ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Giulia Fabini, 2011

c'è un cambiamento. Tipo adesso è, adesso è più difficile tipo. Gli ultimi tre anni. Sono cambiate da così a così le cose, tra legge, tra persone anche. Cioè, su diversi settori hanno cambiato veramente, e noto che siamo arrivati ad un certo punto che non lo so, l'Italia non...forse hanno paura, che ne so, della diversità, no...non capisco davvero questo cambiamento, perché è intenso, da due anni... (MA, Senegal, 34 anni)

Sono molte le questioni sollevate nel corso di queste pagine, e sono anche molti e diversi i piani sui quali queste sono state poste, analizzate, problematizzate. Il lavoro si è mosso su un piano giuridico-teorico, uno filosofico e uno più prettamente sociologico. Credo fermamente che ognuna delle questioni poste fosse indispensabile alla comprensione dell'altra, come indispensabile si è rivelato, nel corso della ricerca, riferirsi a tre piani diversi di analisi. Questo perché il "fatto sociale" che ho voluto analizzare non è solo "prassi", non è solo "legge" e non è solo "discorso", ma è tutte queste cose insieme. E' un fatto sociale totale che riguarda un gran numero di norme di segno repressivo, contraddittorie e inefficaci, riguarda discorsi, che circolano a livello politico, mediatico e sociale, variamente influenzati da un clima culturale generale che accoglie istanze razziste, xenofobe, sentimenti di insicurezza e paura e richiesta di ordine e sicurezza. Questo clima culturale è influenzato da, e a sua volta influenza, soluzioni teoriche a livello normativo incentrate su di un principio escludente, delle quali il diritto penale del nemico sarebbe massima espressione. Questo a sua volta, in quanto torsione del diritto, incide sull'operato di polizia che è l'istituzione preposta all'applicazione delle norme vigenti.

Come ho scritto in introduzione, questo lavoro nasce da una forte esigenza di trovare un perché, una spiegazione al meccanismo di esclusione, criminalizzazione e sfruttamento a cui i migranti presenti nel nostro paese sono sottoposti, una spiegazione a certe politiche migratorie che, ad uno sguardo superficiale, appaiono tanto afflittive nei confronti dei singoli soggetti quanto inefficaci al livello del fenomeno migratorio nel suo complesso. Quella svolta è perciò, prima di tutto, una ricerca di ciò che sta accadendo in questo momento storico in Italia. Ed è questo un elemento imprescindibile in ogni passaggio dell'analisi. Proprio per questo ogni questione sollevata, dopo essere stata analizzata in un primo tempo in via generale, è stata poi ricondotta entro le specificità del contesto italiano. Così per il diritto, così per le pratiche di polizia, così per l'insorgere della questione sicurezza che, per inciso, è la cornice entro la quale situare tutti i successivi discorsi, dato che trova massima espressione proprio nelle retoriche di contrasto all'immigrazione clandestina che iniziano a fiorire in questo paese a partire dagli anni Novanta.

Innanzitutto, con "emergere della questione sicurezza" si fa riferimento a quel processo nel corso del quale si assiste ad un ribaltamento nella scala di priorità dei compiti dello stato e durante il quale la tematica della sicurezza, intesa nel senso più restrittivo del termine, diventa la preoccupazione principale nei media, tra i politici e tra la gente comune. Le retoriche di contrasto dell'immigrazione clandestina sono figlie, d'altro canto, delle retoriche sulla criminalità diffusesi negli Stati Uniti della metà degli anni Settanta. In quel periodo il paese è scosso da una rivoluzione neoliberista (in ambito economico) e neoconservatrice (in ambito politico) senza precedenti: si assiste alla fine del sistema di produzione fordista e al passaggio ad un nuovo sistema produttivo, contestualmente all'erosione dello stato sociale, mentre si fanno spazio retoriche che insistono sulla responsabilità individuale rispetto alla condizione di povertà e sulla ridefinizione della questione criminale come problema di edificazione morale. Mentre le politiche neoliberiste conducevano verso livelli di disoccupazione cronica, resa ancora più angosciosa dalla mancanza dei sostegni statali, le retoriche neoconservatrici approfondivano la divisione di classe e razziale all'interno della società americana. In questo contesto si situa la trasformazione nel controllo della criminalità: all'incertezza diffusa fece da contraccolpo l'emergere di un clima culturale ipervigilante, ambivalente e insicuro, clima nel quale la criminalità ha iniziato ad essere attribuita solo ad una parte della popolazione e a venire percepita come un problema di indisciplina, di mancanza di autocontrollo e controllo sociale. La Sicurezza diviene la nuova parola d'ordine, incidere sul sentimento di paura la nuova ossessione. Si governa attraverso la paura e allo stato si richiede la protezione dai rischi della vita urbana.

Non a caso la questione sicurezza arriva in Italia in un periodo di crisi profonda, nel quale contemporaneamente si ha il crollo di un sistema politico per la corruzione dei suoi esponenti, la crisi economica, l'"invasione degli immigrati", la manifestazione della forza delle mafie nelle stragi e la loro infiltrazione nel sistema politico ed economico. La "domanda di sicurezza" fu la modalità di espressione che trovarono i sentimenti di rabbia, indignazione, sfiducia che da tempo serpeggiavano all'interno della società italiana. Subito questa domanda venne declinata come "emergenza immigrazione clandestina", e io ho ipotizzato che ciò sia avvenuto perché questo sentimento anti-immigrato rispose, in quel periodo di crisi, al bisogno della comunità di ritrovare se stessa, ovvero al suo bisogno di ritrovare coesione nell'unione delle forze contro un nemico comune. E proprio nel migrante venne riconosciuto tale nemico.

Una volta chiarito come la parola Sicurezza è entrata nel vocabolario comune in questo paese, non rimane che cercare di comprendere la natura più profonda dei meccanismi attualmente in atto che ad essa si ispirano.

Quello che con questa ricerca mi interessava far venire alla luce è il come il controllo dell'immigrazione avviene, e una volta individuato il come cercare di spiegare il perché.

Ma già per comprendere il come, guardare alla sola legislazione non sarebbe stato sufficiente, ragion per cui l'attenzione è stata posta anche alle pratiche attraverso le quali si presume tale legislazione venga messa in atto. La gestione dell'immigrazione avviene infatti principalmente tramite pratiche di polizia, le quali però sono legate a doppio filo alla legislazione vigente. L'operato di polizia deve infatti generalmente muoversi entro i confini tracciati dalle leggi, ma allo stesso tempo usa la legislazione in base alle proprie esigenze.

Dall'analisi è emerso che pratiche di polizia e legislazione sono variamente interconnesse, ed insieme danno origine al sistema di controllo dell'immigrazione vigente in Italia. Ma sia le une che le altre sono comunque sfere a se stanti, vale a dire che ognuna delle due prevede meccanismi di funzionamento particolari, proprio come ognuna delle due segue logiche proprie. Perciò, in un primo momento sono state trattate separatamente, per mettere in luce nell'uno e nell'altro quegli elementi che poi si sono rilevati fondamentali nel corso della ricerca empirica.

Sempre nell'ottica dell'analisi del sistema di controllo dell'immigrazione irregolare in Italia, pratiche di polizia e legislazione sono stati trattati prima da un punto di vista puramente teorico (capitoli secondo e terzo) poi sono stati riconsiderati nel contesto italiano, da sempre caratterizzato da una strana combinazione tra diritto penale e normativa di pubblica sicurezza che consente ai "tutori dell'ordine" di mettere facilmente da parte le garanzie individuali nelle loro attività di controllo, senza che ciò infranga il diritto vigente.

Sicurezza, diritto e polizia sono tre ambiti tra loro strettamente collegati. Infatti l'imperativo della sicurezza, con il ribaltamento di priorità che mette in atto, è intervenuta sia nell'uno che nell'altro ambito, contribuendo a modificarne gli assetti. Da un lato allora, si assiste all'entrata in scena del diritto penale del nemico, che altro non sarebbe se non l'irrompere delle tecnologie di sicurezza all'interno di un settore, quello del diritto penale, a cui non erano mai appartenute; dall'altro lato l'imperativo della sicurezza, e delle strategie di tolleranza zero ad essa connesse, hanno l'effetto di modificare il modus operandi delle polizie nell'attività di controllo: la dimensione locale acquisisce nuova importanza poiché è a questo livello che più stretta è la connessione tra la richiesta di sicurezza da parte della cittadinanza e l'attività delle cosiddette forze dell'ordine.

Nel secondo capitolo ho rivolto l'attenzione al primo cambiamento e mi sono soffermata ad analizzare il diritto penale del nemico da un punto di vista teorico. Sono stata spinta a quest'analisi anche dal dubbio che le torsioni del diritto riscontrabili nella normativa sull'immigrazione vigente potessero essere spiegate come l'avvento del diritto penale del nemico all'interno della legislazione italiana: non solo l'attuale sistema di controllo dell'immigrazione è caratterizzato dalla chiara e completa deprivazione dei diritti della popolazione migrante, ma vi è una certa sovrapposizione tra la figura del migrante non regolare e il nemico, iniziata tempo fa e portata a compimento con il reato d'immigrazione clandestina, in base al quale il migrante irregolare diventa illegale in quanto tale.

Il diritto penale del nemico è innanzitutto una concettualizzazione teorica con cui si descrive (1) la presenza nell'ordinamento giuridico di norme che non rispondono alla logica del diritto ma alla logica della guerra. Esso rappresenta un binario parallelo del diritto atto a regolare la relazione non-giuridica con il nemico. Questo è quel soggetto che, in seguito ad un atto volontario, infrange il sistema di reciprocità dei diritti su cui lo stato di diritto si basa e si autoesclude dalla comunità dei membri: lo stato si autolegittima ad agire contro il nemico con gli strumenti della guerra, dopo aver proceduto alla sua trasformazione in non-persona in diritto.

Il diritto penale del nemico implica non tanto una negazione dell'esistenza dei principi dello stato di diritto, quanto un riorientamento in relazione alla loro scala di priorità, diretta verso la sicurezza fisica dei cittadini. Fattore implicito è l'istituzione di un diritto alla sicurezza tra i diritti fondamentali che ha l'effetto di minare il rapporto originario tra libertà e sicurezza, l'equilibrio tra i quali, intesi come regola (la libertà) ed eccezione (la sicurezza), è imprescindibile per la sopravvivenza dello stato di diritto. Come si è più volte ripetuto nel corso di questo lavoro, il diritto penale del nemico risponde alla volontà di neutralizzare i nemici, e in questo senso è l'eccezione che si fa regola, poiché la volontà del diritto diventa paradossalmente quella di voler regolare l'eccezione. Confonde i piani del diritto e della guerra a tal punto da modificare l'essenza del diritto stesso e del processo penale, che da strumento legittimo di accertamento della colpevolezza si tramuta in spazio entro cui articolare una sorta di lotta contro l'autore di reato (non per ciò che ha fatto, ma per ciò che è). Esso inoltre contribuisce in maniera determinante alla costruzione e consolidazione dell'Altro, come altro da noi, come minaccia e come pericolo.

Come dicevo prima, il diritto penale del nemico mi interessa dal punto di vista teorico nella misura in cui mi è sembrato di riconoscere all'interno della legislazione sull'immigrazione specifici istituti che ad esso possono essere ricondotti. Non è solo la deprivazione di diritti che mette in atto ciò su cui ho richiamato l'attenzione, ma anche il suo utilizzo simbolico. Infatti, nel momento in cui istituzioni di diritto penale del nemico entrano nelle legislazioni reali degli stati esistenti vanno a costituirsi nelle mani delle compagini governative quale strumento sbandierato in nome della prerogativa di un'indefinita sicurezza ed esso si rivela in realtàestremamente utile sia ad ottenere consenso che ad attuare politiche repressive altamente lesive dei diritti. Questo è il punto: il diritto penale del nemico, se riconosciuto ed istituito come binario parallelo del diritto penale, potrebbe fornire strumenti ricchi di una portata simbolica di cui i governi si potrebbero avvalere per esercitare il proprio potere sovrano aldilà dei limiti imposti dal diritto ordinario. Mettere in atto nei confronti del nemico la deprivazione dei diritti in maniera conforme all'ordinamento giuridico, operazione ritenuta legittima dalla popolazione che proprio nel nemico riconosce l'Altro, fornisce allo stato nuovi poteri di governo, dal momento che spetta solo a questo la priorità nell'interpellazione del nemico.

Dopo il diritto penale del nemico, come si diceva prima, l'analisi teorica si è concentrata sulle pratiche di polizia che sono l'altro ambito, posto allo stesso piano del diritto, entro cui cui si svolge il controllo dell'immigrazione in Italia. Anzi, alcuni studiosi sostengono che il controllo dell'immigrazione in Italia avvenga soprattutto mediante pratiche di polizia.

Ho presentato vari studi sociologici sulla polizia, molti dei quali di origine americana, che mi sono poi serviti nel corso della ricerca empirica. Ripercorriamo velocemente quanto detto. Bittner scopre, analizzando l'attività di peace-keeping che comprende tutte quelle attività che non sfociano in un arresto, che la polizia funziona aldilà dell'impiego di procedure completamente legali (conformi al diritto) e a volte insieme ad esse. Elabora anche il concetto di "limitata rilevanza della colpevolezza", espressione con cui si fa riferimento all'utilizzo della legislazione da parte della polizia come pretesto, vale a dire al fatto che i poliziotti prendono spesso decisioni ed applicano certe norme solo per rispondere a certe urgenti questioni pratiche. In questi casi incolpano una persona per l'infrazione di una norma pur non volendo reagire davvero contro la commissione di quel reato ma contro qualcos'altro che però non è punibile per legge. In questo senso la legislazione viene usata come strumento. La legge è una risorsa in mano al poliziotto che deve risolvere certi urgenti problemi pratici. Sacks invece mette l'accento sul problema decisionale del poliziotto, impegnato a riconoscere le apparenze scorrette che le persone presentano. Il suo compito è quello di massimizzare la possibilità di individuare i criminali tra i passanti, operazione questa però che, come ho spiegato, può facilmente sfociare in catene del pregiudizio e dello stereotipo, perché è proprio su queste linee che il poliziotto si muoverà nel tentativo di massimizzazione. A Sudnow invece si deve il concetto di reati normali, cioè di quei reati che, possono essere accomunati in ragione di una serie di caratteristiche e ricompresi in determinate categorie. L'abilità del poliziotto di fronte ad un reato starà nel riconoscerne i tratti di normalità che gli permettano di ricondurre quel reato entro specifici livelli di pericolosità, e di calibrare la propria reazione sulla base di questo genere di valutazioni. Vari autori invece parlano dei compiti di chirurgia sociale propri della polizia, da sempre impegnata nella divisione tra buoni e cattivi (operazione che emerge con grande evidenza anche all'interno della ricerca empirica). Inoltre, altro elemento fondamentale è la discrezionalità del potere di polizia, la quale si situa nello spazio che sorge tra quello che la legge dice e la sua applicazione. La discrezionalità del potere di polizia è un elemento fondamentale anche nella gestione del dis-ordine da parte della polizia. Alla base del mio ragionamento ho assunto la teoria delle regole del disordine (Palidda, 2000). L'attività di polizia, secondo Palidda, è diretta non a ristabilire l'ordine, ma a mantenere il disordine entro certi livelli di tollerabilità. Come abbiamo visto nel capitolo terzo, la polizia nel tentativo di governare il disordine permanente sono continuamente costretti a chiudere gli occhi, a lasciar correre, a violare le norme (e si evince dallo studio di caso che ciò vale anche per gli operatori della Polizia Municipale). Ma questo è da sempre il loro modus operandi. L'avvento della domanda di sicurezza ha però influito in questo meccanismo, andandolo a modificare, poiché le politiche di tolleranza zero, che del sicuritarismo sono figlie, si basano sul punire sempre e comunque, puntando ad una impossibile estinzione della condizione naturale di disordine. Inoltre, nel modello di tolleranza zero le scelte relative al tipo di risposta da dare alle domande di sicurezza dipendono moltissimo dall'opinione pubblica, fattore questo che porta a saldare media, esposti dei cittadini e attività di polizia in un "corto circuito sicuritario". Questo condurrà anche verso una rinnovata importanza della dimensione locale, poiché nel locale i collegamenti tra i tre sono molto più immediati. Al fiorire della domanda di sicurezza fa quindi seguito la nascita di un nuovo ordine sociale locale, all'interno del quale anche l'operato di polizia municipale acquisisce una nuova importanza.

Dopo aver analizzato diritto penale del nemico da un punto di vista teorico, nel quarto capitolo l'ho voluto riproporre e ripensare in relazione all'esperienza italiana. E' infatti emerso che la legislazione sull'immigrazione ha trovato in certe peculiarità del diritto italiano un terreno fertile per esprimersi come diritto penale del nemico. Dalla ricerca sulle origine dell'ordinamento giuridico italiano emerge che il modo in cui in questo paese si decide di affrontare il fenomeno dell'immigrazione ha una solida base storica: il sistema giuridico italiano continua ad adeguarsi a mutate esigenze rifacendosi a vecchi schemi ed aggirando gli ostacoli di sempre con soluzioni comprovate. Le torsioni proprie della legislazione sull'immigrazione non fanno altro che riproporre i "caratteri originari e tratti permanenti" del nostro sistema giuridico: vi è il diritto dei tipi d'autore, che ha origine addirittura dalla legislazione dell'ordinamento sabaudo nel quale comparivano le figure dell'ozioso e del vagabondo come fattispecie di reato riconducibile a status soggettivi; vi è la doppia filiera punitiva che prevede un diverso tipo di diritto per i "galantuomini" e per i "birbanti" e che si avvale di un sistema penale che gioca su una peculiare combinazione di diritto penale e di diritto amministrativo; vi è l'uso di leggi eccezionali giustificate da stati d'emergenza, iniziato con la legge Pica e l'"emergenza brigantaggio", che apre ad un uso politico della legislazione e che fornisce allo stato uno strumento utile ad agire con i mezzi della guerra contro quei soggetti che di volta in volta riconosce come nemici. L'incontro in questo paese tra una concettualizzazione teorica quale quella del diritto penale del nemico e la precedente presenza all'interno del sistema del diritto penale italiano di misure decisamente originali atte alla lotta contro il nemico, hanno dato vita ad uno strano sistema di contrasto dell'immigrazione irregolare, giocato su ambo i piani del diritto, quello amministrativo e quello penale, di modo che l'utilizzo del piano amministrativo permettesse di intervenire sulla sfera della libertà personale del migrante aldilà delle garanzie poste dal diritto penale, mentre grazie all'utilizzo del diritto penale si realizzava la sovrapposizione tra criminale e migrante irregolare, e tra questo e il nemico.

Dunque, la normativa dell'immigrazione in Italia si muove entro l'intreccio tra i due piani del diritto, quello amministrativo e quello penale, che finiscono per contaminarsi a vicenda e svilire i rispettivi principi. Come abbiamo visto, si può parlare allora di un diritto speciale dello straniero, facendo riferimento in particolare al diritto penal-amministrativo della normativa sull'identificazione e l'espulsione dello straniero irregolare.

Provando a calare il diritto penale del nemico all'interno del contesto italiano è emerso che il sistema di controllo dell'immigrazione in questo paese non solo a quello è riconducibile, ma si gioca su un particolare intreccio tra diritto penale e pratiche di polizia, che trovano corrispondenza nell'intricato rapporto tra diritto amministrativo e diritto penale. I due rami del diritto da tempo vengono usati in collaborazione nell'attività di controllo, soprattutto di chi di volta in volta viene identificato come nemico, perché insieme costituiscono uno strumento che permette di mettere da parte le garanzie presenti nel diritto penale rimanendo comunque nei limiti della legalità dell'azione.

Riassumiamo dunque quanto fin qui detto: il controllo dell'immigrazione irregolare in Italia avviene su di un campo in cui trovano spazio sia il diritto penale che pratiche di polizia, variamente intrecciate, regolate e ricomprese all'interno di un diritto speciale dello straniero: un diritto penal-amministrativo che emerge con particolare evidenza nella normativa delle identificazioni e delle espulsioni. Ciò ha richiesto allora di analizzare da un punto di vista prettamente teorico da un lato l'ambito del diritto penale e dall'altro quello delle pratiche di polizia, riconoscendo in essi due sfere distinte, legate a doppio filo nel momento dell'attività di controllo, ma che altrimenti seguono regole e logiche a se stanti. Si è riflettuto sulla modalità attraverso la quale l'avvento della domanda di sicurezza, arrivata in Italia come risposta ad una crisi istituzionale e politica senza precedenti, abbia modificato entrambe queste sfere. Da un lato allora, mi sono concentrata sull'analisi teorica del diritto penale del nemico, inteso come il risultato dell'entrata della questione sicurezza all'interno del diritto penale; dall'altro lato mi sono chiesta come l'importanza concessa alla Sicurezza e le conseguenti politiche di tolleranza zero abbiano influito sulle pratiche di polizia e come abbiano modificato la gestione del disordine che da sempre costituiva il modus operandi di quest'istituzione.

Definito l'intero impianto teorico passiamo a fissare gli elementi chiave che sono emersi dalla ricerca sul campo. Chiarisco che, in linea con quanto emerso in tale impianto teorico, l'analisi empirica da me svolta non si riferisce alla normativa sull'immigrazione nella sua interezza, ma solo a quella parte che riguarda la disciplina dell'identificazione e dell'eventuale espulsione dello straniero irregolare. Si tratta quindi della parte della legislazione rivolta al migrante che si è sottratto a tutto il precedente meccanismo di controllo e di disciplinamento, che si avvale della relazione di stretta dipendenza tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro usata come arma di ricatto atta a rendere il migrante un lavoratore docile e ubbidiente. Dalla ricerca effettuata emerge che il migrante che si è sottratto a questo circuito e che vive comunque in Italia seppur in condizione di irregolarità giuridica finisce comunque per essere ricondotto entro determinati meccanismi di controllo e, se vogliamo, di "disciplinamento": se esaminiamo la maniera in cui la normativa sull'espulsione viene messa in pratica nell'operato di polizia, infatti, ne deduciamo che questa non ottiene affatto l'effetto di espellere dal territorio statale tutti quei migranti irregolari che si sono sottratti al meccanismo di disciplinamento giocato sulla stretta dipendenza tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, ma quello di tenerli sotto controllo all'interno dei confini statali. Vi è un meccanismo di disciplinamento "in seconda battuta" dei migranti irregolari presenti in Italia che è l'effetto delle pratiche di polizia nell'attività di controllo dell'immigrazione, unite alla perenne minaccia dell'espulsione.

Chiariamo: quello di cui parlo è un effetto di disciplinamento. Nel meccanismo di controllo che descrivo, infatti, riconosco l'opera di sfruttamento di una parte della popolazione all'interno del mercato del lavoro che così viene messa in atto. Può sembrare quindi che finisca per leggere tale meccanismo secondo quello stesso paradigma politico-economico che all'inizio (in introduzione) ho detto di voler superare. In realtà, quel paradigma ritengo di superarlo nella misura in cui tento di rilevare e di svelare, mediante la ricerca empirica, le modalità di attuazione di questo meccanismo di disciplinamento, il quale, per inciso, avviene principalmente tramite pratiche di polizia e un uso particolare di una parte della legislazione sull'immigrazione. A svelarne le modalità di attuazione il meccanismo di disciplinamento, che comunque sfocia in un sistema di sfruttamento di una parte della popolazione all'interno del mercato del lavoro, perde quella connotazione deterministica che lo rendeva poco convincente ai miei occhi: è l'effetto di tanti elementi, tra cui le pratiche di polizia, che, messe uno accanto all'altro, su di uno stesso piano, proprio come tante tessere di un puzzle, finiscono così per costituirlo.

Nel corso della ricerca empirica mi sono trovata di fronte a due "situazioni tipo": 1) il poliziotto intercetta un migrante, rileva che non ha il permesso di soggiorno ma, invece di portarlo immediatamente in questura per l'identificazione e l'eventuale espulsione, chiede al migrante se ha lavoro. Se la risposta è affermativa non prosegue con il procedimento e lo lascia stare, allontanandosi da lui magari con qualche raccomandazione. 2) il poliziotto intercetta il migrante irregolare, solitamente di origine senegalese o marocchina (per quanto riguarda il territorio comunale di Bologna), in una zona di spaccio e la prima cosa che fa è chiedergli di svuotare le tasche per accertarsi che non sia in possesso di sostanze stupefacenti. E' molto probabile che il controllato venga portato in questura solo se trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Se i ragazzi controllati sono in gruppo è molto probabile che li portino in questura per perquisirli in quella sede.

Queste due situazioni mettono in rilievo il fatto che non c'è corrispondenza tra irregolarità giuridica della persona controllata e il fatto che il poliziotto proceda o meno con l'accompagnamento in questura, ma le decisioni che il poliziotto prende dipendono da ben altri fattori (ampiamente indagati nel quinto capitolo), mentre la legislazione, in linea con il concetto di "limitata rilevanza della colpevolezza", viene usata dal poliziotto come risorsa.

L'utilizzo della legislazione come strumento da parte della polizia segue due direttrici principali: da una parte la presenza di un lavoro, dall'altra il sospetto di spaccio. Ad esse, come ho già accennato nel quinto capitolo, corrispondono due tipologie di migrante: quello funzionale e quello disfunzionale, verso cui la polizia tiene due atteggiamenti diversi. Ciò che distingue le due figure non è la condizione di regolarità o irregolarità giuridica, quanto l'essere inserito nei circuiti irregolari dell'economia o in quelli illegali. Che un migrante irregolare accetti di inserirsi nei circuiti del lavoro nero significa che egli si è piegato al meccanismo di controllo, proprio come il fatto che un migrante irregolare finisca per spacciare droga richiede a quello stesso meccanismo di controllo di tornare a rendersi manifesto. Dunque, la strategia di controllo che i poliziotti esercitano, così per come è emersa dalle interviste svolte, assume le fattezze di un processo di disciplinamento che messo in atto dagli operatori di polizia in maniera non pianificata (la polizia deve rispondere a problemi urgenti, quindi mette in atto le soluzioni che in quel momento sembrano le migliori per fronteggiare la situazione di emergenza) ha l'effetto di ricondurre tutti i migranti irregolari presenti in Italia entro determinati schemi di comportamento. Lasciar andare il migrante irregolare che ha un lavoro, seppure in nero, e punire invece il migrante irregolare che spaccia (o anche quello che ha fatto una rissa, o che ha commesso un piccolo furto, o che ha risposto male, ovvero punire il migrante che ha fatto qualcosa) sono due facce della stessa medaglia, di uno stesso meccanismo di disciplinamento che indica ai migranti irregolari presenti nel territorio quali sono le condotte e i comportamenti da tenere per continuare a stare all'interno dei confini statali anche in assenza di un permesso di soggiorno valido. E' un meccanismo di disciplinamento costruito sulla delineazione di alcune "regole del gioco", schemi di comportamento nell'interazione tra migranti e polizia, a cui sia gli uni che gli altri tendono generalmente ad attenersi. L'impressione è che questi schemi di comportamento non siano l'imposizione di una o dell'altra parte, ma che siano originate dall'interazione tra le due parti che, nel corso di svariati scontri e incontri, hanno individuato queste come loro modalità di interazione.

A queste due direttrici sulle quali si muove l'utilizzo della normativa dell'identificazione e dell'espulsione come pretesto, ne va aggiunta una terza, che corrisponde alle pressioni sulla polizia provenienti dalla cittadinanza e dai media. Tali pressioni infatti sono in grado, in maniera del tutto arbitraria, di esercitare delle torsioni sulla modalità "normale" di gestione del fenomeno migratorio, quella appena descritta, aprendo a periodi in cui la morsa della legge si stringe intorno al corpo del migrante. L'impatto di questo fattore sulla vita del migrante è molto forte: in occasione di campagne mediatiche contro il migrante non ci sono "regole del gioco" che tengano, ma prevale un utilizzo in senso repressivo della normativa. Questo perché, di fronte all'allarme mediatico l'obiettivo della polizia muta e si concentra nel tentativo di trasmettere un sentimento di sicurezza alla popolazione, mostrando che contro "l'immigrazione clandestina" si reagisce con assoluta fermezza, proprio come la legge prescrive.

Detto questo, credo che non ci si debba fermare ad analizzare solo la relazione polizia migrante, ma meglio la relazione cittadinanza-polizia\polizia-migrante\migrante-cittadinanza. Il diritto penale del nemico si inserisce con forza in due punti di questa catena: da un lato nella relazione tra migrante e polizia, potenziando il potere discrezionale del poliziotto anche grazie alla creazione di nuove fattispecie di reato, creazione rispetto a cui il diritto penale del nemico si pone come fattore di giustificazione; dall'altro è il suo portato simbolico, che io ho analizzato solo da un punto di vista teorico, che si inserisce nel meccanismo di comunicazione tra cittadinanza e polizia municipale: il diritto penale del nemico infatti imprime maggiore forza, grazie al sistema di idee che trasmette, alla richiesta della cittadinanza di disfarsi di certi individui. Infatti una richiesta viene fatta con tanta più forza quanto più ci si sente legittimati nella richiesta che si sta facendo, e se la legislazione dell'immigrazione che vige in Italia trasmette l'idea di una popolazione, quella migrante, come popolazione nemica e naturalmente inferiore perché provvista di meno diritti (Ferrajoli, 2010), è chiaro che la richiesta di protezione contro gli appartenenti a questo gruppo, e la conseguente richiesta di sicurezza nei suoi confronti, non potrà che diventare sempre più forte.

Quella che ho voluto avanzare con questa ricerca è una critica della gestione dell'immigrazione attualmente vigente in Italia. Ma è una critica che ho voluto poggiare sul "come" effettivamente tale gestione viene messa in atto. Infatti ritengo che solo individuando le pratiche e ragionando sulla base di quelle si può cercare di comprendere la natura dei meccanismi in atto e solo sulla base di questo genere di riflessione si può poi costruire una critica che abbia qualche chance di essere efficace. Ad esempio, dall'analisi empirica è emersa l'esistenza di un meccanismo di disciplinamento non solo nei confronti della popolazione dei migranti regolari, che avviene con il ricatto del permesso di soggiorno per lavoro, ma anche nei confronti dei migranti irregolari. E non è affidato solo alla minaccia dell'espulsione, intesa come deterrente rispetto ad eventuali intenzioni "criminose", ma è nelle pratiche di polizia che questo meccanismo è continuamente in atto: il messaggio trasmesso ai migranti è che è possibile stare in Italia anche da irregolare, basta che ci si stia seguendo determinate regole.

Si ripresenta la doppia filiera punitiva ben radicata all'interno del sistema italiano: da un lato è alla legislazione che spetta il disciplinamento nei confronti dei migranti regolari. Questa mette in atto un controllo minuzioso e pervasivo, che si avvale di cavilli burocratici e strumenti amministrativi per tenere il migrante regolare comunque continuamente sotto scacco. Ai migranti irregolari invece ci pensa la polizia: nell'effettivo svolgersi dei fatti l'opera di controllo avviene tramite pratiche di polizia che di volta in volta applicano o disapplicano la legislazione vigente, indicando quali sono gli schemi di comportamento accettati.

Vi è in atto in Italia un sistema di controllo molteplice e complesso, che si compone di strumenti normativi, di pratiche di polizia e di discorsi comuni. In fondo, ciò che anche la mia ricerca dimostra, sulla base dei fatti, è che esiste una porzione della popolazione sfruttata all'interno dei circuiti irregolari del lavoro nero, e il meccanismo di sfruttamento è sotto gli occhi di tutti. Anzi, direi che è il risultato di politiche, di norme e di discorsi, di cui anche chi è preposto ad attuare il controllo in maniera effettiva è a conoscenza. Nel sistema in atto, attraverso gli strumenti legislativi si trasformano i migranti irregolari in nemici, attraverso le pratiche di polizia si indicano a questi migranti irregolari specifiche linee di condotta: se si lavora non c'è problema e si può restare. I media trasformano nell'immaginario collettivo questi migranti irregolari in criminali, e il diritto concorre a trasformarli in nemici, privandoli dei diritti. Il risultato è che nel sistema Italia è possibile comprare nemici. E' possibile comprare nemici a buon prezzo.

Note

1. Con il rischi sempre presente che descrivere significhi anche normatizzare, cioè trasformare in norme gli istituti descritti.