insomma la generalizzazione dei problemi è controproducente. Avrei preferito che, vicino allo “schifo” si fosse rappresentato la bellezza dell'alternativa all'O.P.G., che esiste.

Anche perché non è con lo “schifo” che si provoca la reazione sociale, in una società ultraindividualista il ragionamento da combattere è «non mi importa che sia bello o brutto, l'importante è che non ci finisca io».

Quindi esiste una necessità di contenere, istituzionalizzare? Le comunità rischiamo di essere comunque istituzioni totali, sostenibili, ma pur sempre istituzioni totali?

Scelgo di rispondere pragmaticamente: finché c'è un obbligo di legge, che prescrive una limitazione della libertà personale, ci vuole un'istituzione. Però, per quanto riguarda il paziente psichiatrico autore di reato, occorre uscire dalla dalla logica tipica dell'istituzione totale del qualcuno sceglie per lui, per farlo bisogna ritrovare una dimensione che riqualifichi la vita del folle reo e questa dimensione non è l'istituzione totale ma è il territorio, ammesso che il territorio ci sia.

A Casa Zacchera vogliamo che i pazienti siano liberi di scegliere, possiamo aiutarli, consigliarli, capire, ma poi sono loro a scegliere, nessun altro. Scegliere se restare, se andarsene, se rispettare le regole, se trasgredirle, se saltare la staccionata e fuggire... La nostra comunità non è un'istituzione totale, è un paese, sia fisicamente che concettualmente. Ci sentiamo promotori di normalità.

Quindi proponete un percorso di rieducazione nel significato costituzionale del termine? Il linguaggio del diritto sa descrivere il vostro lavoro?

Quello del diritto da una parte e della psichiatria sono linguaggi complesso, che fanno fatica a capirsi reciprocamente. Da questa incomprensione nascono molti problemi legati ai folli-rei.

Dovendomi interfacciare con operatori giuridici e non potendo negare la giuridicità dei problemi dei nostri ospiti, sono costretto a conoscere e parlare il linguaggio della legge, anche se lo trovo insignificante.

Non percepisco il mio lavoro come rieducativo, mi limito ad insegnare a persone a rapportarsi con l'altro, chiunque esso sia, ma ogni rapporto ha le sue peculiarità, come non esiste un idea generale generale di rapporto non esiste un concetto universale di rieducazione. Siamo alla disperata ricerca di relazioni possibili, non relazioni perfetta, ma questo è difficile spiegarlo a giudici e magistrati di sorveglianza.

Non vorrei che rieducazione diventi sinonimo di normalizzazione, il malato psichiatrico non va normalizzato, semplicemente perché la normalità è concetto relativo. La malattia mentale, se esiste, è una retta su cui tutti noi ci collochiamo, nessuno però è fuori da quella linea.

Però la legge impone deve imporre dei limiti, che i pazienti in O.P.G. hanno travalicato. A Casa Zacchera vi occupate dell'aspetto criminale degli ospiti?

No, non è il nostro compito è un altro, noi lavoriamo solo sull'aspetto psichiatrico e psicologico.

È capitato di fare degli errori nella scelta delle persone da ospitare in comunità, ma non appena ci accorgiamo che il soggetto è solo criminale e non psichiatrico, allora lo rimandiamo in O.P.G. o in carcere, proprio perché non è il nostro mestiere quello della repressione o del contenimento del crimine. Non ci sono sbarre, cancelli, guardia sarebbe tecnicamente impossibile, oltreché metodologicamente sbagliato. Questo non significa che non accetto la trasgressione o il superamento del limite da parte di un paziente, ho l'obbligo di segnalarla al magistrato di sorveglianza, ma la accetto, perché può essere un segnale, finché non diventa abitudine.

Se e come Casa Zacchera simbolizza il limite della legge?

Da un punto di vista visivo, il meno possibile, penso al rapporto instaurato con i Carabinieri di Castrocaro Terme per i quali eravamo diventati un problema, non di sicurezza, ma organizzativo. Su cento pazienti psichiatrici in tutto il complesso di Sadurano, almeno venticinque hanno problematiche legali, si può intuire la mole di lavoro che grava su una piccola stazione solo in termine di numero di notifiche da consegnare. Abbiamo raggiunto un accordo e da qualche tempo, non arrivano più a Sadurano, se non in casi eccezionali.

La vera simbolizzazione del limite della legge è data dalle prescrizioni del magistrato di sorveglianza, che spesso funzionano da vere deterrenti.

Insomma il limite non è più l'autorità in divisa, ma è un foglio prescrittivo e il risultato in termini di rispetto del limite è lo stesso, basta pensare al bassissimo numero di ritorni in O.P.G. (solo tre).

La pericolosità sociale può essere un ulteriore deterrente alla commissioni di nuovi reati o è un concetto senza significato?

Credo che il ruolo della pericolosità andrebbe accresciuto, con la legge-Basglia ci siamo resi conto che l'istituzionalizzazione in strutture fisiche non può funzionare, tuttavia non possiamo negare che per disincentivare un soggetto a delinquere occorre un qualche limite, che potrebbe diventare sempre di più quello della pericolosità sociale, che diverrebbe sia una tutela per la collettività che per il folle-reo.

Gli O.P.G. si possono e devono superare?

Anzitutto bisogna rivedere gli obiettivi. Per tutti, sia operatori del diritto che operatori psichiatrici, il traguardo da raggiungere deve diventare la dimissione del paziente, non possiamo pensare che le lunghe permanenze nell'istituzioni possano diventare la norma, perché il tornare a casa è un dovere. Dopodiché dovrò certamente essere aperto al sempre. Ma il sempre è l'eccezione.

Se entriamo in quest'ottica sarà più facile anche ridare all'O.P.G. l'unico ruolo utile: la gestione dell'alta pericolosità. Tutti coloro che non rientrano in questa categoria devono essere curati in altri luoghi, come Casa Zacchera, che è un esperimento che può e deve essere esportato, perché è con la costruzioni di nuove relazioni e non di nuove leggi che si cambiano davvero le cose.

3.3.3 Il primato dell'esistenza: il resoconto delle visite in comunità

Per sistematizzare all'interno di questa ricerca il vissuto nelle visite in comunità, si sceglie di utilizzare un format che permetta di integrare le informazioni tecniche alle impressioni dell'osservatore, creando un efficace connubio di oggettività e soggettività.

In concreto, si utilizzerà il modello correntemente usato dall'Associazione Antigone nella compilazione dell'Osservatorio sulle condizioni detentive, in cui annualmente vengono valutati la maggior parte degli istituti di esecuzione penale italiani (non solo case circondariali, ma anche carceri minorili e O.P.G.).

Tale valutazione si rifà a sua volta al «modello di ricerca più utilizzato nella realtà statunitense (fatto proprio ormai dagli inizi degli anni '90 dal Federal Bureau of Prisons dell'U.S. Department of Justice) denominato Prison Social Climate Survey (PSCS). [...] È strutturato per acquisire la percezione dell'intervistato degli elementi problematici di otto aree del servizio penitenziario, al fine di elaborare degli indicatori empirici di qualità di tale servizio: attività di sorveglianza e di sicurezza all'interno dell'istituto (Security); il livello di sicurezza personale percepito dai detenuti (Safety); il livello di ordine interno e grado di consenso alla regole di vita dell'istituto (Order); leattività del servizio sanitario e per il benessere psico-fisico della persona detenuta (Care), le attività proposte al detenuto (Activity) (lavoro, formazione professionale, istruzione scolastica, attività ricreative e culturali, religione); il rispetto dei diritti del detenuto nelle procedure amministrative interne all'istituto (Justice); la qualità generale della vita e condizioni complessiva di esistenza all'interno dell'istituto (Conditions); la qualità delle attività di management della direzione dell'istituto (Management)» (76).

Tuttavia si impone un adattamento di tale modello alle peculiarità delle strutture comunitaria, che restano pur sempre istituzioni totali nel senso goffmaniano del termine, ma non sono annoverabile tra gli istituti di esecuzione penale, anche se, in questo specifico caso, sono ospitati soggetti in misura di sicurezza.

Si sottolinea fin d'ora la singolarità di questa valutazione, che vuole sottolineare anche una grave carenza di controllo da parte della stessa Pubblica Amministrazione, che ha ridotti strumenti di vigilanza sull'operato delle singole comunità e sulle condizioni degli ospiti. Il controllo spesso si limita alla sola fase iniziale, la c.d. fase di accreditamento, in cui le Regioni, attraverso le A.S.L., riconoscono alle comunità il raggiungimento dei parametri di accoglienza fissati dalla legge regionale concedendo la possibilità di ospitare pazienti in convenzione, la cui retta viene pagata dal servizio pubblico (nel caso di pazienti psichiatrici i D.S.M.).

Dopodich´ i controlli diventano sporadici e prevedibili, «manca l'effetto sorpresa, ogni A.S.L. ha una Commissione di Vigilanza, che almeno due volte all'anno deve svolgere sopralluoghi all'interno di tutte le strutture residenziali convenzionate, ma sono visite, che, in un modo o nell'altro, vengono preannunciate alla direzione della comunità. Se davvero si svolgessero sopralluoghi a sorpresa, probabilmente scopriremmo molte cose spiacevoli» (77).

Senza contare che manca una sistematica resocontazione pubblica di tali visite. Tale mancanza contribuisce a creare un non trascurabile deficit di trasparenza. Sarebbe dunque auspicabile la nascita di un Osservatorio, analogo a quello delll'Associazione Antigone, in grado di misurare la customer satisfaction e soprattutto a certificare la qualità di tali strutture, che fondamentalmente, svolgono una remunerata funzione di supplenza di funzioni tipiche del welfare State.

Il modello proposto consta cinque indici di valutazione differenti: l'aspetto strutturale e architettonico; la tipologia di ospiti e le loro condizioni di ricovero; la composizione dello staff e la sua formazione; i contatti con l'esterno, le attività e la metodologia terapeutica; gli eventi critici e i protocolli di intervento. Si precisa, fin d'ora che le informazioni contenute nei seguenti paragrafi, sono state raccolte personalmente dall'Autore durante le visite in comunità e le interviste con glia operatori e non hanno alcuna pretesa di esaustività, potendo contenere imprecisioni ed errori

1) Aspetto strutturale e architettonico

Il Montello: la comunità è situata a poche centinaia di metri dal casello autostradale di Vignole Borbore, sulla strada statale che porta a Serravalle Scrivia, sul cancello automatico di ingresso, una targa indica “Il Montello”, senza ulteriori indicazioni.

La cascina ricorda la tipica architettura del Basso Piemonte, circondata da un ampio appezzamento di terra.

È suddivisa su tre piani, più un piano seminterrato dove sono ospitate le cucine, il magazzino e lavanderia.

Al piano terreno vi sono la maggior parte degli spazi comuni: una grande sala Tv, una veranda coperta, la sala mensa dove gli ospiti consumano tutti i pasti, serviti dagli operatori, compreso il caffè di metà mattina.

Vi sono poi stanze chiuse a chiave, dove i pazienti possono entrare solo se accompagnati dagli operatori e previo consenso: l'infermeria, dove avviene la somministrazione delle principale terapie farmacologiche e la “stanza operatori” con bagno riservato ai dipendenti, dove sono archiviate la documentazione relative ai singoli ospiti e vi sono armadietti personalizzati in cui i pazienti possono conservare gli effetti personali. Qui avviene anche la distribuzione di quello, che si impara presto essere, un vero strumento di contrattazione terapeutica, le sigarette. Alcuni pazienti hanno infatti un numero di sigarette quotidiane a disposizione limitato. La tendenza è quella di non dare al paziente più sigarette del necessario, per evitare che diventino oggetto di scambio, andando così a compromettere la pacifica relazione tra ospiti.

Le stanze adibite all'ospitalità dei pazienti sono così differenziate: l'Ala Celeste ospita le donne, sono loro stesse ad aver scelto le regole di convivenza, il nome delle stanze e ad aver decorato i muri.

Il Primo piano è il più grande e ospita gli uomini, suddivisi in camere singole (usate solo in casi particolarmente problematici), doppie o triple, con doppi servizi igienici comuni, dotati di docce e letti, che, per legge, devono essere di tipo ospedaliero. A differenza delle donne, il gruppo maschile ha deciso di non dare nessun nome alle proprie stanze e mantenere un generico “Primo piano”, per evitare di richiamare alla memoria, i nomi dei reparti di O.P.G. e delle carceri, influendo negativamente sul percorso di riabilitazione. L'idea è quella di richiamare la struttura di un piccolo paese e quindi di casa. Il corridoio è suddiviso infatti in tre “viali” con tanto di targhe (Olmi, Gigli, Platani) e una piazza (Piazzetta Spetteguless). È stato problematico spiegare l'importanza di avere “numeri civici” che individuino le singole stanze, poiché ricordavano i numeri delle celle.

Vi sono poi le mansarde, per pazienti in una fase avanzata di trattamento e più autonomo, con una cucina autonoma dove preparano da soli i propri pasti. Ogni settimane avvengono “riunioni condominiali”, suddivise per le tre aree, dove il gruppo, insieme all'operatore affronta le eventuali problematiche. Tutti gli ambienti sono tendenzialmente ben curati e puliti. Della comunità fa anche parte Cascina Barasi, circondata da dieci ettari di terreno, che ospita soggetti che hanno raggiunto una stabilizzazione del disturbo psichico.

Casa Zacchera: La struttura fa parte del borgo di Sadurano che si estende per oltre cento ettari, sulla strada che da Castrocaro Terme sale verso Predappio e, oltre a Casa Zacchera, è composto da gruppi appartamento, comunità psichiatriche, una stalla, un caseificio, un ristorante, una chiesa e un centro sportivo. Il borgo è ben riconoscibile e anche le indicazioni per Casa Zacchera sono visibili. La comunità è ospitata in una antica cascina completamente ristrutturata dal caratteristico colore giallo. Il cancello di ingresso è aperto, la recinzione è costituita da una staccionata bassa.

Nel cortile, di ghiaia e prato, vi è un parcheggio e un gazebo affacciato sulle colline con tavoli e sedie. L'interno è strutturato su tre livelli, compreso il piano interrato.

Essendo la comunità stata inaugurata nell'ottobre 2007, mobili e attrezzature sono nuove e in ottimo stato.

Al piano terreno vi sono stanze di piccole dimensioni, utilizzate per i colloqui con i pazienti e gli incontri con le famiglie, l'ufficio della direzione, sempre aperto. Al piano interrato un grande spazio comune per le colazioni, con computer e postazione internet sempre utilizzabile e alcuni strumenti musicali del gruppo musicale della comunità “I chiodi fissi” e la lavanderia. Al piano superiore le camere dei pazienti (quasi tutte doppie), con al centro un grande salotto con divani e tv. Ogni camera ha il bagno privato con doccia.

Il pranzo e la cena sono serviti, salvo eccezioni, al ristorante di Sadurano, dove l'equipe di cucina è affiancata da alcuni ospiti in borsa lavoro. Il ristorante, oltreché essere utilizzato da mensa per i pazienti e il personale, è aperto al pubblico.

2) La tipologia di ospiti, le loro condizioni di ricovero e i costi

Il Montello: per scelta metodologica e clinica, non esistono statistiche, che fotografino la classificazione dei pazienti per tipologia di reato e per disturbo psichico (la scuola lacaniana contesta infatti la suddivisione ufficiale utilizzate dai D.S.M. e dalla dottrina psichiatrica maggioritaria). Non è neanche possibile distinguere i pazienti per grado di pericolosità sociale, essendo che la divisione tra comunità di tipo A (ad alta intensità terapeutica) e di tipo B (a bassa intensità terapeutica) è puramente formale. La comunità può ospitare al massimo 30 pazienti (10 nella comunità di tipo A, 20 in quella di tipo B), i posti al momento della visita sono tutti occupati, con quattro donne e l'80% arriva dall'O.P.G. Il responsabile amministrativo ha dichiarato che vi è una lista di attesa di due mesi circa.

Vi è un responsabile dell'inserimento in comunità ed una doppia equipe (psichiatrica e psicologica) che si occupa di valutare chi è adatto alla vita in comunità.

Il primo contatto con il paziente avviene attraverso una relazione scritta dei servizi invianti, seguita da una visita con colloquio in O.P.G. o in carcere con il paziente da parte dello staff della comunità, dopodiché si procede all'inserimento, mai più di un paziente a settimana. Ogni paziente viene affidato ad un operatore di riferimento, che sarà il suo interfaccia per tutta la durata della permanenza.

L'atto che sancisce l'inserimento e l'inizio del percorso riabilitativo del paziente è la firma del regolamento di comunità e la condivisione del progetto terapeutico (basato essenzialmente su tre prescrizioni fondamentali: divieto di assunzione di alcol, droghe e astinenza sessuale, che non è, per ovvi motivi, imposta, ma fortemente consigliata), a cui si aggiungono le prescrizioni imposte dal magistrato di sorveglianza e eventuali altre regole concordate con il paziente. La contrattazione delle regole è una forma relazionale importantissima, tutto viene concordato per iscritto con il paziente: il numero di chiamate a famigliari e parenti, la possibilità di uscite esterne, il numero di sigarette, le preferenze su cibi e bevande, il budget economico personale del paziente (massimo 300 Euro mensili), la partecipazione a gruppi e laboratori.

L'impegnativo di spesa giornaliero è variabile a seconda delle peculiarità del paziente e varia dai 170 Euro per gli ospiti della comunità di tipo A ai 160 Euro per quelli della comunità di tipo B, comprensivi di un 30% di quota sanitaria e di un 70% di quota alberghiera.

Casa Zacchera Le statistiche sul numero e tipologia dei pazienti sono maggiormente aggiornate, dall'apertura nell'ottobre 2007 la struttura ha accolto 36 pazienti, tutti provenienti da O.P.G.(nello specifico, 30 da Reggio Emilia, 3 da Montelupo Fiorentino, 3 da Castiglione delle Stiviere), tutti emiliano-romagnoli. La comunità è abilitata a ospitare 18 pazienti, ma, per scelta organizzativa e metodologica, si tende a non superare i 16 ospiti. Per quanto riguarda la tipologia di pazienti sembra ricalcare perfettamente quella dell'internato in O.P.G., sia dal punto di vista dell'età, 11 pazienti tra i quaranta e i cinquantanni e 8 tra i trenta e i quaranta sia dal punto di vista del profilo criminale, cioè il reato commesso. Le statistiche sono paragonabili a quelle degli internati in O.P.G., in cui la maggioranza degli ospiti ha commesso reati gravi contro la persona.

Anche in questo caso, vi è un equipe psichiatrica che, in collaborazione con i D.S.M. e lo staff dell'O.P.G. decide quali pazienti è opportuno accogliere in comunità, tra quelli con una pericolosità sociale medio-bassa.

Ecco nel dettaglio la “fotografia” criminale degli ospiti al 30 aprile 2011, si nota come 16 pazienti su 36 hanno commesso omicidio o tentato omicidio.

Tabella 3.16 (78): Tipologia dei reati commessi dai pazienti presenti e dimessi a Casa Zacchera

Anche a Casa Zacchera c'è un regolamento di comunità, che è tuttavia spesso considerato una formalità, dal momento che viene anteposta l'importanza del dialogo e della relazione con il paziente, in un continuo equilibrio tra rigore e flessibilità.

La struttura stessa della comunità (l'assenza di barriere di recinzione fisiche, la possibilità per i pazienti trascorrere parte del loro tempo in altri luoghi nel borgo di Sadurano, la disponibilità di postazione internet e la relativa libertà con cui si possono ricevere visite-è lo stesso Responsabile a confermare infatti che i giorni delle visite sono il sabato e la domenica, ma vi è comunque flessibilità e la volontà di accontentare le esigenze di ospiti e famigliari-) rende palese che le regole costituiscono, più che tutto, un aiuto alla pacifica convivenza e rispondono ad un criterio di ragionevolezza e buon senso più che di disciplina. Basti pensare che ogni paziente può conservare e utilizzare il proprio cellulare o può acquistare autonomamente e direttamente cibi e bevande, senza il complesso “filtro” del sistema di sopravvitto, in cui sono gli operatori ad acquistare i beni richiesti dai pazienti.

Ovviamente al regolamento interno si aggiungono le prescrizioni del Magistrato di Sorveglianza.

L'impegnativo di spesa giornaliero per ogni paziente è 180 Euro.

3) La composizione dello staff e la sua formazione

Il Montello: Il personale è formato da trenta persone totali, che garantisco una copertura delle ventiquattro ore (due persone di turno per notte). Vi sono dei responsabili, con ruoli di gestione e coordinamento della struttura e con un contatto quotidiano con i pazienti proporzionale al proprio ruolo. Sono il Direttore Sanitario, il Direttore Clinico, il Direttore medico, lo Psicoterapeuta di Comunità, il Responsabile di Comunità, la Responsabile dei Laboratori e la Responsabile dell'Accoglienza, nonché una Referente per i rapporti con le famiglie e un Responsabile Amministrativo.

Tra invece coloro che lavorano a stretto contatto con i pazienti vi sono gli educatori, gli infermieri professionali e il personale O.S.S (Operatori socio sanitari). Queste figure lavorano in stretta collaborazione e svolgono mansioni simili, apparentemente, a prescindere dalla propria specializzazione, il che può creare momenti di attriti e criticità nello staff. Vi è un programma di formazione “perenne”, che ha i suoi momenti salienti nella riunione clinica, nella riunione organizzativa e nella riunione dei laboratori, tutte a cadenza settimanale.

È interessante notare come si stimoli la più ampia condivisione dei problemi, tant'è che alle riunioni sono chiamate a partecipare e ad esprimere il proprio parere e la propria valutazione, senza alcun discriminazione, tutti i soggetti che operano all'interno della comunità, dalle cuoche ai responsabili, nessuno escluso.

Vi è poi un programma di formazione “mirato”, che ha il suo apice con la supervisione mensile svolta da uno psicoterapeuta, in cui si approfondisce un particolare caso clinico avvenuto nelle precedente mensilità.

Gli operatori sono anche invitati, ma non obbligati, a partecipare ad incontri di formazione fuori dalla comunità, come i cicli di conferenze organizzate dall'associazione Antenne di campo freudiano di Torino.

Casa Zacchera: Il personale della residenza sanitaria è costituito da un'equipe di psicologi/psicoterapeuti, psichiatri, infermieri e O.S.S. opportunamente formati presenti nella settimana con la seguente frequenza. Psicologi/psicoterapeuti: presenza programmata da lunedì al sabato per 50 ore settimanali.

Psichiatri: presenza programmata per un totale di 25 ore settimanali.

2 infermieri: presenza programmata per un totale di 84 ore settimanali. 8 O.S.S.: costantemente presenti nell'arco delle 24 ore.

Vi è un percepibile surplus motivazionale da parte di buona parte del personale, che si sente parte integrante del progetto Sadurano e fortemente responsabilizzato, grazie anche ad oculate politiche del lavoro da parte della cooperativa, che tende ad assumere i propri dipendenti con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che ne aumentano la serenità e la produttività lavorativa e previsione di premi di produzione annuali costituiti da buoni acquisto da utilizzare all'interno delle strutture della cooperativa (il caseificio, il ristorante, la bottega di prodotti tipici).

Essendo la comunità costantemente aperta vi è un'interazione totale tra operatori e una grande flessibilità, di orari e mansioni.

Le problematiche vengono condivise durante la riunione di revisione settimanale. I casi di burn out e di risoluzione volontaria del rapporto di lavoro dalla comunità da parte del personale sono rarissimi.

4) I contatti con l'esterno, le attività e la metodologia terapeutica

Il Montello: ad una prima impressione dell'osservatore, il lavoro terapeutico si svolge in grandissima parte all'interno della comunità, le uscite esterne dei pazienti sembrano essere rare e comunque non quotidiane, ampiamente preconcordate con lo staff, protette e finalizzate a scopi precisi (visite mediche, udienze, visite famigliari...)

Con l'apertura di Cascina Barasi, una grande azienda agricola attigua a Il Montello con orti e allevamenti, l'idea è quella di ampliare i contatti con l'esterno dando la possibilità agli ospiti di partecipare a programmi di borsa lavoro.

Uno dei fulcri dell'attività trattamentale sono i laboratori (Laboratorio attività agricole, calcio, cortometraggio, cucina, cuoio, discoteca, equitazione, giornalismo, restauro, scrittura, lingua spagnola, teatro, videoteca, per citarne solo alcuni). Ciascun laboratorio è condotto da un operatore (o consulente) e vede la partecipazione di un piccolo gruppo di ospiti. I laboratori, come spiegano gli operatori, non sono attività obbligatorie, al contrario, sono un tratto assolutamente singolare del progetto terapeutico e ciascun ospite può decidere se e a quali laboratori partecipare. Si vuole così sottolineare l'importanza di un trattamento non incentrato solo, o principalmente, sulla parola, che con pazienti psichiatrici gravi spesso è di difficile utilizzo. I laboratori offrono infatti ai partecipanti lo spazio e il tempo per sperimentarsi in un fare non finalizzato ad altro se non all'individuazione di un punto di creatività singolare sul quale appoggiarsi per trasformare il proprio sintomo in risorsa. Il lavoro retribuito non è fulcro delle attività della comunità.

Per quanto riguarda la metodologia terapeutica vi è una forte caratterizzazione del metodo lacaniano (79), costantemente sottolineata, fin dalla presentazione della comunità.

Casa Zacchera: l'estrema apertura della comunità verso l'esterno è il tratto più caratterizzante e immediatamente percettibile del metodo di lavoro della comunità, talmente accentuato da farla definire da uno degli operatori, ironicamente, «una comunità spericolata».

Lo staff mira ad inserire nel mondo lavorativo il maggior numero possibile di ospiti, grazie alle agevolazioni offerte da contratti ad hoc come quello di borsa lavoro, di apprendistato o di tirocinio formativo.

Al momento della visita erano attivate quattro borse di lavoro esterne (cioè con datori di lavoro diversi dalla cooperativa Sadurano): un pizzaiolo, un saldatore, un metalmeccanico, un carrozziere, più alcune borse di lavoro interne (nelle cucine del ristorante, nel caseificio, nelle stalle della cooperativa Sadurano).

Sono gli stessi responsabili a spiegare il rifiuto sistematico verso attività che si limitino «ad occupare il tempo» del paziente e non aver nessuna rilevanza economica, partendo dal presupposto che ognuno degli ospiti, prima dell'atto criminale e dell'internamento in O.P.G., aveva competenze, titoli di studio e lavori “veri”. Un'ottica diametralmente opposta all'assistenzialismo, molto favorita da un territorio tradizionalmente aperto e recettivo rispetto alla problematica dell'inserimento lavorativo di soggetti disagiati. Un'ottica capace di riempire di significato il reiserimento sociale, che diventa realtà, non finzione.

Al d là delle attività lavorative (concentrate nella fascia mattutina), agli ospiti, compatibilmente con le prescrizioni del magistrato (che possono limitarne la libertà di movimento, in termini di tempi e luoghi delle uscite dalla comunità), in pomeriggio e in serata a gruppi di sei o sette ospiti, accompagnati da un operatore, escono dalla comunità (80) e predono parte alle attività più disparate, che non possono che giovare al loro percorso di risocializzazione: corsi di vele, giornate in piscina, uscite serali con cinema, go-kart, pizzerie, concerti di musica dal vivo, spettacoli teatrali. Apparentemente una grande libertà, che porta, non ad un abuso, ma ad una responsabilizzazione del soggetto, consapevoli del fatto che sono liberi di porre in essere i comportamenti che ritengono più opportuni, ma ne subiranno le conseguenze, positive o negative che siano, finanche al ritorno in O.P.G., una vera ipotesi spettrale, che costituisce il maggior strumento di autocontrollo.

La metodologia terapeutica è prevalentemente l'approccio eclettico, che ha i suoi momenti salienti sia nelle sedute terapeutiche individuali, sia in altri due momenti settimanali di gruppo: la supervisione, in cui il singolo paziente può confrontarsi con l'intero staff e il gruppo di socializzazione in cui pazienti e staff insieme affrontano, discutono e risolvono le problematiche relative alla vita in comunità.

5) Gli eventi critici e i protocolli di intervento

Il Montello: Le acuzie (cioè gli scompensi dei pazienti, che possono generare anche in episodi di violenza) appartengono alla sfera dell'ordinario, soprattutto per una comunità dove sono ospitati pazienti psichiatrici gravi. Mancano statistiche precise, ma gli operatori riferiscono di alcuni episodi di violenza tra pazienti e di aggressioni al personale.

Non sembrano esservi protocolli d'intervento rigidi, poiché ogni caso ha caratteristiche particolari e, per questo, nell'immediatezza dell'evento critico all'operatore viene domandata la scelta degli strumenti più opportuni per porre fine alla criticità, tra cui vi è la possibilità di chiedere l'intervento della forza pubblica o di rivolgersi ad altre strutture, su tutte il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (S.P.D.C., il diversamente conosciuto repartino psichiatrico degli ospedali). In un secondo tempo la criticità viene condivisa e discussa tra l'intera equipe, che può scegliere di chiedere al Magistrato di Sorveglianza di dichiarare l'insuccesso della Licenza finale d'esperimento o di revocare la libertà vigilata, sancendo il ritorno in O.P.G. oppure limitandosi ad un inasprimento delle restrizioni. Ogni episodio critico deve comunque essere tempestivamente comunicato e descritto al Magistrato di Sorvegliaza, se gli operatoro lo ritengono opportuno concordano il contenuto della relazione da inviare al Magistrato con il paziente stesso.

Casa Zacchera: Gli eventi critici a Casa Zacchera sono limitati, visto anche il ristretto numero di pazienti, ma sono occasione di riflessione e analisi da parte dell'intero staff.

Le scelte tattiche e strategiche per la gestione delle possibili criticità comportamentali sono operate infatti secondo un registro di valutazione del senso e della gravità dell'episodio riferito ai seguenti criteri principali: la relazione che il comportamento all'esame ha con lo stato psicopatologico e clinico del paziente; il suo riflesso sul clima nel gruppo dei pazienti, anche in rapporto alle loro possibilità di accettazione empatica e solidale del singolo paziente e del suo comportamento; il riverbero poi sul clima del gruppo degli operatori in relazione alle possibilità di tolleranza dell'evento con riferimento infine alla necessità di salvaguardare la necessaria “alleanza” col gruppo dei pazienti.

L'incrocio di queste variabili determina la soglia di tollerabilità delle varie criticità comportamentali in un delicato punto di equilibrio.

Ma tale punto di equilibrio è condizionato anche, ovviamente e rigorosamente, dal vincolo giuridico (e relative prescrizioni) cui è soggetto il paziente.

Questa soglia di tollerabilità è molto elevata presso Casa Zacchera, il che è da considerarsi intrinseco al suo mandato che è quello non tanto di inibire assolutamente l'evenienza delle criticità ma quello di prevederla, prevenirla e comunque governarla secondo un sapere riconoscibile e trasmissibile che ha a che fare essenzialmente con: lo stile di conduzione proprio della struttura; gli aspetti qualitativi della convivenza in essa; la “capacità di tenuta” dello Staff che, per l'impegno necessario a confrontarsi costruttivamente con l'episodio critico deve poter contare su una buona coesione e su una propensione ottimistica alimentate dalla esperienza e dalla formazione sul campo.

Pe spiegare l'importanza e la centralità del gruppo Il responsabile della struttura riferisce di un episodio particolarmente grave, consistito nell'aggressione di un operatore durante un'uscita da parte di un paziente. «Gli altri pazienti presenti hanno dovuto mettersi in gioco e decidere se intervenire o no, rischiando di derogare alle prescrizioni del magistrato. Le criticità sono momenti terapeutici».

A conferma dell'ottimo livello di gestione delle criticità raggiunto da Casa Zacchera, è interessante analizzare le cause di dimissioni dalla comunità, che sono state in tutto 21.

Si nota come il ritorno in O.P.G. o in carcere, considerati il fallimento del percorso terapeutico comunitario, è avvenuto solo 4 volte negli ultimi tre anni, perfettamente compensate dagli altrettanti ritorni a casa dei pazienti, che sanciscono invece il successo del percorso di riabilitazione. A dimostrazione del fatto che l'obiettivo delle strutture intermedie, come le comunità, deve diventare la dimissione del paziente e non la sua permanenza, altrimenti si ridurrebbero ad essere la fotocopia delle istituzioni totali manicomiali, creando così l'ennesima truffa delle etichette.

Tabella 3.17 (81): tipologia delle dimissioni da Casa Zacchera dall'Ottobre 2007 a Aprile 2011

Volendo ora proporre un'analisi critica della ricerca sul campo, occorre anzitutto rilevare quelli che sono i punti in cui l'esperienza comunitaria piemontese ed emilianoromagnola si discostano maggiormente, facendo ben comprendere come può essere variegato e multiforme il concetto di comunità terapeutica. Ancora una volta il ricercatore è costretto a constatare come nomina non sunt consequentia rerum.

La ricerca effettuata vuole essere quindi un invito al pragmatismo, a liberarsi, in quanto giuristi, delle gabbie del teorico, che non significa agire per tentativi, brancolando nel buio, ma significa piuttosto l'esatto contrario: porsi obbiettivi (nel nostro caso la sostenibilità etica e giuridica dell'esecuzione penale nei confronti dei folli-rei), consapevoli tuttavia che all'aspetto formale del diritto deve corrispondere quello sostanziale, poiché «Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est» (82) (nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare).

Tra l'esperienza de Il Montello e quella di Casa Zacchera, vi è anzitutto una differenza di approccio al problema. Nella comunità piemontese infatti vi è un'attenzione quasi ossessiva al metodo terapeutico lacaniano, sintomatico di come la clinica dovrebbe prevalere su altri aspetti, diritto e legge compresi.

A Casa Zacchera invece vi è un approccio che si potrebbe definire più pragmatico, il che non significa affatto non vi sia attenzione alla discussione e alla teorizzazione di qualsivoglia problematica del paziente, ma significa piuttosto che questa non deve togliere spazio alla realizzazione concreta e alla sperimentazione pratica, a quel fondamentale completamento di ogni scienza che è, nel diritto come nella psichiatria, l'azione.

Un'azione apparentemente spericolata, coraggiosa, pretenziosa, ma che ha influenze positive sia sullo staff che sui pazienti, abbattendo quella fastidiosa idea che nei luoghi di esecuzione penale si debba trascorrere il tempo e non viverlo e riempirlo di significato.

Se questa idea è poi associata ad un massiccio uso della contenzione farmacologica, allora l'obbiettivo costituzionale della risocializzazione si allontana e torna lo spettro dell'istituzione manicomiale, che si limita a contenere e segregare.

Vedere persone che si preparano per andare al lavoro, un lavoro vero, datori di lavoro soddisfatti (pronti a concedere anche qualche extra economico in più rispetto alla retribuzione della borsa lavoro), operatori che sanno aggiungere entusiasmo e passione al minimo richiesto dal loro contratto, fa dire all'osservatore che forse il mito delle strutture intermedie basagliane e di un territorio che sa accoglie era (ed è) il porto a cui tendere.

Ci arriveremo se sapremo cambiare, oltre all'approccio, le finalità, seconda grande differenza tra le due esperienze comunitarie, perché il tempo di durata di un ricovero, deve diventare parametro per sancire il successo di un percorso di riabilitazione. Sono sostenibili percorsi che durano anni? Quanto è convincente la prassi dei Magistrati di Sorveglianza di concedere la licenza finale d'esperimento prima quindicinale, poi mensile, poi semestrale e poi ancora trasformata in libertà vigilata? C'è fame di chiarezza, a cominciare dalla lettera della norma, su cosa debba esserci dopo la comunità: il ritorno a casa certo, ma per molti la casa è la comunità o semplicemente un altra comunità. Che fare?

Anzitutto, abbattere gli alibi, perché l'essere pochi, anzi pochissimi, quanti sono i folli-rei rispetto alla totalità della popolazione detenuta, non può cancellare il problema. Perché il quantum non è il quid.

Ci si astenga poi dalle ragioni dell'economia, un po' per orgoglio, perché né il diritto né la scienza sociale possono esserne schiavi, ma soprattutto perché l'esistenza dice che non è vero che un internato in O.P.G. costa di più di un paziente in comunità.

E questo ci deve bastare per non procrastinare l'azione.

Note

1. Maria Teresa Collica, op. cit., p. 230.

2. Vedi supra, Cap. I.

3. Dario Stefano Dell'Aquila, op. cit., p. 95-96.

4. Pelissero, op. cit., p. 141.

5. Ibidem, p. 142.

6. Vittorino Andreoli, op. cit., p. 21.

7. Sintomatico del disinteresse del legislatore e della ricerca nella storia repubblicana sono le assai sporadiche ricerche quantitative sugli O.P.G. Le più organiche e complete sono: Luigi Daga, O.P.G.: sistema penale e sistema sanitario, Rassegna Penitenziaria, 1982, Vittorino Andreoli, Anatomia degli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani, Dipartimento Amministrazione Penitenziari-Ufficio studi e ricerche, Roma, 2002 e Progetto RENAV-Rinnovare esperienze rivalutando attività negate, Verso un O.P.G. diverso e migliore?, Quaderni ISSP n.2/2005.

8. Cfr. Atti Convegno Reggio Emilia, L'O.P.G. e i suoi pazienti, dal carcere alla comunità.

9. Quaderni ISSP, op. cit., p. 9.

10. Ibidem, p. 10.

11. Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state in parte accennate nel capitolo I, al quale si rimanda per una lettura completa e organica dei dati.

12. Si rileva un chiaro di “truffa delle etichette”: la distinzione tra O.P.G. e casa di Casa di Cura e di Custodia esiste solo nella lettera della legge penale, non nella sia concreta applicazione. Nella quasi totalità dei casi, con la sola eccezione della casa circondariale di Sollicciano in cui vi è un reparto C.C.C. femminile, O.P.G. e C.C.C. sono nella stessa struttura, impiegano lo stesso personale, occupano gli stessi spazi. Sono insomma paragonabili ai due diversi reparti di un ospedale o di un carcere. Inutile, quindi soffermarsi sulle differenze “teoriche” che dovrebbero esistere.

13. Cfr. supra par. 1.3.

14. Rielaborazione dati Dipartimento Amministrazione Penitenziaria.

15. Cfr. Andreoli, op. cit., p. 32 e ss.

16. Ibidem, p. 33.

17. Vedi supra cap. 2.1.

18. Il riferimento è all'introduzione del c.d. reato di clandestinità nell'ordinamento italiano.

19. Rielaborazione dell'Autore di dati forniti da Centro Studi e Ricerche Ristretti Orizzonti, DAP e Maria Antonietta Coscioni, op. cit., pag 259 e ss.

20. Mancorda, op. cit.

21. Andreoli, op. cit., p. 65.

22. Andreoli, op. cit., p. 67.

23. Ibidem, pag 69.

24. A parziale scusante di questa situazione apparentemente schizofrenica, vi è il fatto che molti dei ricoveri rilevati sono ancora in corso, concretamente significa che il soggetto che ha commesso un reato molto grave presenta un periodi di permanenza in O.P.G. molto breve, semplicemente perché la sua misura di sicurezza è appena iniziata.

25. Andreoli, op. cit., p. 81.

26. Ibidem, pag 82.

27. RJ Baldessarini RJ et al, Lithium treatment and suicide risk in major affective disorders: update and new findings. J Clin Psychiatry 64 (Suppl 5): 44-52, 2003.

28. Scarpa, op. cit., p. 7.

29. Cfr. supra, Cap I, Tabella 1.9 per quadro generale operatori O.P.G. suddivisi per singole strutture.

30. Rielaborazione dati Fioritti ed al., Commissione interministeriale Giustizia e Salute, Gruppo di lavoro per i problemi degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), documento finale 6 novembre 2006.

31. Rielaborazione dati progetto RENAV, op. cit.

32. Rielaborazione dati progetto RENAV, op. cit.

33. Progetto RENAV, op. cit.

34. Spesso il diritto è stato associato ad altre forme di sapere, il che ha fatto sì che si sviluppassero, specie negli Stati Uniti, tutta una serie di nuove discipline collettivamente denominate “law and something else”, diritto e qualcos'altro (law and sociology, law and politics, law and psychology ecc..), ma nessuna altra disciplina è riuscita ad arricchire l'analisi giuridica quanto l'economia. La capacità predittiva dell'economia è, infatti, innegabile. Cfr. Elisabetta Cassese, Introduzione all'analisi economica del diritto e alla teoria della regolazione amministrativa, IPBeja - Escola Superior de Tecnologia e Gestão, Lisbona, 2011.

35. Tra i principali studi di Law and Economics in Italia, si segnalano tre testi fondamentali: Robert Cooter, Ugo Mattei, Roberto Pardolesi, Thomas Ulen, Pier Giuseppe. Monateri, Analisi economica del diritto civile, Il Mulino 1999; G. Alpa, P. Chiassoni, A. Pericu, F. Pulitini, S. Rodotà, F. Romani (a cura di), Analisi economica del diritto privato, Milano, Giuffrè, 1999, Giulio Napolitano, Michele Abrescia, Analisi economica del diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 2009.

36. Cfr. Dario Stefano dell'Aquila, op. cit., p. 102.

37. Cfr. Atti Convegno Reggio Emilia, op. cit.

38. Progetto RENAV, op. cit.

39. Vedi infra cap.3.4.

40. Rielaborazione dell'Autore dati Ristretti Orizzonti.

41. Pelissero, op. cit., p. 142 e ss e Collica, op. cit., pag 230 e ss.

42. Ibidem, p. 143.

43. Ibidem, p. 148.

44. William De Haan, Abolitionism and crime control: a contradiction in terms, in The politics of crime control, a cura di K. Stenson e D. Cowell, Routeledge, London, 1991, p. 203.

45. Tale soluzione ha riscosso più successo tra gli psichiatri che tra i giuristi, particolarmente favorevole è Manacorda, op. cit., p. 29 che nota: «È maturo il momento di cominciare a pensare alla persona con disturbo psichico come ad una persona che, analogamente ad ogni altra, può e deve essere ritenuto nella sua debita figura titolare dei suoi atti e quindi in grado di rispondere, se del caso anche di fronte all'istanza penale».

Voci contrarie quelle di Ponti e Merzagora, op. cit., p. 81 e Mario Portigliatti Barbos, Responsabilità penale e imputabilità, in Imputabilità e trattamento del malato di mente autore di reato, a cura di Canepa e Marugo, Cedam, Padova, 1995, p. 15, concordi sull'evidenziare come sussistono casi di grave destrutturazione dell'io, per i quali sarebbe socialmente pericoloso sottoporre il soggetto a pena.

46. Giorgio Visintini, La crisi della nozione di imputabilità nel diritto civile, in Follia e Diritto, a cura di Ferrando e Visintini, Bollati Boringhieri, Milano, 2001, p. 246.

47. Concetto introdotto e spiegato da Massimo Pavarini, Il sistema della giustizia penale tra riduzionismo e abolizionismo, Dei delitti e delle pene, 1985, p. 525.

48. Pelissero, op. cit., p. 151.

49. Luigi Fioravanti, Le infermità psichiche nella giurisprudenza penale, Cedam, Padova, 1988, p. 158.

50. Proprio la previsione di apposite sezioni carcerari attrezzate per ricevere e curare i detenuti con problematiche psichiatriche, è l'unica misura dei modelli abolizionisti, recepita dal Nuovo Ordinamento penitenziario.

51. Proposta di legge n. 2778 del 5 aprile 1985 Camera dei Deputati; proposta di legge n.3260 del 4 novembre 1985 e, in ultimo, c.d. proposta Burani Procaccini, d.d.l. 4 maggio 2006 Senato della Repubblica (Norme per la prevenzione e la cura delle malattie mentali).

52. Mancorda, op. cit., p. 143.

53. Pelissero, op. cit., p. 146.

54. Cfr. Luigi Ferranini e Francesco Peloso, Il comportamento violento in psichiatria e il disturbo antisociale di personalità: problemi e prospettive nell'intervento del dipartimento di salute mentale, in Rassegna Italiana di Criminologia, 2000, pag 423.

55. Pelissero, op. cit., p. 147.

56. Cfr in particolare Collica, op. cit., pag 248-249 e Emilio Lupo, Il progetto di modifica della legge 180: una controriforma fondata sulla segregazione, In Questione Giustizia, 2003 pag.51 e ss.

57. La proposta resta vaga sulle modalità di scelta e i criteri di selezionamento e accreditamento di tali Associazioni di famigliari.

58. Lupo, op. cit., p. 54.

59. Pelissero, op. cit., p. 149.

60. Fioravanti, op. cit., pag 253.

61. Relazione finale del progetto Nordio, p. 45.

62. Ex art. 121 Cost. si prevede il potere di iniziativa legislativa da parte delle Regioni.

63. Introduzione al d.d.l. 8 agosto 1997, n. 2746, Senato della Repubblica, p. 2.

64. Carrieri e Catanesi, op. cit., p. 35.

65. Collica, op. cit., p. 252.

66. D.d.l. 8 agosto 1997, n. 2746, Senato della Repubblica, p. 5.

67. Introduzione al d.d.l. 8 agosto 1997, n. 2746, Senato della Repubblica, p. 3.

68. Vedi diffusamente supra Cap. 1.6.16.

69. Amalia Caputo, Lezioni di tecnica di ricerca sociale, Facoltà di Sociologia, Università Federico II, Napoli, Anno Accademico 2010/2011.

70. Ibidem.

71. Su cui vedi diffusamente supra Cap 1.6.14.

72. Conclusioni sent. 253/2003 Corte Cost.

73. Ad una prima valutazione il numero può sembrare irrisorio, un campione troppo basso per svolgere una ricerca, ma non lo è affatto se lo si rapporta al numero di O.P.G. presenti in Italia (solo sei) e al numero totale di comunità con la precisa mission dell'accoglienza di pazienti psichiatrici autori di reato tutt'oggi operanti in Italia (non è dato sapersi il numero, poiché manca un dato ufficiale, ma si calcola approssimativamente siano tra le cinque e le dieci, anche se molte comunità psichiatriche “ordinarie” accolgono pazienti provenienti dal percorso giudiziario, ma con percentuali minime alla totalità dei loro ospiti).

74. Jacques Lacan (1901-1981) è stato uno dei protagonisti della stagione dello strutturalismo francese insieme a Levi-Strauss, Foucault, Althusser, Barthes, nonché psicanalista tra i più controversi, semplice “guru” per i detrattori, immenso “maestro” per gli estimatori. Rilesse Freud, proponendone una lettura che riscoprisse la psicoanalisi come pratica della parola, rifiutando l'oscurantismo di un inconscio come pura irrazionalità, istinto animale, sotterraneo delle emozioni. Divenne celebre soprattutto per i suoi aforismi come lo spiazzante «il rapporto sessuale non esiste» oppure l'irriverente «fate come me, non imitatemi!», rivolto agli allievi troppo assidui e appassionati nel seguire le sue lezioni. Per la traduzione italiana delle sue opere cfr. Antonio di Ciaccia, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano, 2000.

75. Per informazioni più dettagliate sulla nascita dell'esperienza Sadurano e sulla avventurosa vita del prete di strada Dario Ciani, cfr. Dario Ciani, Andrea Gallo, Giacomo Panizza, Gino Rigoldi, Dov'è Dio, Einaudi, Torino, 2011.

76. Osservatorio sulle condizioni detentive, Associazione Antigone.

77. Caterina Corbascio, intervista con l'Autore.

78. Dati forniti dal Responsabile della struttura all'Autore.

79. Vedi supra nota 74.

80. È singolare notare la scelta della comunità di utilizzare autovetture e furgoni “anonimi”, cioè senza adesivi o segni che riconducano alla comunità o alla cooperativa e rinunciando ad agevolazioni che pur spetterebbero, come il permesso per il parcheggio disabili. La scelta non è affatto occasionale, ma frutto di una precisa riflessione: evitare ogni pretesto per alimentare lo stigma del “diverso”, cercando di abbattere, partendo dai piccoli gesti e dettagli, la barriera tra il folle-reo e gli “Altri”.

81. Dati forniti dal Responsabile della struttura all'Autore.

82. Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, lettera 71; 1975, pp. 458-459.