ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Elisa Marchi, 2011

Il mio lavoro si prefigge l'obiettivo di indagare un campo della scienza giuridica, dove al momento non esistono paradigmi chiaramente dominanti, quello delle diversità culturali e dei rapporti che si possono instaurare tra Stato e gruppi portatori di una propria specificità.

La realtà contemporanea, come hanno messo in luce molti autore, (1) si connota per due tendenze che sono, tra loro, tanto confliggenti quanto collegate. Da una parte il fenomeno della globalizzazione, creatore di spazi sovra-statali e trans-nazionali, si fa portatore d'identità di massa e stili di vita omologati, dall'altra, a livello locale, assistiamo, all'emersione di una serie di pluralismi socio-culturali, che portano alla creazione di una dimensione nazionale e locale socialmente variegata. Questi ultimi rivendicano una propria specificità e diversità, che male si concilia con l'omologazione socio-culturale che lo Stato moderno ha promosso sin dalla sua nascita. La modernità ci ha abituati a pensare il rapporto tra Stato e individuo come un rapporto esclusivo, nel quale nessuno spazio è lasciato alle formazioni intermedie e dove il soggetto, destinatario di diritti, è costruito in termini astratti rispetto a qualsiasi situazione sociale.

Il paradigma moderno offre un modello interpretativo della realtà, che non sembra più idoneo a decifrare la complessità dell'età contemporanea che si configura come costellata da una moltitudine di gruppi che promuovano le proprie specificità socio-culturali.

Il primo capitolo della mia tesi, sarà dedicato all'analisi di un nuovo strumento teorico che negli ultimi anni sembra aver destato l'interesse della scienza giuridica: il modello del pluralismo giuridico. La fortuna di quest'ultimo, è dovuta alla sua capacità di offrire una nuova e diversa prospettiva di analisi rispetto a quella positivista-monista, rappresentando, per la scienza giuridica, uno strumento indispensabile di 'adeguamento' ai mutamenti socio-culturali degli ultimi anni. Il pluralismo giuridico si presenta come quello strumento teorico capace di porre l'attenzione della scienza giuridica sui sottogruppi sociali, sull'interazione tra l'ordine delle comunità locali e l'ordine normativo superiore, portando a contrapporre il diritto ufficiale e la normativa che regola la vita delle diverse comunità, ponendo in discussione l'identificazione del diritto con lo Stato (2).

Gli studi sul pluralismo giuridico mettono in crisi il paradigma convenzionale, che si fonda sull'idea del monopolio della produzione giuridica in capo allo Stato, poiché rileva l'esistenza di più sistemi normativi che trovano la loro fonte nella società, svelando una relazione più complessa tra Stato e realtà sociale, che comporta il superamento dell'idea di un diritto unico a favore di una 'rete di diritti'.

Il pluralismo, sul quale focalizzerò la mia analisi, è quello di tipo culturale che guarda alle ipotesi in cui il diritto, prodotto fuori dallo Stato, è espressione, non solo di una certa comunità, ma anche di una cultura. Questo significa porre l'accento, non solo sul problema della coesistenza di norme giuridiche diverse applicabili a uno stesso soggetto, ma anche sul fatto che le norme sono espressione di una certa visione del mondo. In questo modo si apre la strada a tutta una serie di problematiche che una visione etnocentrica del diritto normalmente cancella fondandosi su un monismo indiscusso di valori e idee che si esprimono nell'ordinamento giuridico.

La visione pluralista porta a prendere coscienza che l'ordinamento giuridico statale non è assoluto e universale, ma il frutto di una cultura data, e che il soggetto di diritto, affermatosi a seguito della rivoluzione francese, astratto dalle sue appartenenze sociali, è una costruzione teorica eccessivamente semplificata rispetto al quadro sociale oggi esistente. Un approccio pluralista, invece, ci mostra un individuo calato in più gruppi sociali e chiamato a fare i conti, non solo con le norme prodotte dallo Stato, ma anche con quelle provenienti dalle comunità alle quali appartiene.

Il mio lavoro s'incentrerà prevalentemente sul pluralismo giuridico di matrice antropologica, poiché tale disciplina ha saputo ampliare il campo d'indagine del giurista a tutta una serie di norme che trovano la loro fonte al di fuori dell'ordinamento statale, ricorrendo a strumenti teorici liberi dai vincoli formali imposti dalla dottrina giuridica, costringendo il giurista a prendere coscienza della dimensione sociale del soggetto. Il grande merito dell'antropologia è stato quello di aprire il dibattito giuridico all'altro che nel tempo ha assunto sembianze diverse. In una prima fase, l'altro s'identifica con l'esotico, con il culturalmente lontano, per cui, questa lontananza tanto culturale che territoriale fa si che l'opera del giurista, al massimo, arrivi a una comparazione tra sistema moderno e tradizionale, questo, come si vedrà, è il periodo dominato dal paradigma evoluzionistico connotato da grandi dicotomie: civile-incivile, moderno-tradizionale. In una seconda fase l'altro assume le sembianze dell'altro interno, cioè lo sguardo si posa su quei gruppi sociali, presenti nelle società moderne, e per i quali, i modelli sociologici e antropologici mostrano l'esistenza di propri sistemi di norme (ordinamenti 'giuridici') in alcuni casi contrari o alternativi a quello statale; pensiamo ai sindacati, ai gruppi etnici, ai gruppi religiosi, ai gruppi criminali. Nell'ultima fase, quella post-moderna, l'altro diviene sinonimo di complessità. Le nuove correnti pluraliste non guardano più a una società frammentata, composta di gruppi aventi un proprio ordinamento, ma al soggetto come momento di ricomposizione della complessità sociale; la diversità non deriva più dall'appartenenza a un gruppo determinato ma è insita nel soggetto, il quale appartiene, contemporaneamente, a più ordini e gruppi, per cui, si fa portatore di multiculturalità.

La seconda parte del mio lavoro, sarà volta ad analizzare il rapporto tra Stato e rom alla luce dei vari modelli di pluralismo che, come ho indicato sopra, si sono susseguiti. Le prime costruzioni di pluralismo giuridico degli anni Settanta, portano all'identificazione della diversità culturale con gruppi ben definiti e costruiti in termini statici (donne, gruppi etnici, ecc.). La diversità culturale, della quale si fanno portatori questi gruppi, si costruisce in termini relazionali rispetto alla maggioranza che detiene il potere. La diversità culturale in questo caso significa lontananza e devianza dalla cultura, dai valori e dallo stile di vita della maggioranza. Con l'affermarsi del principio di uguaglianza nella sua accezione formale, l'appartenenza a una cultura, a un sesso e a una 'razza' diversa da quella che detiene il potere non può più costituire, per lo Stato, un elemento sul quale fondare un limite nell'accesso ai diritti; i diritti, soprattutto quelli fondamentali, sono riconosciuti all'uomo in quanto tale a prescindere dalle sue appartenenze. A fronte di questo, i gruppi, che da sempre per ragioni storiche, culturali e sociali, hanno incontrato dei limiti nel godimento dei diritti, rivendicano, alla luce del principio di uguaglianza formale, la possibilità di essere titolari di questi, senza che, gli elementi che li distinguono dalla maggioranza, possano rappresentare un ostacolo. Si apre così, per usare il linguaggio di Pizzorusso, la stagione delle minoranze discriminate (dette anche minoranze by force), che alla luce del principio di uguaglianza formale richiedono un accesso paritario ai diritti. Partendo da questa riflessione procederò, nel corso del secondo capitolo, a un'analisi delle ragioni che hanno portato, nonostante la vigenza all'interno del sistema statale del principio d'uguaglianza formale, il gruppo rom a subire delle discriminazioni. La peculiarità del caso rom, discende dal fatto che, nonostante più della metà dei rom presenti in Italia abbia cittadinanza italiana, essi sono costretti a vivere in una condizione di marginalità tanto giuridica che sociale. Vedremo che le ragioni di questa marginalizzazione e discriminazione traggono la loro origine in uno spazio extra-giuridico, costellato da stereotipi e pregiudizi.

In un secondo momento, il dibattito sul tema della diversità compie un notevole passo in avanti. A seguito delle critiche, provenienti dall'antropologia, alla costruzione moderna dell'individuo destinatario di diritti, pensato come astratto dalle sue appartenenze sociali, i gruppi portatori di proprie specificità non si accontentano più di un accesso paritario al diritto ma iniziano a richiedere allo Stato un riconoscimento della propria diversità, configurando quella che Pizzorusso ha chiamato una minoranza volontaria (detta anche minoranza by will). Quest'ultimo aspetto ha portato la necessità di rimettere in discussione il concetto di uguaglianza. Nel momento in cui questi gruppi rivendicano un riconoscimento delle proprie specificità, non si accontenta più di non essere discriminati e di accedere ai diritti ma, richiedono di rivedere le condizioni e i criteri che determinano l'accesso al diritto stesso che sono fondati su i valori, le credenze e i modi di vita della maggioranza e che non tengono conto delle specificità delle minoranze. In questo nuovo contesto, dominato dall'affermarsi di gruppi pronti a rivendicare nei confronti dello Stato le proprie specificità, anche i rom possono essere configurati come minoranza volontaria.

Nell'ultima parte del secondo capitolo, mostrerò gli strumenti giuridici predisposti dallo Stato per il 'riconoscimento' dei rom come gruppo culturale. In particolare mi soffermerò sull'analisi delle leggi regionali degli anni Ottanta aventi come obiettivo "la tutela dei rom/sinti/nomadi". Queste leggi, al fine di garantire una tutela alla specificità culturale rom, hanno individuato come indicatore, capace di rappresentare la peculiarità culturale di questo gruppo, il nomadismo, nonostante la realtà empirica mostri che la maggioranza dei rom pratica uno stile di vita sedentario. Alla luce di questo procederò all'analisi delle ragioni che hanno portato il legislatore a selezionare questo l'indicatore culturale e agli effetti distorsivi che esso ha prodotto, poiché, il nomadismo è un aspetto culturale non condiviso da tutti i gruppi rom. In conclusione del secondo capitolo focalizzerò la mia attenzione sulle ragioni che hanno portato a non configurare i rom come minoranza linguistica, escludendoli dal novero delle minoranze tutelate nella legge n. 482 del 1999.

Il terzo capitolo sarà dedicato all'analisi delle nuove aperture in materia di riconoscimento della diversità che pervengono soprattutto dal livello giurisprudenziale. Le nuove correnti sul pluralismo giuridico incentrano l'attenzione sull'individuo come portatore di multiculturalità, disancorando la sua costruzione identitaria da gruppi culturali costruiti staticamente. Il soggetto è pensato come appartenente, non più in modo esclusivo a un gruppo chiuso, ma a una pluralità di ordini e contemporaneamente soggetto a una pluralità di norme che trovano la loro fonte, tanto nella comunità culturale alla quale il soggetto apparitine, che nello spazio regionale, statale e sovrastatale. I problemi principali si pongono nelle così dette zone di confine, cioè in quelli spazi in cui si crea un conflitto tra norma giuridica statale (o meglio il valore sottostante alla norma) e norma 'culturale' seguita e rispettata dal soggetto, che è cresciuto e vissuto in un certo ambiente sociale. Mi sembra opportuno mettere in luce, fin da ora, come questa idea di conflitto tra cultura rom e ordinamento italiano sia costruita, in alcuni casi, su un'incomprensione, cioè su una lettura delle condotte dell'altro alla luce dei nostri schemi mentali e pregiudizi (pensiamo al diverso modo di concepire gli spazi abitativi di rom e sinti). Questa è la ragione per la quale dedicherò una parte del terzo capitolo all'analisi della struttura sociale rom, al fine di fornire una chiave di lettura delle condotte dell'altro che sia libera dai pregiudizi e gli stereotipi che spesso operano quando parliamo di rom. Naturalmente esistono anche i casi in cui le condotte dell'altro possono essere confliggenti con valori che consideriamo una conquista del nostro 'patrimonio etico' per cui difficilmente negoziabili (pensiamo alla nostra idea di emancipazione femminile, di tutela dell'infanzia).

Oggi sembra affermarsi l'idea che l'appartenenza culturale del soggetto sia parte integrante della sua personalità e come tale meritevole di tutela attraverso il diritto soggettivo all'identità personale. I problemi emergono, come ho detto prima, nelle zone di confine dove l'espressione dello stile di vita del soggetto confligge con una regola statale. In questo caso la tutela della diversità culturale e dell'identità personale trova un limite nella legge espressione della maggioranza. Trattando di pluralismo culturale il problema fondamentale e la grande sfida che il diritto statale, in quanto espressione di un'antropologia specifica, è chiamato ad affrontare, riguarda la percezione dell'altro, delle sue condotte e dei suoi stili di vita.

L'incontro tra ordinamento italiano e cultura rom, apre una serie d'interrogativi circa la necessità di rivedere istituti giuridici della nostra tradizione in una nuova ottica che sia capace di abbracciare le differenze. Se è vero che il diritto (3) è un prodotto della cultura 'occidentale' e come tale espressione di un'antropologia ben precisa, oggi, però, possiamo parlare di un nuovo ruolo dei diritti. Per effetto dei processi di colonizzazione e di globalizzazione, il linguaggio del diritto è penetrato anche presso culture che ne erano prive, questo ha portato De Sousa Santos a sostenere un suo possibile ruolo emancipatorio, (4) a vedere cioè il diritto come strumento attraverso il quale avanzare le pretese di coloro che per cultura, condizioni economiche o di vita, ne sono stati esclusi.

Oggi, gli Stati sembrano ancora lontani dall'aver trovato una risposta soddisfacente, questa è la ragione per la quale il riconoscimento della diversità molto spesso passa prima per la via giurisprudenziale, per il caso concreto, piuttosto che per il dettato legislativo. E' la giurisprudenza a ricercare delle soluzioni ad hoc che siano capaci di supplire la cecità alla differenza di cui soffre il diritto statale.

Una volta incentrata l'attenzione sul soggetto, un ruolo essenziale nella tutela delle diversità deve dunque essere conferito ai giudici i quali hanno la possibilità di contemplare, nel caso di specie, le possibili conflittualità che s'instaurano tra uno stile di vita espressione di una certa cultura e una norma statale, adottando decisioni frutto di un bilanciamento dei vari interessi in gioco. Su questo punto analizzerò una serie di sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che si sono espresse in materia di tutela dello 'stile di vita rom'.

L'ultima parte del mio lavoro, sarà focalizzata sull'esame dell'istituto matrimoniale rom, prima analizzandolo da un punto di vista antropologico, per poi indagare le risposte, alla richiesta di un suo riconoscimento, provenienti tanto dalla giurisprudenza nazionale che dalla giurisprudenza della CEDU.

Note

1. Sul punto si veda: S. Benhabib, The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era, Princeton University Press, Princeton, 2002, trad it, Il Mulino, Milano, 2005; B. De Sousa Santos, Diritto ed emancipazione sociale, Città aperte, Torino, 2008.

2. R. Sacco, Antropologia giuridica, Il mulino, Bologna, 2007, p. 83.

3. Qui, da intendersi come diritto statale, legicentrico e positivo che ha avuto come obiettivo quello di regolare tutti i rapporti sociali all'interno di un dato territorio e che, a seguito dei conflitti bellici, si è universalizzato dando vita alla cultura dei diritti umani valevoli in ogni luogo.

4. Sul punto si veda: B. De Sousa Santos, Può il diritto essere emancipatorio?, in "Sociologia del diritto", n.3, 1990.