ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Elisa Marchi, 2011

Le Dichiarazioni Universali hanno sancito il riconoscimento di taluni diritti a tutti gli uomini, senza distinzione di sesso, razza, religione, cultura; molti di questi diritti sono stati, poi, recepiti dalle costituzioni moderne come diritti fondamentali. Questa fase ha rappresento un momento di svolta nella Western Legal Tardition poiché, il destinatario di questi diritti fondamentali diviene l'essere umano a prescindere dal suo status giuridico e/o sociale. In questo contesto, corollario indispensabile per garantire l'uguaglianza, da intendersi come opportunità di godimento e accesso a tali diritti, è quello di superare le discriminazioni basate su un sesso, su una razza, su una religione e su una cultura diversi da quelli che connotano la maggioranza che detiene il potere. (1) In questi termini il pluralismo sociale, messo in luce attraverso gli strumenti dell'antropologia e della sociologia, diviene un mezzo attraverso il quale i gruppi oppressi, limitati nel loro accesso ai diritti, possono avanzare pretese di un riconoscimento paritario con i detentori del potere. In questo caso ci troviamo di fronte a quelle che abbiamo definito come minoranze culturali by force che Pizzorusso chiama minoranze discriminate. (2) In questa ipotesi i tratti culturali come la lingua, il colore della pelle, l'apparenza etnica, sono elementi che ostacolano l'accesso ai diritti in termini paritari, costituendo una violazione del principio di uguaglianza formale.

Presto, però, le rivendicazioni si spingono oltre, non è più sufficiente che la maggioranza garantisca la possibilità di accesso ai diritti in condizioni paritarie a tutti coloro che appartengono a un gruppo discriminato, ma deve anche riconoscere la loro specificità, questo perché, l'appartenenza a un gruppo diviene un elemento rilevante per la vita e per le scelte del soggetto. Si parla in questo caso di diritti umani 'culturali' cioè diritti a veder rispettata la propria identità e differenza culturale. In questo caso la categoria giuridica di riferimento è la minoranza culturale by will, o ricorrendo alle classificazioni offerte da Pizzorusso possiamo parlare anche di minoranze volontarie; tale minoranza è caratterizzata dal fatto che i suoi membri aspirano a conservare e a mantenere i valori e le caratteristiche che li differenziano dalla maggioranza. (3) Nelle ipotesi delle minoranze by will l'identità culturale è rappresentata da quelle stesse caratteristiche di razza, sesso, lingua che, in una concezione formale dell'uguaglianza, devono essere considerate irrilevanti ai fini di un accesso paritario ai diritti. La valorizzazione di questo tipo di minoranza passa per il riconoscimento del relativismo tra le culture e delle diversità umane così come emerge dal dibattito antropologico.

Dal punto di vista giuridico questo si traduce nel riconoscimento dei diritti culturali (4) che possono essere suddivisi in due categorie: negativi e positivi. (5) I primi, consistono in un diritto negativo alla non interferenza da parte dei privati e dello Stato entro la prioria sfera personale, questi tipi di diritti sono parzialmente coincidenti con alcuni diritti liberali come: il diritto di religione, di opinione, di formare una famiglia. I diritti culturali positivi, invece, consistano nell'attribuzione di un diritto positivo ad ottenere, attraverso atteggiamenti appropriati e comportamenti commissivi opportuni, da parte dei privati e dello Stato, il rispetto e la conservazione della prioria identità culturale. I diritti culturali negativi hanno già trovato alcuni riconoscimenti a livello internazionale, ad esempio, nell'art. 27 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966:

"In quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo."

I diritti culturali positivi hanno trovato un riconoscimento espresso negli artt. 1, 4 commi 2 e ss. e 5, della Dichiarazione sui Diritti delle Persone appartanti a Minoranze Etniche, Religiose e Linguistiche, invece gli artt. 2 e 4 comma 1 ribadiscono la tutela dei diritti culturali negativi.

I diritti culturali positivi, traducendosi in azioni positive o promozionali, trovano fondamento nel principio di uguaglianza sostanziale, che nel nostro ordinamento trova il suo riconoscimento nell'art. 3 comma 2 Cost. Questo articolo è stato oggetto di uno dei più interessanti dibattiti dottrinali degli ultimi anni che si snodano su due posizioni essenziali: considerare l'uguaglianza sostanziale come deroga all'uguaglianza formale o come specificazione di essa. Alla base di queste due teorie vi sono due diverse costruzioni antropologiche di essere umano, una si fonda sull'idea di un individuo astratto dal contesto sociale, l'altra su un soggetto riconducibile ad una dimensione culturale.

Secondo la prima visione, che possiamo definire come tradizionale-liberale e che considera l'uguaglianza sostanziale come deroga a quella formale, l'art. 3 comma 2 è considerato la base costituzionale giustificativa delle cosiddette azioni positive a vantaggio di categorie svantaggiate o sottorappresentate in determinati settori. Questa tesi ha il merito di ricondurre l'art. 3 a strumento giuridico attraverso il quale gli Stati liberal-democratici possono porre in essere una tutela nei confronti di minoranze o gruppi svantaggiati, senza violare il principio di uguaglianza formale. In questo caso l'appartenenza a una minoranza giustifica la previsione di misure positive, in deroga all'uguaglianza formale. In questa ipotesi, la giustificazione del ricorso ad azioni positive non si fonda sulla necessità di riconoscere e tutelare una diversità culturale, ma nel superare una condizione di discriminazione che, un certo gruppo, ha subito, per cui, le azioni positive divengono strumenti attraverso i quali riportare una situazione di parità tra i soggetti. Questo significa che, la diversità della quale si fa portatore l'individuo alla luce della sua appartenenza a un gruppo culturale, si lega al concetto di non discriminazione. Le diversità di sesso, lingua, cultura rilevano poiché impediscono un effettivo accesso ai diritti, non perché costituiscano un valore da perseguire e tutelare. Si muovano in tale senso le politiche delle quote volte a garantire un certo numero di seggi o posti pubblici ai membri di minoranze (es. le donne o certe minoranze culturali), che a causa delle discriminazioni subite, si trovano in una situazione di 'svantaggio nei punti di partenza'. In questo caso, l'azione positiva non è volta ad affermare una specificità ma a superare una discriminazione subita. Il punto di arrivo è ancora una volta l'uguaglianza tra gli individui, i quali, come prevede la tradizione liberale, sono costruiti come astratti dalle proprie appartenenze sociali e culturali; tutti gli uomini si presentano uguali di fronte alla legge, per cui, in questa visione, la tutela del soggetto si muove all'interno della previsione di strumenti anti-discriminatori, volti a riequilibrare i punti di partenza.

È proprio sul punto dell'astrattezza del soggetto giuridico che si muove la critica dell'American Anthropologist. Alla vigilia della proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, espressione del processo di positivizzazione dei diritti umani realizzato a livello internazionale, l'American Anthropologist, in un celebre documento del 1947, (6) avanza l'idea che i diritti umani siano il prodotto della tradizione giuridica occidentale. In particolare si critica l'idea che questi siano rivolti a un 'uomo' totalmente astratto dalle sue appartenenze sociali, storiche e culturali poiché, nella visione antropologica, la personalità dell'individuo è frutto della cultura alla quale appartiene. In quest'ottica, che vede i diritti umani come il prodotto di una cultura particolare, quella occidentale, gli antropologi denunciano che non vi può essere libertà individuale se il gruppo, al quale appartiene l'individuo, non è libero ed è considerato inferiore a quello che detiene il potere e se il diritto, strumento di questo potere, è espressione della cultura di questa maggioranza. (7)

In questo caso gli strumenti anti-discriminatori non sono più sufficienti a garantire un'effettiva tutela al soggetto, ma si richiedano interventi più incisivi volti a recepire, sul piano giuridico, le specificità socio-culturali delle quali l'individuo si fa portatore. L'uguaglianza non può esistere se essa è costruita su un modello espressione della maggioranza; i diritti umani si presentano come figli di un'antropologia ben definita che è quella occidentale e, secondo la visione femminista, essi veicolano, anche, una concezione maschile del mondo. (8) In conformità a queste critiche i diritti sarebbero rivolti a un individuo che è tutt'altro che astratto rispetto al dato socio-culturale ma è figlio maschio della cultura occidentale.

Queste tesi sono fatta priorie dall'ideologia comunitarista che si sviluppa all'interno del dibattito multiculturale. Questa ha risentito fortemente degli esiti degli studi sul pluralismo giuridico che hanno messo in luce una dimensione sociale del soggetto, tanto che, essa si presenta a favore dei valori della differenza e dell'identità, aprendo la stagione del così detto 'pensiero della differenza', nel quale, la diversità non viene più vista come necessariamente superabile poiché ostacolo a un accesso paritario ai diritti, ma come valore da tutelare. Il comunitarismo critica il carattere discriminatorio dell'apparente neutralità della cultura politica liberale, perché l'idea di costruire teorie, affermare diritti, elaborare norma in riferimento ad un soggetto universale e decontestualizzato, senza razza, sesso, ceto sociale ecc., (9) è un'utopia; nella realtà, lo Stato si fa portatore dei valori di una maggioranza o di un gruppo di soggetti. Le politiche pubbliche, basate sulla neutralità dello Stato e sull'eguaglianza formale di tutti gli individui, si presentano, così, come 'cieche alle differenze', proteggendo il dominio di una maggioranza o di un gruppo che detiene il potere. Il 'pensiero della differenza' ha come bersaglio l'idea di uguaglianza che è costruita rispetto al modello imposto dalla maggioranza (o gruppo dominate). Quest'uguaglianza, come abbiamo visto, (10) vene qualificata da Gianformaggio come uguaglianza valutativa. Secondo questo tipo di uguaglianza, dato che il modello di riferimento ai fini di una parità di trattamento, è costruito partendo dai valori e dalle specificità del gruppo dominate, dire che, A (un gruppo minoritario) è uguale a B (la maggioranza) significa dire che A può essere trattato in modo uguale a B se si conforma al modello costruito da B. Se B costruisce il modello, non può essere detto né diverso né uguale poiché essere uguale o diverso in questo modo acquista un senso assoluto e non relativo e una connotazione di valore positiva per l'uguaglianza e negativa per la differenza: essere diverso significa essere inferiore. (11) Secondo la 'teoria della differenza', l'origine della diversità si rinviene nel rapporto di domino/oppressione posto in essere dalla maggioranza nei confronti delle minoranze. La relazione sociale di dominio/oppressione tra gruppi costruisce come norma le specificità de gruppo domante e come scarto, alterità assoluta, le specificità de gruppo oppresso. (12) In questo contesto i valori sottostanti le norme giuridiche rispecchino le peculiarità e specificità della maggioranza, senza tener conto, nel caso delle minoranze culturali, del loro particolare stile di vita, della loro visione del mondo, anzi, queste sono considerate come inferiori. Prendiamo come esempi i casi sui quali si è pronunciata la CEDU. Questi si fondano sul conflitto tra un aspetto dello 'stile di vita romané', il nomadismo e la legislazione statale che lo ostacola, per non dire vieta, poiché il nomadismo si presenta in contrasto con il modo di vita della maggioranza. Alla luce di questo, come sostiene Gianformaggio il principio di uguaglianza elaborato dalla maggioranza rientra nella categoria di uguaglianza come sameness, dove l'idea di non discriminazione e le azioni positive sono elaborate in funzione del raggiungimento del modello imposto dalla maggioranza, in un'ottica che promuove l'assimilazione di A al modello costruito da B.

La riflessione sull'appartenenza del soggetto a un gruppo culturale, avente un proprio stile di vita e propri valori, porta a rilevare l'inadeguatezza del concetto di uguaglianza formale al fine di garantire la tutela del soggetto poiché l'individuo destinatario di diritti è costruito sui bisogni e i valori del gruppo dominate. In questo caso la rilettura del principio di uguaglianza si fonda sull'esigenza di superare la portata assimilazionista dell'uguaglianza come identità di trattamento. Come sostengono alcuni autori, (13) l'uguaglianza formale porta a trattare in modo eguale solo coloro che divengono eguali e costituisce il presupposto di politiche che permettono di raggiungere obiettivi e stili di vita del gruppo dominate solo a quegli individui disposti, e in grado, di rinunciare alla propria identità culturale. (14) Valorizzare e riconoscere le differenze, significa, che un trattamento differenziato non può trovare fondamento solo nell'esigenza di bilanciere e superare le disuguaglianze di fatto che un soggetto ha subito poiché membro di un gruppo culturale, ma anche predisporre strumenti volti a valorizzare tali differenze. "Insomma gli uomini nascono diversi e per trattarli da eguali bisogna ammettere dei trattamenti differenziati." (15) Come afferma Gianformaggio, pioniera negli studi in questa materia:

La valorizzazione delle differenze non richiede che si ripudi l'eguaglianza, ma piuttosto che la si prenda sul serio. Essa richiede infatti che proprio in nome dell'eguaglianza dei diritti fondamentali si conduca una lotta nei confronti dell'oppressione di individui e gruppi; che finalmente si consideri violazione del principio giuridico dell'eguaglianza la oppressione oltreché la mera discriminazione, o addirittura la oppressione anziché la discriminazione. (16)

Il 'pensiero della differenza', non si appaga del fatto che i membri di un gruppo, precedentemente discriminato o oppresso, riescono ad affermarsi, conformarsi ai criteri imposti e ai valori dominati, ma richiede che i valori specifici del gruppo siano assunti a criteri di eccellenza per i suoi membri. Il gruppo diviene un luogo centrale per lo sviluppo e per le scelte della persona. Alla luce di questo, la soluzione avanzata dal pensiero comunitario, al fine di garantite la 'tutela della diversità' è quello di ascrivere alle minoranze by will diritti culturali positivi contro l'oppressione e l'inclusione forzata. Per i comunitaristi i gruppi possono essere destinatari di diritti, questo perché il soggetto, non può più essere pensato come astratto dalle sue appartenenze, la tutela del gruppo diviene elemento indispensabile per garantire la tutela del singolo, infatti, l'uguaglianza tra soggetti non può esservi senza l'uguaglianza tra i gruppi e le culture.

Questo filone di pensiero, però, non è andato esente da critiche, infatti, l'attribuzione di diritti culturali al gruppo, al fine di tutelare la sua specificità identitaria, rischia di tradursi in limitazioni ai diritti individuali e nell'imprigionamento del soggetto all'interno del gruppo stesso. In questi casi, una delle soluzioni prospettate è quella di prevedere un diritto di uscita, cioè il riconoscimento, in capo al singolo individuo, della facoltà di abbandonare la propria comunità, questo perché, ciascun gruppo deve riconoscere ai propri membri la possibilità di autorealizzazione e partecipazione alla vita economica e politica del paese. (17) Come sostiene Facchi, (18) in realtà, il diritto di uscita si presenta come un 'diritto di carta velina', poiché, la dipendenza del soggetto dalla prioria comunità di riferimento si muove su canali diversi da quelli giuridici basti pensare ai legami affettivi, psicologici, alla rete di rapporti che lega il singolo con gli altri membri della comunità. In questo quadro sembra avere poco senso il riconoscimento di un diritto all'uscita. (19)

Altri problemi concernano la costruzione del gruppo nei confronti del quale rivolgere l'intervento normativo. Il primo problema concerne l'individuazione dei tratti culturali che costituiscono il fondamento della comunità. Come ho cercato di mettere in luce nei capitoli precedenti, se la definizione dei tratti identitari, sui quali costruire il concetto di minoranza al quale lo Stato lega la tutela giuridica, è lasciata a chi detiene il potere, il rischio è quello di vedere esclusi da qualsiasi forma di riconoscimento una serie di individui. Su questo punto un esempio è costituito dal caso del mancato riconoscimento dei rom come minoranza che ho trattato nel paragrafo 2.5.1.2. Inoltre, alla luce del nuovo contesto storico-giuridico, la costruzione dei gruppi in termini chiusi, e quindi una rappresentazione della differenza in termini reificati, non sembra più auspicabile, infatti, oggi si assiste ad una revisione del concetto di cultura, ad opera delle correnti post-moderne, (20) che vede la costruzione di cultura reificata superata, non più idonea a rispondere alle nuove sfide dell'età post-moderna, dove il soggetto è portatore di multiculturalità, la cui identità si presenta in continuo mutamento.

Il secondo problema che la tutela giuridica della diversità presenta, qualora si fondi sul riconoscimento di diritti al gruppo, e non all'individuo, riguarda la questione della reale partecipazione del singolo alla comunità, infatti, in questi casi, il rischio è che certi individui, generalmente le donne, sulla base delle regole che dominano il gruppo, non abbiano la possibilità di un'effettiva partecipazione interna.

Tutte queste problematiche potrebbero essere superate abbracciando, come abbiamo visto nel primo capitolo, i nuovi indirizzi sul pluralismo giuridico. Come sostiene De Sousa Santo, oggi viviamo in un tempo di porosità giuridica, di diritto poroso costituito da molteplici reti di giuridicità che ci obbligano a costanti transizioni e trasgressioni. La vita socio-giuridica di fine secolo si caratterizza per l'interazione di differenti linee di frontiere giuridiche, frontiere porose e, come tali, simultaneamente aperte e chiuse. (21) Questo nuovo spazio giuridico e sociale porta a un mutamento epistemologico nella concezione di pluralismo, passando da una visione oggettiva a una soggettiva di questo. Quest'ultima pone al centro dell'analisi l'individuo il quale, calato contemporaneamente in una pluralità di ordini sociali, si fa portatore di multiculturalità, liberandosi dalla logica dei gruppi, per tornare a essere il protagonista della dimensione giuridica. Il ritorno del soggetto al centro dell'analisi giuridica avviene in una veste diversa da quella della tradizione liberale, poiché l'individuo si presenta come portatore di multiculturalità.

In questo caso, l'antropologia dell'individuo non è più né nell'astrattezza dalla dimensione sociale, né nell'appartenenza ad un gruppo i cui confini sono rigidamente costruiti, ma, come suggeriscono le nuove correnti post-moderne di pluralismo, l'identità dell'individuo risente della molteplicità delle sue appartenenze e si presenta in continua evoluzione.

In questo caso mi sembra particolarmente utile la costruzione offerta da Facchi di pluralismo normativo. Secondo l'autrice, nell'età contemporanea, l'individuo più che calato in una comunità chiusa, appartiene a più ordini, trovandosi così soggetto a più norme alcune delle quali trovano fondamento nella comunità culturale al quale appartiene, altre nell'ordine statale, altre ancora in quello internazionale, solo per citarne alcuni.

I principali problemi si pongono quando la norma 'culturale', seguita dal soggetto, si presenta in contrasto con il diritto statale, che, secondo il 'pensiero della differenza' è costruito sui valori di una maggioranza. Questo determina, quello che gli antropologi chiamano uno 'scontro di civiltà' che pone il problema di capire entro quali limiti lo Stato può ammettere trattamenti differenziati sulla base di un dato culturale, soprattutto se questo è configgente con quello statale.

Da questo punto di vista sono state avanzate alcune soluzioni, le quali ci possono offrire uno spunto di riflessione all'interno di una materia nella quale è difficile assumerne un punto di vista assoluto.

Secondo Gianformaggio, la sameness ovvero l'assimilazione, l'inclusione forzata d'individui in gruppi nei quali non si riconoscono, deve essere superata proprio in nome del valore dell'uguaglianza sostanziale, che vuol dire universalità dei diritti fondamentali e rispetto del valore intrinseco della persona. Per l'autrice, infatti, la tutela della differenza passa proprio per la protezione giuridica dei diritti della personalità e anche, solo se recentemente riconosciuta, della protezione giuridica dell'identità personale. (22) Per l'autrice ciò che dovrebbe giustificare, alla luce del principio della differenza, la proposta di una modifica legislativa o l'estensione o il restringimento in sede applicativa della fattispecie di una regola giuridica è il rispetto dei diritti fondamentali. Ed è proprio su questo punto che si aprono i più grandi interrogativi con i quali il legislatore, che voglia aprirsi al pensiero della differenza, è chiamato a confrontarsi. Come sostiene Gianforamggio, prendere sul serio i diritti fondamentali significa riconoscere che un'identità è costituita, tra l'altro, anche dalle opinioni in merito a quali siano i diritti fondamentali e i valori irrinunciabili. In quest'ottica i diritti fondamentali assumano una portata relativa e non più assoluta. Alla luce di questo non c'è ragione di considerare i diritti e i valori fatti propri dalla Stato come baluardi di fronte ai quali ogni rivendicazione d'identità s'infrange. (23) Allo Stato, così come a nessun altro è consentito stabilire quali paretiche, quali valori e quali credenza, devano essere considerati validi ai fini di conservare la propria dignità e identità personale. Portare al centro del dibattito giuridico l'individuo portatore di multiculturalità significa ribadire il primato degli individui sullo Stato. Il limite alle richieste di riconoscimento che il soggetto può avanzare, è rappresentato dai diritti fondamentali degli altri, non in quanto conferiti dallo Stato ma in quanto, al pari di quelli rivendicati come segno d'identità, vincolano tutti al loro rispetto e vincolino tutti alla loro tutela. (24)

Alla luce di questa posizione sembra assumere una rilevanza fondamentale, l'art. 2 Cost. che ci consente di ricondurre la diversità culturale nell'ambito dell'identità personale del soggetto e quindi riconoscergli una tutela attraverso il principio personalista sancito nell'art. 2 Cost. In questo caso la socialità del soggetto è insita e precedente rispetto al diritto, per cui la tutela della persona umana deve riguardare l'interezza dei suoi contesti sociali e relazionali. Tale strumento ha il vantaggio di fornire una tutela all'individuo non imprigionandolo in identità rigide legate all'appartenenza a un gruppo, consentendo la tutela di quella che le moderne correnti socio-antropologiche chiamano identità multiculturale. In questo quadro, si potrebbe arrivare a prospettare un vero e proprio diritto a veder riconosciuta la propria visione del mondo. In questo caso si può arrivare a recepire, in linea con l'approccio relazionista, terzo polo nel dibattito multicultualista tra comunitaristi e liberali (25), un ulteriore contenuto al diritto alla diversità. Secondo le tesi relazioniste l'individuo entrando in rapporto con i membri della comunità può mutarla dal suo interno. Più lo spazio di questa relazionalità è ampio e offre orizzonti di senso, risposte ai problemi dell'esistenza diversificati, maggiori sono le possibilità per l'individuo di trovare riposte ai propri dilemmi esistenziali e di rinvenire una pluralità di voci. L'elemento centrale di questa tesi è la diversità dell'interlocutore che deve farsi portatore di una diversa prospettiva di valutazione del mondo e portatore di altri punti di vista. Noccolai sintetizza due diversi approcci alla questione della differenza: differenze come cose e differenze come valutazioni. (26) Nella prima ottica le differenze sono reificate, considerate come attributi del soggetto, come entità cosali che l'individuo possiede e che sono visibili; nella seconda ottica le differenze sono viste come valutazioni del mondo, diversi modi di percepire la realtà pluralizzandola, fino ad arrivare a perturbare la nostra identità personale. Ovviamente un approccio cosale alla differenza è più immediato poiché implica il riconoscimento di tratti culturali visibili e tangibili che non sono altro che le modalità con cui l'individuo esplica una certa visione del mondo. Ad oggi, come ho mostrato nel corso della tesi, questo è l'approccio che è prevalso nella costruzione della differenza della quale si fa portatore un soggetto rom. La costruzione del gruppo rom sugli aspetti del nomadismo e lingua, riflettano proprio questo indirizzo. La scelta a favore di una costruzione cosale di differenza è anche dettata dalle difficoltà che deriva dall'accettare la visione della vita di cui si fa portatore l'altro. Nel caso dei rom, è molto più semplice ricorrere a una costruzione identitaria rigida fondata su tratti come il nomadismo o la lingua piuttosto che comprendere la loro visione del mondo. Si pensi ad esempio alle pratiche intergenerazionali che prevedano, generalmente, che il periodo di permanenza del bambino in famiglia e accanto alla madre sia più lungo, profilo che spesso ritarda l'inserimento del bambino a scuola perché considerato 'troppo piccolo'. (27) Quest'approccio, nonostante le difficoltà, ha il vantaggio di coniugarsi bene con una visione d'identità multiculturale. Infatti, il diritto a confrontarsi con diverse visioni del mondo apre la strada a un continuo mutamento delle identità, senza ancorarle a gruppi e valori stabili, abbattendo stereotipi e pregiudizi e liberando così gli individui dalle identità rigide che connotano il nostro tempo. Inoltre, il diritto a veder riconosciuta la prioria visione del mondo può portare al superamento dell'assimilazionismo culturale aprendo la strada a politiche d'interazione, dove ogni visione del mondo è degna di considerazione e riconoscimento. In questo contesto, un'opera fondamentale è svolta dai mediatori che si fanno intrepreti tra le diverse visioni del mondo, consentendo una comprensione reciproca e favorendo continue mediazioni, aprendo la strada per una società più fluida, dove lo scambio tra individui e le loro esperienze è continuo.

Questo mostra come nell'età contemporanea, dove la diversità dell'individuo si ascrive alle sua appartenenze multiple, la tutela della differenza non può essere lasciata esclusivamente al legislatore, ancor di più se esso è espressione di un potere dal quale risultano esclusi certi gruppi (es. donne, immigrati, rom). Ricorrere al pluralismo normativo come strumento di lettura della realtà contemporanea, porta a pensare l'individuo come soggetto a una pluralità di norme alcune delle quali trovano fondamento nel contesto di un gruppo culturale, per cui, un'effettiva tutela contro le discriminazioni e una tutela della differenza culturale è rimessa al giudice e agli amministratori, i quali sono chiamati a trovare soluzioni utili a risolvere i conflitti che di volta in volta si possono realizzare tra l'ordinamento statale e le singole norme che dirigono la condotta del singolo. In questo quadro, il principio di uguaglianza sensibile alle differenze, il diritto all'identità personale, possono divenire strumenti a disposizione del giudice per riconoscere la specificità della quale si fa portatore il singolo. Tutto questo ha il vantaggio di ricercare soluzioni capaci di bilanciare i diversi interessi in gioco nel caso concreto, attraverso un confronto con i protagonisti della vicenda.

Note

1. Sul punto si veda: A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale: Pluralismo normativo e immigrazione, Laterza, Roma-Bari, 2001.

2. Secondo l'autore le minoranze discriminate sono costituite da quei gruppi che, a causa di una caratteristica distintiva come la lingua o il colore della pelle subiscono discriminazioni negative che gli impediscano di assimilarsi con i membri della maggioranza. Ne costituiscono un esempio i neri d'America nel corso del periodo della segregazione raziale. L'autore a mio avviso tende a porre una distinzione netta tra minoranze discriminate e minoranze volontarie, i rom possono rientrare in entrambe le categorie.

3. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Einaudi, Torino, 1993, p. 52.

4. I diritti culturali sono una costruzione giuridica molto dibattuta, secondo alcuni autori essi non avrebbero una loro specificità trattandosi di alcuni diritti liberali e di alcuni diritti sociali riletti in una chiave sensibile alle differenze. Per cui, questa categoria rileverebbe solo come giustificazione a una politica intrapresa.

5. P. Comanducci, Diritti umani e minoranze: un approccio analitico e neo-illuminista, Ragion pratica, n.2, 1994, p. 39.

6. Statement on Human Rights, in "American Anthropologist", Vol. 49, n. 4, Ottobre-Dicembre, 1947.

7. Questo documento apre la strada a una serie di critiche ai diritti umani tanto cha, alcuni autori li considerano come uno strumento di 'neo-colonizzazione' dell'occidente. "Pertanto oggi i diritti dell'uomo, associati all'espansione dei mercati, rappresentano in realtà l'armatura ideologica della globalizzazione: sono strumenti di domino e come tali vanno giudicati." A. Benoist (De), Oltre i diritti dell'uomo, per difendere le libertà, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2004, p. 54.

8. A fianco alla critica proveniente dall'antropologia giuridica, dagli anni Ottanta, si afferma la critica ai diritti liberali proveniente dal mondo femminista. Secondo le femministe il diritto sarebbe il prodotto di un modello di riferimento che si fonda su canoni maschili.

9. A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale: Pluralismo normativo e immigrazione, cit., p. 5.

10. Per un'analisi più approfondita della teoria di Gianformaggio rimando a quanto già trattato nel capitolo terzo paragrafo: 3.4.

11. Ivi, p. 41.

12. Ivi, p. 50.

13. A. Facchi, op. cit., p. 54; I.M. Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton U.P., Princeton, 1990, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1990, p. 84.

14. A. Facchi, op. cit., p. 54.

15. A. Facchi, op. cit., p.56.

16. L. Gianformaggio, Identity, Equality, Similarity and Law. In: M.M. Karlsson, O.P. Jónsson, E.M. Brynjarsdóttir (a cura di), Recht, Gerechtigkeit und der Staat. Berlin, Duncker & Humblot, 1993, tard.it, Torino, Giappichelli, 1995, p. 125.

17. Sul punto si veda: J. Raz, Multiculturalism, in "Ratio Juris", An International Journal of Jurisprudence and Philosophy of Law, n.3, 1998.

18. A. Facchi, op. cit., p. 29.

19. La questione del riconoscimento dei diritti culturali al gruppo è molto dibattuta. Tra le posizioni più autorevoli ricordiamo quella di Will Kymlicka che distingue tra: diritti collettivi che si traducano in restrizioni interne al gruppo cioè in misure dirette a proteggere il gruppo dall'effetto destabilizzante del dissenso interno e che comportano limitazioni alla libertà dei sui membri, e i diritti collettivi che si traducono in 'tutele esterne', cioè in misure finalizzate a proteggere il gruppo da decisioni prese senza la sua partecipazione o contro i suoi interessi. Per l'autore, mentre le prime sono quasi sempre inique, le seconde, non solo non ledono nessun diritto, ma sono fondamentali in uno Stato democratico poiché concorrono a ridurre le disuguaglianze. W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 63-81.

20. Per un approfondimento sul punto rimando a quanto già trattato nel capitolo I.

21. B. De Sousa Santos, Stato e diritto nella transizione post-modena. Per un nuovo senso comune giuridico, in "Sociologia del diritto", n.3, 1990.

22. L. Gianformaggio, L'eguaglianzae le norme giuridiche, cit., p. 100.

23. Ibid.

24. Ivi, p.101.

25. Le tesi relazioniste criticano le posizioni liberali e comunitarie alla luce della loro eccessiva staticità, in quanto, le prime si concentrano esclusivamente sull'individuo e le seconde sulla comunità negando la possibilità di una priorità o successione dell'individuo sulla società. Sul punto si veda: I. Ruggiu, La diversità come bene pubblico tra Europa e Stati costituzionali, cit., pp. 101-102.

26. S. Niccolai, Le differenze come cose o come valutazioni, in F. Cerrone, M. Volpi (a cura di), Sergio Panunzio. Profilo intellettuale di un giurista, Joveve, Napoli, 2007.

27. I. Ruggiu, op. cit., p. 102.